Ecumene

Martedì, 01 Febbraio 2011 22:07

Buddhismo zen: dottrina e meditazione (Giuseppe Jiso Forzani)

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Buddha utilizza quelle parole, mārga (via), moksha (liberazione), duhkhá (sofferenza), e non altre a formare un'espressione che dice e definisce il suo messaggio: «Ciò di cui io parlo, quello che indico, è la via di liberazione dalla sofferenza».

Buddhismo zen: dottrina e meditazione

di Giuseppe Jiso Forzani  *

1. Il buddhismo come Via di liberazione dalla sofferenza

Le parole scelte per dare un titolo a questo primo aspetto intendono esprimere in modo sintetico una possibile definizione del buddhismo, che lo renda riconoscibile tanto dall'interno che dall'esterno e che mantenga la propria validità identificativa nel corso del tempo e delle mutazioni di forma. In altre parole, una definizione che non intenda essere esclusiva ha solo lo scopo di rendere riconoscibile il fenomeno «buddhismo» sia a chi di quel fenomeno si senta parte, sia a chi lo osservi dal di fuori, senza perdere tuttavia questa propria funzione con il passare del tempo (il buddhismo come fenomeno storico ha venticinque secoli di vita) e con l'inevitabile connesso trasformarsi del fenomeno stesso. Si parte dunque dall'assunto che «il buddhismo come Via di liberazione dalla sofferenza» sia una espressione abbastanza soddisfacente per indicare che cosa il buddhismo è e che cosa non è.

A partire da qui, il passo successivo è riconoscere che in quell'espressione sono contenute tre parole su cui è necessario riflettere: via, liberazione, sofferenza. Riflettere su tali parole vuol dire nel nostro caso cercare di capire due cose: che cosa significano (prese una per una e nel loro insieme connettivo) come enunciati e che cosa significano (singolarmente e unitariamente) come espressioni. In altre parole, che cosa vogliono dire e che cosa dicono.

Analizzare il senso di quelle parole come enunciati (che cosa vogliono dire) significa chiedersi e cercare di comprendere che cosa annunciano, di quale significato sono portatrici, che cosa si è voluto dire e si continua a voler dire usandole, perché proprio quelle e non altre sono portatrici del significato che si vuole esprimere, e dunque, per la nostra indagine, che cosa quelle tre parole significano, che cosa hanno potuto significare per aver assunto importanza nel buddhismo, come possiamo ritenere siano state usate ....

Prenderle in esame come espressioni (che cosa dicono) significa chiedersi che cosa ci dicono nel momento in cui le udiamo, che cosa dicono oggi a me, nella e alla mia esperienza della vita. Le parole sono stimoli che sollecitano tutto il nostro organismo vivente, corpo, mente, spirito, nella sua interazione con il mondo: la qualità, la profondità, le sfumature di significato che una parola assume, pur restando nella forma la stessa, dipendono dalle condizioni interiori ed esteriori di chi le ascolta e le utilizza.

Ci proponiamo di indagare sul perché Buddha le ha usate, le ha pronunciate e come io le ascolto e le ridico. Nella più antica letteratura buddhista (III sec. a. C.) troviamo un'indicazione che si può addurre a sostegno di questo procedimento: una raccolta di 112 discorsi di Buddha prende il titolo ltivuttaka (Così è stato detto), perché ogni singolo discorso inizia con quella formula e si conclude con l'altra evam me sutam (Così io ho udito) ad essa speculare. La nostra sensibilità ermeneutica è ormai allenata a considerare inscindibili le due cose: ciò che è detto resta tale perché accolto e udito, e la possibilità di udire è data dal fatto che ciò che udiamo viene detto: senza uno non c'è l'altro. Si tratta di sintonizzare il detto e l'udito, e sintonizzare è sempre un'operazione di attualità, in quanto è la realizzazione nel momento presente dell'accordo tra voce e ascolto. È la vita delle parole, che altrimenti sono lettera morta.

Buddha utilizza dunque quelle parole, mārga (via), moksha (liberazione), duhkhá (sofferenza), e non altre a formare un'espressione che dice e definisce il suo messaggio: «Ciò di cui io parlo, quello che indico, è la via di liberazione dalla sofferenza». Questo è il dharma di Buddha. Dharma significa etimologicamente «ciò che sostiene, che è solido e che porta» ed è una parola-chiave in tutta la tradizione spirituale induista e nel buddhismo in particolare. Ritengo sia inutile provare a tradurla, meglio usarla nella sua forma sanscrita (o pali: dhamma), sapendo che ha un significato spirituale vivificante e un campo semantico molto vasto, che va da dottrina a legge, da moralità a giustizia, da religione a opera meritoria, da dovere a pratica, da via a precetto, da regola a scrittura, da insegnamento a fenomeno. Queste due ultime sfumature di significato sono particolarmente pregnanti nel buddhismo, dove dharma viene a significare principalmente (ma in senso inclusivo degli altri possibili significati) l'insegnamento di Buddha, che è ciò che sostiene il «buddhismo» e che mantiene la sua validità nel tempo, e i fenomeni, le «cose», ogni cosa in quanto portatrice della propria identità unica. Tutto il buddhismo è dharma di Buddha, l'insegnamento e il proprium, la cosa propria di Buddha, e tutto il dharma di Buddha è racchiuso in quella espressione «Via di liberazione dalla sofferenza». In questo senso, già quell'espressione stessa è dharma, e ogni parola usata propriamente è un dharma.

Perché il dharma di Buddha è racchiuso in quell'espressione?

