Formazione Religiosa

Venerdì, 28 Luglio 2006 23:11

Evangelizzare il disagio giovanile? (Faustino Ferrari)

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In questo mondo sommerso dalle parole, ove ormai si ha difficoltà a stare ad ascoltare perché troppi sono i rumori che disturbano il nostro ascolto, ove può essere detto tutto ed il contrario di tutto, dobbiamo avere la pazienza, la fiducia, la preoccupazione di annunciare il Cristo con la parola della nostra stessa vita.

Premessa

Il quartiere nel quale come religiosi maristi siamo arrivati 25 anni fa, il Carmine, si caratterizza come un unicum all’interno della città di Brescia. Fin dalle sue origini medioevali è andato sviluppandosi intorno ad una forte presenza di botteghe artigiane. Ma al tempo stesso accanto alla realtà produttiva è rimasta costante una presenza di attività legate alla piccola delinquenza e alla prostituzione. Nei secoli e tuttora queste ultime presenze hanno contribuito alla cattiva fama del quartiere. In tempi più recenti, si è assistito alla graduale ed irreversibile scomparsa della realtà produttiva artigianale e all’arrivo di nuovi soggetti segnati da altre problematiche di marginalità.

Da un punto di vista abitativo il quartiere presenta ancora un certo numero di immobili fatiscenti o non agibili, a volte privi dei servizi primari, e tuttavia abitati. A partire dagli anni ’70 si sono stanziati nel quartiere alcuni gruppi di tossicodipendenti. E’ uno stanziamento che evidenzia un continuo ricambio di soggetti e che produce un disagio per la popolazione residente.

Negli ultimi anni il quartiere ha assistito al continuo arrivo di immigrati stranieri. Questa nuova presenza è andata aumentando arrivando, oggi, a caratterizzare il quartiere stesso. Attualmente un terzo dei residenti sono stranieri e qui sono giunti da oltre 70 nazioni diverse (in un quartiere che conta circa 5.000 residenti). Presenza che nella fascia 25-40 anni arriva al 50% della popolazione stanziale. Va inoltre tenuto conto della presenza degli stranieri irregolari, non quantificabile, ma senza dubbio rappresentativa di un notevole sommerso nella realtà del quartiere. Da un punto di vista religioso, assistiamo ad un vero crogiuolo di confessioni e di appartenenze: cattolici (anche di rito orientale), ortodossi (di vari patriarcati), evangelici di diverse denominazioni; musulmani (per lo più, sunniti); indù; sikh; buddisti; appartenenti a culti tradizionali africani ed afrobrasiliani. Ma anche persone che per motivi i più diversi, sentono di non avere particolari legami con un’esperienza religiosa e che possiamo definire oltre che non praticanti, non credenti.

La presenza degli stranieri è rappresentata per larga parte da famiglie con figli e da giovani. Il quartiere, per le sue caratteristiche, offre pochissime occasioni di socializzazione. I bar, quantitativamente molto presenti, finiscono con il rappresentare una forma di aggregazione ambigua, in quanto spesso correlati ad attività marginali (prostituzione, spaccio, ricettazione). Non esistono spazi verdi se non all’esterno del quartiere. Le palestre sono usufruibile soltanto da realtà organizzate.

E’ facile trovare bambini giocare per la strada, in quanto unico luogo per loro accessibile, poiché spesso abitano in appartamenti molti piccoli e sovraffollati. In questa situazione il rischio è che la strada finisca con l’essere l’unica loro opportunità, l’unica scuola di vita. Ancora oggi, molti genitori cercano di trasferirsi il prima possibile da questo quartiere.

Come religiosi maristi, si è vissuto all’interno di questo contesto con il piccolo obiettivo di essere presenti; una presenza discreta, secondo lo stile che ci è proprio, cercando di testimoniare nel quartiere un modo semplice e familiare di essere Chiesa. La pretesa non è quella di cambiare le persone, quanto di vivere un pezzo di strada con loro, all’interno di questo quartiere, con sue le ricchezze ed i suoi limiti, le sue risorse e le sue problematiche, i suoi elementi positivi e quelli negativi. Questo anche attraverso il rapporto informale con le persone che si ha modo di incontrare e che spesso, oltre a portare i propri bisogni, portano il loro desiderio di essere ascoltate.

In tutti questi anni, sono stati privilegiati interventi rivolti – anche se non in maniera esclusiva – nei confronti dei minori; interventi sia di tipo socio-assistenziale che aggregativi. E nel corso di questi anni, col variare della popolazione del quartiere, si sono presentate nuove problematiche, innanzitutto quelle legate ai fenomeni dell’immigrazione, sia di prima che di seconda generazione. Negli ultimi cinque anni, nella nostra comunità per minori sono stati accolti solo ragazzi stranieri ed il Centro di aggregazione è frequentato per 2/3 da minori stranieri appartenenti ad una ventina di nazionalità diverse e ad una decina di confessioni religiose.

