L’uomo davanti al volto della Sindone
di Vladimir Zelinskij
IL VOLTO E IL VERBO
Oltre ad essere un oggetto della ricerca scientifica, la Sindone è anche un avvenimento spirituale che ci tocca come persone, ci coinvolge come avvenimento spirituale in un modo o in un altro. Non sono uno studioso della Sindone, perciò il tema della mia riflessione sarà proprio questo incontro con il Volto espostoci davanti, ma, in un certo senso, rivelatoci anche dentro di noi. Da quest’incontro usciamo sempre diversi, cambiati, segnati dal contatto col mistero che ci attira e ci supera. Il Volto della Sindone già nel momento del primo contatto rappresenta un appello che ci chiama alla contemplazione ed anche alla riscoperta di ciò che si trova nel fondamento di noi stessi. Noi ci riscopriamo come cristiani, ma anche come esseri umani, quando entriamo nella contemplazione di quel mistero con il Volto umano. Proviamo a fermarci davanti a questo Volto e ad accoglierlo come un appello, un messaggio personale.
La prima cosa che ci colpisce nel Volto della Sindone è il suo linguaggio espressivo e comunicativo. Sembra che il Volto entri in contatto con la parte nascosta e più profonda del nostro essere. Cosa ci dice? Cerchiamo di leggere questo messaggio, anche se in modo incompleto, parziale, troppo libero e poco scientifico. Cominciamo con una breve riflessione di san Gregorio di Nissa (dal suo trattato “La creazione dell’uomo”) che può servire come chiave della nostra lettura.
«Dice san Paolo : ‘Chi mai ha conosciuto lo Spirito del Signore?’ (Rm 11, 34). Io aggiungo: e chi mai ha conosciuto il proprio spirito? Quelli che si ritengono capaci di comprendere Dio, farebbero bene a guardare dentro se stessi: hanno forse compreso lo spirito che è in loro?
A mio parere, bisogna tenere presente la parola di Dio: “facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”.
La natura divina ha come caratteristica l'incomprensibilità: la sua immagine deve somigliare anche in questo…
Di fatto, noi non arriviamo a comprendere la natura del nostro spirito. Perché esso è ad immagine del suo Creatore ed ha uguaglianza col suo Signore, reca l'impronta della natura incomprensibile, custodisce il mistero».
Il nucleo del messaggio: che lo spirito umano custodisce in sé il mistero dell’immagine. Ma quel mistero è illuminato dall’impronta del Verbo. L’immagine riflette in sé la rivelazione del Verbo, perché il Verbo che si fa carne diventa icona. E l’icona porta il messaggio del mistero dell’immagine. La prima cosa che vediamo con uno sguardo non fuggente sulla Sindone è che il suo Volto rappresenta un prototipo delle icone, con la sua espressività specifica della tradizione orientale. L’icona, però, prima di nascere come opera d’arte, è concepita nella contemplazione, nell’esperienza spirituale. Dio creò l’uomo a sua immagine, cioè secondo un modello preesistito - e questo modello fu il Verbo che era presso di Lui. L’immagine uscita dal Verbo diventa una realtà fisica, visibile e questa realtà si mantiene, dura, rimane con noi. Il compito dell’icona è di rendere visibile il perenne mistero del Verbo, il miracolo dell’Incarnazione. Proviamo, però, a rischiare nel porre una domanda: è davvero possibile trovare qualche legame comune fra il Volto ed il Verbo, fra l’immagine di Dio e la raffigurazione della Sindone? Sotto un’altra forma, la stessa domanda se la ponevano anche i Padri della Chiesa. Alcuni di loro rispondevano in modo affermativo: sì, l’uomo fu creato su “modello” del Cristo, nella previsione dell’Incarnazione. L’atto di fede nel Verbo che si è fatto carne suggerisce anche che il Verbo si sia fatto Volto. E non un qualsiasi volto umano, ma in un certo senso il Volto modello, il Volto archetipo.
