Che cosa si sa oggi di Paolo?
di Michel Trimaille

Cronologia
6 a.C. Nascita di Paolo in Galilea
Primi anni del I secolo I suoi genitori sono deportati a Tarso, in Cilicia.
Intorno al 15 d.C. Paolo studia a Gerusalemme.
33 Conversione di Paolo a Damasco.
34 Soggiorno presso gli arabi Nabatei.
37 Ritornato a Damasco, Paolo fugge e si sottrae al governatore del re Areta (39).
37 Prima visita a Gerusalemme. Paolo ritorna in Siria-Cilicia. Ritorna ad Antiochia e istruisce i nuovi cristiani.
41 Editto di Claudio contro certi ebrei di Roma. Torbidi a causa di «Chrestos». Primo viaggio missionario con Giovanni Marco, sotto la responsabilità di Barnaba (Cipro, Anatolia).
Inverno 45-46 ad Antiochia Seconda missione con Sila, senza Barnaba. Paolo è capo missione, ritorna al centro dell’Anatolia.
Estate 46 Viaggio verso la Galazia settentrionale (regione di Pessinunte), poi evangelizzazione della Macedonia: Filippi, Tessalonica, Berea, passaggio ad Atene. Soggiorno di fondazione a Corinto (18 mesi?). Paolo sbarca a Cesarea, discende ad Antiochia.
49-50 Incontro a Gerusalemme con Barnaba e Tito («dopo 14 anni», Gal 2,1). Paolo ad Antiochia. Incidente con Pietro (Gal 2,11-14).
50 Paolo si ferma ad Efeso che diventa il centro del suo irradiamento missionario.
51-52 Proconsolato di Gallione a Corinto. Paolo compare dinanzi a lui in occasione di uno dei suoi passaggi a Corinto.
Piacerebbe potersi rallegrare senza riserve di numerosi, sapienti lavori su Paolo…
Ma, anche se vi si possono trovare delle convergenze, parecchi problemi rimangono senza soluzione e le numerose ipotesi avanzate non si mostrano sempre convincenti. Perché tanti problemi? Perché, sull’esistenza di Paolo, noi possediamo due tipi di fonti: le sue tredici lettere (di cui sette sono considerate autentiche dalla quasi totalità dei commentatori), e gli Atti degli Apostoli di Luca, la cui seconda parte è pressochè interamante un racconto della vita missionaria di Paolo sino al suo arrivo a Roma. Dal momento che le lettere paoline non hanno nulla di un’agenda, e che, in compenso, Luca segue un metodo narrativo che sembra concatenare le tappe della vita di Paolo nel loro ordine cronologico, i biografi hanno, sino a tempi recenti, considerato questo quadro come il più semplice, liberi di completarlo con informazioni spigolate dalle lettere. Ma oggi si sa meglio che Luca, sia nel primo che nel suo secondo libro, era in primo luogo un teologo del Figlio di Dio e della sua Chiesa, e che le sue relazioni con i fatti «storici» non erano così originali come si credeva.
Allo stesso tempo, si incontravano sempre più difficoltà a conciliare certi dati degli Atti con le informazioni attinte dalle lettere, benché conosciute da Luca!
Di qui la reazione, detta «principio di Knox», dal nome di un esegeta che scrisse attorno al 1950, secondo il quale gli Atti degli Apostoli possono essere utilizzati – e con prudenza – soltanto per completare i dati autobiografici delle lettere, ma mai per correggerli. In realtà, un fatto narrato da chi l’ha vissuto merita sempre maggior credito delle informazioni fornite da un terzo che si pone finalità teologiche o apologetiche.
Questo principio radicale si rivela però difficile da metter in pratica. Le lettere di Paolo sono scritti di circostanza: egli parla poco d sé, se non costretto dalla polemica. Vi è poi il problema dell’autenticità letteraria: alcune delle sue lettere ci informano soltanto sul ricordo emozionante ed efficace che egli ha lasciato nella memoria delle Chiese. Infine, un ultimo scoglio: nelle sue lettere, Paolo non cita alcun avvenimento conosciuto attraverso la storia, tranne una volta, in 2 Cor 11,32, in cui racconta dei suoi contrasti in Damasco con il governatore del re Areta (re degli arabi Nabatei, morto nel 39).
Non si può dunque stabilire una cronologia dell’opera missionaria di Paolo senza tenere conto, in modo certamente critico, dei riferimenti cronologici riferiti da Luca, tanti più che la sua documentazione di base merita di essere valutata seriamente nel suo valore storico.
Tenterei quindi modestamente di distinguere i punti che sembrano condivisi da quelli sui quali ci si attendono ulteriori lumi per potersi pronunciare con onestà.
Un ebreo fariseo di Tarso?
Nelle sue lettere, Paolo non allude mai al suo luogo di nascita o alle origini della sua famiglia. Solo Luca parla di Tarso In 9,11 a Damasco il Signore rivolgendosi ad Anania nomina «Saulo di Tarso» (9,1) più tardi (9,30) «i fratelli… lo fecero partire per Tarso» dove Barnaba andrà a cercarlo per riportarlo ad Antiochia (11,25). Al momento del suo arresto a Gerusalemme Paolo fa due volte questa dichiarazione di identità, prima rivolto ad un tribuno romano: «Io sono un Giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non certo senza importanza…» (21,39), poi davanti alla folla: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia» (21,3). Non si vede per quale motivo Luca avrebbe inventato di sana pianta questo luogo d'origine; ma Paolo è nato a Tarso? Il problema non si poneva sino a quando non si è cominciato a prendete in seria considerazione l'informazione fornita da san Girolamo (che la traeva da Origene): «I genitori di Paolo erano originari di Gyscal, provincia di Giudea, e quando tutta la provincia fu devastata dagli eserciti romani e gli ebrei dispersi in tutto il mondo, essi furono trasportati a Tarso, città della Cilicia. Paolo, ancora giovanissimo, seguì i suoi genitori…». Girolamo riferisce altrove un'informazione simile. Questa versione dei fatti permette di attribuire un certo credito ad alcuni dati sino a quel momento difficili da spiegare. In primo luogo a quello della cittadinanza romana di cui Paolo non parla mai in prima persona, ma di cui, secondo Luca, si avvale. I suoi genitori avrebbero potuto acquisirla facilmente a Tarso, poiché, secondo Filone, «la maggior parte degli ebrei di Roma erano degli affrancati». Il nome romano Paulus («piccolo», «poco») era molto vicino all'aramaico grecizzato Saulos. A seguito della sua rivendicazione di essere «Ebreo, figlio di Ebrei» (Fil 3,5; 2Cor 11,22) essa suppone, con la Palestina, relazioni più strette di quelle di un qualunque ebreo della diaspora. Di colpo, l'informazione di Luca secondo la quale Paolo aveva a Gerusalemme un nipote, e forse una sorella diventa più credibile (At 23,16). Infine, si comprende meglio che la sua appartenenza al ramo farisaico più osservante del giudaismo sia sottolineata altrettanto da lui che da Luca (Fil 3,5 ed anche Gal 1,14; At 22,3; 23,6; 26,5). In realtà non possediamo prove certe dell’esistenza, prima della caduta di Gerusalemme, di gruppi farisaici al di fuori dei territori abitati in maggioranza da ebrei (Giudea, Galilea, Perea). Inoltre, se la famiglia di Paolo è stata deportata soltanto da una generazione (4 a.C. e 6 d.C. sono date possibili), non è strano che nella sua famiglia non si sia dimenticata l'appartenenza alla tribù di Beniamino (Fil 3,5), mentre la maggior parte degli ebrei delle antiche diaspore avevano perso la memoria dello loro radici tribali. Gli anni di studio a Gerusalemme (At 22,3) diventano più verosimili: e là, alla scuola di Gamaliele, avrebbe potuto diventare un fariseo abbastanza motivato da perseguitare la Chiesa.
Tuttavia gli storici ammettono la loro perplessità sulla possibilità di essere contemporaneamente ebrei di stretta osservanza e cittadini, di una città ellenistica come Tarso. Se la cittadinanza romana in sè, non imponeva obblighi inconciliabili con la fede, il fatto di appartenere a pieno titolo a una tale città implicava il riconoscimento di istituzioni, ivi comprese quelle culturali e religiose, difficilmente accettabili per un fariseo rigoroso. Si può pensare che Luca abbia visto in questo semplicemente un modo di collocare il suo eroe ai vertici della gerarchia sociale.
Paolo ha conosciuto Gesù di Nazaret?
Alcuni di coloro che scrivono su Gesù utilizzano un testo per pretendere che Paolo avrebbe conosciuto Gesù di Nazaret, ma avrebbe deciso consapevolmente di ignorarlo per conoscere soltanto il Risorto. Ecco il testo: «Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16). Per loro, «conoscere Cristo secondo la carne» significa «conoscere Gesù terrestre», come si conoscerebbe chiunque. Sottolineiamo che Paolo scrive qui due volte, alla lettera: «conoscere qualcuno secondo la carne». Ora, Paolo ha degli usi letterari: quando parla dell’esistenza umana di un personaggio, egli scrive sempre: «un tale (Abramo, Davide, ecc) secondo la carne». Se egli scrive qui «conoscere Cristo secondo la carne», significa che la locuzione avverbiale qualifica la conoscenza, e non il Cristo. Ora, per lui «conoscere secondo la carne» è il contrario di «conoscere secondo lo spirito», cioè una conoscenza a cui la sapienza umana non può condurre (I Cor 1-2). Paolo non dice dunque di avere incontrato in qualche occasione Gesù di Nazaret e che questo non conta. Egli dice soltanto che egli vede in ogni uomo una persona redenta dal Cristo, dunque un'altra persona! E altrettanto accade per lo sguardo che egli rivolge a Cristo! Lo storico non può dunque sapere se la via di Gesù ha incrociato quella di Paolo prima di Damasco. Non è impossibile, ma non se ne sa nulla!
