Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La mansueta follia della croce
contro il male del fondamentalismo
di Giancarlo Bruni





Il fenomeno "fondamentalismo" pone dei problemi di vocabolario, di geografia e di storia che ne impediscono una definizione e un uso univoci. Senza entrare nel merito di una questione attualissima, e in termini non esaustivi e sicuramente criticabili, possiamo caratterizzare il "fondamentalismo" come una delle visioni organiche del mondo a partire da puntuali "fondamenti".

In sintesi, i propri "Libri" fondativi e identificativi accostati in maniera acritica e considerati in maniera apodittica testi da cui si deduce immediatamente e direttamente la legge di Dio, legge-verità che deve plasmare la convivenza umana, con conseguenze di chiusura, di resistenza e di ostilità nei confronti di quanti non si riconoscono o si oppongono all'applicazione socio-politica di tale prospettiva. Questo spiega, a partire dagli inizi del secolo scorso, l'opposizione dei fondamentalisti cristiani di matrice protestante del Nord America nei confronti della modernità e del cosiddetto cristianesimo liberale perché aperto al dialogo ecumenico e interreligioso e a una variegata gamma di interpretazioni o ermeneutiche bibliche.

Un fondamentalismo questo, di matrice protestante di lingua anglosassone, con taluni ed evidenti punti di convergenza con l"'integralismo" cattolico degli stessi inizi del secolo scorso, divergente dal primo per l'importanza data al magistero come istituzione mediatrice della volontà di Dio e dell'approccio al Libro. A ben vedere ancora una volta è in gioco il problema del rapporto fede-storia, Chiesa-mondo. Ma è nell'oggi che il problema è esploso in tutta la sua crudezza diventando questione mondiale. Si contendono, infatti, in uno scontro senza riserve di violenza, la piazza del mondo più fondamentalismi, più visioni totalizzanti che si presentano esclusive ed escludenti.

È la cronaca che abitiamo: «Questa è una crociata contro il Male assoluto, Dio non è neutrale davanti al Bene e al Male: Dio è con l'America». Parole dl George W. Bush in risposta all'attacco delle Torri gemelle, a sua volta giustificato dal Dio del Corano.

Ciò che mi preme sottolineare, al di là delle reali e inconfessate ragioni sottese a questo guerreggiare inteso come scontro di civiltà, è che i riferimenti religiosi a suo sostegno non vanno sottovalutati e la provocazione va accolta: Dio dove sei? Con chi stai? Sei davvero il fondamento di questa tragica deriva umana?

Domande che pongo anche al fondamentalismo islamico: il fondamento della propria religiosità è necessariamente violento? E che pongo ovviamente all'uso del nome di Dio e del ricorso alla civiltà cristiana che viene fatto nel cristianesimo stesso in questo tempo per molti versi apocalittico e manicheo.

In verità, nessuna religione può essere identificata con il suo estremo fondamentalista, tuttavia il fondamentalismo dai molti volti ha costretto e costringe ogni religione e le Chiese cristiane a ridiscendere nella propria profondità e a riconsiderare il proprio "fondamento".


Perché, come ha scritto David Turoldo, «sbagliarsi su Dio è un dramma, è la cosa peggiore che posa capitarci, perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sull’uomo, su noi stessi. Sbagliamo la vita». E per le Chiese non si dà altro «fondamento che Cristo» (1 Cor 3,11), la via alla verità di Dio (Gv 14,6) in quanto sua Icona (Col 1,15), sua Parola (Gv 1,1.14) e sua Esegesi (Gv 1,18), per tutti e da tutti visibile e intellegibile in maniera decisiva e inequivocabile sulla Croce (Gv 19,20.37), e per tutti e da tutti udibile nei detti sull'amore del nemico del Discorso della montagna. Il "fondamento" che è Cristo, un Vivente e non un Libro, un parlante nello Spirito che libera dal fermarsi alla lettera che uccide per pervenire alla parola che dà vita (2Cor 3,6), parola mai esaurita e mai conclusa dalle sue legittime e molteplici interpretazioni, non autorizza «fondamentalismo» alcuno. Al contrario, si pone come amore incondizionato e in forma unilaterale per ogni creatura sotto il sole, sempre dalla parte delle vittime e sempre bacio al carnefice e a quanti lo strumentalizzano, perché Dio non vuole la loro morte, ma che si convertano e vivano (cfr. Ez 33,11).

La domanda per le Chiese, pertanto, è una sola: come abitare la terra nel tempo del male fondamentalista? Che fare? «Dentro lo spessore del male introdurre la follia della compassione... Ho la responsabilità di far diminuire il male con la giustizia e la carità. Questa è la compassione... la poetica dell'agape» (Paul Ricoeur). E questo esserci come scandalo e follia è il linguaggio del Dio di Cristo verso ogni fondamentalista, un messaggio a cui le Chiese devono convertirsi a segno di un "fondamento" che guarda con amore e agisce con amore nei confronti di qualsiasi diversità, compreso il proprio assassino, il proprio oppressore, a qualsiasi religione, etnia e cultura appartenga.

Non si dà altra via di salvezza, come testimonia il Testamento spirituale di frère Christian, uno dei monaci trappisti uccisi in Algeria: «Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permette di sollecitare il perdono di Dio ...e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito, ...amico che non avrai saputo quel che facevi... E ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso... Insc’Allah, ad-Dio», al Dio che ha deposto al cuore di ogni religione e coscienza come suo fondamento vero la lingua materna comune della cura dell'altro.

(da Jesus n. 9, settembre 2004)


Intervista ad Amos Oz
Una risata contro i fanatici

di Alessandra Garusi





«Per favore, fate tutto quello che potete per aiutare entrambe le parti, perché tutti e due - israeliani e palestinesi - sono in procinto di prendere la più tormentata decisione della loro storia... Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace». Con questo appello agli opinionisti, all'Europa e a tutto il mondo esterno, si chiude “Contro il fanatismo” (Feltrinelli), l’ultimo libro del grande scrittore israeliano Amos Oz. Appassionato, umano, persino religioso nel senso più profondo del termine, egli propone una sua personale ricetta per vincere questo male che attanaglia ormai l'intero pianeta: il senso dell'umorismo.

Lei ha scritto: «In vita non ho mai conosciuto un fanatico dotato di senso dell'umorismo». Quando e come ha scoperto che la capacità di ridere di sé era il miglior antidoto contro il fanatismo?
«Penso che chiunque sia cresciuto a Gerusalemme e non sia diventato del tutto fanatico, debba avere un innato senso dell’ironia. Presumo, quindi, di aver avuto in corpo questo antidoto dalla primissima infanzia».

L'ironia è qualcosa che si può insegnare?
«No. Temo purtroppo che ciò non si possa fare. Tuttavia, spero che un giorno sia possibile creare un farmaco che la gente possa ingerire... Ritengo che l'ironia e le altre forme di umorismo, soprattutto la capacità di non prendersi troppo sul serio, siano non solo l'unico vero rimedio contro il fanatismo, ma anche la chiave di ogni relazione umana. Se credo in un Messia, lo faccio con questa certezza: Lui verrà sulla Terra ridendo e insegnandoci a fare altrettanto di noi stessi».

Recentemente lei ha detto di sé: «Sono un gran fautore del compromesso». Che cosa significa questo nella quotidianità?
«Significa cercare di incontrare le altre persone a metà strada. Significa che se mia moglie oggi vuole andare al cinema e io preferisco sedermi al tavolino di un caffè, cercherò di tenere il mio programma per il giorno dopo e quello di mia moglie per l'immediato; o ci infileremo in un bar dopo la proiezione, accontentando entrambi. È l'arte quotidiana del vivere assieme a un'altra persona».