Per completare il quadro, va tenuto presente che nella nostra diocesi la catechesi dei bambini e dei giovani spetta alle parrocchie (oratorio), con alcune eccezioni per i religiosi che gestiscono scuole. Per cui, chi si trova ad operare nel cosiddetto “sociale”, nelle fasce del disagio giovanile, rischia di appiattirsi su di un fare che risponda ai bisogni più immediati.

Sono consapevole che l’argomento propostomi comporterebbe di per sé un ben diverso sviluppo dalle linee che andrò tracciando. Non sono uno specialista né ritengo di avere competenze particolari. Sono semplicemente un religioso che cerca di vivere la sua esperienza all’interno di un particolare contesto storico e sociale. Cercando di interrogarsi sul senso di una tale presenza. Dovrei innanzitutto definire che cosa si intenda per disagio. Permettetemi di considerare il termine nel suo senso più ampio possibile. Intendo qui per disagio tutte quelle situazioni (sociali, economiche, educative, relazionali, ecc.) che causano una maggiore fatica nella vita delle persone. Sono le situazioni di svantaggio, ove non si presentano pari opportunità. E per i giovani le situazioni di disagio sono ampie. Per esemplificare, abbiamo quelli che non hanno una famiglia (o non possono starci per i motivi più diversi); quelli che l’hanno lasciata intraprendendo un’esperienza di migrazione; quelli segnati da problematiche di emarginazione sociale; quelli che sperimentano difficili percorsi scolastici e di avviamento al mondo del lavoro; quelli che incominciano a fare esperienza con le sostanze stupefacenti o con l’alcool; ma anche quelli, sempre più numerosi, le cui famiglie hanno sempre più difficoltà a sostenere economicamente i propri bisogni.

Per giungere ai minori che hanno alle spalle storie devastanti. Abbandonati da parte dei loro genitori. In alcuni casi, padri (o parenti) abusanti. O genitori non sufficientemente affettivi, incapaci ad instaurare una relazione educativa significativa con loro. Prima che pensare di costruire itinerari di annuncio, si tratta di far sperimentare loro un ambiente di vita sufficientemente riparatorio, che permetta di costruire (o ricostruire) relazioni, affetti, capacità di amare e di essere amati. Altrimenti, come parlare di un Dio che ama, di un Dio che è padre, se il loro vissuto è solo di fallimenti?

Sarebbe anche importante capire che cosa si intenda con il termine evangelizzazione. Infatti con questa parola si finisce con il riferirsi a concetti non sempre immediati. Ma questo è un problema che esula da questa mia piccola riflessione. Da quanto verrò dicendo credo che risulterà comunque chiaro che privilegio una determinata prospettiva e perché cerco di camminare alla luce di questo orizzonte.

Una osservazione va inoltre fatta in quanto appartengo ad una congregazione religiosa, con una sua spiritualità ed una sua storia e questo ha le sue conseguenze non solo nella prassi, ma anche nella comprensione del proprio agire e del tentativo di vivere nell’oggi la sequela del Cristo al modo di… Poter vivere questo patrimonio in modo sempre rinnovato è la sfida che abbiamo costantemente di fronte, alla quale ci sollecita la fedeltà creatrice ad una parola che ci è stata comunicata attraverso i nostri fondatori.

Si possono fare discorsi teorici o partire dall’esperienza. Nella vita della Chiesa e nel cammino della spiritualità cristiana il discorso teorico è stato sempre successivo a quello pratico, esistenziale. Prima ci sono state comunità di cristiani poi si è cominciato a riflettere sul significato dell’essere Chiesa. Prima ci sono stati cristiani che si sono ritirati nel deserto, poi sono venuti gli autori che hanno riflettuto sul significato di una tale esistenza, di un tale modo di intendere la sequela di Cristo. Lo stesso si può dire per il discorso sull’evangelizzazione in quanto riflessione posteriore su di un’esperienza già in atto.

Autore della missione è Dio. Noi possiamo essere unicamente dei messaggeri, dei portatori di un messaggio. Il rischio, sempre reale, che possiamo correre è quello di sostituirci in qualche modo al messaggio o di piegarlo a noi stessi, di renderlo a nostra immagine.

L’evangelizzazione è testimonianza. Innanzitutto questa testimonianza è rappresentata dalla vita, da uno stile di vita. Si potrebbe estremizzare affermando che ciò che è annunciato non ha “valore” se non vissuto dal messaggero. E’ la difficoltà e, in un certo senso, la “debolezza” del messaggio cristiano. Detto ciò, dovrei tacere. Non avrei neppure dovuto iniziare a parlare. Eppure è necessario comunicare quella Parola che abbiamo ricevuto e che in noi ha iniziato a germogliare e non può più essere trattenuta.