Come datare la fondazione delle chiese in Europa?
I viaggi di san Paolo («il Mondo della Bibbia» n° 30) ha esposto le argomentazioni per cui le chiese di Filippi, Tessalonica e Corinto sono state fondate nei quattordici anni intercorsi tra le due prime salite di Paolo a Gerusalemme (Gal 2,1). Luca, collocando il secondo viaggio missionario dopo la riunione di Gerusalemme mostra che Paolo aveva fondato queste chiese dopo un accordo armonioso realizzato a Gerusalemme con le «colonne». Così Paolo non è più il franco tiratore di cui lui stesso dà l’idea nelle sue lettere, ma ha lavorato in pieno accordo con le direttive degli apostoli. Adottare questa nuova concatenazione dei fatti obbliga a rimettere in questione alcuni dati accettati. Così, la prima lettera ai Tessalonicesi è stata probabilmente scritta prima di quanto si supponesse. Allora, la comparsa di Paolo a Corinto davanti al proconsole Gallione, fissata attualmente con la maggiore probabilità nei 51, non ha necessariamente avuto luogo - se veramente ha avuto luogo - in occasione del soggiorno di fondazione della chiesa di Corinto. 1 e 2 Cor ne contano almeno tre, ma, come ha fatto in altre occasioni, Luca ha raggruppato questi diversi soggiorni in uno solo, e, quando il lettore lo crede terminato, il racconto riprende con la comparizione di Paolo davanti al proconsole (18,12-17). Analogamente, diventa possibile attribuire l'editto di Claudio contro g!i ebrei di Roma (At 18,2; Svetonio, Vita di Claudio, 25), alla data del 41 che ha, oggi, il favore degli storici, mentre i biografi legati allo schema di Luca si richiamano a quella del 49, che peraltro è stata fissata soltanto nel V secolo, in funzione della supposta datazione della fondazione della chiesa di Corinto: un perfetto circolo vizioso!
Su cosa ci si è accordati a Gerusalemme?
«A me, da quelle persone ragguardevoli (Giacomo, Cefa e Giovanni), non fu imposto nulla di più. Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi...» (Gal 2,6-7). Si tratta di una spartizione geografica dei «territori di missione»? Non è assolutamente verosimile, dato che le comunità a cui si rivolge la prima lettera di Pietro coesistono, nelle stesse province, con delle Chiese paoline. È una spartizione su base etnica? Nemmeno! Cristiani di origine ebraica sono relativamente numerosi a Filippi e a Corinto, e le Chiese che dipendono da Pietro contengono degli antichi pagani (1 Pt 2,18-3,2). L'ipotesi più moderata è quella di un accordo non privo di ambiguità (Cf l'incidente di Antiochia, Gal 2,11ss): esso permetteva che Paolo non chiedesse la circoncisione da parte pagani, ma permetteva anche a Pietro e agli altri di lasciare i cristiani venuti dal giudaismo liberi di conservare le tradizioni, compresa la circoncisione. Paolo ha interpretato l'accordo in senso rnassimalista, ma oggi sappiamo che l'incarnazione della fede nelle culture è lenta e un decreto non è sufficiente perché tutto funzioni secondo i principi, soprattutto in materia di alimentazione! Pietro ne era forse più consapevole.
Un terzo viaggio missionario?
I biografi di Paolo abitualmente raccontano di un terzo viaggio missionario, il cui collegamento con la fine del secondo è problematico: «Giunto a Cesarea, si recò a salutare la Chiesa di Gerusalemme e poi scese ad Antiochia. Trascorso un po' di tempo, partì di nuovo percorrendo di seguito le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli» (At 18,22-23). E il versetto successivo ci conduce in piena Chiesa di Efeso. Queste centinaia di chilometri superati con poche parole dopo la partenza da Corinto (18,18) si spiegano con lo spostamento della riunione di Gerusalemme di cui ho appena detto. In realtà, è dopo la fondazione delle Chiese di Macedonia e di Grecia che Paolo, sbarcato a Cesarea, riscese ad Antiochia, a prendere con sé Barnaba, e, in compagnia di Tito, «salire a Gerusalemme». Dopo la riunione narrata in Gal 2,1-10 (e trascritta da Luca in At 15), Paolo è ritornato ad Antiochia e, dopo l'incidente con Paolo, appoggiato dal fedele Barnaba, è partito per installarsi ad Efeso, ma il suo soggiorno fu interrotto da necessità: il viaggio a Corinto dove era richiesta la sua presenza; e soprattutto mantenimento della promessa di venire in aiuto ai cristiani di Gerusalemme (Gal 1,10).
Paolo ha fondato Chiese in Illiria?
Si potrebbe pensarlo leggendo Rm 15,11ss, in cui egli fa il bilancio della sua missione: «Così da Gerusalemme e dintorni fino all'Illiria, ho portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo. Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo...». In due parole, egli percorre tutto lo spazio della sua passata vita apostolica. Ma i limiti che egli fornisce sono da intendere in senso inclusivo o esclusivo? La limitazione che egli aggiunge quanto ai luoghi che ha rifiutato di evangelizzare esclude ogni rivendicazione guardante Gerusalemme: la Chiesa esisteva prima di lui!. È dunque logico non includere l'llliria (attuale Albania), e di comprendere tra Gerusalemme e l'llliria, escludendo l'una e l'altra: egli ha, in realtà, evangelizzata con successo le province limitrofe della Macedonia da un lato, e della Siria dall'altro, per non parlare dei suoi inizi presso gli arabi Nabatei in Transgiordania.
Quali furono i suoi ultimi progetti missionari?
Paolo li espone alla fine della lettera ai Romani: «Avendo già da parecchi anni un vivo desiderio di venire da voi, quando andrò in Spagna spero, passando, di vedervi, e di esser da voi aiutato per recarmi i quella regione». In quel momento (inverno 55-56) quando scrive ai Romani prima di portare a Gerusalemme la colletta che gli ha causato tante preoccupazioni, Paolo non è più l’inviato ufficiale di una Chiesa, come lo ero stato in altri tempi di quella di Antiochia, prima del disaccordo di Gal 2,11ss. Viene da dire che la sua vocazione non l'invia là dove Cristo è già conosciuto. La Spagna ben risponde a questi criteri: essa è quella «estremità della terra» alla quale era inviato il Servo di Jahwè al quale egli si paragona in Gal 1,15 («io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» Is 49,6); e siccome là non vi è diaspora ebraica, il suo invio «alle nazioni» troverebbe dunque una destinazione ideale; essa è a qualche giorno di navigazione da Ostia, il porto di Roma; egli può trovare a Roma dei collaboratori che conoscano le regioni occidentali dell'Impero e forse la lingua di popolazioni che non parlano il greco; senza parlare dl quell’aiuto finanziario che i Filippesi gli hanno largamente fornito quando lavorava nelle province orientali. Potersi presentare come un rappresentante ufficiale della Chiesa di Roma sarebbe per lui una carta sicura, forse una condizione necessaria. È questo il motivo per cui, a questa chiesa in cui sono numerosi gli ebrei, egli scrive i tre capitoli più positivi di tutta la sua corrispondenza sul ruolo di Israele nella storia della salvezza (9-11). Paolo ha realizzato questo progetto? Cronologicamente, nulla vi si oppone: prima della data probabile della sua morte a Roma, ne avrebbe avuto il tempo, ma le cose non si sono svolte come previsto: il viaggio che egli annuncia ai cristiani di Roma lo farà come imputato, nella speranza che l'imperatore lo assolva da tutto ciò di cui lo hanno accusato gli ebrei di Gerusalemme. Egli poté essere assolto ed essersi recato in Spagna, ma, sembra, senza grande successo. Non aveva probabilmente ben misurato tutta la difficoltà dell'impresa, presso popolazioni molto diverse per razza, cultura e lingua. Comunque sia, Clemente dì Roma, che scrive una lettera verso l'anno 95, suggerisce che egli ha per lo meno tentato: «Paolo… ha toccato i confini dell'Occidente...». Per uno che abita a Roma, i «confini dell'Occidente» non possono essere che il limite occidentale dell'Impero romano.
La colletta di Paolo è stata accettata?
Paolo non ha avuto l'occasione di scriverne. Si dice che Luca non parli mai della colletta, e per taluni questo silenzio nasconde il rifiuto che Paolo temeva in Rm 15,31: questo rifiuto avrebbe significato, per Giacomo e i suoi fedeli, che la comunione con le Chiese paoline non esisteva veramente. Trattare questa ingiuria col silenzio sarebbe proprio dello stile di Luca: egli tace sui conflitti che non fanno onore alle Chiese. Ma non è certo che Luca non dica nulla della colletta. Secondo 24,17; egli ne testimonia in maniera indiretta: «Sono venuto a portare elemosine al mio popolo», dichiara Paolo al governatore. E in 21,19, nella frase: «egli [Paolo] cominciò a esporre nei particolari quello che Dio aveva fatto tra i pagani per mezzo del suo ministero, la parola «ministero» è quella con cui Paolo designa la colletta, quando ne parla ai Romani (15,31). Essa avrebbe avuto, anche per Luca, benefici effetti nelle Chiese paoline. Nel difficile quadro storico di quest’epoca i cristiani di Gerusalemme ne avevano bisogno, e non avrebbero potuto permettersi un tale rifiuto.
Che cosa si sa del suo martirio?