Un caso pratico. Il partito laburista di Shimon Peres ha dichiarato la propria disponibilità a entrare nel nuovo Governo d'unità nazionale e, dunque, ad appoggiare il piano di ritiro da Gaza del primo ministro Ariel Sharon. Lei concorda con questa linea?
«Risponderò a questa domanda con un'altra domanda. Dipende: se alcune delle richieste avanzate dal partito laburista (o, ancor meglio, tutte) verranno accolte dal premier, allora l'ingresso si rivelerà opportuno; in caso contrario, sarà deleterio. In altre parole, mi chiedo: Sharon è disposto ad arrivare a metà strada per incontrare la controparte, oppure no?».

Che diritto ha un romanziere o uno scrittore di esprimere opinioni? O piuttosto “deve” farlo?
«Ho sempre considerato il mio lavoro come una sorta di sistema anti-incendio di un albergo o di un ristorante. Ogni volta che il mio naso intercetta l'odore del linguaggio disumanizzante, se sento che è mio dovere urlare, lo faccio. Perché io lavoro con le parole... E quando la gente - ovunque essa si trovi - sperimenta l'alienazione, la paralisi, so che è arrivato per me il momento di alzare la voce. Disumanizzare il linguaggio è infatti una sindrome che denota una disumanizzazione della politica».

Se non avesse fatto lo scrittore, cosa avrebbe fatto?
«Nella mia infanzia sognavo di diventare un pompiere... Se un giorno non potrò più scrivere romanzi, diventerò un "pompiere politico" capace di gettare acqua sul fuoco ovunque ci sia uno scontro».

Torniamo al suo libro. A suo avviso è possibile "guarire" un fanatico, e come?
«In alcuni casi si è riusciti a farlo. E questo grazie a un gruppo di persone che lo ha circondato risvegliando in lui (o in lei) un senso dell'umorismo dormiente, mai esercitato prima. In altre circostanze, il fanatico è "guarito" dopo essersi reso conto della limitatezza della vita umana, e in particolare della propria. Talvolta, quando uno si guarda attentamente allo specchio, vede tutto questo. Non sempre avviene».

A proposito del "come", può darci un consiglio?
«Leggere dei romanzi, delle poesie, può essere una buona medicina. Perché questo ci permette di entrare dentro altre culture, tradizioni, religioni. Ci infiliamo allora in altre scarpe e assumiamo altri punti di vista. È attraverso la letteratura in generale che scopriamo di avere tutti gli stessi segreti».

Dopo l'uccisione del primo ministro Yitzhak Rabin (novembre 1995), lei ha visto emergere qualcun altro, una figura di pari carisma sulla scena politica israeliana?
«No. Questo è un grande mistero, destinato a rimanere tale. Non sapremo mai chi diventerà un vero leader, prima che ciò avvenga. Cioè non è possibile oggi fare dei nomi, dire: "Sei il miglior candidato o la miglior candidata alla poltrona di primo ministro". Nemmeno il diretto interessato sa di esserlo. Se qualcuno mi avesse detto che Charles De Gaulle avrebbe smantellato il colonialismo francese, o che Winston Churchill avrebbe posto fine all'impero britannico, o che Michael Gorbaciov avrebbe distrutto il lavoro di Lenin e di Stalin, dieci anni prima che questi fatti accadessero, non ci avrei creduto. Quindi, c'è un elemento di mistero e di sorpresa».

Nel caso di Yitzhak Rabin, pensa che sia diventato un uomo di pace proprio perché ex uomo di guerra?
«Può darsi. Ma, come ho detto, resta un mistero. Conoscevo abbastanza bene Rabin, l'ho visto cambiare davanti ai miei occhi: la sua politica, il suo credo, le sue idee. Non è cosa da poco, soprattutto per un uomo sui 60 anni (forse lo è meno per una donna, meno arrogante e meno certa di avere la verità in tasca). Eppure, lui lo ha fatto. Ha colto di sorpresa non solo me, ma anche se stesso. Perché lui e non un altro generale, che pure aveva marciato sui campi di battaglia? Ripeto: è un mistero. Il cambiamento umano è un tale enigma... Sono sicuro che lei è stata in un ristorante. Avrà visto uno ordinare un piatto di pesce, poi richiamare il cameriere e dirgli: "Sa che cosa? Preferirei un pollo". Dio solo sa che cosa c'è dietro quel cambiamento. E le ho portato un esempio banale. Dunque, questo resta un arcano: che cosa sta all'origine del mutamento? Che cosa fa di una persona normale un grande leader? Non lo so».

Nel suo ultimo libro, Contro il fanatismo, lei afferma che «la speranza è il miglior antidoto contro il fanatismo». Chi oggi può realmente dare speranza in Israele e in Palestina?
«Chiunque abbia una visione positiva della realtà. E, di questo genere di persone, ce ne sono moltissime. Milioni, da entrambe le parti. Hanno uno sguardo pragmatico sull'esistenza e sulle cose; sanno che è possibile, per israeliani e palestinesi, vivere fianco a fianco; conoscono già la risposta che i politici vanno cercando da decenni».

Se un giorno la pace dovesse mettere radici in Medio Oriente, lei ritiene che avrebbe un effetto positivo anche su altre zone di conflitto?
«Spero davvero di poter vedere con i miei occhi la pace realizzarsi fra Israele e Palestina. E sono sicuro che contribuirà a un abbassamento di tensione in tutto il Medio Oriente, forse anche altrove. Certo, non metterà fine a tutte le guerre che oggi affliggono il mondo, ma sarà un segnale forte».

Qual è il suo sogno?
«Ho moltissimi sogni, molte fantasie. Ho più sogni che tempo per realizzarli in un'unica esistenza... Alcuni inconfessabili. Quello che ho per l'immediato futuro, è che i popoli e le nazioni comincino davvero ad ascoltarsi reciprocamente, e non facciano solo finta di farlo».

(da Jesus, n. 9, settembre 2004)


Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto (RB 7, 44).

Venerdì, 10 Dicembre 2004 00:04

Camminare con Cristo (Giovanni Vannucci)

Camminare con Cristo (1)
di Giovanni Vannucci




Stando alla pagina di Lc 9, 51-62, nessuno può entrare in quella nuova dimensione che Cristo ha portato alla coscienza degli uomini, se si volta indietro, se si sofferma su posizioni ormai sorpassate, se preferisce il saluto a coloro che deve abbandonare prima di seguire decisamente Cristo.
Vicino a Cristo, il passato, il dietro, il superato, non hanno posto.
Egli è il Figlio dell’Uomo.
Su questo passo noi dobbiamo ritmare il nostro cammino personale.
Egli non ha un posto dove posare il capo, nè un nido dove soffermarsi per la notte (cfr. Lc 9, 58): è sempre in cammino, è l’eterno pellegrino. E così dobbiamo essere noi.


Quando i discepoli giungono nel villaggio della Samaria e si sentono rifiutata l’ospitalità per il semplice fatto di essere Ebrei e di andare verso Gerusalemme, vanno da Cristo e gli dicono:
«Signore, vuoi che facciamo cadere dal cielo un fulmine che stermini tutta questa gente?».
Il Cristo dice: «Non sapete con che spirito parlate», e li rimprovera severamente (cfr. Lc 9, 54-55).

I discepoli non erano passati attraverso la novità del Vangelo. Erano ancora nell’economia del Vecchio Testamento: «Dente per dente, occhio per occhio. A chi ti toglie un dente, togli un dente; a chi ti toglie un occhio, togli un occhio; a chi non ti ospita, fai cadere un fulmine dal cielo perché bruci la sua casa» (cfr. Dt 19, 21). Per Cristo questo è il passato. Soffermarsi al passato è non seguirlo.

Si apriva, si apre con Cristo una nuova realtà. Le contingenze della terra, di accettazione o di rifiuto, di rispetto o di disprezzo, non hanno nessun senso per colui che segue Cristo. Egli deve compiere il suo cammino sempre in avanti. E a quell’ignoto che gli chiede di seguirlo, Cristo, leggendo nel suo cuore, dice: «Vedi, il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo. È sempre in cammino in avanti» (cfr. Lc 9, 58).