Il senso di una presenza

Credo di non avere particolari esperienze da raccontare circa l’evangelizzazione del disagio giovanile. Almeno, se si ritiene che l’evangelizzazione sia essenzialmente l’annuncio esplicito del messaggio evangelico. Ma sicuramente, per un religioso od una religiosa, è importante interrogarsi sul senso della propria presenza. Sul perché la nostra vita e la nostra azione è rivolta a persone che sono in difficoltà, segnate dal disagio, dalla fatica di vivere. Ove la prima preoccupazione non è quella di proporre itinerari di fede e di catechesi.

1. L’esserci (nel mistero dell’Incarnazione)

Un primo elemento essenziale è proprio l’esserci. Questo prima e comunque, indipendentemente da qualsiasi altra motivazione. Essere presenti nelle situazioni di vita ove le persone fanno più fatica e restano ai margini dei riflettori dei mass media, della politica ed anche di molte nostre manifestazioni religiose. Un esserci da non intendersi tanto dal punto di vista filosofico (Heidegger o altri pensatori dell’esistenzialismo), quanto come elemento proprio del mistero dell’Incarnazione. Da un certo punto di vista, è per noi più gratificante lavorare (evangelizzare?) con le persone che “culturalmente” e socialmente rispondono meglio. Ma con chi ha meno strumenti, con chi fa più fatica, per chi, prima di tutto, deve fare i conti con il fatto di avere alle spalle una storia di abbandoni, di violenze, di problemi?

Che evangelizzatore è stato Charles de Foucault? Che senso hanno avuto i suoi anni trascorsi nel deserto a Tamanrasset, in mezzo ad una popolazione completamente musulmana? Un prete che poteva celebrare l’eucarestia soltanto quando qualche cattolico capitava dalle sue parti? Da un certo punto di vista, potremmo dire che è stata una vita sprecata. Non ha convertito nessuno. Ed è anche stato ucciso da quella gente. Non si è fermato a programmare strategie. Si è proposto di vivere in mezzo a loro, di starci, di esserci.

Ma il fatto che oggi sia venerato dalla Chiesa come beato, ci fa vedere come l’evangelizzazione possa essere vissuta in maniere profondamente diverse all’interno dell’unica missione. Perché prima che annunciatori siamo persone che vivono. E vivono una esperienza, un cammino di fede.

C’è una storia ebraica molto interessante. Si tratta della storia dell’angelo nuovo. Con questa immagine vengono indicati dei personaggi fantastici che stanno intorno alla Shekhinà (Gloria di Dio) e la cui esistenza dura un istante soltanto. Una specie di flash improvviso che illumina e subito scompare. «Dio crea ad ogni istante un numero sterminato di nuovi angeli, ciascuno dei quali è destinato soltanto a cantare per un attimo le sue lodi davanti al suo trono, prima di dissolversi nel nulla» (cit. in Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo).

Quale può essere il significato di una tale esistenza? L’esistenza dell’angelo nuovo è contraddistinta dall’assoluta gratuità. Credo che una riflessione sul senso del nostro esserci per arrivare a quella sul mistero dell’incarnazione possa venire fatta soltanto nella dimensione della gratuità. Un orizzonte che non si aspetta risultati immediati. Che non si prefigge di sapere cosa ne verrà fuori. «Lo si fa semplicemente perché va fatto, senza chiedersi se domani quest’impegno darà i suoi frutti o se sarà stato vano». Sono parole di Vaclav Havel, scrittore ceco ed ex presidente della repubblica, che si riferiscono al suo impegno contro il regime comunista nel periodo del dissenso. E se questo è detto di un impegno politico che si pone come principio l’affermazione della verità, non dovrebbe, a maggior ragione, diventare prospettiva costante per il nostro orizzonte di fede?

2. Lo sguardo (come vediamo le cose)

I testi delle nostre nuove Costituzioni sono pieni di affermazioni simili: «i più poveri; i più deboli; gli emarginati; quelli a cui nessuno dedica attenzione; gli ultimi; la gente semplice; gli umili; i privi di mezzi; i meno favoriti; i più sfavoriti; i più derelitti; gli esclusi; gli emarginati; gli sradicati; i senza voce; i senza diritti; gli oppressi; coloro che soffrono ingiustizia; gli offesi; quelli la cui dignità umana non è rispettata né riconosciuta». Ed ancora: «quelli che non hanno più speranza; i non amati; le persone che cercano un senso al loro vivere; quelli che vivono nella precarietà morale e spirituale; quelli che non possono vivere come uomini e come figli di Dio secondo il disegno del Padre». Sempre nelle nostre nuove costituzioni viene detto che come religiosi (o religiose) si è pronti a rispondere ai bisogni di queste persone; che nell’attenzione a questi uomini e a queste donne si esprimono gli aspetti carismatici del proprio istituto; anzi, spesso vien detto che quest’azione dovrebbe avere la priorità, essere la scelta prioritaria.