Luca chiude il libro degli Atti con l'arresto di Paolo a Gerusalemme, le tappe del suo processo dinanzi alle autorità provinciali, il suo movimentato viaggio verso Roma a somiglianza di un Giona fedele alla sua missione, e il suo arrivo nella capitale. I commentatori che accettano l'autenticità di 2 Tm pensano di beneficiare di altre informazioni e avanzano ipotesi sull'esito positivo del suo processo, la sua liberazione, la realizzazione del suo progetto spagnolo, un nuovo apostolato nelle province orientali e nel mar Egeo, prima di un secondo arresto e la prospettiva del martirio. La prudenza vuole una maggior moderazione nelle certezze ed è poco onesto ammettere la propria ignoranza. Il martirio di Paolo c(i è noto soltanto attraverso una tradizione ecclesiale difficilmente contestabile perché testi e culto convergono. Lo storico Eusebio di Cesarea (313) riferisce la testimonianza di Tertulliano, scrittore romano cristiano, che lo colloca nel contesto della persecuzione di Nerone: «Leggete le vostre memorie: vi troverete che Nerone, per primo, ha perseguitato questa fede, soprattutto nel momento in cui, avendo sottomesso l'intero Oriente, si mostrò crudele verso tutti. Noi siamo orgogliosi che tale condanna venga da un tale promotore». Ed Eusebio prosegue: «Si racconta che, sotto il suo regno, Paolo sia stato decapitato a Roma ed anche Pietro sia stato crocifisso, e questo racconto è confermato dai nomi di Pietro o di Paolo che ancor oggi sono dati ai due cimiteri di questa città». Si ricostruisce questa fase della storia come segue: a seguito dell'incendio di Roma (luglio 64) i cristiani, secondo la testimonianza di Tacito, furono accusati perché fosse discolpato Nerone (primavera 65). Allora si svolsero le scene orribili descritte in Annali XI. È verosimile che Pietro sia stato crocifisso in questo contesto. Inoltre, la decapitazione di Paolo comporta un regolare processo, che si sarebbe svolto un poco più tardi ma prima del suicidio di Nerone il 9 giugno del 68. Si può ipotizzare la data del 67.
(Michel Trimaille, Professore di Sacra Scrittura nel Seminario maggiore del Vietnam, nel Seminario delle Missioni Estere di Parigi e nell’Institut Catholique di Parigi).
Il verbo ebraico barâ, «creare», può essere riferito sia all'azione di Dio che «plasma» il suo popolo liberandolo dall'oppressione sia all'opera iniziale della creazione dell'universo.
La comparsa del monoteismo
in Israele
prima dell'esilio
di Andrè Lemaire

La religione dell’antico Israele era veramente monoteista fin dalle sue origini? Come si è passati da una secolare monolatria all’affermazione dell’incomparabilità del Dio d’Israele e della sua assoluta esclusività? La storia del monoteismo biblico non è una storia lineare. È la storia di tradizioni e influenze diverse, patriarcali, cananee, e un lungo processo di maturazione religiosa si ricompose in uno stupefacente lavoro di memoria e di scrittura. La monarchia e il rapporto con le altre nazioni, l’esilio babilonese, la cancellazione di qualsiasi rappresentazione divina hanno contribuito all’elaborazione dell’espressione monoteista di una fede originale.
Fede in un solo Dio, in un Dio unico, il monoteismo è considerato come uno dei fondamenti della tradizione giudeo-cristiana, che si radica nella storia dell'antico Israele. In realtà, i dizionari offrono spesso come esempio concreto di monoteismo il «monoteismo ebraico», citando talora i primi Comandamenti del Decalogo:
Io sono il Signore, tuo Dio...
Non avrai altri déi...
Non ti farai idolo né immagine alcuna.
Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai...
(Es 20,2-4; Dt 5,6-9);
o anche lo Šema' Israel:
Ascolta, Israele:
il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno solo (Dt 6,4).
La religione dell'antico Israele era veramente monoteista sin dalle origini? Certi passi antichi della Bibbia sembrano indicare di no, dato che ammettono l’esistenza di altri dèi. Da un lato, certe tradizioni patriarcali attestano una certa pluralità di nomi di divinità (teonimi): El ‘Elyon (Gn 14,18-22; cf Nm 24,16; Dt 32,8…), El Roy (Gn 16,13-14), El Šadday (Gn 21,33: 28,3; 35,11... cf Nm 24,16...), El ‘Olam (Gn 21,33), El Betel (Gn 31,13), Pah)ad (Gn 31,42), Ba’al Berit (Gdc 8,33; 9,4), EI Berit (Gdc 9,46)…
D'altra parte, parecchi testi antichi presentano Yahwè, il dio d’Israele, come facente parte di un consesso di dèi, di un «pantheon», che presuppone l'esistenza di altri dèi, dunque di un certo politeismo. Così:
Dio si alza nell'assemblea divina,
giudica in mezzo agli dei (Sal 82,1).
I cieli cantano le tue meraviglie.
Signore, la tua fedeltà nell'assemblea dei santi.
Chi sulle nubi è uguale al Signore,
chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?
Dio è tremendo nell'assemblea dei santi,
grande e terribile tra quanti lo circondano...
(Sal 89,6-8; cf anche Gb 1,6; 2,1; 38,7).
La monolatria dell'antica religione di Israele
Monoteista o politeista? La religione dell'antico Israele non si lascia imprigionare in questa alternativa perché essa non è in origine il frutto di una riflessione filosofica, di una concezione teorica del mondo divino, ma una religione pratica che si manifesta, in particolare, nel culto e nella morale. Nel contesto generale del politeismo dell'antico Vicino Oriente, la Bibbia pone l'accento sull'unicità e l'esclusivismo della divinità nazionale del popolo d'Israele, che non doveva rendere culto a nessun altro dio. È quello che viene definito monolatria, che afferma un legame particolare ed esclusivo tra il popolo ed una sola divinità. La monolatria dell'antica religione d'Israele suppone implicitamente anche una certa concezione politeista del mondo divino e si precisa un poco alla luce di un testo poetico antico del Deuteronomio (32,8) dove si afferma che Yahwè è il Dio d'Israele, ma si riconosce che le altre nazioni hanno altri dèi:
Quando l'Altissimo (Elyon) divideva i popoli,
quando disperdeva i figli dell'uomo,
egli stabili i confini delle genti
secondo il numero dei figli degli dèi.
Un tema simile è svolto in Mic 4,5:
Tutti gli altri popoli camminino pure
ognuno nel nome del suo dio,
noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro,
in eterno, sempre.
Secondo questa concezione, ogni popolo ha il suo proprio dio, la sua propria divinità nazionale. In realtà, secondo la tradizione biblica, Yahwè è chiaramente il dio mentre Israele è il popolo di Yahwè. Questo legame particolare ed esclusivo è splendidamente espresso dalle immagini dell'alleanza tra Yahwè e Israele. Ritorna nell'aggettivo «geloso» attribuito a Yahwè e il suo carattere esclusivo è sottolineato dalle numerose proibizioni imposte a Israele di «servire» divinità straniere. Il carattere monolatrico della religione dell'antico Israele risale probabilmente alle origini dello Yahwismo e all'uscita dall'Egitto. Secondo le più antiche tradizioni bibliche è Mosè, al quale Yahwè si manifesta, che la impone come unica divinità dei clan che lasciano l'Egitto, a cui rendere culto (Es 3,18; 5,1-3). Si ritrova in seguito questo carattere monolatrico chiaramente espresso dalle diverse tradizioni bibliche a proposito dell'alleanza di Sichem secondo le quali nuovi clan, legati probabilmente alla tradizione patriarcale dei «figli di Giacobbe», si sono riuniti ai «figli d'Israele», rinunciando alle loro divinità precedenti e scegliendo Yahwè come l'unica divinità della nuova confederazione israelita (Gs 24; ef Gn 35,2-5; Gs 8,30-35...). Verso la fine del II millennio, all'epoca di Davide, questa concezione religiosa si impose anche alla popolazione del nuovo regno di Giuda: Davide era un fervente yahwista che aveva assunto al suo servizio e protetto Abiatar, il discendente dei sacerdoti del santuario yahwista di Silo legato alla tradizione mosaica (cf I Sam 22,20-23).
Oltre alla persistenza di tradizioni religiose cananee, lo yahwismo monolatrico dell'epoca monarchica si scontrò più volte con forti influenze straniere. Così, sotto il regno di Acab (874-853 circa), il carattere esclusivo del culto di Yahwè in Israele fu particolarmente minacciato dalla diffusione del culto di Ba'al introdotto dalla moglie di Acab: Gezabele. figlia del re di Sidone (I Re 16,31-32). La dura reazione del profeta Elia si manifesta nello scontro del monte Carmelo: il popolo deve, di nuovo, scegliere il proprio Dio: Yahwè o Ba'al (2 Re 18,21). Il culto esclusivo ufficiale dì Yahwè sarà finalmente ristabilito in seguito al colpo di stato di Ieu nell'841 che eliminò Ba'al da Israele (2 Re 10,27). Nell'835, mettendo fine alla reggenza di Atalia, il colpo di stato del sacerdote Yehoyada ottenne lo stesso risultato a Gerusalemme. Si noterà che, in quest’epoca, una religione monolatrica abbastanza similare era apparentemente praticata da certi vicini di Israele, in particolare nel regno di Moab: Kamoš era riconosciuto come il dio di Moab (I Re 11,33) e Moab come il popolo di Kamoš (Nm 21,29; Ger 48,46). Secondo la stele di Meša, re di Moab (nel IX sec. a.C.), appartenere a Kamoš e appartenere a Moab è tutt'uno (linea 12) e l'espansione del territorio moabita si traduce nella sistetitatica distruzione dei santuari yahwisti, sostituiti da Santuari dedicati a Kamoš: essendo queste religioni entrambe monolatriche, il culto di Yahwè, citato più volte sulla stele, non può sussistere nel regno di Moab! L’importanza del culto di Kamoš è confermata dalle numerose citazioni di questo nome nell'onomastica moabita, attestata essenzialmente da sigilli o stampigliature.