Cosa vuol dire archetipo in questo contesto? Per i cristiani l’incontro con il Volto come Verbo prima di tutto è un avvenimento di riconoscenza. La riconoscenza è uno degli atti costitutivi della nostra fede. Crediamo in ciò che riconosciamo. Riconosciamo ciò che troviamo adatto alla nostra visione, simile al nostro pensiero. Non conosciamo e non conosceremo mai l’essenza di Dio, ma possiamo conoscere la Sua manifestazione nella Vita e nel Volto dell’Uomo. E quell’Uomo esprime l’incomprensibile essenza del Padre. Ma anche il Volto - questo è la nostra ipotesi o, piuttosto, intuizione - parla dell’essenza del Padre, perché anche il Volto del Figlio esprime ciò che il Padre ci dice.
Ricordiamo quel brano famoso del Vangelo di San Giovanni: “Se conoscete Me, conoscete anche il Padre; fin da ora Lo conoscete e Lo avete veduto. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”: Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto Me ha visto il Padre” (Gv. 14,9).
Cosa dice il Padre con il Volto del Figlio ucciso? Il Padre parla con il silenzio, con il tormento del Figlio Unico, con le tracce della morte sulla croce, con la morte che promette la vita. Il Volto non è sfigurato, anzi, è ancora bello, stupendo. Il Volto che tace è anche il Verbo che continua a parlare con noi, anche con la lingua del suo silenzio e della sua bellezza. La bellezza del Volto porta anche un suo messaggio, quello della bontà della santità umana. Così il Padre parla di noi stessi.
Se facessimo un bilancio dell’antropologia ortodossa in una riga, essa consisterebbe nel ritorno a questa bellezza iniziale, persa dopo la caduta. La bellezza vuol dire la santità dell’uomo appena creato con il Verbo di Dio e per il Verbo. La santità è il ritorno all’autentica natura umana creata per Cristo, in Cristo e con Cristo. Questo punto è importante; per l’Ortodossia, non è l’uomo com’è nella sua condizione empirica, macchiata dal peccato, un vero uomo, ma solo colui che è stato concepito e plasmato nell’amore di Dio. In altre parole, la vera natura umana è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio, che va ricercata, restituita e manifestata. Perciò l’antropologia cristiana porta in sé anche la soteriologia.
Prima di tutto l’uomo riconosce nel Volto il suo modello perduto, il nucleo del suo proprio “io”, come lui riconosce il Verbo nella sua fede. Il Verbo con il Volto di Dio martirizzato si trova alla radice della nostra vera personalità. Il Verbo si è fatto Volto di Colui che si è sacrificato per noi e questo Volto rimane l’espressione della rivelazione del Padre, la rivelazione che continua e che si manifesta anche come opera d’arte. Anche l’arte - nel senso primordiale - è il ritorno al mondo buono (in senso biblico), vale a dire, bello e santo, creato e voluto da Dio. L’arte ecclesiale è quella che non soltanto porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”, ma anche ha la coscienza chiara della sua nostalgia.
Perciò il messaggio della contemplazione del Volto è quello della nostalgia e della similitudine. Similia similibus cognoscuntur. Tutta la famiglia umana partecipa all’Incarnazione perché ogni uomo ha una particella del Verbo, il raggio del Logos, nella sua umanità. Troviamo questa intuizione, dopo il suo sviluppo nella teologia patristica, soprattutto nella “liturgia cosmica” di San Massimo il Confessore che parla dei logoi delle cose nel loro insieme che celebrano il Logos di Dio che si è fatto Uomo.
Concludiamo questa prima parte con il kondakion della domenica dell’Ortodossia:
“L’indescrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da Te, Madre di Dio, è stato circoscritto e riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Noi dunque, proclamando la salvezza a fatti e a parole vogliamo descriverla”.
IL VOLTO COME ICONA
1. Tre principi dell’arte ecclesiale
Cominciamo dall’inizio.