È importante che queste cose siano scritte nei nostri testi fondamentali. Esprimono comunque il bisogno di interrogarsi più a fondo sul senso della propria missione all’interno della Chiesa e sulla fedeltà al proprio carisma. C’è però da chiedersi, se a questi testi seguano scelte coerenti all’interno dei nostri istituti. Basta prendere in mano una guida alla vita consacrata di una diocesi o di una regione italiana per rendersi conto che come religiosi siamo essenzialmente impegnati in quelle opere che possono essere definite genericamente come “tradizionali”.

Al tempo stesso, però, chi si trova ad operare all’interno del cosiddetto “sociale” si sente ripetere che quel tipo di attività è al massimo di pre-evangelizzazione e che si può parlare di evangelizzazione soltanto quando si sia in presenza di un annuncio esplicito (vale a dire: percorsi catechetici; gruppi biblici; conferenze; itinerari formativi; e, soprattutto, se il nostro parlare è sempre condito da riferimenti a Dio e a discorsi “religiosi”).

«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio… Così pure, la prova che un bambino sa fare una divisione non sta nel ripetere la regola; sta nel fatto che fa le divisioni». (Simone Weil Quaderni IV 182-183) Sono convinto che questa acuta osservazione della Weil dovrebbe accompagnare quotidianamente l’esistenza di un religioso.

Con chi condividiamo la nostra mensa, il nostro pane? Chi sono coloro con i quali passiamo il maggior tempo, ai quali rivolgiamo maggiore attenzione? Per chi apriamo le nostre porte? Ma ci dobbiamo anche chiedere: da chi ci facciamo accogliere? Sono domande che ci permettono di vedere la realtà che ci circonda da un altro punto di vista.

Ma altra domanda si pone a questo punto: come mai le nostre costituzioni parlano in maniera così forte e continua di un’azione caritativa nei confronti dei più poveri e degli emarginati – anzi, di una condivisione di vita con loro – ma in genere nelle nostre comunità si continua a pensare che tutto ciò ha poco a che fare con l’azione evangelizzatrice della Chiesa? Che rispetto all’evangelizzazione, resta un’attività marginale, essendo percepita essenzialmente come prassi e non come parte integrante dell’annuncio catechetico e mistagogico?

3. L’incontro e l’ascolto

Oggi, con sempre più difficoltà, si comunicano esperienze di vita. Si fa sempre più fatica a comunicare le nostre esperienze ed il nostro mondo dei sentimenti. Siamo sommersi da notizie relative al tempo, agli orari, agli impegni, al cosa fare e al quando si arriva. Al dopo e al domani. All’organizzare il fine settimana o le ferie. Al programmare incontri e riunioni. È normale incontrare una persona che non si vedeva da tempo – un conoscente, un amico – e lasciarsi quasi subito dicendo che purtroppo non abbiamo tempo, che ci sentiremo appena potremo... ed intanto passano altri mesi fino ad un altro incontro fortuito, veloce, nel quale ci si ripeterà le stesse promesse.

Anche noi, come religiosi, viviamo all’interno di questo contesto sociale e culturale sempre più basato su di un rapido scambio di informazioni e che rischia di distorglierci dall’aspetto più importante della vita umana, quello delle relazioni. D’altra parte ci si ripete che anche nelle nostre comunità religiose la comunicazione è un’arte da imparare. Essere presenti all’interno di un contesto sociale problematico e di disagio, a maggior ragione, richiede attenzione all’incontro e all’ascolto. Questo non è facile. Perché incontro ed ascolto è fatto soprattutto di relazione e noi oggi abbiamo sempre meno tempo per entrare in una relazione personale con le altre persone che ci stanno accanto.

Chi lavora in ambito sociale sa quanto siano importanti l’incontro e l’ascolto. Spesso si è portati a ritenere che le persone che ci avvicinano o con cui si opera abbiano bisogno di tante cose materiali. Sì, c’è bisogno anche di questo ed è molto importante. Ma le persone che vivono un disagio sociale, grandi o piccole che siano, hanno bisogno di essere ascoltate. Di qualcuno che abbia il tempo e la pazienza di ascoltare. Nella loro vita sperimentano già troppe porte chiuse, troppi incontri con persone che non li ritengono importanti, degni di attenzione. Si portano addosso già un pesante fardello di fallimenti, anche se sono ancora giovani. In fondo si è sempre più portati a ritenere che le storie importanti siano quelle presentate dai rotocalchi e dalle riviste patinate. Siamo portati a riservare attenzione diversa ad un libero professionista rispetto ad una donna immigrata che parla a stento l’italiano, tra un giovane e brillante studente universitario ed un apprendista appena scolarizzato.