Quel tale non lo accetta, perché probabilmente aveva visto, aveva sentito la forte personalità di Cristo e cercava un rifugio vicino a Cristo: un grande padre che lo coprisse e che gli desse sicurezza. E Cristo gli dice: «II Figlio dell’Uomo, l’Uomo, l’Uomo vero, l’Uomo maturo non si sofferma neppure all’ombra di una grande paternità o di una grande maternità: va sempre avanti, solitario e pellegrino nella sua strada».

E all’altro, al quale Cristo dice: «Seguimi», e che gli chiede di andare a seppellire suo padre, Cristo dice: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Lc 9, 59-60). Il morto è un essere che ormai ha compiuto il suo ciclo, e attardarsi per compiere anche quelli che per noi sono atti di pietà e di amore che vanno compiuti, è un non seguire il Cristo.

E all’altro che dice: «Ti seguirò. Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa» (Lc 9, 61), Cristo risponde: «No, Cristo è sempre avanti; seguimi».

Questa è la grande consegna che Cristo ci dà e che noi dobbiamo vivere pienamente: essere con Lui sempre, oltre tutti i margini che costruiamo, oltre tutti i limiti di civiltà, di cultura che costruiamo, perché Cristo è sempre avanti. Quando poi pensiamo di essere riusciti a dare alla nostra società una forma perfettamente cristiana e guardiamo la nostra società e poi guardiamo Cristo, vediamo che Cristo è avanti. E allora dobbiamo lasciare le belle costruzioni che abbiamo innalzato, le meravigliose strutture che siamo riusciti a edificare, per seguire Cristo che è sempre avanti e sempre oltre.

Attorno a Cristo non c’è niente di morto, attorno a Cristo non c’è niente di passato, attorno a Cristo c’è il presente, ma il presente che è mosso e fermentato da una speranza che ci proietta nel futuro.

E con tutto l’essere noi dobbiamo riuscire a seguire Cristo: con tutto l’essere, con la nostra mente, con il nostro cuore, con il nostro sentimento, con la nostra vita, con le nostre mani, pronte a distruggere quello che dobbiamo distruggere perché ormai è soffocante per la coscienza cristiana, è soffocante per Cristo che è in noi.

Ecco, c’è un punto sul quale noi dobbiamo tenere sempre vigilante la nostra attenzione: che il nostro cammino sia compiuto non da noi, ma da noi con Cristo, o «in Cristo», come dicevano gli antichi cristiani, nello spazio di Cristo.

La nostra Chiesa è in un momento di grande crisi, come tutta la società; noi sentiamo sulle spalle il peso di tutta una tradizione che è invecchiata, ce la vogliamo scrollare di dosso, non con le nostre velleità, con i nostri capricci, con le nostre stranezze, con le nostre stravaganze, ma ce lo dobbiamo scrollare dalle spalle con Cristo.

E se rinunciamo a una bellezza che non sentiamo più affascinante, dobbiamo rinunciarvi in nome di un’altra bellezza. Se rinunciamo a un canto che ora non esprime più il nostro sentire, la nostra sensibilità del sacro, lo dobbiamo fare in nome di un canto che esprima perfettamente e compiutamente e in perfetta bellezza quello che sentiamo del mistero di Cristo. Ciò non significa far delle cose brutte, delle cose superficiali, affrettate e più caduche di quelle che abbandoniamo per rinnovarci nel Cristo. Ma rinnovarci in Cristo significa muoverci con tutte le nostre facoltà creative di bellezza, di amore, di libertà, di grandezza umana.

Allora, camminiamo con Cristo. Adesso, se guardiamo la storia delle nostre Chiese, di tutta la cristianità, vediamo che c’è un continuo movimento. E questo movimento è sempre stato accompagnato da manifestazioni di bellezza, di libertà, di verità. A un certo momento c’è stata una chiusura e, anche dentro la Chiesa, abbiamo prodotto delle cose opprimenti, brutte, squallide, penose, perché la cristianità ha pensato di dare una definizione totale e perfetta di Cristo. E Cristo invece era al di fuori.

Allora la bellezza è nata al di fuori, la libertà è nata al di fuori, la ricerca della verità è nata al di fuori di questa struttura che si è chiusa. Ora noi sentiamo tutto il peso di questa chiusura che è avvenuta secoli fa. E come dobbiamo liberarcene? Camminando con Cristo.

Camminare con Cristo significa disseminare i nostri passi di crescente bellezza, di canto sempre più avvincente e più nostalgico della vita divina, di libertà sempre maggiore e più profondamente rispettosa dell’uomo, creando delle strutture talmente fragili che accompagnino il nostro cammino di pellegrinaggio come una tenda, che oggi stabiliamo in un posto, domani in un posto più avanzato.


Di questo dobbiamo persuaderci: attorno a Cristo non ci sono né cose brutte, né cose passate, né vecchi fermenti, né cose morte, ma c’è un rinnovamento continuo di vita. Ora, nel rinnovamento della vita, se noi partiamo dalla nostra piccolezza umana, creiamo sempre delle cose sbagliate, delle cose opprimenti, delle cose che non ci liberano. Se invece partiamo da quest’asse centrale che è nel nostro essere e che è Cristo, allora anche le nostre costruzioni saranno vere, saranno apportatrici di bellezza, di libertà, di amore, di respiro a tutti gli uomini.

Credo che seguire Cristo, oggi, imponga a noi una più profonda conoscenza della realtà di Cristo, un amore più appassionato di quello che è Cristo, non delle figure che la storia umana ha dato di Cristo, ma di quello che è Cristo nella sua purezza e nella sua essenza. E dopo dobbiamo muoverci, con questa ricchezza, con questo accrescimento di vita nel cuore, sicuri che tutto ciò che faremo sarà fatto in nome di Cristo e nella presenza di Cristo. E poi costruire sempre, ma costruire pensando al domani e non all’oggi, pensando di dare al nostro canto una latitudine che abbracci le generazioni che seguiranno, di dare alla nostra bellezza un tale respiro che possa essere comprensibile e illuminante anche per le generazioni che verranno dopo di noi.

Dobbiamo muoverci nello spazio di Cristo, e lo spazio di Cristo è l’infinito tempo,  l’infinito orizzonte, il «sempre oltre». Il sempre oltre al presente, il sempre oltre a tutte le realizzazioni che noi uomini possiamo compiere anche nel suo nome. Allora le cose che facciamo avranno sicuramente, anche se legate al tempo e allo spazio, il profumo dell’eternità e avranno il profumo del non spazio, perché nascono da questa nostra comunione profonda con il mistero di vita che è il Cristo, che è nel nostro cuore. E dal cuore dobbiamo riuscire a trarre tutte le nostre ispirazioni e tutte le nostre raffigurazioni di ciò che vogliamo compiere nel nome di Cristo.

(1) Omelia pronunciata domenica 27 giugno 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). In La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; 13a domenica del tempo ordinario: «Camminare con Cristo». Anno C. Pag. 145-149.




Nelle nostre parrocchie
i semi del dialogo e dell'unità
di Olivo Bolzon




Il dettato della Costituzione europea, ormai definitivo, non include le famose "radici cristiane" che Giovanni Paolo II e tutte le Chiese europee volevano includere. Sembra insufficiente e vago il preambolo che parla genericamente di una spiritualità capace di animare la nuova Europa e dell'art. 51 che proclama la libertà religiosa come bene necessario per la vita del nostro Continente.