(Gn 1,31) – così finisce ogni giorno nella storia della creazione del cielo e della terra, della luce e delle acque, degli alberi e degli animali. La patria dell’uomo e della donna, creati nell’ultimo giorno, fu il giardino dell’Eden, con tutta la sua bontà iniziale - di cui la famiglia umana non perse completamente la memoria, anche quando le porte del giardino vennero chiuse dietro di loro. Il primo principio dell’arte ecclesiale è il ritorno al mondo appena creato, perché essa porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”. dentro di sé. Ma anche un riflesso del Volto. Troviamo quest’intuizione nella teologia patristica che parla dei logoi delle cose che celebrano tutte insieme il Logos divino, il quale tramite l’uomo ha dato il volto a tutta la creazione. Così si può definire il secondo principio dell’arte ecclesiale: la celebrazione del mondo in Cristo o piuttosto la riscoperta del Volto di Cristo nel mondo creato da Lui.Questa celebrazione, però, ha un suo scopo, una sua indicazione, non solo verso il passato (quasi che esso non fosse degno di una memoria sempre viva), ma anche verso l’incontro imminente con Dio nel “mondo che verrà”. “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, dice Gesù (Mt 4,17) e questo annuncio può risuonare al nostro udito come terzo principio dell’arte ecclesiale: la testimonianza della conversione, vale a dire, del profondo cambiamento del nostro essere sulla soglia del Regno, per vedere Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13,12).
Con questi tre princìpi (esposti qui in modo per forza schematico): la memoria sacra e personalizzata della creazione, la ricapitolazione del creato nel Verbo e la trasfigurazione del creato nella luce del suo Volto che porta la promessa del mondo che verrà, abbiamo un primo approccio all'arte dell’icona. Ma questi tre princìpi possono essere ridotti ad uno solo: alla visione e alla raffigurazione artistica della santità nascosta del mondo e della sua creazione prediletta: l’uomo.
Scoprire e far vedere nell’uomo la propria icona è compito dell’arte della pittura, come anche dell’arte della santità.
2. L’arte come comunione
La vera natura umana, come abbiamo detto, è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio che va ricercata, restituita, manifestata.
Alle soglie del Regno ci conducono tre accompagnatori o testimoni principali di Dio: la Santa Scrittura, l’immagine e il sacramento - che hanno una profonda e reciproca affinità. Credo che nella propria essenza ognuna di queste realtà sia convertibile all’altra, poiché la Scrittura veramente accolta e vissuta diventa un sacramento della comprensione che si compie nella mente e nel cuore dell’uomo, e dal sacramento nasce la contemplazione delle immagini come opere di Dio. L’icona è il frutto della contemplazione, ma la contemplazione cresce e si sviluppa nell’esperienza spirituale che è la manifestazione della presenza reale di Dio in senso eucaristico, sacramentale. Lo scopo dell’icona è quello di esprimere il mistero della presenza di Dio che ci guarda in faccia mediante il segreto del Suo Volto - ch’è infatti il sacramento della luce nascosta.
“Tutto quello che si manifesta è luce”, - afferma san Paolo (Ef 5,13) e la vocazione dell’uomo è di scoprirla e di manifestarla nella propria vita, nella propria fede, come anche nella propria creatività artistica. L'icona è il mezzo della comunione con la luce nascosta, e rivelata nel nostro mondo creato nella materia. La materia, la creta della creazione, contiene in sé ciò che va manifestato nello spirito. Sotto l’influenza della filosofia neoplatonica anche nel cristianesimo dei primi secoli è emerso un certo disprezzo per il mondo materiale, aspetto che era all’origine dell’eresia degli iconoclasti (VII-VIII sec.). La fede cristiana, però, che confessa la sua speranza nella risurrezione dei morti e nella trasfigurazione del mondo attuale (che non sarà sostituito completamente con il “mondo che verrà”, ma svelerà la sua bellezza nascosta) si ricorda sempre della sacralità della materia che è servita nell’atto della creazione del mondo, ma anche dell’incarnazione del Figlio di Dio.
