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Martedì, 10 Luglio 2012 20:35

Paul Tillich: I. Ragione e Rivelazione (Renzo Bertalot)

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Conoscere implica un processo in cui il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto si trovano insieme. L'unità e la diversità dei due momenti devono essere integrate.

I. Ragione e Rivelazione

Tillich osserva che vi sono oggi due concetti di ragione.
Uno è quello classico, che, dai tempi della filosofia greca (Parmenide) a quella idealistica (Hegel), ha creduto di individuare nella ragione la struttura della mente che afferra e trasforma la realtà, che determina non solo lo scopo del nostro vivere, pensare ed operare, ma anche il fine per raggiungerlo.
L'altro concetto, invece, è abbastanza recente e si limita all'aspetto pratico, tecnico del problema: cioè alla semplice capacità di ragionare, che non determina dei fini — perché essi hanno origine altrove — ma si limita a stabilire dei mezzi.
Con il XIX secolo questo secondo aspetto ha preso il sopravvento e forza ora la disumanizzazione dell'uomo. Non si può, infatti, dire di conoscere l'uomo partendo da basi psicologiche e psicotecniche. Che senso avrebbe descrivere l'uomo come un mezzo senza parlarne come fine? Uno strumento si qualifica in vista dello scopo a cui serve. Quale significato potremmo attribuire ad uno strumento che non si sa a che serve? La ragione come strumento ha dunque il suo valore, ma accanto alla ragione che si riferisce al nostro essere e che Tillich chiama appunto «ontologica».
In che rapporto sta la ragione ontologica con la rivelazione? Se pensiamo alla condizione dell'uomo, secondo l'intento di Dio, non è sbagliato identificare i due termini, perché Cristo, il Logos, è il segreto logico di ciò che esiste e nulla esiste senza di lui. Tuttavia nelle condizioni dell'esistenza non è così: la ragione partecipa alla caduta e alla salvezza, per cui dobbiamo rigorosamente distinguere i due termini.
Esaminando più da vicino la «ragione ontologica» vediamo che bisogna rilevarne due aspetti fondamentali, quello soggettivo e quello oggettivo, e parlare poi del rapporto che li unisce. In altre parole: quale relazione esiste tra le strutture logiche, razionali, con le quali io afferro e trasformo la realtà, e le strutture logiche, razionali, della realtà che è da me afferrata e trasformata?
Nella storia si sono date risposte diverse accentuando ora il soggetto (io) ora l'oggetto (la realtà). Tillich parla di una corrispondenza logica dell'io e della realtà, nel senso che noi trasformiamo la realtà secondo il nostro modo di afferrarla e l'afferriamo conformemente al nostro modo di trasformarla. V'è una dinamica creativa come struttura fondamentale della vita e della mente, per cui il nuovo e il vecchio, la teoria e la pratica, nella storia e nella natura, sono legati da un'unità logica, razionale.
Portando avanti questo tipo di osservazioni si rende necessario esaminare maggiormente questa unità logica. È essa che diventa manifesta attraverso la ragione. Tillich perciò la definisce «profondità della ragione» nel senso che ne costituisce il segreto strutturale, «il fondamento» e la qualità essenziale.
Nelle condizioni della nostra esistenza la ragione si trova in contrasto con la sua profondità o separata del tutto dal suo fondamento logico. Perciò essa si trasforma in un interrogativo che non trova risposta se non nella rivelazione.
Vediamo allora i vari aspetti di questo interrogativo come esigenza del   superamento   delle contraddizioni e delle ambiguità.
Se la ragione è conscia dei suoi limiti, lascia intravedere oltre   se   stessa la «profondità» accennata. Oggi il teologo deve ricuperare questo discorso, perché, dopo aver deificato la ragione, l'abbiamo ridotta al suo mero aspetto tecnico e strumentale; se è vero che vi sono conflitti, contrasti e ambiguità, è pur vero che accusare la ragione può essere solo segno di ignoranza o di arroganza.
Nelle condizioni della nostra esistenza noi registriamo un'opposizione tra autonomia della ragione e la sua eteronomia, cioè tra la sua esigenza di essere indipendente e la sua esigenza di parlare a nome di terzi (miti, culti, politica), e ancora tra il suo senso di obbedienza alla sua struttura essenziale e la pretesa di farsi interprete della «profondità».
Il conflitto tra i due aspetti è sempre distruttivo e rende urgente la scoperta di una ragione teonoma come sola alternativa possibile, come rimedio al vuoto (tendenza dell'autonomia) e all'imposizione (tendenza dell'eteronomia).
Così ancora troviamo dei contrasti razionali tra relativismo e assolutismo. Le tendenze assolutistiche generano altri assolutismi, conservatori o rivoluzionari che siano, e questi si distruggono a vicenda. Dalle delusioni che lasciano dietro di sé, possono svilupparsi delle tendenze relativistiche; sia nel senso che si fanno ormai beffe della ragione, sia nel senso positivistico, cioè strettamente legate a dati osservabili, che presto o tardi saranno interpretati diversamente e ancora in modo assolutistico.