Il nostro sguardo di credenti è però ottimista, perché si radica su un'affermazione evangelica che ci pare ancora più forte e impegnativa: « Li riconoscerete dalle loro azioni... Si può forse raccogliere uva dalle spine o fichi da un cespuglio? Se un albero è buono, fa frutti buoni; ma se un albero è cattivo, fa frutti cattivi. Un albero buono non può fare frutti cattivi, così come un albero cattivo non può fare frutti buoni. Ma un albero che non fa frutti buoni si taglia e si butta nel fuoco... Dunque, è dalle loro azioni che riconoscerete i falsi profeti» (Matteo 7,16-20).

L'ecumenismo ci ha abituati a confrontarci con il mondo a partire dall'impegno quotidiano delle Chiese, a riconoscere che la validità del Vangelo è la testimonianza dei credenti e la comunione tra le Chiese. Al di là di quello che può scrivere la Costituzione è importante per la nuova Europa, un nuovo modo di essere delle Chiese, una comunione reale nella celebrazione della Parola e del Sacramento, efficace e capace di mostrare la fraternità di tutti. Interesserà molto alla nostra Europa vedere la vita dei discepoli di Cristo: rendersi conto che le relazioni tra i popoli europei non possono essere fondate solo su impegni economici e commerciali. L'unità non è reale se si regge solo su legami economici, se è impegnata a occupare nuovi mercati, a vincere le varie competizioni tecnologiche. Le Chiese unite possono dare la speranza di realtà umane nuove e più autentiche.

«Proprio ad Antiochia, per la prima volta, i discepoli furono chiamati cristiani» (Atti 11,26). L'Europa che sta nascendo ha bisogno di vedere persone che hanno fiducia, intessono tra loro relazioni di amicizia e sono in grado di mostrare con la vita quanto l'apostolo Pietro ha scritto: «Siate sempre a rispondere a quelli che vi chiedono spiegazioni sulla speranza che avete in voi» (1 Pietro 3,15).

Il cammino ecumenico percorso dalle Chiese ci autorizza a sperare e a vedere segni evidenti di un nuovo futuro. Le "orme ecumeniche" sono segni poveri, facilmente cancellabili, ma testimoniano che qualcosa di nuovo è già nato e crescerà. Non ci riferiamo solo ai grandi incontri come la visita del cardinai Kasper a Mosca nello scorso febbraio che pure ha portato il frutto della creazione di una "Commissione mista cattolico-ortodossa" per studiare e sciogliere i nodi ancora esistenti. È stato un grande evento anche l'abbraccio tra Bartolomeo I e Giovanni Paolo II nella festa dei Santi Pietro e Paolo. Molte però e più modeste sono le realtà che i cristiani d'Europa vivono, e grande il carico profetico che il quotidiano in gesti semplici mostra a tutti. Stiamo inaugurando un nuovo stile di vita, una comunione di fede che supera tante difficoltà esistenti in passato.

Anche nelle nostre parrocchie più tradizionali sarebbe ormai impossibile arroccarsi su affermazioni che erano costume e persuasione nella nostra educazione cattolica. Basterebbe ricordare quanto scriveva nel 1928 Pio XI nell'enciclica Mortalium animos: «Ma dove parvenze di bene ingannano più facilmente parecchi, è quando si tratta di promuovere l'unità fra tutti quanti i cristiani. Si sente ripetere con insistenza che non solo è giusto, ma doveroso e quanti invocano il nome di Cristo si astengano da reciproche recriminazioni e si stringano una buona volta in vincoli di vicendevole carità... Eppure sotto codeste attrattive e lusinghe si nasconde un gravissimo errore che scalzerebbe dalle basi il fondamento della Chiesa cattolica... Risulta quindi evidente, venerabili fratelli il motivo del permanente divieto posto da questa Sede Apostolica ai fedeli di partecipare a riunioni degli acattolici. L'unico modo possibile di favorire l'unità dei cristiani è di agevolare il ritorno dei dissidenti all'unica vera Chiesa di Cristo».

Giovanni Paolo II parla oggi di un cammino ecumenico irreversibile e necessario, di un dialogo tra le Chiese in vista di una visibile unità «perché il mondo creda». Chi accoglie questo grande segno dei tempi rinnova la propria fede e ritrova un'impegnativa appartenenza alla propria Chiesa.

(da Jesus, agosto 2004)


Il fallimento del progetto di Dio
Gn 3-11 e le «strutture di peccato»
di  Gaetano Castello


Proponiamo una lettura dei capitoli 3-11 della Genesi tra i più noti della letteratura biblica, cogliendo alcuni interessi spunti sul dilagare del peccato nel mondo e la sua tendenza ad organizzarsi in «strutture di peccato». Si tratta solo di «spunti» offerti come contributo per una riflessione avvertita, non solo dai credenti, come necessaria ed urgente.

Introduzione



Gn 1-11 costituisce nel suo insieme la grande introduzione alla storia di Israele che, secondo la narrazione biblica, ebbe le sue remote origini nella chiamata di Abramo (Gn 12,1-3). Tesi generale di quei capitoli è che il progressivo allontanamento dell’uomo da dio pone le basi per una alleanza particolare, quella con Abramo, preludio all’Alleanza del Sinai. Si danno insomma le motivazioni per comprendere come mai Dio abbia eletto un popolo proponendogli una alleanza e vivendo con esso un rapporto privilegiato. Questa impostazione deriva dall’intento stesso dei compositori e dei redattori del racconto come risulta dall’osservazione attenta dei due documenti fondamentali che, composti in epoche diverse, sono stati poi raccolti insieme a formare l’attuale narrazione. In ognuno dei due antichi documenti, ricostruiti attraverso l’ausilio della critica letteraria, si intravede questo motivo di fondo benché espresso in maniera diversa.
Gli antichi documenti, detti «Jahvista» e «Sacerdotale», si sono serviti, a loro volta di un materiale preesistente, la cui origine è da ricercare nell’ambiente del vicino oriente antico; si tratta prevalentemente dei cosidetti «miti delle origini», racconti in cui si tentava di chiarire il senso della vita, della morte, dei problemi umani a partire da situazioni archetipe, «originarie». È una maniera pre-scientifica e pre-filosofica, ma non per questo meno vera, di affrontare le grandi domande dell’esistenza.



1. Il peccato come scelta dell’uomo




Proprio dal confronto con miti del vicino oriente antico si coglie il messaggio particolare di cui il testo biblico è portatore: il peccato, in Gn 3-11, non è frutto di una lotta mitica tra gli dei; la miseria e il caos che regnano in tante situazioni umane non vengono attribuiti semplicemente ad una vicenda svoltasi fuori del tempo, su di un piano diverso da quello umano, il piano della divinità. Non si proiettano, insomma, sulle vicende umane le conseguenze di vicende divine. Il campo viene sgombrato da una delle principali componenti dei miti delle origini: quanto di peccaminoso e di disordinato vi è nella storia umana, dipende dalle scelte dell’uomo, ‘ādām.
L’equilibrio Dio-uomo-natura, descritto nel suo insieme dai primi due capitoli della Genesi, è messo in discussione dall’atteggiamento dell’uomo e della donna chiamati, perchè immagine di Dio, ad esercitare la loro responsabilità nel gestire armonicamente quel rapporto. In Gn 3-11 si descrive il dilagare del peccato nella vita umana a causa del rifiuto da parte dell’uomo di vivere responsabilmente i rapporti col suo creatore, provocando, nel contempo, rapporti squilibrati degli uomini tra loro e con la natura. Questo motivo centrale, su cui la tradizione ebraica e cristiana ha continuamente riflettuto a partire dal concetto di peccato e di responsabilità «personali», ha un risvolto non meno importante rappresentato dal dilagare del peccato nell’organizzazione stessa della vita umana, nella civilizzazione del mondo e nella cultura. È l’altra faccia di quella eredità del peccato di cui parla S. Paolo (Rm 5,12-14).