La difficile affermazione di un'unica divinità
Nel secolo VII e in particolare durante il regno di Manasse (699-645 circa), la dominazione politica assiro-aramaica si manifesta attraverso la diffusione del culto degli astri, ben attestato grazie allo studio dei sigilli di quest’epoca e della Bibbia: il re Manasse in persona si prostrò davanti a tutta la milizia del cielo e la servì... Costruì altari a tutta la milizia del cielo nei due cortili del tempio (2 Re 21,3.5), Nonostante questo, con la decadenza del dominio assiro, in riforma di Giosia reagì con vigore contro l'espansione di questi culti e destituì i sacerdoti... che offrivano incenso a Ba’al, al sole e alla luna, alle stelle e a tutta la milizia del cielo (2 Re 23,5; cf Dt 4,19).
Così, la monolatria della religione israelita fu più volte messa in pericolo dalle influenze esterne legate all'evolversi del contesto internazionale. Il pericolo poteva venire anche da Israele stesso: due tendenze, legate allo sviluppo dei santuari tradizionali yahwisti. minacciarono il carattere esclusivo e unico del culto di Yahwè all'interno stesso del popolo d'Israele: l'eccessiva sacralizzazione di certi aspetti dei santuari tradizionali e la diversità stessa di questi santuari.
Le tradizioni israelitiche più antiche descrivono i santuari israeliti come costituiti fondamentalmente da un altare, da una stele e da un albero sacro. Le leggende patriarcali di fondazione di questi santuari mettono bene in luce questi tre aspetti: mentre Giacobbe alza una pietra come stele a Betel (Gn 28,19-22), Abramo piantò un tamerice in Bersabea (Gn 21,33) dove Isacco costruì in seguito un altare (Gn 26,25). Per riprendere l'esempio dell'alleanza in Sichem, il testo precisa, nella parte finale, che poi Giosuè... prese una grande pietra e la rizzò là, sotto il terebinto (cf Gn 12,6; 35,4; Gdc 9,6.36) che è nel santuario del Signore (Gs 24,26).
In modo abbastanza ovvio la stele e l'albero sacro si sono trovati a partecipare della potenza divina di Yahwè, ad essere tanto sacralizzati da diventare quasi di sostanza divina. Questo è ben dimostrato dalle iscrizioni paleoebraiche della prima metà dell'VIII sec. a.C. in cui l'ašerah, cioè l'albero sacro del santuario, è citata accanto a Yahwè nelle formule di benedizione:
Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Samaria e attraverso la sua Ašerah (Kuntillet 'Ajrud, Pithos 1);
Io vi benedico per mezzo di Yahwé di Teman e la sua Ašerah (Pithos 2);
Sia benedetto Uriyahu attraverso Yahwè e la sua Ašerah (Khirbet el Qom 3).
Queste formule indicano che l'albero sacro (Ašerah) dei santuari yahwisti stava diventando, per gli Israeliti, una potenza sacra indipendente, di sostanza divina, uguale e rivale di Yahwè. Questa evoluzione provocò presto una vivace reazione da parte dei profeti (Am 3,14; Os 3,4; 4,12; 10,1-2; Mic 5,12-13) che sfociò nelle riforme religiose di Ezechia (2 Re 18,4) e di Giosia (2 Re 23,6), codificate nel Deuteronomio (16,21);
Non pianterai alcun palo sacro (Ašerah),
di qualunque specie di legno,
accanto all'altare del Signore tuo Dio,
che tu hai costruito;
non erigerai alcuna stele [masseba]
che il Signore tuo Dio ha in odio.
Le formule di benedizione di Kuntillet 'Ajrud che citano «Yahwè di Samaria» e «Yahwè di Teman» rivelano un'altra evoluzione che rischiava di portare ad una pluralità divina all'interno stesso di Israele: il legame della persona di Yahwè con i suoi diversi santuari e la sottolineatura di caratteri divini particolari in ciascuno di questi, col rischio di mettere a poco a poco in ombra il fatto che si trattava pur sempre della stessa persona divina. È un fenomeno abbastanza simile a quello che avviene nella tradizione cattolica nel culto della vergine Maria con i diversi appellativi «Madonna di Chartres», «Madonna di Lourdes», «Madonna di Fatima»… che, nella religiosità popolare, hanno talora la tendenza a diventare altrettante personalità distinte. Come per l'eccessiva importanza attribuita agli alberi sacri, questa evoluzione della religiosità popolare comportò una vivace reazione dei profeti che criticava l'eccessiva rivalutazione dei santuari locali (cf, per esempio, Am 4,4; 5,5) e portarono alla soppressione ufficiale di questi santuari al momento delle riforme di Ezechia (2 Re 18,4.22)e di Giosia (2 Re 23,8.15), soppressione nuovamente riaffermata nel Deuteronomio (12,2-5). Probabilmente è il proprio questa opposizione al culto yahwista dei diversi santuari che spiega l'insistenza del Deuteronomio sull'unicità della divinità nazionale: Yahwè è uno solo (6,4).
Il rifiuto delle immagini
Il ricordo di queste tendenze, di queste lotte e di queste riforme mostra con chiarezza che la monolatria dell’antico Israele non fu un’acquisizione antica, più o meno dimenticata, ma un principio ben vivo che porta, in un contesto del vicino Oriente spesso politeista, a una certa purificazione del concetto del Dio d'Israele. Questo approfondimento del concerto della divinità fu anche fortemente segnato da un altro aspetto dello yahwismo che sembra risalire alle sue origini: il suo aniconismo, cioè la proibizione, espressa nel Decalogo, di rappresentare la divinità nazionale con un'immagine o una rappresentazione scultorea. La ricerca contemporanea ha rivelato che questa caratteristica va collocata probabilmente in origine nel più generale contesto del culto delle stele, ben attestato nel culto semitico occidentale. Tuttavia, paradossalmente, nell'antico Israele, questo aniconismo fu teorizzato e sistematicizzato, conducendo alla fine persino al rifiuto del culto delle stele (Dt 16,21). Quest'ultimo aspetto della monolatria israelita ha potuto rivestire un ruolo importante nell'approfondimento verso la concezione di un Dio unico, universale trascendente. In realtà l'aniconismo ha, almeno in parte, alimentato la polemica contro gli dèi stranieri. Ciò appare già nel racconto della sosta dell'arca di Yahwè nel tempio di Dagon ad Ašdod (I Sam 5,2-5): la statua di Dagon è dapprima trovata in terra davanti all’arca, poi senza la testa e le mani. Attraverso questo racconto, Dagon non è solo messo in discussione in quanto dio straniero, inferiore a Yahwè. ma anche perché è rappresentato da una statua la cui mutilazione rivela l'impotenza.
L'impotenza degli dèi stranieri è spesso sottolineata dai profeti: sul monte Carmelo, Ba'al non è contestato solo perché è un dio straniero, fenicio, ma anche a causa della sua impotenza, come sottolinea Elia alludendo alla sua mitologia:
... egli è un dio! Forse è soprappensiero
oppure indaffarato o in viaggio;
caso mai fosse addormentato... (1 Re 18,27).
Analogamente, una critica implicita dell'impotenza degli dèi stranieri è posta in bocca a Rabšaqeh, un inviato di Sennacherib presso Ezechia: Forse gli dèi delle nazioni hanno liberato ognuno il proprio paese dalla mano del re d'Assiria? Dove sono gli dèi di Amat e di Arpad? Dove sono gli dèi di Sefarvaim, di Ena e di Ivva?... Quali, mai, fra tutti gli dèi di quelle nazioni, hanno liberato il loro paese dalla mia mano? Potrà forse il Signore liberare Gerusalemme dalla mia mano? (2 Re 18,33-35; cf 19,12-13).
Al contrario, la tradizione biblica sottolinea la potenza di Yahwè, capace di opporsi agli attacchi dei nemici (cf oltre, sotto Ezechia), o di usarli come strumento per punire Israele (Is 10,5-19). La potenza di Yahwè non si arresta dunque ai confini dell’antico Israele: Yahwè può esercitare la sua potenza anche sugli stranieri, e persino su re stranieri. È già in parte la storia della guarigione del generale arameo Naaman (IX sec.) che riconosce la straordinaria potenza del Dio d'Israele:
Ebbene, ora so che non c'è Dio su tutta la terra se non in Israele... Almeno sia concesso al mo servo di caricare qui tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore... (2 Re 5, 15- 17). Si vede qui sorgere una tendenza verso l'espressione di un monoteismo universalistico.
Certi passaggi biblici del Deuteronomio (4,35.39; 32,39), della storia deuteronomista (2 Sam 7,22: 22,32) e di Geremia (2,11; 16,19-21) si spingono oltre in questa direzione, criticando le altre divinità ed affermando esplicitamente che Yahwè è il solo Dio, che domina l'universo. Tuttavia, con la maggior parte dei commentatori, si nota che tutti i passaggi sembrano appartenere ad uno strato redazionale tardivo, probabilmente esilico. Ricordiamo, ad esempio, Ger 2,11:
Ha mai un popolo cambiato dèi?
Eppure quelli non sono dèi!
in cui la sottolineatura che gli dèi delle altre nazioni non sono veramente dèi sembra una glossa aggiunta al testo originario.
In realtà, le prime chiare affermazioni del monoteismo israelita sembrano quelle del Deutero-Isaia, che risalgono probabilmente alla fine dell'Esilio, al 550-539 circa:
Prima di me non fu formato alcun dio,
né dopo ce ne sarà (Is 43,10-11).