Perché tutto ciò che riguarda il buddhismo è funzione di essa: tutte le pratiche, le dottrine, le visioni, i culti che formeranno nei secoli il corpo del buddhismo sono modi di essere del dharma di Buddha, di quella espressione. Si può leggere così il motivo per il quale Buddha non risponde alle «altre domande» - avyākrtavastūni in sanscrito (lett.: le questioni non esposte) -, problemi cosiddetti metafisici che sono tradizionalmente sintetizzati in quattordici quesiti, a loro volta raggruppabili in quattro ambiti relativi all'eternità o non eternità del mondo, alla sua finitezza o infinitezza, all'esistenza o alla non esistenza dopo la morte, all'identità o meno di corpo e spirito. Porsi simili questioni è, secondo gli insegnamenti buddhisti, fonte di vana teorizzazione e di conseguente confusione, per cui, lungi dall'indirizzare sulla via della liberazione dalla sofferenza, è al contrario causa di ulteriore sofferenza.

Senza minimamente occuparsi di questo tipo di problematica, né per affermare né per confutare, Buddha dichiara che c'è la via della liberazione dalla sofferenza e che questo è tutto ciò che lui predica. Seguire la Via da lui indicata vuol dire verificare questa dichiarazione. Verificare non solo nel senso di andare a vedere se è vero, ma anche e soprattutto nel senso di «verum facere»: rendere vero, avverare, far diventare reale questo annuncio o rivelazione di Buddha. Noi non siamo spettatori delle cose, della nostra vita. Ne siamo attori e interpreti ed essere buddhista vuol dire verificare (fare vera, inverare, rendere reale) nella propria vita la via della liberazione dalla sofferenza. Questa è in fondo l'unica autentica certificazione di appartenenza al buddhismo.

Dunque, lo studio di ciò che è stato detto, del tradizionale insegnamento buddhista, è contemporaneamente lo studio del perfezionamento della modalità del mio ascolto, l'affinamento continuo di questa sintonia usando tutti gli strumenti che la secolare tradizione buddhista fornisce come utensili per questo scopo. Consideriamo allora quelle tre parole partendo dall'ultima, la sofferenza, perché è proprio da li che parte Siddhārtha Gautama Sākyamuni: dalla cognizione della sofferenza.

La parola sofferenza traduce in modo parziale, ma soprattutto fortemente connotato da implicazioni tipiche della nostra storia culturale, la parola che in lingua pali suona dukkha (sansc. duhkha). All'origine del buddhismo troviamo un'espressione che afferma: sarvam dukkham: Sarvam significa tutto, ogni cosa. Non ci sono eccezioni, non vi è nulla che non sia compreso in questo sarvam, tutto. Dukkha va la pena di prenderla in considerazione anche dal punto di vista filologico ed etimologico. È composta da due elementi: du(s), che è un negativo, come il greco dus e il nostro dis nei composti (es.: disagio, disprezzo, disattenzione) e dà una valenza negativa, di difficoltà e asperità alla parola; kha è il cavo dove gira la ruota, il cavo vuoto dove si infila il mozzo. È un termine che richiama dunque una ruota di un carro, implicando insieme il mozzo o perno, la ruota, che gira e fa procedere e il carro, il veicolo per eccellenza, che spesso simboleggia qualcosa che è composto da varie parti che lo rendono funzionale per quello che è.

Abbiamo dunque qui racchiusi vari simboli concentrici, tipici dell'India antica: il carro che simboleggia la realtà composta di elementi costitutivi e il veicolo della realtà medesima, in particolare quella umana; la ruota che girando fa avanzare il carro; il perno o l'asse che è il centro della ruota; il vuoto in cui il mozzo si infila, che è il cuore del centro della realtà. Dukkha ci dice qualcosa che ha un asse o incavo del mozzo della ruota che non gira bene, che non va come dovrebbe. Ma questo dipende dal funzionamento della ruota stessa, dall'uso e dall'usura. Il carro che all'inizio è in perfette condizioni, a poco a poco, per il fatto stesso di funzionare come carro, finisce inevitabilmente per mal funzionare. Sono qui racchiusi i tre concetti fondamentali del buddhismo alla sua origine: anicca in pali (sanse. anitya) la transitorietà, l'impermanenza di ogni cosa; nisvabhava o anatta1 (sansc. anātman) la mancanza di un sé ontologico, in quanto ogni cosa è composta (samskrta), costituita ciò che è, dagli elementi che la compongono ma senza un sé proprio, e dukkha.

Tutto è così fatto, non c'è nulla che non sia così: non c'è un luogo dove la realtà non si manifesti in questo modo e dunque il problema è ineludibile, una volta che se ne sia preso atto. È la Prima Nobile (arya) Verità che Buddha enuncia. Ecco come è dichiarata nel Sutra della messa in moto della ruota del Dhamma (Dhammacakkapavattanasutta - Samyutta Nikaya, 56.11): «Questa, o monaci, è la nobile verità del dolore (dukkha): la nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l'unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve i cinque aggregati (khandha) che rappresentano la base dell'attaccamento all'esistenza, sono dolore»2.

Acclarato dunque il significato letterale della parola e il fatto che il buddhismo, qualunque buddhismo di qualsiasi tempo, parte da qui, dalla cognizione di dukkha come esperienza determinante di ogni forma della realtà, e qui ritorna quando si vuole identificare e riconoscere come buddhismo, è indispensabile, perché questa non resti una formula declamatoria e teorica chiedersi come questa cognizione si presenta esistenzialmente nella mia esperienza di vita di questo momento. Poiché il campo semantico della parola spazia, per quanto riguarda la percezione individuale, dal dolore fisico all'ansia, dall'angoscia per un lutto o una perdita alla frustrazione, dal senso di instabilità alla certezza della morte, dal non senso cosmico al dispiacere spicciolo, non c'è situazione della vita a cui non sia sottesa. Come si presenta ora, nella mia vita, questo disagio, questo malessere intrinseco? L'attualità ineludibile di dukkha è ciò che conduce ora a porsi la questione del suo scioglimento, della liberazione.