2. L’istinto del «mangiare»




La caduta di Adamo ed Eva (Gn 3), originata dalla trasgressione dell’ordine divino di non mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, viene rappresentata significativamente dall’atto quotidiano e vitale del «mangiare». Il verbo ‘ākal, che ricorre insistentemente nella narrazione, scandisce le varie fasi della storia del primo peccato dell’uomo. Richiamati dalla voce del serpente, Adamo ed Eva rinunciano a gestire responsabilmente la propria libertà escludendo dall’orizzonte della scelta il creatore e il suo divieto. Si tratta del trionfo dell’istinto che però finisce per compromettere non solo i rapporti tra gli uomini ed il creatore ma anche i rapporti dei due tra loro e con il creato. L’albero della conoscenza, come tutto il resto, viene ordinato semplicemente a soddisfare l’istinto del mangiare, un istinto non negativo in se stesso (2,16) ma da controllare perché non si trasformasse nell’incontrollabile spinta a «divorare» indistintamente quanto si presentava deisderabile. La prima conseguenza del gesto viene annotata con poche ma significative parole nel v. 7: Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Con una conclusione che in parte rende ragione alle promesse del serpente «si aprirono loro gli occhi», si mette immediatamente in evidenza la scoperta della nudità che, diversamente da un’interpretazione di tipo sessuale spesso associata alla nudità ed allo stesso peccato originale, indica la vulnerabilità. Si tratta qui di una conoscenza non individuale ma sociale. Il bisogno di protezione dell’uno nei confronti dell’altro ha ragione di essere proprio per quanto accadrà nella seconda scena del racconto (3,8-13) in cui l’uomo scaricherà la sua responsabilità sulla donna e questa sul serpente.
Il bisogno di coprirsi di fronte all’altro diventa bisogno di nascondersi davanti a Dio: Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,9-10).
Il testo indica come effetto primario della trasgressione non tanto il sentimento più ovvio del rimorso, della colpa, quanto il percepire l’altro come potenziale nemico avvertendo la propria vulnerabilità.
Alla descrizione della caduta (vv. 1-7) e all’indagine divina (vv. 8-13), segue la terza scena (vv. 14-19), la sentenza di Dio, in cui con le maledizioni divine si evidenziano le conseguenze della trasgressione. Si osservi innanzitutto che la maledizione di Dio è relativa esclusivamente al serpente ed al suolo mentre per l’uomo e la donna si esplicitano le conseguenze frutto della nuova situazione creatasi: rapporto di dominazione tra l’uomo e la donna (v. 16), e disarmonia tra l’uomo e la terra (vv. 17-19):
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per casa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».
La scelta di farsi guidare dall’istinto del mangiare ha come effetto immediato la configurazione di nuovi rapporti. Il bisogno di coprirsi risponde, come conseguenza del peccato, all’appetito del serpente di colui che mangia. L’altro è non più ‘ezer «aiuto», «alleato» (2,18) ma il possibile aggressore. Tale conseguenza si rende evidente nel tipo di rapporto che si configura tra la donna e l’uomo al v. 16: «... Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il termine ebraico te šûqāh tradotto con «istinto», è da intendere come desiderio di impadronirsi di una persona. Il dominio (radice ebraica YRD) che nel primo capitolo si riferiva alla superiorità dell’uomo sulle altre specie viventi (1,26.28), entra nel rapporto uomo-donna rendendo ambigua la stessa struttura familiare come vissuta nei secoli ed esperita in molti casi anche oggi.
La seconda alterazione avviene tra l’uomo ‘ādām e la terra ‘ādāmāh da cui l’uomo è stato tratto e a cui è destinato. Il rapporto con la terra, precedentemente descritto nei termini pacifici del  1coltivatore e custodire» (2,15), diventa teso. Vi è quasi una resistenza della terra nell’offrire all’uomo i suoi frutti, un uomo guidato dall’istinto del mangiare, di appropriarsi di ciò che stimola il suo appetito. Ritroveremo questa problematica al termine del racconto del diluvio, in cui si registra la trasformazione ormai avvenuta nel rapporto tra l’uomo e il mondo animale, un rapporto connotato dal timore e terrore del bestiame nei confronti dell’uomo (9,1-4).
Il peccato, la rinuncia ad esercitare la responsabilità di fronte all’Altro , al Creatore, ha generato una alterazione dei rapporti uomo-donna e uomo-natura attraverso il dominio dell’istinto del «mangiare», di impossessarsi di ciò che appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile» (3,6). Siamo qui all’origine non solo del peccato dell’uomo come singolo individuo, ma all’origine di un modo sbagliato di stabile i rapporti tra le persone e con il mondo. È a partire da questa logica che la prassi di dominio dell’uomo sulla donna, finisce per assumere una funzione strutturale, trasmessa cioè dalle istituzioni culturali, economiche, religiose, dai comportamenti sociali. Il racconto della Genesi con il suo invito a meditare sull’«origine» dell’umanità, tende a stimolare una rinnovata coscienza del rapporto autentico tra uomo e donna, e più generalmente tra le persone, per fondare una prassi di vita critica rispetto ai presupposto stessi delle «strutture» umane.
L’atteggiamento «divoratore» nei confronti della terra richiederà degli interventi limitativi di Dio (9,4), laddove non è risultato sufficiente l’appello alla responsabilità. Si tratta anche qui di una logica che fonda una prassi generatrice di «strutture di peccato», atteggiamenti che cioè si strutturano nell’agire sociale, nella cultura tanto da non tendere più immediatamente percepibile la responsabilità del singolo. Proprio nello squilibrio tra l’uomo e la natura, nell’atteggiamento «divoratore» non del singolo ma di modi di organizzare la società e di soddisfare i suoi crescenti bisogni, si assume oggi, drammaticamente, la consapevolezza di come il peccato dell’uomo «divoratore» abbia assunto dimensioni sovra-personali, appunto «strutturali».