A volte si resta sconcertati dal fatto che nei momenti di incontro informale tra religiosi si faccia un gran parlare di informatica (siamo diventati bravissimi nella conoscenza di computer, portatili, fotocamere digitali e tutti gli innumerevoli ritrovati elettronici), di sport e di programmi televisivi e tanti altri argomenti, che sicuramente avrebbero maggior ragione di essere affrontati, restano nel silenzio o nella penombra. Il teologo ortodosso Vladimir Zelinskij si auspica, a riguardo degli incontri con i cattolici, sia formali che informali, di venire interpellato rispetto a questioni tipo: «Quale è “il vostro” mistero del Cristo? Come è vissuto e celebrato proprio da voi (…)? E che dice questo mistero oggi, alla famiglia umana?» (Del buon uso di un ortodosso, 2005, t. datt.). Nell’incontro con l’altro, per poter comunicare, possiamo comunicare soltanto noi stessi. Attenzione, sì, all’altro, empatia, tentare di calarsi nella sua prospettiva, di mettersi addosso i suoi vestiti. Ma è anche presentarci per quello che siamo, con le nostre risorse ed i nostri limiti. Imparando a diffidare della potenza di certi mezzi e di certi strumenti perché se questi strumenti e questi mezzi non hanno un cuore, non hanno un’anima, non si comunica nulla. Stiamo soltanto dando delle informazioni all’interno del vasto oceano di informazioni con il quale oggi il mondo ci avvolge e ci travolge. Ricordo quella pagina di Esperienze Pastorali di Lorenzo Milani, là dove descriveva un religioso che giustificava l’uso di un pullmino nei suoi giri per la questua con elementi che possiamo definire più che giustificabili: perché così si poteva fare meglio il bene, raggiungendo più gente. Ma già 50 anni fa in quella pagina don Milani metteva in guardia l’affidarsi a questi strumenti per lo svolgimento della propria azione pastorale. Non perché don Lorenzo non ne facesse uso, ma perché avvertiva che l’uso in se stesso di nuovi strumenti necessariamente non apporta qualcosa in più, se non è accompagnato dalla comunicazione della propria vita e della propria esperienza. E se non si ha davanti la costante, reale crescita delle persone di cui si vuole il bene e a cui si vuole bene. Come ben dice Antoine de Saint-Exupéry: «Si vede bene solo col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi».

4. La quotidianità dell’imprevisto

Chi opera nell’ambito del sociale e del disagio, sa quanto sia normale l’imprevisto. Nonostante tutti progetti e tutte le programmazioni c’è sempre qualcuno, nei momenti più impensabili, che bussa alla porta. Bisogna allenarsi, abituarsi all’imprevisto. Quando si ha a che fare con le persone come persone, è la vita che si presenta in tutta la sua ricchezza e la sua varietà. E la vita, per nostra fortuna – ma dovremmo dire: per una grazia che ci è donata – è sempre imprevedibile.

Le pagine della bibbia sono ricche di imprevisti. Ed ogni volta che cerchiamo di chiudere una pagina del vangelo nei nostri schemi, nelle nostre letture, nelle nostre progettazioni, inevitabilmente – se siamo onesti con noi stessi – ci accorgiamo che c’è sempre qualcosa che ci sfugge, che non si riesce a collocare, che ci rimanda continuamente a qualcos’altro.

Non è facile accettare l’imprevisto. Vi confesso, le mie prime reazioni sono quelle del fastidio, del disappunto e anche dell’imprecazione. Saltano tutti gli schemi, tutti i programmi. Le giornate sono scombussolate. Di giorno in giorno. E poi, come cristiani e come religiosi, c’è anche la preghiera. E quando è il momento di pregare? Penso che sia importante ricordare quella pagina in cui S. Vincenzo de’ Paoli raccomanda: «Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra». Ed aggiunge: «La carità è superiore a tutte le regole, e tutto deve riferirsi ad essa» (testo proposto nella liturgia delle Ore, per la memoria del Santo).

I molti modi di evangelizzare

Esiste un solo modo di evangelizzare? La risposta è ovvia e negativa. Eppure non è così pacifica. Perché, come ho già detto prima, avverto spesso la netta impressione che si sia portati a pensare l’evangelizzazione soprattutto in termini di annuncio esplicito (verbale) del vangelo.