Lo spirito della liberazione si leva nel momento stesso in cui si fa certa la comprensione che dukkha non è una questione accademica, ma che ci siamo dentro, e non c'è «fuori». La liberazione non è uscire da ... come se fosse uscire da una cella piccola per entrare in una più grande, o dalle mura della prigione per scoprire che sono in una prigione senza mura ma non meno imprigionante. La liberazione non è la fuga da qui per arrivare altrove: non è un altro mondo, ma un altro modo: an other way per usare l'espressione inglese che ha il pregio di unire, nella parola way i due significati di modo e via. La seconda e la terza Nobile Verità trattano di questo aspetto.

La seconda Nobile Verità afferma che l'origine di dukkha è il modo con cui siamo in rapporto con la realtà, descritto come sete, bramosia, attaccamento. Viene identificata qui l'origine non perché sia il punto di partenza, l'inizio logistico e temporale, ma in quanto è il luogo su cui è possibile lavorare, il tempo sempre presente. Non posso, ad esempio, eliminare la nascita, secondo la famosa sentenza greca che rivela il grottesco segreto della felicità con la formula meglio non essere nati: solo chi già è nato può giungere a questa conclusione, e dunque la formula nega se stessa3. Non posso eliminare la morte, con il suo ineluttabile portato di finitudine, di certezza del disparimento, quale che sia l'elaborazione psicologica e spirituale che ne faccio. Posso lavorare sul mio rapporto con la realtà, e in primis con me stesso. A livello logico, se non c'è che «dentro» (per continuare a usare la metafora della prigione), se «fuori» non c'è, cade pure la distinzione fra dentro e fuori. Dentro e fuori sono termini di paragone, relativi l'uno all'altro. Se tutto è dentro, non c'è fuori, se non c'è fuori, non c'è neppure dentro. Ma il piano logico non esaurisce la realtà né il rapporto che ciascuno di noi ha con essa. Per quanto si affini la capacità di accettazione del fatto che non c'è altrove né altrora, io comunque sento la prigionia .... io mi sento dentro .... L'attenzione si sposta dunque dalla prigione al prigioniero, al rapporto del prigioniero con la prigione.

Quello che la seconda Nobile Verità del buddhismo chiama sete, attaccamento, è in altri termini l'atteggiamento di un io che si sente in prigione, che non si appaga mai. Non si possono abbattere i muri, perché i mattoni che li edificano sono gli stessi mattoni costitutivi della realtà. Ma posso lavorare su di me, sull'atteggiamento che ho nei confronti della realtà che vivo e in cui vivo. Fino a comprendere, con la terza Nobile Verità, che la prigione sono io. A me sta di vedere la prigione come lo spazio della mia vita e dunque la sede o della mia prigione o della mia libertà. Così osservando, io non sono in prigione: semmai la prigione sono io. O meglio, la prigione è io, e il modo in cui mi identifico in me stesso è l'idea che ho di me, è il modo in cui mi chiamo e mi riconosco. Siamo al nocciolo identitario, al problema di «io».

Abbiamo visto che il buddhismo vede ogni fenomeno della realtà come composto, come formazione o aggregato di elementi. Senza addentrarci in un'analisi neppur sommaria di questa visione della realtà, e di come è stata declinata dalle varie scuole buddhiste, qui ne accogliamo l'esposizione che afferma che i fenomeni, tutti e ciascuno, non sono oggetti autonomi, sostanze o enti dotati di natura propria o di un sé ontologico. La vacuità (Sūnyatā) è l'intrinseca natura dei fenomeni, il che non significa che essi non siano, bensì che sono proprio in quanto vuoti di sé. Ogni cosa è la cosa che è non perché una sostanza propria intrinseca la sostenga in essere, ma in quanto aggregato di elementi costitutivi che concorrono a formarla proprio in assenza di un core (inglese: nocciolo, nucleo, anima). La vacuità è la condizione dell'esserci, non la sua negazione.

Questo vale per ogni fenomeno, anche quello che chiamo «io».

Anātman (assenza di sé) è la negazione di ātman, che nel pensiero indiano indica il sé immutabile ed eterno, una scintilla del Brahman universale e cosmico. Non è la negazione dell'io, nel senso che io non ci sono: è la negazione della continuità immutabile di un sé a fondamento di io, della natura oggettiva del soggetto. Potremmo provare a dire: io senza me. Al fondo di io, tanto della continuità della autoaffermazione quanto della sua mutevolezza, non c'è nessun me sostanziale. lo è solo il nome di un momento fenomenico. Per tornare alla nostra metafora, c'è la prigione ma non il prigioniero. La liberazione non è una fuoriuscita, è lo scioglimento dell'io. lo mi libero di me, nello scioglimento del me sofferente; la sofferenza non ha punto di appoggio e precipita. La sede della prigione diviene così la sede della libertà.

La via, la quarta Nobile verità, è la trasformazione passo passo della prigione in libertà. Nel momento stesso in cui il buddhismo utilizza la parola via (mārga in sanscrito4, magga in pali, dao in cinese, dō o michi in giapponese, lam in tibetano, way in inglese ... ) evoca l'idea di una meta. Una via senza meta è un viavai, un andirivieni, un andare senza senso. La via di cui parla il buddhismo ha orientamento e direzione. La via procede nella direzione della liberazione dalla sofferenza, dello scioglimento di me. La via ha meta, ma non ha termine. La lingua italiana ci permette di dire che ha un fine, ma non una fine. È fatta di passi, quelli che fanno della via un cammino. Nella metafora del sentiero nella selva sono i passi che segnano il cammino, che aprono e disegnano la via. Noi mettiamo i piedi dove li hanno messi coloro che ci hanno preceduto, che hanno lasciato la traccia, ma nessuno fa il passo che io sto facendo né l'ha mai fatto prima. La tradizione e la novità si incontrano ad ogni passo del cammino. Non perdo di vista la traccia del sentiero, anche se faccio deviazioni che nessuno ha mai fatto prima. lo che cammino, ogni passo che faccio, il sentiero che percorro, la traccia che seguo, sono un unico procedere.

