Ecumene

Venerdì, 07 Luglio 2006 21:51

Il Paese delle croci di pietra (Aldo Ferrari)

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Il Paese delle croci di pietra
di Aldo Ferrari


La grande cupola bianca dell’Ararat riempie il cielo turchese d’Armenia. Fonte e perno dell’universo armeno, fondale fisso di un paesaggio aspro e immutato, colma gli occhi e la mente con la persistenza propria del simbolo: di una terra e di una storia. La montagna infatti si trova oggi in territorio turco, al confine con la Repubblica armena. Quasi un miraggio, dunque, e insieme un orizzonte inciso in ogni sguardo, memento di tutto ciò che è stato e di tutto ciò che è.

L’Armenia è la più piccola delle quindici entità statali divenute indipendenti in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, e la sua popolazione, a causa della consistente emigrazione degli ultimi anni, è oggi ben inferiore agli oltre tre milioni e mezzo dell’epoca sovietica. Viaggiare in questo Paese significa entrare in contatto con una realtà che porta su di sè l’eredità di un passato tanto lungo e glorioso quanto tormentato. A partire dalle sue stesse dimensioni, che sono circa un decimo di quelle dall’antica Armenia, e che non le consentono oggi di avere un ruolo corrispondente a quello di molti periodi della sua storia. Ma almeno altrettanto importante, in chiave sia storica sia psicologica, è il fatto che tale ridimensionamento sia dovuto essenzialmente alla tragedia epocale del genocidio, che ha non solo sancito la perdita definitiva dei territori armeni occidentali, ma anche l’annientamento o l’espulsione della popolazione che vi abitava ininterrottamente da quasi tre millenni. Un evento cruciale per comprendere sia la diaspora che da esso è in larga misura scaturita, sia le sorti della Repubblica indipendente, che ancora ne subisce le ripercussioni. In primo luogo per i contrasti con la vicina Turchia, che non ha mai riconosciuto il genocidio, e quindi con l’altra Repubblica turca del Caucaso meridionale, l’Azerbaigian, con la quale l’Armenia ha in sospeso il contenzioso sul destino del territorio del Karabagh, abitato in larga maggioranza da armeni ma attribuito a Baku in epoca sovietica. Ciò significa che l’attuale Stato armeno deve fronteggiare non solo gli enormi problemi politici, economici e sociali di ogni Repubblica post-sovietica, ma anche una situazione geo-politica di estrema complessità. In questo compito è peraltro favorito dalla notevole compattezza etnica, mentre la forte coscienza nazionale che anima una diaspora più numerosa della popolazione che vive in patria consente a quest’ultima di non restare isolata e di trovare sostegno in numerosi Paesi del mondo (soprattutto nell’area del Vicino Medio Oriente, in Russia, in Francia e negli Stati Uniti).

Così come l’Ararat, anche la maggior parte dei monumenti del passato sono oggi in Turchia, dove versano in condizioni disastrose. Anche la Repubblica armena è ricchissima di testimonianze storiche e artistiche. Un itinerario attraverso questo territorio non può che iniziare dalla capitale, Erevan. Pur costruita prevalentemente in epoca sovietica, questa città ha nel complesso un aspetto gradevole, grazie ad un’urbanistica equilibrata e al pregio estetico del tufo, la pietra dalle numerose sfumature cromatiche che caratterizza l’architettura armena. Tra i monumenti più celebri è il Matenadaram (Biblioteca nazionale), che custodisce circa 17 mila manoscritti, molti dei quali impreziositi da bellissime miniature. Il fascino principale di Erevan nasce tuttavia dal profilo onnipresente delle sue vette perennemente innevate dell’Ararat, la montagna sulla quale, secondo la tradizione biblica, si arrestò l’arca di Noè. Nelle immediate vicinanze della città sorge il monumento alle vittime del genocidio. Una struttura all’aperto e un museo preservano la memoria della catastrofe che segnò in maniera indelebile la nazione armena.