Io sono il primo e io l'ultimo;
fuori di me non vi sono dèi (Is 44,6-8; cf 45,5-7.18.21-22).
Come l'autore di questi testi ha potuto operare il salto dalla secolare monolatria dell'antico Israele alla chiara affermazione del monoteismo? Se si presta fede al resto degli scritti di questo profeta dell'Esilio (cf in particolare Is 44,9-20; 45,20; 46,6-7...), questo sviluppo teologico si afferma a partire da una riflessione sull'impotenza degli altri dèi, specialmente di quelli rappresentati da immagini o statue. In realtà, posto a confronto con un contesto in cui le divinità dei signori dell'Impero neobabilonese erano rappresentati abitualmente da statue, il profeta le rifiuta d'istinto, partendo dalla tradizione aniconica israelitica.
Così, la riflessione sull'unicità di Yahwè è maturata nel corso di parecchi secoli e i profeti hanno dovuto all’inizio combattere per difendere il carattere monolatrico della religione israelita contro diversi influssi esterni e alcune tendenze della religione popolare. Anche se si scorgono alcuni annunci precedenti, è soprattutto l'approfondimento della tradizione aniconica nel contesto storico dell'Esilio babilonese che sembra aver reso possibile il passaggio dalla religione monolatrica delle origini mosaiche, che proclamava Yahwè come l'unico Dio d'Israele, ma che poco si curava dello statuto degli dèi di altri paesi, alla chiara affermazione del monoteismo ebraico secondo il quale Yahwè è il solo vero Dio, Signore dell’universo.
* Direttore del Dipartimento alla École Pratique des Hautes Études, sezione scienze storiche e filologiche
(da Il mondo della Bibbia n. 47)
Il “genere letterario” è un modo specifico di parlare di una esperienza o di raccontare un evento che corrisponde alla mentalità, agli usi e costumi di una determinata epoca e cultura.
Gesù nei Vangeli apocrifi
Un Cristo «così umile e così nobile»
di Rémi Gounelle
(Università di Losanna)

Il dibattito sulla natura di Gesù, che inizia già alla fine del I secolo, è presente in alcuni Vangeli apocrifi. La fede in Gesù come fonte della salvezza segna in profondità la rappresentazione che essi propongono circa la figura di Gesù: numerosi sono i testi che insistono sulla sua origine celeste e sulla sua divinità per spiegare come egli ha portato all’umanità la salvezza. Gli apocrifi riflettono lo stato della riflessione teologica sull’umanità e la divinità di Gesù dell’ambiente che li ha prodotti.
Tutti gli apocrifi cristiani che ci sono stati conservati non s'interessano all'identità di Gesù. Una parte di questi è dedicata alle avventure degli apostoli, messaggeri del Vangelo in lontane contrade, o ad altri protagonisti delle gesta cristiane, come Anna e Gioacchino (i genitori di Maria), Pilato, Erode o Maria Maddalena. Un certo numero, inoltre, di quelli che narrano l'infanzia o la morte di Gesù permangono talmente vaghi circa la sua identità che è difficile riportarli all'una o all'altra delle correnti che si sono confrontate su questo argomento. L'esempio più chiaro è costituito probabilmente dagli Atti di Pilato, composti in un'epoca in cui l'arianesimo era al centro dei dibattiti teologici: l'autore di questo racconto della passione e della risurrezione di Cristo non mirava a dire chi era Gesù, ma a dimostrare la conformità degli eventi che gli erano accaduti con le profezie dell'Antico Testamento; si limita dunque a designare Gesù ricorrendo al titolo di «figlio di Dio», ripreso dai Vangeli canonici, e non dice nulla dei suoi rapporti con il Padre. È pertanto estremamente difficile stabilire se l'autore degli Atti di Pilato era favorevole o contrario alle decisioni adottate dal Concilio di Nicea nel 325. Il silenzio di questo apocrifo sull'identità di Gesù non significa necessariamente che il suo autore ignorasse del tutto le vivaci polemiche del suo tempo. Poiché ha evitato gli argomenti che all'epoca erano in discussione, si può ben credere che ne avesse conoscenza, e che abbia preferito non affrontarli perché inutili allo scopo che si prefiggeva: indurre gli Ebrei a convertirsi al cristianesimo.
Un essere celeste
Un certo numero di apocrifi ha partecipato in modo più esplicito alla riflessione sulla natura di Gesù, che è iniziata sin dai primi tempi del cristianesimo. Così, nella parte più antica dell'Ascensione di Isaia (6-14), databile alla fine del I secolo, Gesù è rappresentato come «l 'Eletto il cui nome non è stato rivelato e di cui nessuno dei cieli può conoscere il nome» (8,7-10); questo «prediletto» (cf Mt 12,18) «scenderà [...] negli ultimi giorni»; sarà «chiamato Cristo dopo che sarà disceso e avrà assunto il vostro aspetto e si crederà che sia carne e uomo» (9,13). Egli scenderà, senza essere riconosciuto, di cielo in cielo sino alla terra; entrerà in Maria, di dove uscirà senza conoscere una vera nascita (10,11.16.18). Gesù dunque non è veramente un essere umano, ma un essere celeste, che ha indossato diverse identità - tra cui quella di uomo - per liberare l'umanità dal dominio delle potenze angeliche. Questo gioco di apparenze gli ha permesso di scendere incognito dai cieli, e di risalirvi come Signore vittorioso.
Rappresentazioni datate
Per quanto possa apparire sorprendente agli occhi del lettore moderno, questa rappresentazione di Gesù come essere celeste preesistente, la cui incarnazione è soltanto apparente, non è strana alla fine del I secolo o nel II, epoca in cui la dottrina della doppia natura non era stabilita.
Il fatto è che gli apocrifi non sono fuori del tempo: che i loro autori lo abbiano consapevolmente voluto oppure no, essi hanno riflettuto nelle loro opere gli interessi e le idee dei loro ambienti. L'accentuazione che numerosi apocrifi pongono sulla divinità o sull'origine celeste di Gesù si spiega in questo contesto: gli autori di questi apocrifi hanno cercato di comprendere come Gesù ha portato la salvezza agli uomini, e quale beneficio l'umanità ha tratto dalla sua venuta. Questa riflessione sulla salvezza li ha indotti a interessarsi più a quanto faceva di lui il Signore e il Salvatore che del carattere umano di Cristo.
Le soluzioni che hanno trovato riecheggiano la riflessione teologica del loro tempo: gli apocrifi più antichi, come l'Ascensione di Isaia, rappresentano la figura di Cristo in modo «arcaico», mentre i più recenti dipendono dai sistemi teologici più «elaborati» del loro tempo, articolando in maniera più o meno sottile divinità e umanità. Da questo punto di vista la letteratura apocrifa porta alla storia dei dogmi e delle idee soltanto testimonianze simili a quelle conservate nelle omelie, nei trattati e nelle liturgie, anche se permette, talora, di capire meglio una rappresentazione della natura di Cristo altrimenti poco conosciuta -è uno dei contributi dell'Ascensione di Isaia.
Il Signore e il Salvatore
Una rappresentazione particolarmente elaborata della natura di Gesù si trova nel racconto della discesa di Cristo agli inferi, aggiunta - probabilmente nel VI secolo - agli Atti di Pilato greci per formare il Vangelo di Nicodemo latino. Per l' autore di questo racconto, come per quello dell'Ascensione di Isaia, si tratta di determinare come l'umanità sia stata liberata dal potere della morte e di Satana.
L'autore dei cc. 17-27 del Vangelo di Nicodemo latino (recensione A) vede nella salvezza dell'umanità la conseguenza della «maestà divina» di Cristo e della sua onnipotenza (cf 18,1; 22,2; 26). Cristo, coeterno al Padre (18,1), è il «Re della Gloria» (21,1), un «Dio forte e possente, dotato di poteri anche nella sua umanità» (20,3), come dice il salmo 24(23),7-10. Divenuto uomo, ha potuto ingannare le potenze infernali: esse hanno creduto che egli fosse un uomo come gli altri, e hanno pensato di potersi impadronire di lui dopo la morte (20); ma significava dimenticare che, se Gesù «è potente nella sua umanità [perché opera miracoli] [...] è onnipotente nella sua divinità, e nessuno può resistere alla sua potenza» (20,2) Nel mondo degli inferi, Cristo ha vinto Satana e ha liberato l'umanità dal suo potere, ridandole la sua originaria libertà (22,1).
L'autore di questo racconto della discesa agli inferi si è preso cura di articolare in modo ortodosso le due nature - umana e divina - di Cristo: in quanto Dio, Cristo è incorruttibile; in quanto uomo, è corruttibile. Egli è di volta in volta «così grande e così piccolo, così umile e così nobile, di volta in volta soldato e generale, guerriero ammirabile sotto aspetto di schiavo, e Re della Gloria morto e vivente» (22,1).
Discorso di fede
Opera di credenti di altri tempi, gli apocrifi cristiani sono testi che testimoniano la fede dei loro autori, e dei loro lettori. La loro rappresentazione della figura di Gesù è al servizio di questa fede in un individuo che porta la salvezza. Per capire perché un apocrifo definisce in un certo modo l'identità di Gesù, è importante essere attenti al modo in cui concepisce la storia della salvezza, e il ruolo di Gesù in essa. Questa non è una particolarità degli apocrifi: la questione della salvezza dell'uomo è al centro delle controversie sull'identità di Gesù nei primi secoli della Chiesa, e modella le nostre rappresentazioni attuali, per quanto umanistiche possano essere.