Ogni passo è la dissoluzione di dukkha, è la (dis)soluzione di io nella realtà che mi fa essere. Un passo è un andare, una pratica, non un casuale mettere il piede, condotti chissà dove da chissà che. È la pratica del procedere verso, realizzando ogni passo la direzione, la pratica che prende forma secondo il terreno e tutte le condizioni che costituiscono la realtà.

2. Il buddhismo, lo zen: la Via della pratica

Il già citato Dhammacakkapavattanasutta (Sūtra della messa in moto della ruota del Dhamma) nomina la via come «sentiero di mezzo» e lo descrive come «il Nobile ottuplice sentiero ovvero la retta visione, la retta intenzione, la retta parola, la retta azione, il retto modo di vivere [retti mezzi di sostentamento], il retto sforzo, la retta presenza mentale e la retta concentrazione»5. Qui mi preme semplicemente accennare al significato di «mezzo» nell'espressione «sentiero di mezzo» e di «retto», aggettivo qualificativo che ritorna in ognuna delle otto modalità del sentiero.

«Mezzo» vuol dire che evita due estremi opposti. La persona della via procede «nel cammino di mezzo» nel senso che non devia nè da una parte. nè da un’altra. I due estremi opposti che fanno deviare, uscire dalla via, sono stati variamente descritti nella letteratura buddhista. Nella prima esposizione del già citato sūtra, sono definiti come segue: «Un estremo è il dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali» e «l'altro estremo è il dedicarsi alla mortificazione di se stessi». Entrambi gli estremi si riferiscono dunque a scelte di vita (dedicarsi), allo scopo che una persona si propone e in base al quale modella il proprio comportamento. A monte di questa decisione orientativa vi è pertanto una valutazione di carattere generale sul senso della vita: dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali implica una valutazione materialista positivista, mentre dedicarsi alla mortificazione di se stessi sottintende una valutazione materialista negativista, se così posso esprimermi.

Il primo comportamento è definito dal testo «infimo, villano, volgare, ignobile e vano»; il secondo «doloroso, ignobile e vano». Sono entrambe valutazioni materialiste, perché considerano che la realtà sia ciò che appare essere, fatta di cose ed eventi fenomenici che mi condizionano e mi determinano. Nel primo caso la visione è positiva, nel senso che stando così la cose ne riconosco la realtà e cerco di goderne come posso: i sensi (che in Oriente comprendono le facoltà intellettuali) determinano il mio rapporto con la realtà e lo scopo della vita è appagarli. Nel secondo caso la visione è negativa, la realtà mi appare come un susseguirsi insensato e ingannevole di fenomeni, e dunque non vale la pena di dar credito a una tale realtà: la mortificazione di sé, la fuga mundi è la scelta comportamentale che ne consegue. In questa prima enunciazione degli estremi è forte il taglio personale e concreto dell'alternativa. In seguito, la ridefinizione degli estremi avrà anche implicazioni più filosofiche e concettuali, come la coppia di opposti «eternalismo-nichilismo»: dove il primo indica l'atteggiamento di dare valore ontologico alla realtà, proiettando in una prospettiva finalistica la scena della vita (e qui si radicano le visioni escatologiche), mentre il secondo coglie ed enfatizza l'inconsistente caducità della vita che determina una visione nichilista. Il fatto saliente è che il «mezzo» viene sempre identificato come «né questo né quello». Non si tratta né di «un po' di questo e un po' di quello», né di una terza possibilità fra questo e quello: è proprio la negazione dei due estremi che identifica il «sentiero di mezzo», perché i due estremi sono solo due modi opposti di uno stesso modo errato di intendere e comprendere la realtà: negando gli estremi si nega anche tutto ciò che sta fra l'uno e l'altro.

L'altro aspetto rilevante è che l'enunciazione del Nobile ottuplice sentiero evidenzia che il buddhismo non è una filosofia di vita, come spesso viene definito in Occidente, perché non è l'elaborazione di una teoria conoscitiva da applicare eventualmente alla vita, ma è semmai una proposta concreta di ortoprassi. Infatti il nostro testo afferma che «è il sentiero di mezzo realizzato dal Tathāgata [Buddha] che produce la visione e la conoscenza, e che guida alla calma, alla perfetta conoscenza, al perfetto risveglio, al nibbāna» (corsivo mio). È il comportamento, è la pratica di vita che produce la visione e la conoscenza, non il contrario. In questo senso il buddhismo è la via della pratica.