3. L’icona come teofania
La materia è venerata non per se stessa, ma come portatrice delle immagini, dei messaggi della salvezza. Nel miracolo dell’incarnazione il Signore ha nuovamente consacrato tutto ciò che Egli aveva creato. La Sua parola, la Sua morte e resurrezione hanno lasciato le immagini della Sua presenza e la Chiesa manifesta questa presenza attraverso l’immagine, il volto trasfigurato dell’uomo. L’arte in Chiesa è il nostro saper organizzare a modo nostro la materia “personalizzata” che ci circonda o trasferirla nelle immagini, che scopriamo in noi stessi. Nell’arte che chiamiamo laica siamo padroni della nostra ricchezza interiore e possiamo giocare con le immagini come vogliamo.
L’arte ecclesiale è diversa. Il suo messaggio è già conosciuto dall’inizio, i segni che essa utilizza sono contenuti nella nostra fede. L’uomo non deve scegliere fra le immagini accumulate e mescolate nel proprio “io”, ma deve manifestare ciò che esiste già, nella profondità o nel “principio” del suo essere. L’arte ecclesiale esprime ciò che è dato fin da principio, messo in noi, manifestato a noi: il Volto del Verbo. Di questo dono, della profondità umana che si svela solo nell’esperienza del santo, ne parla San Giovanni nella sua prima lettera:
“Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…” (1 Gv 1,1-2).
L’icona, se la guardiamo alla luce di queste parole, è la testimonianza di ciò che noi, uomini, abbiamo veduto, anche se “in maniera confusa”, toccato, anche se solo nello spirito, contemplato, anche se in momenti rarissimi, di ciò che portiamo dentro noi stessi, anche se non lo sappiamo - e di ciò che dobbiamo far vedere agli altri, il Verbo della vita, ed anche il Volto della vita, la vita avvolta nella morte. Ma l’icona è la testimonianza della vita che continua a vivere nel popolo di Dio e nel Suo corpo che è Chiesa. Osiamo dire che la Chiesa stessa è anche l’icona della testimonianza, del vedere ciò che è invisibile, del comprendere ciò che è incomprensibile, del vivere ciò che appartiene a Dio. L’icona del Volto del Figlio morto porta in sé la caparra della Risurrezione e la vittoria della vita in Dio e con Dio.
4. L’icona e lo spazio liturgico
Secondo la fede ortodossa, le immagini, quelle vere, presentano i propri prototipi. L’icona ha vita propria solo all’interno dell’attività spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nell’album, nel museo, nella collezione privata essa perde il suo senso sacramentale. Ciò che il Vangelo dice con la parola, il Volto lo dice con il suo messaggio.
Le icone, in un certo senso, “raccontano” il loro prototipo, portano una buona notizia della loro presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclastia del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e l’incomprensibile non potessero essere raffigurati, che il mistero divino non si lasciasse svelare. Ma in verità l’icona non vuole riportarci “l’immagine dell’inesprimibile”, come afferma san Gregorio Palamas, ma soltanto il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile.
“è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura”, afferma San Paolo (Col. 1,15) e ciò vuole dire che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. “Io sono la luce del mondo”, afferma Cristo (Gv 8,12) e la Chiesa canta: “La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi”. L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità - così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempie il Santo Volto e che santifica anche noi.IL MESSAGGIO DELLA SINDONE
Ma la Sindone non è un’icona fatta dall’uomo. Questo è vero, e vero è anche ciò che il Volto della Sindone porta in sé nell’arte, ma con la pienezza e la profondità che deriva dall’originale del Volto umano. Questo Volto ci riporta all’immagine, al Modello inciso nello spirito umano, all’arte come immagine dello spirito. La sindone è come un’icona del Verbo, che ci parla e si trova in comunione con lo spirito che ci fu dato.
Sì, possiamo parlare del Volto della Sindone come dell’avvenimento della comunione spirituale al Corpo di Cristo, poiché il Volto diventa Verbo che si offre nei santi misteri celebrati dalla Chiesa.