Si è tentato di superare queste alternative distruggentisi a vicenda, servendosi della critica (criticismo), ma non si è approdato che ad altri contrasti dello stesso tipo. Cosi la ragione continua a porsi come un interrogativo che trova una sua risposta concreta ed assoluta solo nella rivelazione.
Infine si può parlare di conflitto tra formalismo ed emozione. Il primo esige l'ordine, il controllo, ma non conosce amore. L'emozione, al contrario, rischia di cadere in un soggettivismo vuoto, invertebrato, irrazionale e quindi demoniaco.
L'insolubilità del conflitto — neanche il romanticismo l'ha risolto — si trasforma in un interrogativo e in un'esigenza di verità che ne superi il momento di rottura.
Conoscere implica un processo in cui il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto si trovano insieme. L'unità e la diversità dei due momenti devono essere integrate. In altri termini, se noi definiamo l'uomo in base ai nostri controlli rischiamo di farne una cosa in mezzo a tante altre; perciò bisogna tener presente anche il nostro modo personale, soggettivo di ricevere le informazioni.
Controllare è un'esigenza giusta quando si pensa al ciclo lavorativo di una macchina, ma non è sufficiente ad esprimere tutta la conoscenza così come la riceviamo, perché essa è anche il frutto di partecipazione, di intuizione e di unità tra conoscente e conosciuto, conformemente a quanto i medici, gli educatori, i politici e gli artisti ci insegnano. È la vita stessa ad esercitare un controllo in quest'ultimo caso.
Tradizionalmente ci si poneva il problema del vero e del falso, al fine di giungere ad una verifica definitiva, al momento di verità. Nella vita, tuttavia, la realtà è quella che è:   né vera né falsa. Semmai è il nostro giudizio ad essere vero o falso; e se vi è incertezza è proprio perché la realtà nasconde il suo vero volto, «la profondità» e il suo «vero essere».
Un mero controllo senza partecipazione può portare ad una conoscenza di dati sicura (pragmatismo), ma anche insignificante; mentre una partecipazione, una ricezione e quindi un'interpretazione può portare ad una conoscenza significativa, ma non può dare certezza.
Così sorgono l'esigenza e la ricerca di una verità che sia al contempo certa ed impegnativa, che trascenda cioè ogni rischio. La risposta viene dalla rivelazione.
La rivelazione non trasforma il mistero in conoscenza, perché il mistero è e rimane tale, ma in essa la ragione è afferrata e trascinata oltre se stessa, verso il fondamento che ha la capacità di conquistare i contrasti, le ambiguità e il non essere.
Si è afferrati da qualcosa: ciò significa che v'è unità tra conoscente e conosciuto, tra soggetto e oggetto, che si è al di là delle strutture stesse della ragione.
Fenomeni di eccitazione o di suggestione sono meramente soggettivi: perciò non riguardano l'esperienza della rivelazione, vanno considerati come demoniaci nel senso che accecano e distruggono la ragione.
La rivelazione, invece, pur non essendo un prodotto della ragione, l'afferma. Tillich parla a questo punto dell'estasi e della ragione estatica. Questi termini, liberati dalle usuali contraffazioni demoniache, esprimono il momento in cui la ragione, pur rimanendo se stessa, è scossa dalla minaccia delle ambiguità, del non essere, e afferrata nella sua logicità dal Logos.
Come si acquista questa consapevolezza? Attraverso i miracoli? Tillich esita ad adoperare il termine miracolo, perché è spesso stato frainteso come un'interferenza che distrugge la logicità. Preferisce parlare di segni o eventi.
Ora, proprio a causa della logicità di tutte le cose, esse possono diventare dei mezzi di rivelazione. Questo significa che v'è rivelazione attraverso la natura, ma Tillich vuole accuratamente respingere la possibilità di una rivelazione naturale, perché questa sarebbe una contraddizione in termini. Infatti dalla natura non sorgono delle risposte, ma solo delle domande.
Quando si parla di rivelazione attraverso la natura s'intende dire che, per esempio, attraverso la lingua parlata si esprime la Parola di Dio, diventa cioè trasparente il «fondamento dell'essere e del significato». In altre parole si tratta di un dono in una situazione data, e non dell'identificazione di una situazione con Dio, come accadde, parlando della coscienza, nella teologia derivata da Schleirmacher.
La conoscenza della rivelazione non interferisce con la conoscenza ordinaria. Il fisico e lo storico possono lavorare indisturbati secondo i criteri della loro onestà scientifica. Il teologo non ha ragione di preferire una teoria sociale ad un'altra creando una falsa distinzione tra sacro e profano. Il filologo può interpretare con esattezza i dati del Nuovo Testamento e non partecipare al suo significato estatico-rivelatorio. Se il teologo si sente in dovere di difendere la verità, lo deve fare nella dimensione della rivelazione e non creare dei conflitti di conoscenza, perché in questi ultimi la rivelazione acquisterebbe un valore demoniaco. La conoscenza della rivelazione deve però essere espressa. Perciò bisogna servirsi del materiale finito, che abbiamo a disposizione, per darle un contenuto. Le nostre parole acquistano allora un senso che trascende quello ordinario. Se così non fosse la loro mediazione sarebbe demoniaca.