Ecco allora che la rettitudine della pratica diviene questione essenziale. Come abbiamo visto ognuno degli otto aspetti del nobile sentiero è accompagnato dall'aggettivo «retto», satya in sanscrito, che significa «vero, reale, genuino, sincero». Sono numerosi i testi che prendono dettagliatamente in considerazione i singoli aspetti, fra essi consiglio la lettura del Mahāsatipaţţhānasuttanta (Il grande discorso sui fondamenti della presenza mentale: Dīgha Nikāya, 22)6. Qui ci interessa mettere in rilievo che il buddhismo si realizza come via della retta pratica. E la retta pratica è quella che conduce al dissolvimento della sofferenza, cioè alla liberazione, in sanscrito moksha, che viene dalla radice muc (mukti) con il significato di sciogliere dai legami, abbandonare, lasciare andare. Dal punto di vista dell'atteggiamento interiore la retta pratica è all'insegna del distacco. È interessante notare come uno dei termini specifici che la lingua sanscrita usa nel buddhismo indiano per «distacco» sia virāga, dove vi è un prefisso che implica negazione, opposizione, separazione e rāga vuol dire colorare (per antonomasia di rosso) e quindi passione, amore passionale, attaccamento: virāga è dunque lo scolorarsi, lo stingersi di questo istinto passionale di attaccamento. Secoli dopo Dōgen userà l'espressione shinjin datsuraku, datsuraku shinjin (distacco da corpo e spirito, corpo e spirito distaccati) per definire il doppio e sincrono movimento di io che abbandono me stesso, corpo e spirito, e di corpo e spirito liberi di me. Vedremo come questo modo prenda forma nello zazen,lo stare seduti immobili in silenzio.

Dal punto di vista dell’atteggiamento esteriore,la parola che descrive è áhinsa,spesso tradotta con «nonviolenza»ma più propriamente «innocenza,non nocumento».Dal significato primario e fondamentale di «non uccidere,non ferire»áhinsa diviene il parametro del modo di pensare,parlare e agire che non provoca nocumento a sé e agli altri,sempre in una prospettiva buddhista,dove procura danno tutto ciò che non è indirizzato allo scioglimento di dukkha. Scrive Āryadeva,un discepolo di Nāgārjuna(I sec.d.C.):«Secondo i risvegliati di dharma e il nirvāna possono essere definiti con due brevi parole:áhinsa e Sūnyatā (CatuhSataka,298).La comprensione profonda,e direi fisiologica oltrechè spirituale della vacuità inerente,porta a riconoscere l’identità nella differenza di ogni singolarità. Quì si leva lo spirito di áhinsa,che nel suo risvolto positivo comportamentale è benevolenza,compassione e amorevolezza.

Il buddhismo come via pratica si articola in tre aspetti:etico morale, Sīla il comportamento, la pratica cosciente e vissuta del non essere di nocumento;gnostico,prajña,la conoscenza come visione della realtà(vacuità e interdipendenza:pratītyasamutpāda);dhyāna (samādhi) la pratica oltre la coscienza,la pratica del distacco tramite il corpo e lo spirito,l’immersione oltre ogni dicotomia. Bastano pochi accenni,perché rinvio ad altri contributi del quaderno.

La corrente del buddhismo che prende il nome di chan,successivamente zen in Giappone,rivendica in modo esplicito la priorità della pratica sulla dottrina e sulla speculazione filosofica intellettuale. Al punto da coniare per se stessa,a un certo punto della propria storia,la definizione di trasmissione speciale fuori dell’insegnamento non basata sulle scritture. Questo non allude tanto ad una tradizione esoterica,come a prima vista potrebbe sembrare,quanto ad una trasmissione diretta,da persona viva a persona viva,incarnata dalla e nella pratica di vita quotidiana:la specialità della trasmissione tradizionale non consiste in qualche particolarità occulta o sconosciuta alle altre correnti del buddhismo,semmai consiste nel suo accadere nella normalità della vita,negli e nei gesti della vita di ogni giorno. Come tutti gli slogan,anche questo è riduttivo,e sappiamo già come anche il chan(e quindi lo zen) abbiano testi scritti canonici di riferimento. Ma è indubbio che il richiamo alla pratica, vale a dire il porre l'accento sul fatto che ogni aspetto della vita è un momento della via e che dunque la pratica religiosa è il modo in cui si vive concretamente ogni momento della propria vita - senza distinguere le occupazioni quotidiane in momenti «alti», dotati di particolare valenza religiosa, e in momenti «bassi», ordinari e insignificanti sul piano spirituale -, è una peculiarità forte del ehan/ zeno

Ora, devo ritornare specificatamente sulla pratica. A titolo di esempio, cito un episodio significativo, narrato nel Tenzo kyōkun un testo scritto da Eihei Dōgen nel 1237. Dōgen, considerato l'ispiratore della scuola Sōtō del buddhismo zen, si recò in Cina all'età di 23 anni per approfondire i propri studi di buddhismo. Era un giovane monaco di grandi capacità intellettuali, dotato di profonda sensibilità spirituale e di esemplare forza di volontà. Il viaggio in Cina significava allora mettere a repentaglio la propria vita, perché il braccio di mare fra il Giappone e il continente cinese era battuto da venti improvvisi e impetuosi e percorso da forti correnti: proprio in quell'epoca sarà la tempesta scatenata dal «vento divino» (kamikaze) a disperdere la flotta mongola in procinto di sbarcare sulle coste giapponesi, scongiurando così una sicura invasione. Nonostante una posizione già solida nell'organizzazione clerical-monastica del suo ambito, Dōgen parte per la Cina spinto da una vocazione irresistibile e da uno spirito di ricerca non soddisfatto dall'offerta spirituale del buddhismo giapponese del suo tempo. Giunto nel porto di destinazione, per una serie di problemi burocratici deve attendere il permesso di sbarco sulla nave all'ancora.