3. Il dilagare della violenza




Due testi in particolare ci aiutano ad approfondire la nostra ricerca: la storia di Caino e della sua discendenza e la storia del diluvio.
La narrazione famosa del primo omicidio della storia, che non a caso si configura come fratricidio mettendo in luce la comune «origine» degli uomini, viene solitamente considerata nel suo valore esemplare, e non senza ragione, per la descrizione della dinamica della violenza nel rapporto tra gli uomini su cui si è riflettuto solitamente a partire dalla responsabilità personale. Ma la storia di Caino, il personaggio principale della narrazione, continua con la storia della generazione che con lui ha inizio: Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio. A Enoch nacque Irad... e Metusaél generò Lamech. Lamech si prese due mogli: una chiamata Ada e l’altra chiamata Zilla. Ada partorì Iabal: egli fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame. Il fratello di questi si chiamava Iubal: egli fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto. Zilla a sua volta partorì Tubalkàin, il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro (4,17-22).
Caino è il costruttore della prima città, posto cioè alla base della società umana. Non solo. Viene espressamente detto dal testo che dalla sua discendenza ha origine, nel suo complesso, la civiltà umana e la sua ossatura economica: la vita pastorale (4,20), la musica (4,21), la metallurgia (4,22). Tutta la civiltà porta il peso della colpa di Caino.
Non a caso padre di coloro che si specializzeranno nelle diverse arti è Lamech, discendente di Caino, di cui viene proposto il modo di pensare, la logica del suo comportamento, attraverso un canto, il secondo della Bibbia dopo quello della gioia di Adamo per la creazione di Eva (2,23):
Lamech disse alle mogli:
«Ada e Zilla, ascoltate la mia voce;
mogli di Lamech, porgete l’orecchio al mio dire:
Ho ucciso un uomo per mia scalfittura
E un ragazzo per un mio livido.
Sette volte sarà vendicato Caino
Ma Lamech settantasette» (4,23-24)
La logica che guida l’agire dell’uomo nella società che da Caino è nata è quella espressa da Lamech nel suo orgoglioso canto della violenza (Ho ucciso per una scalfittura e per un livido) moltiplicata (settantasette colte).
È utile considerare, sia pure brevemente, le principali caratteristiche dell’omicidio commesso da Caino, in cui si ritrovano le scelte che hanno per così dire ispirato, sostenuto, al di là di Caino stesso il dilagare la violenza.
La narrazione della vicenda offre poche informazioni sui personaggi, vengono messe però in risalto le differenze che caratterizzano i due «fratelli»:
Poi (Eva) partorì ancora suo fratello Abele. Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo (4,2).
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso... (4,3-4).
La prima differenza è culturale. Indicando i due diversi lavori il testo richiama la distanza esistente tra il mondo agricolo e quello pastorale, due occupazioni dietro le quali si configura una diversa organizzazione della vita.
La seconda differenza, che scaturisce immediatamente dalla prima, è cultuale: l’offerta caratterizza il tipo di culto, diverso evidentemente nelle due culture, quella agricola e quella pastorale.
Il dramma ha inizio proprio da questa differenza tra «fratelli», una differenza messa in evidenza nella diversa accoglienza dell’offerta da parte di Dio. Da sempre la domanda sul motivo che Dio avrebbe avuto per prediligere un’offerta e non l’altra, è stata al centro dell’attenzione dei lettori. Il testo non si preoccupa di offrire una motivazione convincente, indica invece con chiarezza il punto di partenza della vicenda: la differenza. E in ultima analisi è proprio questa «differenza» non accettata che crea la crisi di fronte alla quale Dio interviene stimolando Caino alla riflessione, a prendere le distanze rispetto al pericolo di cedere ad un comportamento istintivo, tendente a eliminare la differenza (4,6-8).
AI rifiuto della differenza fa seguito, nella dinamica innescatasi in Caino, il rifiuto della responsabilità che nasce direttamente dal suo essere il «fratello». Non a caso il termine «fratello» è ripetuto sette volte nei versetti 1-11 tanto da costituire il filo conduttore del testo. Nella sua risposta Caino non solo mente dicendo di non sapere dove sia Abele, ma giustifica la menzogna rifiutando la responsabilità che deriva dall'esserne «fratello», una responsabilità molto più sentita in un tempo in cui l'istituto familiare costituiva il riferimento principale se non esclusivo per la sicurezza dell'individuo di fronte ad un mondo minaccioso ed agli inconvenienti della vita. Rifiuto della differenza e rifiuto della responsabilità di «fratello» costituiscono, in maniera diversa, i due momenti tragici che motivano e giustificano il primo gesto violento dell'umanità. Con Lamech, come abbiamo visto, questa logica della violenza viene posta esplicitamente alla base di un agire che viene ad iscriversi, benché non deterministicamente, nello stesso sviluppo della società umana.
L 'alterazione prodotta dall'azione di Caino viene segnalata sia nella conclusione del testo con il nuovo tipo di rapporto che si stabilisce tra Caino ed il suolo (4,12), sia nella minaccia di violenza che viene da chiunque incontrerà Caino (4,14).
Che la «logica della violenza» riesca a costituire un vero e proprio modo di vivere guidando e giustificando atteggiamenti comuni ad essa ispirati, appare evidente sia dal testo di Lamech, già considerato, sia, più avanti, dall'amara constatazione divina circa il dilagare di corruzione e violenza sulla terra (6,5.12.13).



4. Babele, la «porta del cielo»



Nel racconto umoristico della «torre di Babele» (Gn 11,1-9) la tecnica costituisce il nuovo supporto di una società che si organizza con l'intento di distinguersi dagli altri popoli: Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (11,3-4).
La volontà di distinguersi, «facciamoci un nome», è associata alla pretesa capacità di raggiungere il cielo. La torre di Babele diventa così la grande metafora dell'orgoglio dell'uomo civilizzato, sostenuto dall'idea che il progresso tecnico sia la chiave per «raggiungere il cielo». L 'intervento di Dio (vv. 6-9), la sua punizione, consiste non a caso nella dispersione, nella differenziazione che si esprime con la molteplicità delle lingue.
Distinguersi dagli altri popoli in virtù delle capacità tecniche alle quali è affidato il senso della riuscita umana, della risposta all'aspirazione umana verso l'Infinito rappresenta, sul-
la base del racconto genesiaco, un aspetto della logica del peccato animatrice di strutture di peccato.



Conclusione



Abbiamo indicato alcune piste di riflessione offerte da Gn 3, 11 sulla diffusione di logiche di peccato che tendono a diffondersi ed organizzarsi in strutture sovra-personali, vere e proprie «strutture di peccato». Senza nulla togliere al carattere personale del peccato (la sua origine demoniaca e l'aspetto individuale), ci sembra che il testo della Genesi suggerisca all'uomo una visione disincantata del mondo e delle strutture nelle quali egli si trova ad operare. La logica del peccato che nel racconto di Caino viene a configurarsi come logica della violenza, non solo si trasmette (Caino -Lamech -generazione diluviana) coinvolgendo in maniera sempre più anonima e generale gli uomini, ma viene amplificata dall’agire individuale, dal contributo del singolo (Lamech).
Rispetto a questa constatazione, intraprendere vie diverse, rispettose dell’equilibrio originario voluto dal creatore (Set, Noè... Abramo), costituisce una possibilità per l’uomo, una possibilità concessa in maniera definitiva da Gesù Cristo.
Sono molti i richiami storici e anche di attualità che ci inviterebbero a proseguire su questa pista di riflessione. Si pensi, per es., alle strutture economiche del mondo capitalistico che sovrastano l’individuo, rendendolo partecipe di meccanismi che esigono, a livello sovra-personale, quel rifiuto delle differenze e della fraternità in nome dell’esigenza «divoratrice» del capitale.
Una campo fecondo per una riflessione etica, già avviata in questo senso e che può trovare, ci sembra, un utile supporto in Gn 3-11 in vista di un impegno più incisivo del singolo e della comunità dei credenti in dialogo con gli uomini di buona volontà.

(da Parole di vita, 2, 2004)



Le Chiese dell'oriente cristiano
I. La chiesa assira dell’est o d’oriente
di Mervyn Duffy




Non è conosciuto esattamente  il tempo in cui il cristianesimo  ha messo le  radici nella Mesopotamia superiore, ma una presenza cristiana certamente vi era già  presente   a meta’ del II secolo. Nel terzo secolo, la zona fu conquistata dai persiani. Anche se ciò doveva farne una chiesa multi-etnica la gente assira tradizionalmente ha svolto un ruolo centrale nella relativa vita ecclesiale. La relativa posizione geografica l’ha condotta  ad essere conosciuta semplicemente come "la chiesa dell'est."

Intorno all'anno 300, i vescovi  sono stati organizzati in una struttura ecclesiastica sotto la direzione di un Catholicos, il vescovo del capitale reale persiana a Seleucia-Ctesifonte.  Questi successivamente ricevette anche il titolo  aggiunto di Patriarca.

Nel quinto secolo, la chiesa dell'est ha gravitato verso la forma  Antiochena di  Cristologia che era stata formulata da Teodoro di Mopsuestia e da  Nestorio  rompendo così la comunione con la chiesa nell'impero romano. Ciò fu dovuta in parte all'influsso significativo dei cristiani nestoriani della Persia ed avvenne dopo la condanna del cristologia di Nestorio  durante il Concilio di Efeso nel 431 ed in seguito all'espulsione dei nestoriani dall'impero romano ad opera dell’Imperatore Zenone (474-491). In più, i cristiani persiani presero le distanze dalla chiesa ufficiale dell'impero romano, perchè con esso la Persia era frequentemente alla guerra. In questo modo potettero vivere e professare la loro fede cristiana evitando di essere sospettati di essere dei collaboratori dell’impero romano

I Sinodi assiri del V secolo stabilirono delle norme ecclesiastiche, ad esempio il celibato non era obbligatorio per nessun membro del clero, neanche per i vescovi, per cui molti vescovi e patriarchi sono stati sposati finche’ nel VI secolo fu presa la decisione di ordinare vescovi soltanto i monaci che erano ovviamente celibatari. Ai preti tuttavia fu sempre permesso sposarsi anche dopo l’ordinazione.