Abramo e Isacco:
modelli di amore e libertà
di Claudio Stercal

Nel Trattato dell'amore di Dio, pubblicato nel 1616, san Francesco di Sales (1567-1622) si propone di «ripresentare con semplicità e naturalezza, senza arte e ancor più senza finzioni, la storia della nascita, del progresso, della decadenza, delle operazioni, proprietà, vantaggi ed eccellenze dell'amore divino» (S. Francesco di Sales, Trattato dell'amore di Dio, prefazione).
A conclusione dell'opera offre Alcuni suggerimenti per il progresso dell'anima nel santo amore e tra questi una Esortazione al sacrificio del nostro libero arbitrio a Dio. Abramo «viva immagine dell'amore più forte e leale che si possa immaginare in qualsiasi creatura» (Ivi, 1, XII, c. X), è proposto tra i modelli più significativi di quel «santo amore». Il riferimento è, in particolare, ai suoi due grandi sacrifici: quello dei «più forti affetti naturali» (cf Gn 12,1-5) e la disponibilità al sacrificio del figlio Isacco (cf Gn 22).
Non senza l'intenzione di sorprendere il lettore, san Francesco di Sales mostra la sua ammirazione non solo per la «longanimità» di Abramo, ma anche e, forse, soprattutto, per la «magnanimità» del figlio Isacco: «È veramente una meraviglia, ma non così grande, vedere Abramo, già vecchio e molto sperimentato nella scienza di amare Dio, e fortificato dalla recente visione e parola divina, fare quest'ultimo sforzo di lealtà e di dilezione verso un Maestro, di cui aveva così spesso sentito e assaporato la soavità e la provvidenza; ma vedere Isacco, nella primavera della sua età, ancora novizio e principiante nell'arte di amare il suo Dio, offrirsi, sulla sola parola del padre, al coltello e al fuoco per diventare olocausto di obbedienza alla divina volontà, è cosa che sorpassa ogni ammirazione (Ivi).
Gli esempi di Abramo e Isacco sono, quindi, proposti per muovere non solo gli anziani, ma anche i giovani a donare a Dio non solo ciò che hanno, ma anche ciò che sono: «Signore Gesù, quando sarà mai che, dopo avervi sacrificato tutto quello che abbiamo, vi immoleremo tutto quello che siamo?», E con il linguaggio «sacrificale» e «immolazionista» - lontano dalla nostra sensibilità, ma ricco per i suoi riferimenti al sacrificio della croce e all'eucaristia - san Francesco precisa che per donare ciò che siamo dobbiamo donare la nostra libertà: «Quando vi offriremo in olocausto il nostro libero arbitrio, unico figlio del nostro spirito?». E proprio il dono dell'«unico figlio del nostro spirito» - bella espressione per indicare la nostra libertà -, lasciato «ardere» dall'amore per Gesù, ci consente di partecipare al suo sacrificio: «Quando lo legheremo [= il libero arbitrio] e stenderemo sul rogo della vostra Croce, delle vostre spine, della vostra lancia, affinché, come un agnellino, sia vittima gradita al vostro divino beneplacito, per morire e ardere a causa del fuoco e del col.tello del vostro santo amore?» (Ivi).
La simbologia «sacrificale» non deve impedire la lettura e la comprensione di questi testi. Il richiamo al sacrificio, infatti, non vuole proporre l'imitazione degli aspetti cruenti del dono di Isacco e di Gesù, ma vuole aiutare a coglierne e rinnovarne l'intenzione: un dono di amore, libero e totale.
In questa prospettiva si può comprendere anche il richiamo, certamente paradossale, ma significativo, alla schiavitù e alla morte: «II nostro libero arbitrio non è mai così libero come quando è schiavo della volontà di Dio, ne è mai così servo come quando serve alla nostra volontà: non ha mai tanta vita come quando muore a se stesso, ne mai tanta morte come quando vive per sé». L’obiettivo da perseguire non è, evidentemente, la ricerca della schiavitù e della morte, ma l'abbandono alla volontà e all'amore di Dio; solo questo renderà veramente vivi, liberi e felici, «più felici dei re»: «Rendiamoci schiavi della dilezione, i cui servi sono più felici dei re. E se mai la nostra anima volesse usare la propria libertà contro le nostre risoluzioni di servire Dio in eterno e senza riserve, allora, per amore di Dio, sacrifichiamo questo libero arbitrio e facciamolo morire a se, affinché viva in Dio» (Ivi).
Solo questa «schiavitù di amore» ci consentirà di «inabissare» il nostro libero arbitrio nel godimento della bontà di Dio e di superare, nella vita eterna, ogni tensione tra amore e libertà: la libertà sarà convertita in amore e l'amore in libertà, dolce e infinita. «Chi gli concederà [= al libero arbitrio] la libertà in questo mondo, l'avrà servo e schiavo nell'altro, e chi lo asservirà alla Croce in questo mondo, l'avrà libero nell'altro, dove, inabissato nel godimento della divina Bontà, la sua libertà si troverà convertita in amore e l'amore in libertà, ma libertà di dolcezza infinita; senza sforzo, senza fatica e senza alcuna ripugnanza, ameremo invariabilmente per sempre il Creatore e Salvatore delle nostre anime» (Ivi).
Come Paolo abbandonò
la legge di Mosè
di Jérôme Murphy O’Connor *

Il modo in cui Paolo concepiva la Legge di Mosè non era senza contraddizioni e il suo atteggiamento nei confronti di questa è cambiato a più riprese. Si possono distinguere nell’evoluzione del pensiero almeno quattro periodi al termine dei quali egli abbandonò la Legge di Mosè: la giovinezza a Tarso; il soggiorno a Gerusalemme da fariseo; i primi anni da missionario cristiano quando rappresentava Antiochia e infine l’ultima parte della sua vita, dopo la rottura con Antiochia.
Studi recenti hanno mostrato che Paolo era un maestro della retorica classica. Rifiutava di ricorrere a queste competenze nella sua predicazione per ragioni di principio: «perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1 Cor 2,5). Argomenti logici non potrebbero in realtà per lui costituire il fondamento della fede, ancorato nell’esperienza personale della grazia divina. Ma quando Paolo si accora, come in 2 Corinzi 10-13, la sua padronanza prudente si espande e le sue competenze appaiono alla luce del giorno: egli allora imita perfettamente le convenzioni della retorica! È chiaro che Paolo era un letterato. Non è impossibile che abbia seguito lunghi studi a Gerusalemme, ma più probabilmente li ha completati nella celebre scuola di Tarso. Paolo era dunque un ebreo che viveva in due universi distinti, appartenendo sia alla comunità ebraica, sia alla città pagana. Adolescente, il suo atteggiamento di fronte alla Legge era forse ambiguo. Alcuni elementi della Legge, in particolare le prescrizioni alimentari, avevano lo scopo di rendere difficile, se non impossibile, lo scambio con i Gentili, cioè con i pagani. In questa prospettiva, egli considerava forse la Legge come un peso. I suoi genitori erano prigionieri di guerra giunti dalla Galilea a Tarso, che avevano acquisito cittadinanza romana dopo essere stati emancipati dal loro status di schiavi. Questa situazione ha potuto rafforzare il loro impegno di obbedienza alla Legge per resistere all'assimilazione. L'osservanza conferiva loro un profondo senso di identità: essi facevano parte del popolo di Dio.
A Gerusalemme, una scrupolosa conoscenza dei comandamenti della Torà
L'impegno di Paolo di fronte alla Legge divenne più profondo e personale quando si unì ai farisei a Gerusalemme (Fil 3,5). I farisei superavano tutti gli altri ebrei nella conoscenza scrupolosa dei comandamenti (At 22,3; 26,5; G. Flavio, Antichità 17,41; Guerra 1,110; Vita 191 A), la sola via per loro della perfetta obbedienza. Paolo si adattò perfettamente al suo nuovo ambiente. «Superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,14). Il tono di questa dichiarazione riflette la sufficienza di un vincente. Paolo aveva imbrigliato la sua feroce energia a favore di uno studio intenso della Legge, scritta e orale, ed eccelleva nel grado e qualità della sua osservanza. Certo, in teoria, l’elezione della grazia rimaneva preponderante, ma, in pratica, l'attenzione era tutta puntata su un’osservanza meticolosa di ciò che i farisei consideravano l'esatta interpretazione della Legge. Durante questo periodo, che durò più di dieci anni, Paolo era dunque un legalista ad oltranza. Nulla indica che egli abbia potuto in quel tempo sentirsi tormentato da qualche impossibilità a osservare la Legge.
L'incontro con i Gentili
La terza tappa della relazione di Paolo con la Legge si colloca tra la sua conversione e la sua discussione con Pietro ad Antiochia. Le parole seguenti traducono bene il suo atteggiamento durante questi vent'anni (circa 33-52 d.C.): «Mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei. […] Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge […] per guadagnare coloro che sono senza legge» (1Cor 9,20-21). In compagnia degli ebrei, egli osservava le usanze ebraiche, come ad esempio le prescrizioni alimentari: ma tra i Gentili ignorava queste prescrizioni e mangiava liberamente come i Gentili. In altre parole, la Legge perdeva importanza. Paolo non si sentiva più legato dalle proibizioni che essa imponeva.
In che modo? Tutto ciò che si sa, è che la conversione ha convinto Paolo ad essere l'apostolo presso i Gentili di una missione liberata dalla Legge. Se essi non avevano bisogno di osservare la Legge per essere salvi, la Legge non costituiva un passaggio essenziale sulla via della salvezza. Accettando questa libertà, Paolo facilitò i contatti con i Gentili che egli voleva accostare a Cristo.
