Ecumene

Mercoledì, 02 Luglio 2014 21:15

Assimilati alla Morte e alla Risurrezione di Cristo (Alexander Schmemann)

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Ciò che l’uomo moderno non capisce, ciò a cui è diventato sordo e cieco, è la fondamentale visione cristiana della morte secondo la quale la morte biologica o la morte fisica non è la morte intera, non è neanche la sua essenza ultima.

La Chiesa antica sapeva, e sapeva prima ancora di poter esprimere e spiegare la sua conoscenza sotto forma di teorie razionali e coerenti, che nel battesimo moriamo realmente e risuscitiamo con Cristo, perché tale era la sua esperienza intima del mistero battesimale. Noi, dobbiamo oggi ritornare a questa conoscenza sacramentale che illuminava tutta la vita della Chiesa antica di una gioia ineffabile, la rendeva realmente pasquale e realmente battesimale, se vogliamo che il battesimo ritrovi in seno alla Chiesa il posto e la funzione che aveva all’origine.

Ed ora, le ultime questioni, questioni capitali: Come moriamo alla maniera di Cristo? Come risuscitiamo alla maniera della sua Resurrezione? E perché questo, e questo solo, ci permette di entrare nella vita nuova in Lui e con Lui?

La risposta a queste domande è fornita in questa rivelazione essenziale che riguarda la morte di Cristo – morte volontaria. “… Io depongo la mia vita per prenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la depongo da me stesso; io ho il potere di deporla e il potere di prenderla di nuovo” (Giovanni 10, 17-18). La Chiesa ci insegna che nella Sua umanità senza peccato, Cristo non era naturalmente soggetto alla morte, che era interamente libero dalla mortalità umana che è la nostra sorte comune ed inevitabile. Non doveva morire, se è morto, è dunque semplicemente perché voleva morire, aveva scelto di morire, aveva deciso di morire. Ed è il carattere volontario di questa morte, la morte dell’Immortale, che ne fa una morte redentrice, che ne fa la nostra salvezza, la riempie di potere redentore. Ma prima di rispondere alla domanda relativa al rapporto tra la morte di Cristo e la nostra morte battesimale, dobbiamo ritrovare il significato reale del desiderio di morire di Cristo.

Dico di ritrovare perché, per quanto strano possa sembrare, la grande eresia del nostro tempo è precisamente proprio la morte. È là, in questa preoccupazione così evidentemente essenziale per la fede e la pietà, che una metamorfosi paradossale, benché quasi incosciente, sembra essersi prodotta, che ha praticamente occultato ai nostri occhi soprattutto la nozione e l’esperienza cristiane della morte. Per parlare in termini semplici, e forse anche troppo semplici, questa eresia risiede nell’abbandono progressivo da parte dei cristiani stessi del senso e del contenuto spirituale della morte – della morte in quanto realtà principalmente spirituale e non soltanto biologica. Per una maggioranza schiacciante di cristiani, la morte significa soltanto la morte fisica, la fine di questa vita.

Allora, oltre a questa fine, si suppone ed afferma un’altra vita, puramente spirituale e senza fine – la vita dell’anima immortale –, essendo quindi la morte il passaggio naturale dall’una all’altra. In questa concezione, che non è in realtà affatto diversa da tutta la tradizione platonica idealista e spiritualista, ciò che diventa sempre meno comprensibile, sempre meno esistenziale, e che impregna sempre meno la fede, la pietà e la vita, è la dichiarazione cristiana iniziale della distruzione della morte per mezzo di Cristo (“ha sconfitto la morte con la morte”), la gioia propriamente cristiana, tanto visibile nella chiesa antica, dinanzi all’abolizione della morte (“… La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” I Corinzi 15, 54-55), ancora così evidente nella nostra tradizione liturgica (“Cristo è risorto e nessuno più resta nella tomba”). È come se la Morte e la Resurrezione di Cristo fossero degli eventi in sé, che devono essere ricordati, celebrati, festeggiati, soprattutto al santo venerdì e a Pasqua, ma senza alcuna relazione realmente esistenziale con la nostra morte e post-morte, cui ci avviciniamo e che concepiamo in una prospettiva del tutto diversa, quella della morte naturale, o biologica, e di un’immortalità egualmente naturale, benché spirituale. La morte riguarda il corpo, l’immortalità riguarda l’anima. Ed il cristiano, pur non respingendo apertamente la fede iniziale e raccomandandosi, non sa in realtà che cosa fare della distruzione della morte e della risurrezione del corpo; non sa come collegare queste nozioni alla sua esperienza vissuta ed al suo universo mentale che combina spesso (come succede nei movimenti pseudo-spirituali del nostro tempo) il positivismo e lo spiritualismo ma che è quasi completamente chiuso all’esperienza cosmica ed escatologica della Chiesa primitiva.