1) La pluralità dei carismi: un solo Spirito per una multiformità di esperienze

«Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito… Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera…» (1Cor 12, 6-11). È normale parlare di carismi nell’ambito della vita religiosa. La diversità è data nella multiformità della ricchezza dei doni dello Spirito. Una diversità che riguarda la spiritualità, la prassi, la vita comune, la missione. Ci sono molti modi di evangelizzare. E non è soltanto questione di metodi o di itinerari. Perché sono molti i modi attraverso i quali possiamo testimoniare la nostra fede in Gesù Cristo. È attraverso la multiformità delle esperienze che possiamo testimoniare, grazie allo Spirito, il lieto annuncio del Cristo. Con la parola della catechesi e della predicazione e con il silenzio del monastero, con la celebrazione della liturgia e con la preghiera personale, con l’attenzione caritatevole della diaconia e con la testimonianza estrema del martirio…

2) Un tempo per parlare ed un tempo per tacere: dal primato della parola al primato della testimonianza

«Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo… Un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo. 3, 1-8). Mai come oggi abbiamo la possibilità di comunicare gli uni con gli altri. Possiamo ricevere nelle nostre case o sul display del nostro cellulare le immagini di un fatto che sta accadendo a migliaia di chilometri: un avvenimento sportivo, un fatto di guerra, l’incontro di due personaggi politici... Possiamo comunicare in tempo reale con amici o parenti che vivono su di un’isola sperduta del Pacifico o nelle foreste tropicali. (I miei primi confratelli maristi, per arrivare in Oceania impiegarono un anno di viaggio). Possiamo prendere l’aereo e nel giro di poche ore incontrare persone, visitare luoghi.

Gli strumenti che la tecnica oggi ci mette in mano procurano, però, uno svilimento, una svalutazione della parola. Siamo sommersi dal ridondare delle parole. Un continuo bla bla bla. Per fare un esempio banale, anche se ci fosse dato il dono di più vite, probabilmente non riusciremmo a leggere tutto ciò che la fotocopiatrice di un nostro convento sforna nell’arco di qualche anno. Come è possibile all’interno di una situazione così disturbata dal punto di vista comunicativo, così confusa da un continuo rumore di sottofondo, far sentire la forza e la dolcezza di quell’unica Parola che ci è stata donata per grazia? Cercando di farci sentire anche noi? Tentando di alzare i toni?

Eppure mai come oggi sperimentiamo solitudini. Si può avere a disposizione tutti i mezzi di comunicazione di questo mondo e al tempo stesso sentirsi le persone più sole di questo mondo. Quante le lacrime versate oggi, in stanze vuote? Quanti i suicidi per disperazione? Quante solitudini covate dietro a finti sorrisi? Quante persone che fanno sempre più fatica? Quanti i giovani che sono sempre più ai margini di una società troppo concentrata sul profitto e sul consumo? Quando ci ritroviamo come responsabili di comunità minori della provincia di Brescia, constatiamo che nelle strutture arrivano minori sempre più problematici, sempre più segnati dalla negatività delle esperienze.

Se all’interno di questo contesto siamo tentati di dare la priorità alla parola, probabilmente corriamo il rischio di farci “ascoltare” sempre di meno. Con questo non voglio dire che non si debba comunicare con la parola la nostra fede. Ma sicuramente, oggi, la testimonianza della vita può assumere un maggiore impatto comunicativo. «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). Noi siamo i messaggeri di quest’unica Parola che la nostra vita riesce a trasmettere. Se si continua a ripetere che la nostra è la società dell’immagine probabilmente la comunicazione più forte della fede la possiamo fare appunto attraverso le “immagini” della nostra vita, le icone del nostro agire e del nostro operare.

3) La dimensione carismatica marista del nascondimento

Permettetemi una breve nota che ha origine dalla dimensione carismatica dell’istituto a cui appartengo, la Società di Maria (Padri Maristi). Uno degli aspetti fondamentali della spiritualità del nostro istituto è quello del nascondimento. Il marista deve cercare di vivere la sua vita avendo come riferimento essenziale la figura di Maria. Una figura da intendersi non tanto sul piano devozionale, ma in quello esistenziale. Si tratta di cercare di pensare, giudicare ed agire come Maria. Ma vivendo come ignoti e nascosti in questo mondo. Questo non vuol dire scomparire dalla scena del mondo, ma dare la priorità alla dimensione della testimonianza.

Potete quindi capire come mai nel mio discorso abbia accentuato la dimensione della testimonianza nell’approccio al tema dell’evangelizzazione in situazioni di disagio giovanile.

Lasciarsi evangelizzare dal disagio

La prospettiva va capovolta. Chi si trova ad operare nell’ambito del sociale e del disagio ripete che vi ha imparato molto nel proprio cammino di vita e di fede. Si capisce che è innanzitutto necessario lasciarsi evangelizzare dal disagio. Ma, a ben vedere, è la logica del vangelo, la logica del Dio della bibbia che sceglie sempre i più piccoli, i più deboli, quelli che non contano agli occhi del mondo. Perché Dio sceglie ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, come ci ricorda Paolo (cfr 1Cor 1,27).