Ormai, la Legge aveva perduto per Paolo la sua importanza in termini di salvezza, ma continuava a riconoscervi un quadro di riferimento per l'identità ebraica. Perché, dopo tutto, gli ebrei formavano un popolo. Per questo permetteva agli ebrei convertiti delle sue diverse comunità di circoncidere i loro figli e di conservare le loro prescrizioni alimentari. Agli occhi di Paolo, si trattava in tal caso di costumanze puramente etniche, senza alcun valore religioso. Non vi era dunque alcun motivo per i Gentili di osservarle. Il fatto che due gruppi così diversi siano accostati nel seno di una medesima Chiesa richiedeva naturalmente molto tatto per garantire alla comunità un'unità effettiva. Condividendo un pasto con degli ebrei, i Gentili dovevano sottomettersi alle prescrizioni kasher; analogamente, quando erano invitati dai Gentili, gli ebrei dovevano affidarsi ai Gentili per quanto riguarda i pasti kasher serviti. Se Paolo sottolineò che la maggior parte delle concessioni spettava ai Gentili, non vi vide probabilmente che un'espressione della carità. I cristiani dovevano amare il prossimo, la norma essendo il sacrificio che Dio aveva fatto della sua persona (2Cor 5,15).
La questione di Antiochia
L'incidente di Antiochia mise fine a questa tolleranza e segnò l'inizio della quarta e ultima fase dell'atteggiamento di Paolo di fronte alla Legge. Giacomo era d'accordo con Paolo sul fatto che i Gentili non avessero bisogno di essere circoncisi (Gal 2,6): riconosceva che non era il momento di diluire l'identità ebraica circoncidendo i Gentili che non mostravano alcun interesse verso il giudaismo. L'antisemitismo guadagnava terreno ed era importante che ogni vero ebreo fosse solidale. Ed ogni abbandono di elementi dell'identità ebraica era in quel momento sentito come un tradimento... È il motivo per cui Giacomo insistette perché i giudeo-cristiani di Antiochia mostrassero un'osservanza molto più stretta verso la Legge ebraica (Gal 2,12). Questa posizione era gravida di conseguenze per i Gentili di Antiochia. Per mantenere l'unità della comunità, avrebbero dovuto veramente diventare ebrei. Avrebbero perduto allora la libertà del vangelo, garantita dall'Assemblea degli Apostoli e degli Anziani di Gerusalemme (Gal 2,10). Qui Paolo si vide obbligato a riconoscere che non si poteva più accettare il significato della Legge all'interno della comunità cristiana. Se si accordava il minimo diritto di cittadinanza alla Legge, ne sarebbe risultato inevitabilmente un formalismo che, in modo inesorabile, avrebbe allontanato sempre più Cristo dalla vita dei credenti. La sua esperienza personale di fariseo gli permetteva di comprendere fino a che punto la richiesta di un'osservanza perfetta poteva prevalere su ogni altra considerazione. Per la prima volta, Paolo vide nella Legge una pericolosa rivale per il Cristo. Da qui la sua trasformazione in «antinomico» (oppositore della Legge) radicale (Gal 5,1-12). Luca ha perfettamente ragione quando fa dire a Giacomo: «Tu [Paolo] vai insegnando a tutti i Giudei sparsi fra i pagani che abbandonino [la legge di] Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini» (At 21,21).
Questa illuminazione portava Paolo a rimettere in discussione il valore della Legge di Mosè. Nella pratica della vita ebraica, questa Legge non era «la legge di Dio» che per il suo nome (Rm 7,22). In realtà, essa era «la legge del Peccato» (Rm 7,23 e 25). Paolo voleva dire così che il Peccato, cioè un falso sistema di valori sociali, si era impadronito e controllava la Legge. Un esempio ne era l'esagerata importanza attribuita alla Legge: se si pretendeva che fosse osservata da Dio stesso, che potevano allora offrire gli ebrei se non un'obbedienza totale e cieca («La giornata ha dodici ore; durante le prime tre, l'Onnipotente, benedetto sia il suo nome, si dedica alla Torà», B. Aboda Zara 3b)? La «pratica della Legge» (Gal 2,16), cioè i gesti richiesti dalla Legge, prevaleva su tutto. Ma, invece di guadagnare il favore di Dio, tutto ciò che si richiamava alla pratica della Legge incorreva in una maledizione (Gal 3,10).
L'antitesi della «Legge del Peccato» è la «Legge di Cristo» (Gal 6,2), la Legge come è assunta da Cristo Tutti questi molteplici precetti della «Legge del Peccato» (Gal 5,3) si trovano ridotti, nella Legge di Cristo, ad un solo comandamento che «enuncia» (logos e non entolê): «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14, citazione da Lv 19,18). Ma che cos'è il vero amore? Per Paolo si tratta dello stesso amore di cui Cristo avevo dato l'esempio sacrificando se stesso per la salvezza di ognuno: «Il Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La Legge è diventata il Cristo nel senso in cui è lui che articola, nel suo agire, la domanda fondamentale dell'amore. I comandamenti della Legge sono divenuti caduchi. Ne deriva che «Cristo è il termine della Legge» (Rm 10,4). Non è più la Legge che parla in nome di Dio, ma soltanto Cristo. Seguire Cristo obbliga ad un impegno totale che i precetti discrezionali della Legge, anche seguiti uno ad uno, non saprebbero mai chiedere.
L'opposizione di Paolo alla Legge andava ben oltre la semplice affermazione che essa era al gli fuori degli obiettivi dei cristiani. Ai suoi occhi, nessun precetto che obbligasse, qualunque fosse, non aveva spazio nella comunità cristiana. Paolo non richiama mai l'obbedienza alla legge, ai comandamenti o anche alla volontà di Dio. Egli cita due comandamenti di Cristo, uno che proibisce il divorzio (1Cor 7,10) e l'altra che obbliga i sacerdoti ad accettare un sostegno materiale della comunità (1Conr 9,14). Ora, egli ammette un divorzio (1Cor 7,15) ed insistette per guadagnarsi la vita con le sue mani (1Cor 9,15-18). Si sentiva libero di fare esattamente l'opposto di quello che domandava Gesù, rivelando in questo modo che i credenti non dovevano prendere alla lettera ciò che aveva l’apparenza di un comandamento. Se Paolo rifiutava di accordare alla Legge e ai comandamenti di Cristo una autorità coercitiva, non avrebbe potuto dare una forza coercitiva alle sue personali direttive. Egli scriveva a Filemone: «Pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità» (Fm 8-9). Perché Paolo «prega» invece di «comandare»? Risponde: «Non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo» (14; cf 2Cor 9,7). L'opposizione tra costrizione e libertà è assoluta. Una stessa azione non può essere allo stesso tempo volontaria e obbligata.
Paolo non dà dunque mai un precetto imperativo in materia morale. Se gli capita di scivolare in un tono imperioso, si corregge subito: «Non lo dico come un ordine» (1Cor 7,6; 2Cor 8,8). Lt stia tecnica consiste nello spiegare ai suoi convertiti quello che egli farebbe in una data situazione e poi a lasciarli trovare da soli una risposta autentica sotto la direzione dello Spirito Santo. Se la Legge è il Cristo (Gal 6,2), Paolo, in ultima analisi, può soltanto dire: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1).
* Scuola biblica e archeologica di Gerusalemme
(da Il mondo della Bibbia n. 53)Come si è formata la Bibbia?
di Gaetano Castello

Grazie al crescente interesse per la Bibbia, sviluppatosi tra i cattolici soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II è ormai comunemente noto che essa si presenta, dal punto di vista letterario, più come una biblioteca che come un unico libro. Ciò è vero dal punto di vista storico e letterario senza nulla togliere all’unità della Sacra Scrittura come Parola di Dio, al principio unificante, che i credenti riconoscono nell’Inspirazione divina.
E in realtà i 73 libri che compongono la Bibbia, dalla Genesi fino all’Apocalisse, dalla creazione alla fine del tempo, sono stati composti in epoche molto diverse gli uni dagli altri, lungo un arco storico che copre oltre un millennio (dal X sec. a.C. al II d.C.).
La storia salvifica, prima ancora di essere scritta in libri, costituì la vita stessa del popolo di Israele prima, della chiesa poi. In Israele i fatti accaduti venivano raccontati all’interno della famiglia, del clan. Le regole di culto e i ricordi storici ad esse collegati venivano tramandati nel contesto del tempio, soprattutto da parte dei sacerdoti. Le gesta di eroi popolari, dei grandi condottieri, dei re, venivano ricostruite epicamente e trasmesse in forma orale. È quanto implicitamente afferma la Dei Verbum:
«nel suo grande amore Dio, progettando e preparando con sollecitudine la salvezza di tutto il genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo... egli si rivelò con parole ed azione al popolo, che s’era acquistato, come l’unico Dio vero e vivo, così che Israele sperimentasse quali fossero le vie divine con gli uomini e, parlando Dio per bocca dei profeti, le comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e le facesse conoscere con maggiore ampiezza fra le genti (...). l’economia della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova come vera parola di Dio nei libri dell’Antico Testamento...» (n.14).
Un lungo processo formativo
La formazione della prima parte della Bibbia, il Pentateuco, è stata lungamente indagata da quando si è abbandonata la semplice idea che suo unico autore fosse Mosè, il grande profeta e legislatore di Israele sotto la cui guida il popolo fu liberato dalla schiavitù egiziana. Probabilmente Mosè mise per iscritto, come è verosimile nel mondo dell’Oriente antico, la legge del Sinai, alla quale Israele si obbligava attraverso il patto, l’Alleanza. Ma la stesura del Pentateuco, così come ci è giunto, fu molto più laboriosa.