Le ragioni di questa discrepanza, di questa eresia generalizzata anche se quasi inconscia, sono abbastanza evidenti. Esse sono, per usare un termine moderno, semantiche, benché ad un livello profondamente psicologico e spirituale. L’uomo moderno, anche cristiano, per cui la morte è un fenomeno puramente biologico, non ascolta l’affermazione dell’Evangelo sulla distruzione e l’abolizione della morte, perché a questo livello biologico la morte di Cristo non ha cambiato nulla alla morte. La morte non è stata né distrutta né abolita. Rimane la stessa legge inevitabile per i santi come anche per i peccatori, per i credenti come anche per i non credenti, lo stesso principio organico dell’esistenza stessa del mondo. L’Evangelo cristiano non sembra applicarsi alla morte come intesa dall’uomo moderno, in modo che egli mette tranquillamente da parte l’Evangelo e ritorna all’antica dicotomia che considera molto più accettabile: la mortalità per il corpo, l’immortalità per l’anima.

Ciò che l’uomo moderno non capisce, ciò a cui è diventato sordo e cieco, è la fondamentale visione cristiana della morte secondo la quale la morte biologica o la morte fisica non è la morte intera, non è neanche la sua essenza ultima. In questa visione cristiana, infatti, la morte è soprattutto una realtà spirituale che possiamo conoscere quando siamo in vita e quindi ce ne liberiamo quando siamo distesi nella tomba. La morte, qui, è il fatto di separarsi dalla vita, il che significa separarsi da Dio, che è l’unico Datore di vita, che è Egli stesso la vita. La morte non è l’opposto dell’immortalità – perché come non si è creato da sé stesso, l’uomo non ha il potere di annientare sé stesso, tornando a quel nihil da cui è stato portato all’esistenza da Dio, e in questo senso è immortale –, ma della vera vita che “era la luce degli uomini” (Giovanni 1, 4). Questa vita vera, l’uomo ha il potere di rifiutarla e quindi di morire, in modo che la sua immortalità stessa diventi morte eterna. E questa vita, egli l’ha rifiutata. È là il peccato originale, la catastrofe cosmica iniziale che conosciamo, non sul piano della storia, non razionalmente, ma attraverso questo significato religioso, da questa certezza interiore misteriosa nell’uomo che nessun peccato potrà mai distruggere, che lo spinge sempre e ovunque a cercare la salvezza.

Così, la morte totale non è il fenomeno biologico della morte, ma la realtà spirituale in cui “il pungiglione… è il peccato” (I Corinzi 15, 56) – il rifiuto da parte dell’uomo della sola vita Vera che è stata data da Dio. “Il peccato è entrato nel mondo e attraverso il peccato la morte” (Romani 5, 12), non c’è altra vita che la vita in Dio; chi la respinge muore perché la vita senza Dio è morte. È questa la morte spirituale, quella che riempie tutta la vita del sentimento della morte e che, essendo separazione da Dio, trasforma la vita dell’uomo in solitudine e sofferenza, paura e illusione, asservimento al peccato e odio, nonsenso, avidità e vuoto. È questa morte che rende l’uomo fisicamente morto veramente morto, conseguenza ultima di una vita caricata di morte, orrore dello Sheol biblico in cui la stessa sopravvivenza, la stessa immortalità sono solo “presenza dell’assenza”, totale separazione, totale solitudine, tenebre totali. E fino a quando non ritroveremo di nuovo questa visione e questo senso cristiano della morte, della morte come legge e atto orribile della nostra “vita morta” (e non solo della nostra morte), della morte “che regna” in questo mondo (Romani 5, 14), non saremo in grado di comprendere il significato della Morte di Cristo per noi e per il mondo. Perché è per distruggere e cancellare questa morte spirituale che Cristo è venuto; per salvarci da questa morte spirituale.

Solo ora, dopo aver capito questo, si può percepire l’importanza cruciale della morte volontaria di Cristo, del suo desiderio di morire. L’uomo muore perché ha voluto la vita per sé stessa ed in sé stessa, in altre parole, perché si è amato ed ha amato la vita più di quanto ha amato Dio. Tale volontà è l’oggetto del suo peccato e quindi la ragione di fondo della sua morte spirituale, il suo pungiglione. La vita di Cristo, invece, è interamente, totalmente, esclusivamente fatta dal desiderio di salvare l’uomo, di liberarlo da questa morte, nella quale ha trasformato la sua vita, di rendergli la vita che ha perduto con il peccato. La sua volontà di salvare è il movimento stesso, la forza stessa di tale amore perfetto verso Dio e l’uomo, l’obbedienza totale alla volontà di Dio, il cui rifiuto ha condotto l’uomo al peccato e alla morte. Così la Sua vita è veramente libera dalla morte. Non c’è morte in essa, perché è completamente riempita del solo desiderio di Dio, perché è interamente in Dio e nell’amore di Dio. E poiché il suo desiderio di morire non è che l’espressione e la realizzazione ultima di questo amore e di questa obbedienza – come la Sua morte non è niente altro che amore, niente altro che volontà di distruggere la solitudine, la separazione dalla vita, le tenebre e la disperazione della morte, niente altro che amore per coloro che sono morti – non c’è “morte” nella morte di Cristo, la Sua morte essendo la manifestazione ultima dell’amore, in quanto vita e di vita, in quanto amore, toglie dalla morte il pungiglione del peccato e distrugge veramente la morte in quanto potere di Satana e del peccato nel mondo.