1. La fede della povera gente

In questi anni ho avuto in sorte molte lezioni di fede. Non sono state lezioni accademiche, ascoltate in incontri e conferenze. Sono lezioni che ho ricevuto nei momenti più inaspettati e da persone che potevo considerare tutto fuorché maestri di fede. Non voglio dilungarmi a raccontare episodi. Però provo a fare alcuni accenni a cose che mi sono state utili. Sicuramente, in questi ultimi anni, una seria riflessione sul valore del digiuno l’ho fatta anche grazie ad alcuni ragazzi musulmani che ho avuto in comunità alloggio. Vederli nell’osservanza del ramadan, nonostante tutte le difficoltà che possono incontrare all’interno della nostra società che ha ritmi di vita diversi, mi hanno interrogato rispetto a quanto, superficialmente, ero portato a considerare il digiuno. Pur tenendo conto che il senso del digiuno per un cristiano è diverso, si possono imparare molte cose. Ed anche se ancora oggi mi fanno bonariamente sorridere nell’osservanza scrupolosa, al secondo, degli orari del ramadan, mi hanno aiutato a capire che certe esperienze non si possono liquidare facilmente dalla nostra esistenza e dalla nostra esperienza religiosa. Che dire di questi ragazzi che vogliono sapere le ragioni delle tue scelte di vita e che ti interrogano, ti pongono le domande più inaspettate, che obbligano a riflettere, a rimotivarti e a rendere ragione di quella speranza che dovrebbe essere sempre in noi, come ci ricorda la prima lettera di Pietro (3,15). Che dire, ancora, dell’esistenza gioiosa, vitale dei bambini di origine africana, sempre sorridenti. E dei loro genitori, capaci di affrontare le mille difficoltà che si presentano, con un senso che spesso, con i miei criteri, sono tentato di definire “incoscienza”. E la frase spesso ripetuta: «Sarà quello che Dio vorrà». Chi opera nell’ambito del disagio ben presto si rende conto di trovarsi in un luogo che prima di essere ambiente di evangelizzazione è l’occasione opportuna che Dio ci offre nella nostra vita per lasciarci evangelizzare.

2. I poveri non ci lasceranno dormire

Credo che da religiosi debba sempre albergare in noi un certo senso di inquietudine. Ed anche se gioia e serenità sono le mete a cui miriamo nel nostro cammino di vita e di fede, ciò non toglie il fatto che la Parola di Dio deve continuamente suscitare in noi domande e lasciarci con un senso di inquietudine. «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore», ci ricorda la lettera agli Ebrei (4,12). Vale a dire, produce una ferita che non si rimargina più. Non ci lascia più tranquilli. E se i poveri li avremo sempre con noi, come ci ricorda Gesù (Mt 26, 11), dobbiamo essere grati della loro presenza, perché è una presenza che non può lasciarci dormire sonni tranquilli.

Sono convinto che ci dobbiamo giocare per un'esperienza del limite, dell'incompiuto e dell'imperfezione. Chi vive in situazioni di disagio, si scontra sempre con il limite (economico, sociale, relazionale, psicologico, ecc.). La nostra vita cresce come persone e come religiosi nella misura in cui all'interno della nostra esperienza siamo capaci di dare posto e una cornice di senso al limite, all'incompiuto e all'imperfezione. È questa la grande lezione che ci offrono le persone che più fanno fatica, semplicemente con la loro esistenza. L'ideologia economicista non conosce limite (i suoi principi si fondano sul bisogno di consumare ed accumulare sempre di più), non tollera l'imperfezione (i suoi prodotti devono avere, ad esempio, la certificazione di qualità), nasconde o nega ciò che è incompiuto (qualsiasi persona che acquisti un computer, con il relativo software, riceve qualcosa che viene venduto per il non plus ultra mentre in realtà è "difettoso" e non compiuto e che fra sei mesi sarà vecchio). Se invece di parlare di prodotti, parliamo di persone, ci accorgiamo subito quanto diventi drammatica questa negazione del limite e dell’imperfezione. Quante persone vengono spinte ai margini dell’esistenza o gli viene negato il diritto a vivere pienamente.

Si tratta di accettare il limite - anche quello estremo della morte, personale e collettiva - nella nostra vita e nelle nostre esperienze. Quante volte, dietro ai nostri fallimenti, si nasconde il fatto che non viene accettato il limite? Accettare l'incompiuto all'interno di una società che ci presenta l'accumulo senza misura come unico possibile obiettivo perseguibile, vuol dire uscire dalla logica che mi fa usare l'ultimo ritrovato tecnologico nell’illusione che possa essere utile e che migliori sensibilmente la nostra vita (e, per dirla con Don Milani, la nostra prassi pastorale). Ma anche rifiutare la logica che all’interno di questa società ci sia posto soltanto per chi già ha maggiori risorse e maggiori opportunità.

Quanti nostri fallimenti interpersonali nascono dal fatto che vogliamo intorno a noi soltanto la perfezione? Perfezione che ci viene richiesta in qualsiasi ambito, ma che non saremo mai in grado di offrire. E perciò si deve continuamente soggiacere ad un continuo gioco di maschere con il quale cercare di mostrare almeno un'immagine di perfezione. E quanti fallimenti vengono poi lasciati dietro le spalle! Come giustamente faceva osservare Bonhoeffer dal carcere: «Dio non adempie tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse» (Resistenza e resa).