I termini del nostro linguaggio diventano dei simboli che si riferiscono ad un'altra dimensione. La teologia naturale non può porsi al di là del nostro linguaggio ordinario. Quando dunque parliamo di analogia entis, di analogia logica, usiamo un simbolismo che respinge ogni teologia naturale ed afferma, invece, una correlazione tra il Logos del Nuovo Testamento e il logos della realtà nella quale noi ci troviamo. Qual è il criterio di questa conoscenza? Il criterio è il Cristo: la rivelazione definitiva.
Tillich vuole affermare questo punto partendo dalla situazione stessa. Una rivelazione può dirsi definitiva solo se è capace di negare se stessa senza perdersi: cioè se è capace di diventare trasparente davanti al mistero rivelato. Chi ha questa capacità si possiede interamente. Il Cristo solo adempie tali condizioni. Con la croce sacrifica quanto lo aveva reso potente e messianico presso gli uomini e si libera dal finito. Pietro che non comprende la necessità del Venerdì Santo rasenta l'idolatria. La croce manifesta il Cristo in tutta la sua trasparenza. È la condanna della gesulatria in quanto il Cristo sacrifica ciò che, in Lui, è solo Gesù e, al contempo, ogni vantaggio che gli deriva dalla sua unità con Dio.
Il criterio della rivelazione definitiva è ricavato così da ciò che il cristianesimo considera definitivo. La teologia si muove all'interno di questo circolo chiuso, che costituisce il rischio della fede.
Stabilito il criterio, l'unità di misura, Tillich non ha paura di affermare la presenza della rivelazione anche fuori del fenomeno religioso. La storia della rivelazione è tutta collegata al criterio definitivo, ma non può essere ridotta alla storia delle religioni o essere accantonata come vorrebbe un soprannaturalismo di tipo barthiano. Infatti Dio agisce in mezzo agli uomini secondo la loro maturità. Vi sono profeti anche fuori del mondo della Bibbia e tutti combattono contro un sistema sacramentale. Tuttavia quelli biblici, da Mosè a Giovanni Battista, hanno un carattere unico come preparazione alla rivelazione definitiva che critica ogni altra rivelazione. L'errore degli gnostici e dei nazisti è di aver considerato la rivelazione definitiva come una forma della rivelazione universale.
Anche nella chiesa v'è un continuo processo di rivelazione che è opera dello Spirito. Non si tratta, neppure in questo caso, di una rivelazione originaria, ma ancora di una rivelazione dipendente da quella definitiva.
Quando ci si rifà all'unità di misura si constata che rivelazione e salvezza vanno insieme. In Cristo, infatti, il potere definitivo (salvezza) e la verità definitiva (rivelazione) sono uniti. Nel processo della nostra esistenza essi rimangono ambigui, ma chi riceve lo Spirito sa di ricevere la potenza della salvezza che è potenza di guarigione.
Qual è, dunque, il rapporto tra la rivelazione e la ragione? Tillich riprende qui il discorso avviato in precedenza e cerca di dare ora una risposta alle domande sollevate.
A proposito del conflitto tra autonomia ed eteronomia, la rivelazione finale viene ad incidere su di esso proponendo la teonomia. Essa non è il prodotto dell'autonomia, della libertà e non può essere ostacolata dall'eteronomia e dall'autorità. La teonomia, richiamandosi alla «profondità della ragione», cerca, in ogni cosa, di dare espressione a ciò che c'impegna in modo definitivo ed ultimo.
In relazione al conflitto tra assolutismo e relativismo, la rivelazione non ci dà un'etica assoluta, ma solo degli esempi. La chiesa ha ceduto spesso alla tentazione di vedere nel Cristo un datore di leggi assolute. Cosi facendo non è potuta emergere dai contrasti e dalle ambiguità. Solo la legge dell'amore, che nega ogni imposizione, trascende l'assolutismo e il relativismo. L'amore è assoluto e dipendente dall'amato, perciò non può diventare né fanatico né cinico. Prendiamo il caso dell'etica. Essa richiede una decisione, ma decidersi significa scegliere e quindi escludere. Ogni scelta ha una tendenza all'assolutismo che suscita una reazione. La rivelazione esige che ogni giusta decisione rinunci alla sua pretesa di essere giusta. L'amore soltanto sa evitare le rivendicazioni delle possibilità scartate, perché è assoluto e relativo contemporaneamente.
Questi due esempi indicano l'incidenza della rivelazione nei conflitti e nelle ambiguità della ragione nell'esistenza. Non bisogna dimenticare che in ogni situazione rivelatoria permane il mistero che la trascende. Dio infatti dirige l'individuo, la società e la vita universale verso il loro compimento nel Regno di Dio. La storia universale è la base della storia della rivelazione e, nella storia della rivelazione, la storia universale manifesta il suo mistero.
Quando si parla di rivelazione non bisogna limitarsi alla parola parlata, perché il logos indica una realtà rivelatoria molto più ampia. Anche l'espressione «Parola di Dio», cosi ricca di significati, va intesa come un simbolo per indicare il mistero divino che si manifesta attraverso il logos.

Renzo Bertalot

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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