Durante quei lunghi giorni di attesa, ecco che un giorno si presenta sulla nave il cuoco di un monastero in cui vigeva la regola ehan, venuto apposta a piedi con un percorso di venti chilometri di sola andata, per comperare dei funghi secchi giapponesi particolarmente gustosi da cucinare il giorno seguente per i monaci in occasione di una fausta ricorrenza. Il cuoco è già anziano, circa sessantenne, e Dōgen, saputo della sua presenza a bordo, lo invita nella sua cabina. Mentre bevono tè, Dōgen si dice stupito che un monaco anziano, conoscitore delle scritture, dedito alla sequela della via di Buddha, faccia l'umile lavoro del cuoco, prendendosi addirittura la briga di percorrere a piedi quaranta chilometri solo per riportare un sacchetto di funghi secchi da cucinare in una zuppa. Perché, chiede Dōgen, lei non lascia a qualche giovane aiutante questa bassa incombenza e non si occupa invece solo di meditare, leggere e recitare i sūtra, celebrare le cerimonie per l'elevazione del proprio spirito e il beneficio dei fedeli? Non è questo che i testi sacri ci dicono di fare? Di fronte a questo quesito, che implica una certa concezione del cammino religioso, il cuoco scoppia in una sonora risata dicendo: «Mio giovane amico, tu non capisci niente delle scritture cui dici di rifarti, se le leggi in questo modo. L'attività del cuoco, così come ogni altra attività, è la pratica religiosa. Distinguere come fai tu fra i vari momenti della vita, riconoscendo solo ad alcuni lo status di momenti religiosi, è la negazione dello spirito del buddhismo». Dōgen fu profondamente turbato da questa risposta e possiamo dire che quello fu per lui un momento di profonda conversione, che lo condurrà poi a una grande opera di rinnovamento e diffusione del buddhismo una volta tornato nel proprio paese.

Non rappresenta certo una novità, né per il buddhismo né per qualsiasi tradizione religiosa, constatare che religione e vita quotidiana non sono ambiti separati, e che una vita religiosa, come qualsiasi altra vita, comporta giorni che durano ventiquattro ore. E dunque è il modo in cui si trascorrono quelle ventiquattro ore al giorno a qualificare «religiosa» la propria vita. Le tradizioni spirituali dell'Oriente, da quelle indù a quelle cinesi, in particolare confuciana, mirano alla sacralizzazione del quotidiano attraverso la ritualizzazione dei gesti, la rinuncia a determinati atteggiamenti, la domesticazione delle energie e delle forze «negative» o potenzialmente pericolose. La particolarità del ehan/ zen è semmai quella di far cadere in modo radicale la distinzione sacro-profano, e di vivere ogni momento della vita quotidiana con totale distacco e totale partecipazione, con spirito scevro da ogni attaccamento e ripieno di senso di responsabilità, incurante del profitto e attento al risultato. La vita e l'opera di Dōgen, che qui prendiamo a paradigma del modo di essere dello zen, sono la fioritura dell' ossimoro, il fiore mistico che è il frutto di ogni autentico cammino religioso. Dōgen usa spesso un'espressione genjōkōan, che un maestro zen giapponese contemporaneo ha reso con la profondità evidente del presente che si fa presente: nel momento che c'è, passato e futuro si compendiano, annullamento e realizzazione concorrono, istantaneità e continuità si necessitano, il fiume scorre immobile e l'attimo dura sempre.

Se a lungo compi questo, certo diventi questo. Così si conclude il testo che presentiamo a seguire. La scelta è caduta proprio su di esso, perché Dogen ha compreso e tramandato la pratica dello zazen come l'espressione concreta e ideale della «posizione di Buddha» e ha scritto questo testo una volta tornato in Giappone dalla Cina per dare ai suoi contemporanei e ai posteri la possibilità di una pratica religiosa alla portata di tutti.

Dōgen ha vissuto fra il 1200 e il 1253, durante il periodo Kamakura (1183-1333) della storia giapponese, periodo di grande instabilità politica, sociale ed esistenziale. Carestie, calamità naturali, l'incombente minaccia mongola, cruente lotte politiche, tutto concorreva ad un'atmosfera da fine del mondo. In questo humus il buddhismo giapponese, appaltato ad una casta clericale elitaria e in declino, conobbe figure di grandi rinnovatori, coloro che saranno i fondatori del nuovo buddhismo giapponese: Hōnen, Shinran, Eisai, Dōgen, Nichiren. Essi vivono tutti in questo periodo e da loro prendono impulso le correnti e le scuole del buddhismo giapponese tuttora fiorenti. Caratteristica comune è quella di liberare il buddhismo giapponese dalla dipendenza dalle liturgie cultuali e rituali, riconsegnandolo, per così dire, alla pratica dei singoli individui, delle persone che sentono all'interno della propria esperienza esistenziale il bisogno di un orientamento e di una pratica di vita verso una possibile libertà e salvezza. Ognuno di loro troverà in una pratica semplice e diretta la chiave dell'ingresso alla via di Buddha, una pratica che ciascuno può attualizzare, senza bisogno di chierici intermediari. Per Dōgen questa pratica è lo zazen.

Zazen è la pratica ideale, l'ideale in pratica, perché sintetizza in una posizione del corpo l'atteggiamento dello spirito che deve permeare ogni momento della vita vissuta come via secondo l'insegnamento di Buddha. Abbandono e presenza si esprimono nell'atto di stare seduto immobile in silenzio: questo vigile distacco, questo inamovibile sradicamento, sono il segno, l'icona vivente della persona della via.

3. La realtà dello zazen: presentazione di un testo

EIHEIDOGEN FUKANZAZENGI

La forma dello zazen che è invito universale

Nella ricerca della via, ecco,
la via originariamente è intrinseca ovunque in modo perfetto,
perché pretenderla attraverso pratiche e risvegli?
Il veicolo della verità è incondizionato e presente,
perché sprecarsi in accorgimenti?
Il centro non si allontana da qui,
perché credere nei metodi per purificarlo?
Ancora: Tutto non solleva affatto polvere,
ehi! non girovagare col corpo e con la mente in pratiche religiose.