È comunque lontano dal contesto urbano di Erevan che il genio specifico della cultura armena si manifesta con più intensità. In particolare, l’architettura è caratterizzata da uno stretto legame con l’ambiente; tende infatti ad inserirsi armoniosamente nel territorio, come se sorgesse dalla terra di cui riprende l’ocra e la porpora. Un esempio particolarmente significativo di questa aderenza al paesaggio è costituito da Geghard, un complesso monastico di straordinaria suggestione, costruito nel XIII secolo in un sito di antichi insediamenti eremitici. Rannicchiato nel fondo di una gola, il monastero si sviluppa in parte scavato nel vivo della montagna. Non lontano da Gerghard si trova il tempio pagano di Garni (I secolo d.C.), l’unico giunto sino ai nostri giorni in un’Armenia che per secoli si è intimamente identificata con la fede cristiana. Questa identificazione è stata duramente pagata dagli armeni, prima durante il lungo domino musulmano, poi sotto il «nero velluto della notte sovietica», per dirla con Mandel’stam, autore di “Viaggio in Armenia”. In questa terra ogni monumento cristiano assume pertanto un significato particolarmente intenso, testimoniando in maniera non scontata la fede di un popolo perennemente minacciato. Così a Noravank, un monastero isolato e deserto, costruito tra il XIII e il XIV secolo in una stretta valle con il medesimo tufo rossastro delle rupi circostanti, si ha l’impressione che al tramonto le mura assumano il colore del sangue. Naturalmente è solo una suggestione, indotta dalla conoscenza della dolorosa storia del popolo armeno.

Qui si trova la chiesa di Astvatsatsin (Madre di Dio), del XIV secolo, capolavoro dello scultore e miniatore Momik. Stretti gradini si inerpicano sulla facciata ovest fino all’ingresso, coronato da un timpano con l’immagine della Vergine con il Bambino attorniata dai santi Pietro e Paolo.

Quasi al confine con la Turchia, il profilo del monastero di Khor Virap (XVII secolo) si staglia contro il monte Ararat. Il nome in armeno significa “fossa profonda”. Al suo interno infatti è possibile discendere nella grotta in cui sarebbe stato imprigionato per tredici anni san Gregorio l’Illuminatore, colui che convertì l’Armenia la cristianesimo nei primi anni del IV secolo.

Non lontano sorge la cittadina di Etchmiatzin, il cui nome significa “l’Unigenito è disceso”, poichè Cristo vi apparve a san Gregorio. Qui risiede la suprema autorità della Chiesa armena, il “katholikos di tutti gli armeni”. Oltre alla cattedrale fondata da san Gregorio agli inizi del IV secolo, ricostruita nel V e nel XVII, vi si trovano alcune tra le più antiche e splendide chiese armene: ,Shoghakat (VI secolo, ricostruita nel XVII), che significa “effusione di luce”, e quelle intitolate alle sante vergini Gayanè e Hripsimè, edificate entrambe nel VI secolo. Nelle vicinanze di Etchmiatzin si incontrano anche le rovine dell’imponente chiesa di Zvartnots, del VII secolo, la cui ambiziosa e originale struttura non ha retto ai violenti terremoti che di frequente colpiscono questa regione. La corona di colonne superstiti lascia trapelare la leggendaria magnificenza di tempi passati.

Infatti, un altro itinerario di grande bellezza conduce al lago di Sevan, sulle cui rive azzurre si trovano due piccole chiese del IX secolo (Astvatsatsin e San Karapet) che un tempo sorgevano su un’isola e che oggi l’abbassamento delle acque, usate per l’irrigazione, ha ricondotto sulla terraferma. Nelle vicinanze si trova il cimitero di Noraduz, dove si possono ammirare numerosi khatchkar, le splendide “croci di pietra” che costituiscono forse le creazioni più caratteristiche dell’arte sacra armena. La croce (surb nshan, ovvero “santo segno”) ha del resto un ruolo centrale nella spiritualità del popolo armeno.

«Regno di pietre urlanti - / Armenia, Armenia!». Questi versi del poeta Mandel’stam sono un buon viatico per il cammino. Gettano una luce rivelatrice su una terra che, posta tra l’Anatolia e il Caucaso, conserva ancora oggi un sapore primigenio. Viaggiare per l’Armenia significa dunque percorrere sentieri che risalgono alle radici primordiali del mondo, penetrare nel cuore di chiese tetragone che hanno il colore del fuoco e nei silenzi secolari di monasteri simili a misteriosi congegni rotanti attorno ai rocchi delle alte cupole. E impastarsi lo sguardo nell’ocra di una terra all’ombra perenne dell’Ararat, «tenda di nomadi».

Letto 1637 volte Ultima modifica il Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:45
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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