La Chiesa assira dell’est è sempre stata una minoranza nella Persia zoroastriana, ma per molti secoli e’ stata fiorente  anche negli studi grazie alla famosa scuola di Nisibi. Ha avuto anche una grande  espansione missionaria  che l’ha portata fino in India, in Cina, in Tibet, in Mongolia
Ciò è continuato anche dopo la conquista della  Mesopotamia da parte degli arabi nel VII secolo  Il Patriarcato fu spostato a Bagdad dopo il 766. 

Nel 1318 vi erano ancora circa 30 sedi metropolitane con circa  200 diocesi suffraganee. Ma durante le invasioni di Tamerlano verso la fine del quattordicesimo secolo, questi cristiani furono quasi distrutti e nel  sedicesimo secolo erano  ridotti ad una piccola comunità di assiri in  quella che  ora è la Turchia orientale.  un ulteriore indebolimento di questa chiesa derivò anche dalla nascita della chiesa cattolica caldea .

Durante la prima guerra mondiale,  gli assiri  soffrirono molto a causa delle deportazioni e dei grandi massacri operati dai Turchi che li sospettavano di simpatie e di collaborazione con il nemico britannico Circa un terzo della popolazione assira fu sterminato. La maggior parte dei superstiti  fuggì  verso il sud in Iraq, sperando di essere protetta dai britannici. Ma nel 1933, terminato il mandato   britannico in Iraq, un disaccordo fra le truppe dell'Iraq e gli assiri si concluse con un altro massacro e con una dispersione ulteriore della Comunità. Le autorità irachene allora privarono il patriarca assiro  Mar Simon XXIII della sua cittadinanza e lo espulsero, così che dovette andare in esilio a San Francisco, California,  U.S.A.

Nel 1964 una disputa nacque  all'interno della chiesa, a causa della decisione di Mar Simon  di adottare il calendario gregoriano. Ma il problema reale era la persona di Mar Simon e l’antica pratica secolare con cui era stato scelto. Dal 1450, l'ufficio del patriarca e qualche altra sede vescovile erano diventato ereditarie  per alcune famiglie, solitamente trasmettendo la carica da zio a nipote Ciò aveva prodotto spesso dei pastori incompetenti essendo stati spesso scelti in eta’ troppo giovanile: Mar Simon stesso era stato scelto all'età di 12 anni. I dissidenti inoltre  sostenevano che fosse indispensabile che il Patriarca vivesse in Iraq con la sua comunita’

Gli oppositori di Mar Simon erano sostenuti  da Mar Thomas Darmo, il metropolita assiro dell'India. Questi nel 1968 si recò dall'India a Bagdad e vi ordinò tre nuovi vescovi. In tale occasione il Sinodo lo elesse Patriarca contro Mar Simon. Mar Thomas Darmo morì durante l’anno  seguente ed il suo successore fu Mar Addai di Bagdad.

Ma nel 1973  Mar Simon  si dimise dall’ufficio patriarcale e si sposò. Poichè  non fu possibile trovare un accordo sulla persona del successore, i vescovi assiri in comunione con lui tentarono di persuaderlo a riprendere il suo ufficio malgrado la sua unione coniugale. Ma durante queste trattative, il 6 novembre 1975, Mar Simon fu assassinato a San Jose, in California. Il vescovo di Teheran, Iran,  fu scelto come patriarca nel 1976  e prese il nome di Mar Dinkha IV.  Risiede  negli Stati Uniti.


L’elezione di Mar Dinkha ha indicato chiaramente che l’epoca della dinastia patriarcale si è infine conclusa. Ciò ha rimosso il motivo principale dello scisma  fra i due gruppi e, anche se la ferita non è ancora completamente rimarginata, le riunioni recenti fra i vescovi delle  due parti sembrano realizzare  progressi notevoli verso la soluzione della disputa. Attualmente la parte di Mar Dinkha ha undici vescovi e la parte di Mar Addai ne ha cinque .

Nel luglio 1994, in Australia, il Santo Sinodo Assiro prese un certo numero di decisioni importanti riguardo alla vita della Chiesa.  I vescovi hanno creato una commissione per le relazioni intraecclesiali e sullo sviluppo di formazione sotto la guida  del vescovo Bawai Soro per prepararsi  ai dialoghi teologici con  le altre chiese e per sviluppare la programmazione nella formazione religiosa. Il Sinodo ha inoltre stabilito ufficialmente la residenza del patriarca a Morton Grove, Illinois, USA.

Una pietra miliare nei rapporti con la chiesa cattolica è stata posta  il giorno 11 novembre 1994, quando Mar Dinkha IV e papa Giovanni Paolo II hanno firmato una dichiarazione comune di cristologia in Vaticano.
La dichiarazione afferma che i cattolici e gli assiri  "sono uniti oggi nella confessione della stessa fede nel Figlio di Dio..." e prevede una vasta cooperazione pastorale fra le due chiese, particolarmente negli ambiti della catechesi e nella formazione dei  futuri preti. Il papa ed il patriarca inoltre hanno istituito un comitato misto per il dialogo teologico e lo hanno incaricato di studiare il possibile superamento degli ostacoli che ancora impediscono la comunione completa. Il comitato ha iniziato i suoi incontri annuali nel 1995.

Questo dialogo teologico internazionale tra Chiesa Assira e Chiesa Cattolica ha prodotto  un miglioramento dei rapporti fra la Chiesa Assira dell'est e le relative controparti cattoliche, in particolare con la Chiesa Cattolica Caldea. Nel novembre 1996  Mar Dinkha IV ed il patriarca caldeo Raphael I Bidawid, recentemente scomparso, si sono incontrati  a  Southfield, nel Michigan ed hanno firmato una dichiarazione congiunta per lavorare verso una reintegrazione di rapporti e per un impegno di cooperazione pastorale, quali la progettazione di un catechismo comune, la creazione di un seminario comune nella zona di Chicago-Detroit, la conservazione della lingua aramaica ed altri programmi pastorali comuni di cooperazione fra le parrocchie e fra le diocesi  nel mondo. E’ stato ad esempio deciso  che i fedeli assiri possono partecipare alle liturgie
caldee e viceversa  nei casi in cui, gli uni o gli altri,  mancassero di sacerdoti del proprio rito.


Il 15 agosto 1997, i due patriarchi si sono ancora incontrati a Roselle,  nell’Illinois  ed hanno ratificato "Un Decreto Sinodale congiunto per la Promozione dell'Unità," che è stata firmato dai membri di entrambi i Sinodi. Il Decreto ha ridefinito le aree della cooperazione pastorale previste nella dichiarazione patriarcale congiunta, ha stabilito che Assiri e Caldei debbono riconoscere vicendevolmente come legittime le diverse prassi delle due chiese, hanno formalmente istituito  una “Commissione  Assiro Caldea per l’Unità," e dichiarato di riconoscere reciprocamente la successione apostolica, i sacramenti e la testimonianza cristiana dell'altro. Il testo  ha inoltre espresso le preoccupazioni fondamentali di entrambe le parti nel dialogo. Entrambe le chiese hanno desiderato conservare la lingua e la cultura aramaica,  Ma gli Assiri ritengono di voler conservare pienamente la loro libertà e l’autogoverno mentre i Caldei hanno affermato la necessità di  stabilire la piena comunione con Roma.

Nel 1997 è stato annunciato che la chiesa Assira dell’est e la della chiesa Ortodossa Siriaca avevano deciso di creare un dialogo teologico bilaterale, e come gesto  per promuovere  rapporti migliori con le chiese ortodosse orientali, il Santo Sinodo Assiro ha deciso nel  1997 di rimuovere dalla sua liturgia tutti gli anatemi  diretti contro altri cristiani.