Eppure, se dai origine anche al minimo scarto, il cielo e la terra si fanno incommensurabilmente lontani; se dai adito al pur minimo «mi piace-non mi piace», il cuore si smarrisce nella confusione. Per esempio, chi si vanta della consapevolezza raggiunta, chi abbonda di illuminazione, chi è riuscito ad adocchiare la sapienza, chi ha ottenuto la via, chi ha chiarito il cuore, chi ha dato impulso all'ideale di scuotere il cielo: altro non fa che trastullarsi nei pressi della soglia del nirvana, però ignora quasi del tutto l'operoso sentiero della libertà.

Vedi anche l'orma dei sei anni di perfetto zazen del Buddha, il sapiente della vita; ascolta l'eco dei nove anni trascorsi seduto di fronte al muro da Bodhidharma, colui che ha trasmesso il sigillo del cuore della via. Così furono i santi antichi, così deve praticare l'uomo d'oggi.

Perciò smetti la prassi di cercare detti e investigare parole; impara a rientrare in te stesso e a guardare il tuo vero modo di essere. Così il tuo corpo e spirito con naturalezza è abbandonato e appare il tuo volto originario. Se ambisci ad acquisire questo, subito devi impegnarti in questo.

Per lo zazen è ideale un posto tranquillo; bevi e mangia con regolarità. Liberati e sii separato da qualsiasi tipo di relazione e di rapporto, lascia riposare qualsiasi iniziativa. Senza pensare né al bene né al male; non curarti di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Interrompi l'attività del cuore, della mente e della riflessione. Interrompi le indagini del pensiero, dell'immaginazione, della contemplazione. Non misurare quanto hai realizzato la via (misurare Buddha): essa non ha niente a che fare con lo stare seduti o sdraiati.

Di solito si mette un cuscino quadrato, largo e spesso, sul pavimento e, sopra questo, un altro cuscino alto e rotondo (zafu) su cui ci si siede. La posizione è con le gambe incrociate o in modo completo, o in modo incompleto. Nel primo caso si mette il piede destro sulla coscia sinistra, e il piede sinistro sulla coscia destra. Nel secondo caso soltanto il piede sinistro sulla coscia destra.

Indossa un vestito comodo e pulito. Posa il dorso della mano destra sul piede sinistro e il dorso della mano sinistra nel palmo della mano destra. Le punte dei pollici devono toccarsi leggermente. Siedi eretto, senza inclinare né a destra né a sinistra, né avanti né indietro Le orecchie devono essere in linea con le spalle, il naso deve essere in linea con l'ombelico. La lingua riposa contro il palato. Le mascelle e le labbra sono chiuse senza sforzo. Tieni sempre gli occhi aperti. Respira tranquillamente attraverso il naso. Dopo avere regolato la posizione nel modo descritto, espira tranquillamente e poi inspira. Fa' qualche movimento ondulatorio con tutto il corpo a destra e a sinistra. Quindi siedi immobile.

La disposizione del tuo pensiero si posi su questo fondo del non pensiero. Come la disposizione del pensiero si posa sul fondo del non pensiero? Non pensandoci. Ecco, questo è il fulcro distintivo dello zazen.

Questo zazen non consiste nell'imparare a meditare. Semplicemente è la porta reale della pace e della gioia, è la pratica del risveglio che esaurisce l'essenza della via. Il presente si fa presente con evidente profondità, qui non arriva la ragnatela dei condizionamenti e delle illusioni. Se trovi dimora in questa direzione dello spirito, è come il drago che trova la sua dimora nell'acqua, assomiglia alla tigre che si sdraia nella montagna. Occorre conoscere con correttezza che la realtà autentica si manifesta e si fa avanti per forza sua e distrugge innanzitutto l'intontimento e la dissipazione. Quando ti alzi dallo zazen muovi il corpo adagio, alzati in modo tranquillo, non muoverti in modo violento.

Andare oltre il mediocre e andare oltre il santo, perfino trapassare in zazen o morire in piedi: tutte queste cose, che da sempre sono tenute in considerazione, affidale completamente a questa forza.

Inoltre, anche il perno dell'insegnamento impartito scotendo un dito, una canna, un ago, un martello, anche l'avvertimento fornito con lo scacciamosche, col pugno, col bastone, con il grido, tutto questo non scaturisce dall'avere bene valutato e discriminato, e non credere che derivi dalla conoscenza di poteri magici. Sono comportamenti la cui autorità va oltre ciò che si sente e ciò che si vede, scaturiscono completamente dalla norma che è prima della conoscenza intellettuale.

Così è! Quindi, senza discutere di sapienza e di stupidità, non discriminare tra uomo che vale e uomo stolto. Buttare tutto te stesso in questo: ecco è il cammino religioso. La pratica del risveglio per sua natura non produce contaminazione e, attuandola, diviene sempre più piana e costante.

Coloro che, in questo mondo come altrove, in Occidente e in Oriente, vivono così, sono quelli che portano il sigillo della via e per di più fanno soffiare liberamente il vento della verità. Essi semplicemente si applicano nello zazen, e lo zazen li sostiene nella costanza della pratica. Ci sono infinite situazioni differenti, ma tu pratica con tutto il cuore la via dello zazen. Non disertare il posto che è dimora della tua pratica, e non girovagare altrove nel polveroso mondo. Se sbagli un passo, inciampi e devii dalla direzione. Hai già il fulcro della via che è il corpo umano, non attraversare il tempo invano. Hai da preservare e applicare l'essenza della via di Buddha, chi vorrà questa scintilla goderla in modo vano? Non solo, i fenomeni sono come la rugiada dell'erba, il corso della vita assomiglia a un lampo, all'improvviso, ecco, sono nulla, in un attimo, ecco, finiscono.

Questa è la mia preghiera: che coloro i quali compongono la nobile corrente dei praticanti, avendo a lungo imparato a tastoni attraverso imitazioni, non disdegnino ora il vero drago.