3. Le porte della speranza

La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». (Gv 20, 19-23).

La missione è costitutiva del nostro essere cristiani. E’ testimonianza. È comunicazione della nostra esperienza di fede. Se sperimentiamo nella nostra vita la necessità di essere salvati (dall’egoismo, dal limite, dal fallimento, dal non senso, dalla morte, dal peccato…) e questa salvezza la sperimentiamo in Gesù Cristo, allora non possiamo fare a meno di comunicare agli altri la nostra esperienza. Non comunicazione di catechismi, di qualcosa che possiamo anche aver imparato a memoria, ma comunicazione della nostra esperienza e della nostra vita.

Se la missione non è nutrita da questa comunicazione di esperienza è vera missione? Come non resistere alla tentazione che essa dipenda soltanto dalla nostra volontà, dai nostri mezzi, dai nostri sforzi? Come facciamo a cogliere la presenza del Cristo nel mondo che è già all’opera e che già fa crescere il Regno in mezzo agli uomini? (“Il Regno di Dio è in mezzo a voi” Lc. 17,21). Come facciamo a far capire agli altri che la nostra esistenza è innanzi tutto segnata da un’esperienza di gratuità, da un dono che continuamente riceviamo da Dio nel nostro oggi?

L’ambito dell’evangelizzazione è quello della nostra vita. In ogni ambito nel quale ci ritroviamo a vivere ed operare. In questo mondo sommerso dalle parole, ove ormai si ha difficoltà a stare ad ascoltare perché troppi sono i rumori che disturbano il nostro ascolto, ove può essere detto tutto ed il contrario di tutto, dobbiamo avere la pazienza, la fiducia, la preoccupazione di annunciare il Cristo con la parola della nostra stessa vita. Non abbiamo bisogno di aver fatto approfonditi studi teologici o per forza imparare ad usare internet. Se fosse così, Gesù non avrebbe dovuto scegliere dei pescatori, ma avrebbe dovuto fare un attento discernimento tra gli scribi di Gerusalemme o tra le scuole filosofiche di Atene. Possiamo comunicare agli altri che la nostra esperienza di fede, la nostra sequela del Cristo è qualcosa di importante per noi, la cosa più importante. Che il nostro essere cristiani non è un peso, una fatica, un obbligo, una disgrazia che ci è capitata addosso dal momento che i nostri genitori ci hanno portato al fonte battesimale. Che anche per altri vale la pena provare a fare l’esperienza che stiamo facendo. Che in questo mondo che ha difficoltà a trovare un senso al proprio essere ed al proprio agire possiamo comunicare il senso che abbiamo scoperto in Cristo del nostro essere e del nostro agire.

Questo comporta che rimettiamo al centro della nostra vita l’elemento fondamentale della nostra fede: la resurrezione di Cristo. Dobbiamo immergerci nel senso della pasqua. Nell’angosciante fallimento del venerdì santo. Nel silenzio assoluto, cosmico, del sabato. E nell’alba radiosa della domenica. Dobbiamo essere capaci di lasciarci vivere dalla pasqua del Cristo lungo tutti i giorni del nostro cammino. Non siamo noi ad andare incontro al Cristo risorto. Non siamo noi ad andare verso la Pasqua. Noi, come i due discepoli di Emmaus, ce ne andiamo per altre strade. Dobbiamo essere capaci di lasciare entrare il Cristo Risorto nella nostra esistenza, lasciare che la Pasqua ci venga incontro. Noi abbiamo soltanto porte chiuse. È Cristo che apre le porte della speranza. Se la Pasqua entra nella nostra vita, già da ora possiamo in qualche modo essere trasfigurati, partecipare della trasfigurazione del Cristo, partecipare alla nuova creazione.

E’ questa la più grande testimonianza che possiamo rendere, la missione che le persone che fanno più fatica si attendono da noi. Una parola di vita. Quella parola di vita che il mattino di pasqua esce dal sepolcro ed illumina la notte dei discepoli affranti.

Ed allora, qui od altrove, ma pur sempre testimoni. Qui, nella vita di ogni giorno, nei più diversi contesti sociali e culturali e tra la povera gente, tra i dimenticati della storia: evangelizzatori, sì, se testimoni di quell’unico, buono, gioioso annuncio che è la pasqua del Cristo. Testimoni di un seme gettato da Dio che già germoglia nel nostro terreno e che è talmente rigoglioso che si espande, trabocca e comunica ancora vita.

Faustino Ferrari

 

Letto 3043 volte Ultima modifica il Domenica, 15 Gennaio 2017 21:31
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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