Nella seconda parte della difesa contro i suoi avversari, chiamata anche tradizionalmente «lettera tra le lacrime» (cc. 10-13), dopo essersi discolpato dalle accuse di debolezza e di ambizione, Paolo formula sempre con un tono fortemente polemico una domanda retorica:
«Bisogna vantarsi?» (v. 1).
Questo è un tema che egli ha già ampiamente sviluppato non soltanto nella seconda lettera ai Corinzi, ma anche nella prima. Nella missiva precedente, infatti, ricordando lo statuto umano della comunità, formata non da molti sapienti, potenti e nobili, individua nell'umile composizione sociale la ragione teologica dell' atteggiamento che i credenti devono tenere non vantandosi delle proprie capacità umane. Egli invece esorta esclusivamente «a gloriarsi nel Signore» (1Cor 1,29.31; cf. 3,21; 2Cor 10,17). Nella Chiesa corinzia, infatti, era proprio l'ostentazione a incentivare la frequente contrapposizione tra i membri della comunità (1Cor 4, 7). Nella seconda lettera Paolo si sofferma ancora su questo atteggiamento umano che non corrisponde alla prospettiva del vangelo.
Bisogna vantarsi?
In maniera paradossale egli afferma di avere un unico motivo per cui vantarsi: la propria debolezza (2Cor 11,30). Tuttavia, adesso Paolo, a causa dell'attività di delazione esercitata nei suoi confronti dai rivali, si trova costretto anch'egli a vantarsi della propria autorità sulla comunità affidatagli da Dio (1Cor 10,8.13.15.16). In altre parole, l'azione di autoesaltazione da parte dei suoi avversari costringe Paolo ad avviare un discorso in cui anch'egli deve difendersi, esibendo le proprie credenziali (2Cor 11,16.18). Ciò nonostante la sua azione di vanto è fuori schema e soprattutto non è segno del vero apostolato, per questo non si deve dare tanta importanza alla spavalderia dei superapostoli.
Questi missionari che intendevano fare concorrenza a Paolo si compiacevano di essere protagonisti di rivelazioni, di visioni, di forme carismatiche, di azioni prodigiose per affermare la loro superiorità su di lui. Al contrario, per l' apostolo questi non sono segni dell' autenticità del ministero, ne tanto meno sono di beneficio alla comunità. In riferimento «alle visioni e alle rivelazioni» così importanti per i suoi oppositori, Paolo intende esporre un fatto che non aveva mai raccontato nei suoi scritti.
Attraverso un gioco retorico egli fa riferimento a se stesso descrivendosi come «un uomo in Cristo» che quattordici anni prima fu rapito in cielo (v. 2). Con molta probabilità i corinzi sono a conoscenza di questa esperienza, a differenza del lettore moderno che ha difficoltà nel decifrarla. L'uso della terza persona, oltre a indicare un atteggiamento di distacco verso questo avvenimento, dice che si tratta di una parentesi senza continuità nel prosieguo della sua esistenza. Neppure Paolo è in grado di decifrare completamente ciò che è accaduto; tanto è vero che egli è indeciso se definirlo un evento soltanto spirituale oppure anche fisico (v. 3). In altre parole, egli probabilmente non sa se applicare il modello religioso ellenistico dell' estasi dell' anima, oppure quel- lo biblico del rapimento del corpo come nel caso del profeta Elia (2Re 2,11 ) e di altri personaggi quali Enoch e Baruc. Tuttavia, non riuscendo a tradurre questo accadimento in termini razionali, egli rimette a Dio il giudizio.
Ciò che unicamente può dire di questa vicenda è che è stato rapito al terzo cielo. L'ultima espressione è alquanto enigmatica anche perchè il Nuovo Testamento evita le speculazioni cosmologiche del pensiero giudaico, soprattutto apocalittico. Tuttavia, subito dopo, lo stesso Paolo ci viene in aiuto nel precisare che il terzo cielo è il paradiso (v. 4). Tale termine proveniente dal linguaggio persiano, è usato raramente nel Nuovo Testamento (ancora in Lc 23,43; Ap 2,7) per indicare il luogo della presenza di Dio e della totale comunione con lui. Sebbene Paolo abbia un ulteriore dubbio, se questa esperienza sia stata di tipo uditivo o visivo, è invece incontrovertibile il fatto che egli è stato messo nella condizione di ricevere la rivelazione di Dio. Tuttavia, ciò che egli ha sentito non si può condensare in un resoconto da farsi ai corinzi. Per quale ragione? L'apostolo non lo dice, ma ai fini dell'argomentazione che egli sta portando avanti se ne possono dedurre le conseguenze: siccome questo evento non è comunicabile, è completamente inutile per la comunità, così come lo sono quei fenomeni esibiti dai suoi oppositori.