L’atto della comunione a questa icona include un messaggio l i t u r g i c o, come glorificazione del Verbo che si è fatto Volto.
Questo avvenimento contiene anche un messaggio p e n i t e n z i a l e, cioè la purificazione del cuore davanti al Dio crocefisso.
La Sindone ci parla anche della "k e n o s i s", nella quale ricordiamo che Cristo ha rinunciato alla natura divina (vd. Fil 2,6). La kénosis fa l’uomo partecipe della natura di Cristo, nel suo sacrificio fino al rifiuto della vita stessa nel martirio.
Un altro messaggio della Sindone è il ricordo e u c a r i s t i c o, perché la contemplazione del Volto contiene in sé l'unione del nostro spirito con Cristo. Da qui si chiarisce il senso della santità perfetta come sacramento dell'unione, che trasfigura il nostro corpo, riempito dal fuoco nascosto dell'Eucaristia.
Leggiamo qui anche un messaggio a p o f a t i c o, perché il Volto parla del mistero che non potremo mai decifrare.
Nonché un messaggio e s c a t o l o g i c o: il Volto morto promette la vita in abbondanza.
Un altro messaggio del Volto è quello della t e s t i m o n i a n z a; tutto ciò che è santo è testimone di un altro Regno davanti agli uomini.
Ma la Sindone porta anche un messaggio e t i c o: nella luce del Volto possiamo vedere anche il volto di un altro uomo.
"Tu hai visto il volto del tuo prossimo, disse un santo antico, tu hai visto il volto del tuo Dio". E questo amore si esprime sempre come servizio, come libero sacrificio per lui. La libertà senza amore porta alla schiavitù, all'ideologia che impone il suo giogo. La libertà penetrata dall'amore è sempre personale, essa è destinata a scoprire il mistero e l’unicità di un'altra persona, a scoprire l'amore di Dio riversato su di lei. Attraverso questo amore da persona a persona noi scopriamo anche la "personalità" della creazione del mondo in Dio.
Ma ogni personalità è dotata di un volto.
IL VOLTO COME LUCE
“Alla Tua luce vediamo la Luce”, esclama Davide (Ps. 35, 10) e la gioia e la nostalgia di questo grido fa la grandezza e il dramma del Primo Testamento. Dio entra nel mondo da Lui creato e nello stesso tempo rifiuta la sua rivelazione, “perché il Signore ha deciso di abitare sulla nube” (1 Re, 8, 12). Manifestandosi nel roveto ardente, negli Angeli, nella legge, e sotto tante altre immagini, Egli rimane tuttavia al di là di questi e del mondo umano.
Nel momento in cui il Signore ha deciso di rivelare il Suo volto nel volto umano, l’aurora è spuntata e “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce” (Mt. 4, 12). Questa luce che Cristo ha portato ha la stessa “sostanza” della luce che illumina le genti ed ogni uomo. Dio entra nel nostro mondo oscuro, rivela il Suo nome, non nasconde più il Suo volto. La storia di questa rivelazione, raccontata nel Vangelo come con una linea tratteggiata, raggiunge la piena chiarezza in quel brano profetico che parla della trasfigurazione. Qui traspare una delle tracce che mostrano la strada al mistero della similitudine del volto divino ed umano. Proviamo a rileggere quest’episodio e a meditarlo nello spirito della fedeltà alla tradizione cristiana orientale.
“...Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” – dice san Matteo (17, 1-2). Il tropario bizantino cantato durante la celebrazione liturgica nel giorno della festa della Trasfigurazione dà la sua interpretazione di questo racconto: “Ti trasfigurasti sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la tua gloria, per come potevano. Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna, per l'intercessione della Deìpara, o datore di luce: gloria a te!”. Il contenuto è lo stesso, ma la storia della Trasfigurazione si trasforma nella preghiera e nella speranza. “Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna”, perché questa luce ci porterà alla vera conoscenza di Dio nella sua manifestazione accessibile agli uomini o nella Sua “energia”, come dice Gregorio Palamas.