Anche se gli Assiri accettano soltanto i primi due consigli ecumenici, le discussioni ecumeniche recenti  tenute sotto gli auspici della fondazione Pro Oriente  hanno concluso che in sostanza la fede della chiesa Assira è in accordo con l'insegnamento cristologico del Concilio di Calcedonia (451).

La chiesa  aderisce ufficialmente alla terminologia cristologica antiochena , secondo cui in Cristo ci sono  due nature e due qnoma ( un termine siriano che non ha l’equivalente nel greco ) in una persona.  Il  sinodo dei  vescovi assiri ha chiesto di non chiamare nestoriana la loro chiesa, poiché questo termine è stato usato in passato in senso offensivo.

Il rito siriaco orientale della Chiesa Assira sembra essere uno sviluppo indipendente dell’antica liturgia siriaca  di Emessa e conservare anche degli elementi di un rito persiano antico che è andato perduto. I servizi liturgici sono celebrati principalmente  in siriaco.

In America del Nord, il Patriarca risiede nella zona di Chicago a Morton Grove, nell’Illinois. Mar Aprim Khamis è vescovo degli Stati Uniti orientali ed inoltre amministra le parrocchie degli Stati Uniti occidentali. Mar Bawai Soro  mantiene  la supervisione episcopale di due parrocchie anglofone situate a Seattle, Washington ed a Sacramento, in California.

Complessivamente ci sono 16 parrocchie nel paese. Mar Emmanuel Joseph è vescovo del Canada, dove sono quattro parrocchie e due missioni . Gli Assiri, in Australia ed in Nuova Zelanda,  hanno tre parrocchie e due missioni, che fanno riferimento a  Mar Meelis Zaia.  Vi è inoltre una parrocchia assira  a Londra sotto la giurisdizione di Mar Odisho Oraha, che risiede in Svezia.

NAZIONI IN CUI E’ PRESENTE IL RITO ASSIRO: Iraq, Iran, Siria, Libano, America del Nord, Australia, India

PATRIARCA: Mar Dinkha IV (nato 1935, scelto 1976)
Titolo: Catholicos-Patriarca della Chiesa dell'Est
Residenza: Morton Grove, Illinois, U.S.A.
Cristiani assiri: 400.000

WEB SITE: http://www.cired.org

Giovedì, 02 Dicembre 2004 00:17

Introduzione (Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano

Introduzione
di Mervyn Duffy


Molti cristiani occidentali sono meravigliati  dalla complessità dell'est cristiano, che in effetti appare come un conglomerato, poco chiaro, di chiese nazionali e di giurisdizioni etniche, questa perplessità ovviamente riguarda una mentalità occidentale e cattolico-romana. Lo scopo di questa esposizione è quello di  fornire una descrizione  delle chiese orientali a delle persone ne’ specialiste, ne’ competenti nel settore.

Ogni chiesa sarà considerata nel suo contesto storico, geografico, dottrinale e liturgico.  Con un particolare riguardo per i territori anglofobi, perché negli anni, vicissitudini complesse hanno portato molti cristiani di rito orientale ad emigrare.

La parola chiave che sarà usata in questo libro per parlare delle chiese sarà quella di “COMUNIONE”. Descriveremo cioè essenzialmente i gruppi di chiese che sono in completa comunione tra loro.

Questo metodo prenderà in considerazione  quattro distinte COMUNIONI di cristiani orientali separati:
(1) La chiesa Assira dell'est, che non è  in   comunione con  altre chiese;

(2) Le sei chiese ortodosse orientali, che, anche se ciascuna è indipendente, sono in comunione  completa tra loro;

(3) La chiesa ortodossa, che è una comunione di chiese nazionali o regionali, che riconoscono il patriarca di Costantinopoli come punto di unità e che gode di determinati diritti e privilegi; 

(4) Le chiese cattoliche orientali, che sono  in comunione con la chiesa di Roma e con il suo Vescovo, il Papa. L'ordine in cui queste quattro comunioni sono elencate non è di particolare importanza; riflette soltanto la sequenza cronologica in cui sono emerse come entità distinte.
Unica eccezione  al principio della comunione per la classificazione delle chiese è  costituita dalle chiese ortodosse di condizione irregolare. Le abbiamo incluse come sottocategoria della chiesa ortodossa, ma non sono in comunione completa con essa. Tutte sono di origine ortodossa, ma oggi l'ortodossia le considera come non completamente scismatiche ma anche come non canoniche.

Questa presentazione non è e non vuole essere di parte quindi non prende posizione sui  problemi sospesi e non chiariti tra le varie chiese.

Ad esempio abbiamo elencato le chiese nell'ordine riconosciuto dal Patriarcato di Costantinopoli e dalla maggior parte delle altre chiese ortodosse ed abbiamo aggiunto la chiesa ortodossa d’ America, che è stata riconosciuta come autocefala dal Patriarcato di Mosca ma non da quello di Costantinopoli I quattro patriarcati antichi sono seguiti dai cinque patriarcati di origine più recente e poi  dalle altre chiese autocefale che non hanno il rango di patriarcato.

Una parola deve dirsi circa la condizione della Chiesa Ortodossa d’America (OCA), che abbiamo incluso fra le chiese ortodosse autocefale. Ma Costantinopoli e la maggior parte delle altre chiese ortodosse non riconoscono l'OCA come autocefala. perciò non può partecipare ad attività come i dialoghi internazionali con altre chiese cristiane. Tuttavia, funziona come chiesa autocefala e la  sua ammissione al congresso permanente americano dei vescovi ortodossi canonici indica che ha raggiunto un qualche livello di legittimità tra altre chiese ortodosse negli Stati Uniti.  Abbiamo incluso questa chiesa fra le chiese ortodosse autocefale, con una descrizione della polemica circa la situazione, ma senza prendere posizione.

Le statistiche  dei membri  di queste chiese devono essere trattate con grande attenzione. Molte chiese orientali esistono in zone dove nessun censimento è stato effettuato o dove   una indagine statistica sui membri di quella chiesa potrebbe avere implicazioni politiche esplosive.
Alcuni dati statistici sono stati tratti dai dati in possesso del Consiglio Mondiale delle Chiese, altri dalla Enciclopedia  “Cristiani nel Mondo”, altri dall’Annuario Pontificio .
.

Ma che cos'è questo stress di cui tanto si parla? Sostanzialmente si tratta di un adattamento "forzato" dell'organismo (e della mente) a sollecitazioni particolarmente forti ed intense che provengono dall'ambiente esterno.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti
 




Ventisettesima parte

Per poter scrivere del Carisma Marista è necessario iniziare facendo riferimento al Concilio Ecumenico Vaticano II.

Infatti questo ha riconosciuto alla vita religiosa nella Chiesa il ruolo di segno profetico (vd. Perfectae Caritatis 1a, 12a, 13a); quindi allo stato di vita religiosa spetta un carattere particolare di segno (vd. Lumen Gentium IV 31b (ed esso è un carisma conferito da Dio alla Chiesa (vd. Lumen Gentium II 12,13).

Questo Carisma fondamentale si specifica poi nella grande famiglia delle Congregazioni religiose secondo accenti diversi ed esperienze diverse.
Ma in base a cosa avviene questa specificazione?

In base al legame della singola congregazione con il mistero della Chiesa ed alla sua funzione di rivelare al mondo un aspetto della santità inesauribile di Cristo.

Quindi il Carisma è l’intuizione profonda donata dallo Spirito Santo al fondatore di una congregazione religiosa unitamente al discernimento della fede per comprendere le esigenze del vangelo.

Cercheremo dunque di prendere in esame delle espressioni del P. Colin che ci permettano di esplicitare il Carisma Marista.


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