Sempre attraverso un gioco retorico, egli afferma di potersi vantare di questa esperienza (v. 5) allo stesso modo con il quale i super-apostoli ostentavano le loro abilità estatiche. L'unica ragione per cui Paolo si compiace, sta nel fatto che l'evento, appena raccontato, è dipeso non dalle sue capacità umane, volitive, intellettuali, ma soltanto dall' azione gratuita e comunicativa di Dio. Pertanto, egli ha raccontato l' evento alla terza persona per vantarsi, quasi sdoppiandosi da quell' identità che è stata destinataria della vicenda celestiale proprio perchè adesso vuole affermare che non intende invece esaltare se stesso. Questa esperienza quasi non gli appartiene, gli è estranea, fa parte di quell'altro da se che è stato rapito al terzo cielo sicché egli non intende ritenere valido questo evento come criterio per valutare il suo apostolato.
Mi vanterò delle mie debolezze
L'unico aspetto relativo alla sua esistenza, di cui invece egli vuole gloriarsi, è proprio la sua debolezza, così come frequentemente ha fatto nei due scritti inviati a Corinto. Potrebbe risultare strano che Paolo invece di rifarsi a questo evento estatico non menzioni quello di Damasco che segna l'inizio della sua adesione a Gesù Cristo. Non lo fa perchè quest'ultimo è un avvenimento completamente diverso, in quanto punto di partenza per il suo cammino di fede e della sua vocazione apostolica. Il rapimento, invece, ha un carattere mistico o estatico che come una parentesi non ha cambiato per niente il suo vissuto di missionario, testimone del Signore. Queste visioni, infatti, non sono il contenuto dell' azione apostolica per fondare e edificare la comunità cristiana (1Cor 2,2; 13,12; 14,2; 2Cor 5,13). Ciò che invece la costituisce è l'annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto.
Ancora sotto l'impulso della vis retorica l'apostolo afferma di avere parecchi motivi per vantarsi e quindi il farlo non sarebbe assurdo, anzi corrisponderebbe soltanto a verità (v. 6). Ma Paolo non intende usare lo stile auto-incensatorio per stornare la valutazione che gli altri possono dare di lui. Egli vuole invece che i membri della comunità lo valutino alla luce del suo operato e delle sue parole come educatore del vangelo.
Proprio per non scadere in quella forma di ostentazione che caratterizza i suoi avversari, egli comunica ai corinzi di avere una «spina nella carne» (v. 7). Sebbene sia il risultato dell'azione diabolica di Satana, essa è stata permessa proprio da Dio perchè Paolo non si insuperbisca. Egli ha pregato per essere esentato da questa pena. La triplice orazione compiuta da Paolo (v. 8) ricorda quella di Gesù rivolta a Dio nel Getsemani. Non è soltanto il numero tre, segno di totalità e perfezione, ad accomunare le due preghiere, ma anche la loro simile dinamica. Infatti, sebbene Gesù abbia richiesto di allontanare il calice e Paolo di togliere la spina nella carne, nessuno dei due è stato ascoltato. La preghiera così serve non a piegare Dio alla proprie volontà, ma a capire il significato di un avvenimento che a prima vista sembra senza senso o addirittura enigmatico. Pregando l' apostolo prende coscienza che la logica divina è alternativa a quella umana.
Mentre avrebbe auspicato che in maniera quasi miracolosa gli fosse tolto ciò che egli considerava come una «spina», la preghiera invece lo fa sintonizzare con la prospettiva di Dio comprensibile nell'espressione: «Ti basti la mia grazia» (v. 9). Paolo, infatti, nelle lettere inviate alle sue comunità varie volte ha parlato dell' azione benevola ed efficace di Dio, sperimentabile nella storia umana. La grazia opera sia nella comunità cristiana perchè essa si edifichi, sia nei singoli credenti perchè raggiungano la maturità della fede e dell'impegno, così come ha operato in Paolo, con la sua chiamata e la con la sua responsabilità ecclesiale. AlI' apostolo, quindi, la sofferenza non è tolta, ma la grazia gli sarà sufficiente per superare i momenti di difficoltà. Egli, quindi, interpreta il suo dolore non in chiave morale, pedagogica o ascetica, ma cristologica: superiore alI' azione del male è la forza di Gesù Cristo.
L' affermazione iniziale è ulteriormente spiegata sulla base dello stile di Dio, la cui forza si dimostra in maniera paradossale nella debolezza. Pertanto dopo la sua meditazione Paolo giunge a capire come Dio non va pregato per allontanare la sofferenza, ma per cambiare modo di interpretare e vivere l' esperienza del limite o del male. Egli, infatti, è chiamato a vantarsi non della sua intelligenza, della sua dedizione, della sua forza, della sua cultura, ma della sua debolezza. Spesso l' apostolo ha parlato della sua condizione fragile, anche con toni retorici, come nel caso in cui i corinzi erano incorsi in una forma di auto-esaltazione: «Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani» (1Cor 4,10-11). Nella seconda lettera ai Corinzi parlando del suo ministero afferma: «Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perchè appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perchè anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Infatti noi che siamo vivi, sempre veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perchè anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2Cor 4,7-12; cf. 2Cor 6,4-10; 11,23-29; Rm 8,35).