Cristo mostra la Sua gloria, ma non avviene in lui alcun cambiamento perché - dice - è: “quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv. 17, 5); ciò che cambia è la percezione umana. La Trasfigurazione, secondo l’interpretazione ortodossa, prima di tutto apre le occhi agli apostoli, trasforma la loro anima e la loro vista, rivelando anche l’autentica natura umana.
Ma il messaggio di Giovanni, come quello di Pietro, di Paolo e degli altri apostoli è non soltanto già un frutto della vera visione, della perfetta conoscenza di Dio “come Egli è” (1 Gv. 3,2), ma anche la testimonianza discreta degli uomini come essi sono. Vedere Dio “come è” significa raggiungere la somiglianza con Dio e vedere nello spirito ciò che non può essere visto, toccare nel pensiero ciò che non può essere toccato. L’Invisibile apre il suo volto, perché, come dice Sant’Ireneo di Lione, “Cristo è il visibile di Dio”, ma lo stesso Cristo - Verbo, Vita e Volto - è anche l’invisibile dell’uomo. E lo Spirito Santo quando l’uomo Lo cerca, fa nascere, apparire, manifestare l’invisibile nel cuore umano.
Tutta la Scrittura ci porta alla rivelazione della luce nella quale si chiarisce anche tutto ciò “che c’è in ogni uomo” (Gv. 2,25). Perché in Cristo ogni uomo, anche se immerso nelle tenebre, si avvolge della luce che non perde il suo carattere ineffabile. Dal momento della sua creazione ad immagine di Dio, dal suo concepimento per l’amore del Signore, ogni uomo è cristico, penetrato dallo splendore del Verbo. Ma il mistero dello splendore, nell’uomo “naturale”, è quasi introvabile, brucia appena e ha bisogno di essere acceso dalla fede, dalla scelta umana, da quella scintilla che illumina il Volto con la luce di cui ogni uomo è dotato. L’uomo lo riceve come dono e lo rivela in sé con lo sforzo, e così la vita della sua fede può diventare un avvenimento permanente della teofania interiore.
All’inizio di questa teofania si trova un’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale in senso ontologico: nell’”anima mia” (Ps. 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è “nei cieli” - ma sono “cieli” aperti nel cuore umano. La rivelazione porta in sè la presenza reale e vivificante del Volto del Figlio di Dio, “ricordato” e manifestato dallo Spirito Santo, e il Figlio di Dio e lo Spirito Santo rivelano il Padre come unica fonte del mistero trinitario. Così il mistero si rivolge a noi, si apre a noi e si rivela dentro di noi e noi assistiamo alla sua teofania, in cui Dio mostra nell’anima dell’uomo la gloria del Suo volto trasfigurato. Il luogo della teofania è la fede stessa, la conoscenza di Dio, la celebrazione, l’icona, la santità, il martirio, la bellezza, tutta la creazione.
“Dio è Luce, - dice San Simeone il Teologo, - e coloro che Egli rende degni lo vedono come Luce; quelli che lo hanno ricevuto lo hanno ricevuto come luce. La luce della sua gloria anticipa infatti il suo volto ed è impossibile che Egli appaia altrimenti che nella luce.”
Da questa luce nasce anche la santità umana che è, in un certo senso, la “processione” dal Regno promesso (che si trova dentro di noi) a quello che si apre fuori di noi, dalla luce invisibile al visibile. L’irradiazione del Regno, che si può vedere a volte negli occhi del cittadino del Regno, in modo impercettibile penetra e avvolge tutto ciò che lo circonda: il suo deserto o il suo bosco, la sua famiglia o la sua comunità, le sue parole o il suo silenzio, la sua missione o il suo eremitaggio, anche il suo corpo mortale o la memoria che lui lascia dopo la morte. La memoria di lui si cristallizza nella sua immagine dipinta che esprime l’idea o il mistero del volto umano che è sempre quello di Cristo, incarnato, crocefisso, risorto...
Perché “è Dio che disse, - scrive san Paolo, - Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,6).