Cristo non cancella, non distrugge la morte fisica perché Egli non cancella questo mondo, la cui morte fisica non è solo una parte, ma il principio stesso della vita e della crescita. Ma fa infinitamente di più. Rimuovendo il pungiglione del peccato dalla morte, abolendo la morte come una realtà spirituale, riempiendola di Sé stesso, del Suo amore e della Sua vita, fa della morte – che era una separazione molto reale dalla vita e la perversione della vita – un gioioso e splendente passaggio – la Pasqua – verso una vita più piena, una comunione più totale, un amore più assoluto. “Per me, dice san Paolo, il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Filippesi 1, 21). Non parla dell’immortalità della sua anima, ma del senso nuovo, completamente nuovo della morte – della morte nel senso di essere con Cristo, la morte, nel senso in cui diventa, nel nostro mondo mortale, la manifestazione della vittoria di Cristo. Per coloro che credono in Cristo e vivono in Lui, non c’è più la morte, “la morte è stata ingoiata per la vittoria” (I Corinzi 15, 54) e ogni tomba contiene, non la morte, ma la vita.

Ora torniamo al battesimo e alla questione che abbiamo posto sulla sua assimilazione alla Morte e alla Risurrezione di Cristo e sul tema del significato reale di questa assimilazione. Per ora possiamo solo capire che questa assimilazione – prima di essere completata dal rito – è in noi nella nostra fede in Cristo, nel nostro amore per Lui e quindi, nel nostro desiderio per ciò che Egli ha desiderato. Credere in Cristo significa, ha sempre significato, non solo confessarLo, non solo ricevere da Lui, ma soprattutto donarsi a Lui. Questo è il significato del Suo comandamento secondo il quale dobbiamo seguirLo. E non c’è altro modo di credere in Lui che accettare la sua fede come nostra fede, il Suo amore come nostro amore, il Suo desiderio come nostro desiderio. Poiché non c’è Cristo al di fuori di questa fede, di quest’amore, di questo desiderio; è solo condividendoli con Lui che possiamo conoscerLo, Colui che è questa fede e obbedienza, quest’amore e questo desiderio. Credere in Lui e non credere in quello che credeva, non amare ciò che ha amato e non desiderare quello che desiderava, non sarebbe credere in Lui. SepararLo dal contenuto della Sua vita, aspettare dei miracoli da Lui e aiuto senza fare ciò che ha fatto e, infine, chiamarLo “Signore” e adorarLo senza fare la volontà di Suo Padre, non è credere in Lui. Noi siamo salvati perché crediamo nel Suo potere “soprannaturale” – una tale fede Egli non la vuole! – ma perché accettiamo con tutto il nostro essere e facciamo nostro il desiderio che riempie la Sua vita e che in definitiva, Lo porta a scendere nella morte e a cancellarla.

Il desiderio di compiere, di realizzare la fede in modo tale che possa essere realmente qualificato e provato come la morte e la risurrezione è il primo frutto, il primo effetto della fede stessa, l’assimilazione alla fede di Cristo: è effettivamente impossibile conoscere Cristo, senza voler essere completamente liberati da questo mondo che Cristo ha rivelato essere stato schiavo del peccato e della morte e al quale, Egli stesso, vivendo, era davvero morto, morto nella sua sufficienza, “nella concupiscenza della carne, nella concupiscenza degli occhi e nella superbia della vita” (I Giovanni 2, 16) che riempiono e determinano questo mondo e alla morte spirituale che regna. È impossibile conoscere Cristo senza desiderare di essere con Lui dove si trova. E non è in questo mondo che passa. Non gli appartiene. È salito al cielo – non in un altro mondo, perché il cielo, nella fede cristiana, non è altrove, ma è la realtà della vita in Dio, la vita totalmente liberata dallo stato che porta alla morte, da questo stato di separazione da Dio che è il peccato del mondo e condanna a morte. Essere con Cristo è avere questa nuova vita – con Dio e in Dio – che non è di questo mondo; e sarebbe impossibile a meno che, come dice san Paolo – in termini così semplici eppure così incomprensibili per il cristiano moderno – “siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3). Infine, è impossibile conoscere Cristo, senza desiderare bere il calice che Egli ha bevuto, ed essere battezzati con il battesimo che è stato il Suo (Matteo 20, 22), senza desiderare, in altre parole, questo ultimo incontro e questa ultima battaglia con il peccato e la morte che gli ha fatto dare la Sua vita per la salvezza del mondo.

Così, la fede stessa non solo ci spinge a voler morire con Cristo, ma è essa stessa questo desiderio. E senza questo desiderio, la fede non è più fede, ma una semplice ideologia tanto discutibile, tanto aleatoria quanto qualsiasi altra. È la fede che chiede il battesimo; è la fede che sa che il battesimo è realmente la morte e la risurrezione con Cristo.

Alexandre Schmemann

(tratto da D’eau et d’Esprit: Étude liturgique du baptême, Desclée de Brouwer 1987).

 

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Fausto Ferrari

Religioso Marista
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