Solo sulla base di questa riflessione è possibile percepire la forza di Dio che entra nella storia. Quasi sempre infatti le prestazioni e le efficienze umane possono nasconderla o farla dimenticare. Unicamente la consapevolezza della piccolezza e della debolezza rende capaci di scoprire la vitale ed efficace potenza divina.
La potenza di Dio si manifesta nella debolezza
Paolo, quindi, di fronte a esperienze ed eventi, come la spina nella carne, che altri cercherebbero di celare, di dimenticare se non addirittura di rimuovere, al contrario ne vuole parlare ai corinzi in maniera manifesta e libera. Egli ha percepito la sua condizione di fragilità nelle situazioni di oltraggio, di necessità, di persecuzione, di angoscia (v. 10). Durante tutta la sua vita missionaria, quando si è imbattuto in situazioni di crisi o di conflitto, egli le ha vissute sempre «per Cristo». L'espressione che può avere diversi significati vuoI dire qui in nome di Cristo. Dietro la sua riflessione emerge il grande dinamismo della morte e della risurrezione che per Paolo non soltanto sono state vissute da Gesù nel momento finale del suo mandato terreno, ma vanno usate quale criterio ermeneutico per la comprensione di ogni situazione e avvenimento, come lo è la sua «spina nella carne»: là dove si manifesta la debolezza dell' apostolo, emerge proprio la forza per I' adesione di fede a Gesù Cristo.
Paolo adesso comincia, invece, a difendere il proprio comportamento. Attraverso un'affermazione retorica sostiene di essere pazzo ( v. 11; cf. 2Cor 11,1.16.19.26). Proprio nel suo vantarsi in merito a quell'esperienza estatica Paolo si sente di aver infranto la logica di Dio che si manifesta nella debolezza. Tuttavia, questo cedimento è causato dal comportamento dei credenti di Corinto i quali, screditando I' apostolo, lo costringono a presentare tutte le sue credenziali. Si sta così verificando il contrario di ciò che dovrebbe accadere nello stile dei rapporti ecclesiali. Invece di essere la comunità che, conoscendo il proprio evangelizzatore, lo esalta e lo loda per la propria dedizione missionaria, nel caso di Paolo è successo il contrario. Nonostante egli abbia dato tanto tempo e molte energie alI'edificazione della comunità corinzia, questa cede alle lusinghe di coloro che lo accusano.
Essi sono chiamati da lui «super-apostoli». Molto probabilmente li etichetta così per il loro stile: essi usano le comunità cristiane fondate da Paolo per diventare uomini di successo ed essere al centro delle loro cure, presentandosi come super-man. Non attaccano direttamente Paolo, ma predicano un Gesù differente e un vangelo diverso (2Cor 11,4). Tuttavia, egli rivendica in rapporto a loro uno statuto superiore non per le sue qualità umane, a motivo delle quali egli si sente di essere di nessun valore, ma per la dedizione nell'opera di edificazione della Chiesa corinzia. Quasi certamente I'affermazione di essere un nulla si trovava originariamente sulla bocca degli avversari, tuttavia egli si riconosce in questa definizione così come afferma nella sua prima lettera inviata a Corinto: «Perciò sono il più piccolo degli apostoli, io che non sono degno di essere chiamato apostolo, avendo perseguitato la Chiesa di Dio. Ma alla grazia di Dio devo quello che sono; e la sua grazia a mio riguardo non è stata inefficace. AI contrario, più di tutti loro ho duramente lavorato. Non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15,9-10).
Probabilmente ancora rifacendosi al linguaggio dei suoi rivali Paolo vuole indicare quali sono «i segni del vero apostolo» (v. 12). Il primo elencato è la pazienza. Nella seconda lettera ai Corinzi egli afferma: «In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni» (2Cor 6,4) e nella lettera ai Romani sostiene: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3- 4; cf. 8,25; 15,4-5; Col 1,11; 1Ts 1,3; 2Ts 1,4; 3,5). Pertanto, la prima credenziale da lui esibita è la fermezza o la saldezza che Paolo ha mantenuto nelle traversie e avversità della vita missionaria.
Segue il potere di compiere miracoli, prodigi e portenti. Questi, tenuti in grande considerazione dai super-apostoli, erano stati compiuti anche da Paolo (cf. Rm 15,19; Gal 3,5; 1Cor 2,4), così come lo dimostrano le lettere. Infatti, rivolgendosi ai tessalonicesi sostiene che la predicazione del vangelo è avvenuta «non soltanto a parole, bensì con la sovrabbondanza dello Spirito» (1Ts 1,5). Mentre ai romani scrive: «...per condurre i pagani all'obbedienza con la parola e con l' azione, con la potenza dei segni e dei prodigi,con la potenza dello Spirito» (Rm 15,18-21); indirizzandosi agli stessi corinzi afferma: «La mia parola e la mia predicazione si affidarono non a suadenti discorsi della sapienza, ma alla potente dimostrazione dello Spirito» (1Cor 2,4). E, se i prodigi possono stupire, ciò che conta è il lavoro paziente del formare ed edificare la comunità.
Santi Grasso
(da Parole di vita, 6, 2002)