Avanza con energia nella via diritta e radicale, rispetta l'uomo che tronca l'affidarsi al sapere e annulla l'affidarsi all'agire, entra nella compagnia di coloro che vivono l'essenza della via, eredita la pace di coloro che hanno praticato prima di te. Se a lungo compi questo, certamente diventi questo. Lo scrigno dei tesori si apre da se stesso.

Questo è il primo testo scritto da Dōgen nel 1227, subito dopo il suo ritorno in Giappone dalla Cina. Dōgen lo presenta in un altro suo scritto con queste parole: «Le persone in Giappone non hanno mai sentito parlare della forma con cui viene trasmessa la realtà autentica, che è stata tramandata al di fuori degli insegnamenti verbali. Inoltre nessuno ha ancora udito istruzioni sul modo di sedere in zazen. Sono tornato in Giappone dalla Cina nel 1227. Allora ho scritto La forma dello zazen che è invito universale, perché uno dei miei discepoli mi ha chiesto di insegnare il modo di sedere in zazem» (Traduzione a cura de «La Stella del Mattino» Comunità buddhista zen italiana).

Nello scrivere questo testo Dōgen si inserisce in una già cospicua tradizione peculiare al buddhismo chan cinese. Sono numerosi i testi intitolati Zuò chàn yī (Zazengi in giapponese) che trattano del modo corretto di sedere in zazen (zuò chan in cinese). La scelta del titolo ci dice che Dōgen si rifà a questa tradizione: scrive in giapponese per i giapponesi un testo sulla falsariga di altri testi analoghi scritti in cinese per i cinesi. E anche il contenuto ricalca quegli scritti: la preoccupazione principale di Dōgen è che lo zazen che descrive sia lo stesso che la tradizione attribuisce originariamente a Buddha e che si è mantenuto identico di generazione in generazione.

La prima parte del testo, che ho trascritto come fosse una poesia ma che nell'originale non si presenta in forma grafica diversa dal resto, affronta un tema centrale nella comprensione che lo zen ha del buddhismo. Durante questi incontri evitiamo intenzionalmente il riferimento a questioni dottrinali, che in parte sono già state affrontate e per le quali rimandiamo ai testi indicati in bibliografia. Qui basta dire che all'epoca di Dōgen era generalmente diffusa la convinzione, espressa in numerosi testi canonici, che la buddhità non fosse una qualità che viene in essere in virtù dello sforzo personale, dell' applicazione di particolari tecniche fisico spirituali, o di comportamenti meritori, ma una realtà inerente alla condizione dell'essere, non certamente un elemento sostanziale, ma la natura autentica implicita all'esistere. Quell' «essere così» che ognuno e ogni cosa è, che ne sia o meno cosciente.

Questa visione induce una questione che Dōgen sentiva fortemente: se la natura autentica è già presente e operante in ogni aspetto della realtà così come è, che senso ha una vita di pratica religiosa? A che cosa è orientato l'impegno che essa implica? La prima parte del testo affronta questa problematica che abbiamo del resto implicitamente trattato fin qui anche noi.

Segue poi una dettagliata descrizione del «come sedersi». La posizione del corpo è di fondamentale importanza, perché è in essa che corpo e spirito esprimono la propria unità. Dōgen definisce altrove lo zazen con l'espressione shikantaza che significa non fare altro che essere seduti, sedere con tutto se stesso, star seduto e basta. La forma dello zazen, a portata di chiunque, è la forma dello star seduto immobile in silenzio in cui corpo e spirito coincidono e non c'è null'altro, né dentro né fuori. L'abbandono di ogni attività intenzionale della mente e del corpo alla posizione seduta, è l'espressione immediata e definitiva dell'essere così. Non è dunque meditazione (questo zazen non consiste nell'imparare a meditare) perché non vi è oggetto, scopo, conseguimento a cui indirizzare la propria pratica. Qui si evidenzia la meta e si realizza la via.

Zazen è dunque l'atto religioso per eccellenza. È offerta totale di sé che non prevede ricompensa differita perché è già appagamento nella libertà dal desiderio di guadagno che è nel contempo libertà dalla paura della perdita. È atto di fede perché non prevede riscontro, ma si nutre di se stesso. In termini che compendiano sia la tradizione spirituale dell'Occidente, in particolare la sensibilità espressiva cristiana, sia la tradizione spirituale dell'Oriente, in particolare la sensibilità espressiva indù, potremmo dire che in zazen il sacrificio, il sacrificato e il sacrificatore, coesistono nell'unica forma del corpo seduto e dello spirito distaccato.


* Monaco buddishta zen, Direttore dell'Ufficio Europeo del Buddhismo Soto Zen

 

(da Vita Monastica, n. 244, gennaio-marzo 2010)

Note

  1. I due termini sono intercambiabili, dipende dai testi e dalle traduzioni. Il più comune è anatta o anātman non sé o non sostanzialità. Nisvabhava (lett. senza natura autonoma) indica una mancanza di una realtà propria intesa in senso ontologico.
  2. RANIERO GNOLI (a cura di), La rivelazione del Buddha. I testi antichi (vol I), trad. C. Cicuzza, Mondadori, Milano 2001, p. 7.
  3. Si veda in proposito l'interessante saggio del filosofo padovano UMBERTO CURI, Meglio non essere nati, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
  4. Notiamo che mārga viene da una radice marg che sottintende cercare, ricerca, chiedere, sollecitare e significa prima di tutto sentiero tracciato da un animale selvaggio e poi sentiero, via, ricerca .... Richiama dunque la via stretta, il sentiero nella selva.
  5. R. GNOLI, op. cit., p. 7.
  6. R. GNOLI, op. cit., p. 335.
Letto 7310 volte Ultima modifica il Giovedì, 21 Aprile 2011 09:07
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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