Sul processo di formazione scritta del Pentateuco il parere degli autori è tutt’altro che concorde. Il grande contributo offerto dalla teoria cosiddetta di Graf-Wellhausen è variamente discusso ai nostri giorni. Secondo i due studiosi, che alla fine del secolo scorso svilupparono idee in parte già elaborate prima di loro, il Pentateuco è frutto di un grande sforzo redazionale attraverso cui vennero fusi insieme documenti scritti sulla storia delle origini, sui patriarchi e sull’esodo dall’Egitto. Il lavoro finale venne compiuto dal cosiddetto autore «Sacerdotale», uno o più autorevoli personaggi appartenenti alla cerchia dei sacerdoti esiliati in Babilonia alla metà del VI secolo a.C.. Il «Sacerdotale» fu autore di una storia delle origini di Israele e del mondo che integrò con analoghi sforzi teologici compiuti già da altri israeliti. Raccolse così quanto gli mettevano a disposizione altri documenti composti molto tempo prima; il cosiddetto «Deuteronomista», l'«Elohista» e prima ancoralo «Jahvista».
Senza entrare nei dettagli di questa teoria, bisogna dire che la proposta appariva convincente per la capacità di chiarire molti di quei dubbi che avevano da sempre accompagnato la lettura e lo studio del Pentateuco: perché due racconti della creazione (Gn 2 e 3), perché ripetizioni ed incoerenze nel racconto del Diluvio (Gn 6-8), ripetizioni ed incongruenze nelle storie patriarcali (Gn 12-36)? C'è da dire che proprio a partire da queste domande la ricerca biblica mosse i suoi primi passi verso lo studio della formazione della Bibbia. Ciò spiega il consenso quasi universale che la teoria, a cui si è fatto cenno, trovò tra gli studiosi della Sacra Scrittura.
Lo sforzo è continuato e tutt'ora si cerca di correggere o integrare la teoria Graf-Wellhausen con nuove e più soddisfacenti prospettive.
Analoghe osservazioni vennero fatte, naturalmente, anche sugli altri libri biblici. Già da tempo si parla, ad esempio, di un primo, secondo e terzo Isaia, indicando sommariamente il fatto che il libro del grande profeta è in realtà frutto di almeno tre diverse composizioni risalenti la prima al profeta stesso, VIII sec. a.C. (capp. 1-39), la seconda dell'epoca esilica, VI sec. a.C. (capp. 40-55), la terza dell' epoca post-esilica, VI - V sec. a.C. (capp. 56-66).
E, d'altra parte, è facile intuire che tutti i libri profetici nacquero come risultato di uno sforzo compositivo più o meno lungo e complesso. I profeti infatti ebbero il compito di parlare a Israele, non di scrivere per Israele. Così pure per le riflessioni sulla vita, il dolore, la gioia, la morte, argomenti della lunga e continua riflessione sapienziale di cui libri come Giobbe, Proverbi, Sapienza, sono il risultato finale.
La formazione dei Vangeli
Non meno interessante è la storia della formazione del Nuovo Testamento avvenuta certamente in tempi più brevi ma non senza del periodi di elaborazione e di rimaneggiamento degli scritti.
Limitando le nostre brevi osservazioni ai Vangeli, è stata soprattutto la cosiddetta scuola della «storia delle forme» nata in Germania all'inizio del nostro secolo, a studiare il lavoro di composizione letteraria che dovette precedere l'ultima redazione dei Vangeli, quella che consegnò alla storia e alla fede i nostri testi attuali. Le osservazioni fatte da alcuni studiosi più attenti al ruolo che ebbero nella composizione le personalità proprie dei singoli evangelisti (storia della redazione) e da altri sul ruolo che ebbero le tradizioni orali che precedettero le stesure scritteci permettono oggi di considerare i diversi aspetti di quel processo compositivo.
Subito dopo la morte/risurrezione di Gesù, i discepoli, illuminati dal grande evento della Risurrezione che permetteva loro una rilettura teologica dei fatti e delle parole del Maestro, trasmisero in più forme e diversi contesti le parole, i gesti miracolosi, le storie legate alla sua vita. Ciò avveniva regolarmente nelle prime liturgie battesimali, in cui si richiamavano specifiche espressioni del Maestro, nonché racconti come il battesimo di Gesù, per chiarire il senso del sacramento. Così pure la celebrazione della Cena Eucaristica.
Le riunioni venivano accompagnate con inni e confessioni di fede in Gesù Messia e Figlio di Dio.
L' annuncio cristiano all'esterno (kérygma) avveniva attraverso la proposta essenziale della fede, espressioni concise sulla passione-morte-risurrezione di Gesù, il Messia atteso. La catechesi per la preparazione al Battesimo e per la vita della comunità riprendeva episodi illuminanti della vita di Gesù, letti, naturalmente, a partire dalla comprensione più profonda dei fatti all'indomani della Risurrezione. Tutto ciò costituiva la vita stessa della comunità cristiana, la sua prassi liturgica e catechetica. Furono questi elementi a costituire, nella loro forma orale e nelle prime stesure per iscritto, il materiale di partenza a disposizione degli evangelisti.
Il primo racconto esteso sulla vicenda di Gesù fu quello della passione-morte-risurrezione, come approfondimento teologico dell'annuncio kerygmatico della fede, tanto più necessario quanto più scandaloso appariva a giudei e pagani la notizia di un Messia, Figlio di Dio crocifisso. Se Marco partì da questi elementi primitivi per scrivere il suo Vangelo, il primo, Matteo e Luca poterono utilizzare la composizione marciana e le altre fonti a loro disposizione, tra cui una fonte in cui vennero raccolti i «detti» di Gesù.
Ad un simile processo di formazione accenna,. pur senza entrare nelle problematiche scientifiche, il Concilio Vaticano Il al n. 19 della Dei Verbum:
«... Gli apostoli poi, dopo l'ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano. Egli autori sacri scrissero i quattro vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già per iscritto, redigendo una sintesi delle altre o spiegandole con riguardo alla situazione delle chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi, infatti, attingendo sia dalla propria memoria e dai propri ricordi sia dalla testimonianza di coloro che "fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola", scrissero con l'intenzione di farci conoscere la "verità" (cf Lc 1,2-4 ) degli insegnamenti sui quali siamo stati istruiti».
Anche per i Vangeli dunque, benché in un tempo molto più breve (dal 30 al 90 d.C;), il processo formativo è articolato.
Gli scritti che noi oggi abbiamo a disposizione, per l'Antico come per il Nuovo Testamento, sono perciò frutto di un lavoro che ha coinvolto uomini e generazioni impegnati in un cammino di fede in cui seppero distinguere tra gli avvenimenti della storia e le vicende della loro vita, la voce stessa di Dio. La rivelazione di Dio in «parole e gesti» coinvolse non primariamente degli scrittori, ma la vita e la storia di Israele, come quella dei discepoli di Gesù. La fissazione della rivelazione in libri scritti attraversò dunque un processo di formazione lungo e articolato, finalizzato, nella volontà divina, a conservare nel tempo l'efficacia della sua Parola.
Tutto ciò lungi dal diminuire il carattere della Bibbia come Parola di Dio, fa riflettere sul «come» Dio entra in rapporto con l'uomo: non al di sopra della storia umana ma nei fatti e nelle situazioni della vita. Non consegnando all'uomo un «Libro Sacro» da lui confezionato; ma imprimendo un movimento che da fatti e parole giungerà a cristallizzarsi nella Sacra Scrittura, «luogo» privilegiato della divina rivelazione. Una conseguenza ulteriore, su cui rifletteremo in un approfondimento successivo, è il rapporto originario tra Sacra Scrittura e Tradizione che va considerato a partire dalla formazione stessa della Bibbia.
La raccolta dei libri che attualmente formano la Bibbia ebraica e cristiana - Antico e Nuovo Testamento - si possono distribuire in grandi blocchi sulla base di alcuni criteri di carattere storico-cronologico, letterario e teologico.
Marta e Maria di Betania
L'integralità incompiuta
di Lilia Sebastiani

Occupano un posto di rilievo tra le discepole di Gesù (chi scrive tenderebbe a collocarle subito dopo Maria di Magdala, se mai tali graduatorie fossero possibili), un posto di genere particolare, perché chiaramente non appartengono al gruppo itinerante, e tuttavia sono discepole a pieno titolo. Anche loro, come altre donne più vicine a Gesù, nella tradizione cristiana hanno subito un processo di stilizzazione deformante. Una sorte simile pur nella diversità è toccata a Maria di Magdala - la quale, del resto, per circa millecinquecento anni è stata identificata con Maria di Betania -; o a Giovanna moglie di Cusa, ricordata (quando poi qualcuno la ricordava) come una brava vedova dedita all'assistenza materiale degli uomini di Dio.
Dati evangelici
Marta e Maria di Betania sono ricordate da Luca (10,38-42) e, con intenzione teologica diversa, anche dal quarto evangelista (Gv 11,1-44; 12,1-8). Qui seguiremo il racconto di Luca, non però in modo esclusivo: quantunque infatti sia esegeticamente scorretto integrare un evangelista con un altro, sappiamo come, in una riflessione di ordine spirituale, affinità e differenze possono aprire orizzonti ulteriori di senso.
Secondo il quarto evangelista le due sorelle risiedono a Betania, che è praticamente un sobborgo di Gerusalemme. Se si disponesse solo della testimonianza di Luca, si sarebbe indotti invece a considerarle galilee, anche se ciò non viene specificato: l'episodio che le riguarda è collocato dall'evangelista all'inizio della sezione del viaggio verso Gerusalemme, che costituisce il fulcro anche teologico della narrazione lucana. Il quarto evangelista parla del loro fratello Lazzaro come di una persona cara a Gesù, quantunque l'unico protagonismo effettivo nella vicenda sia quello di Marta e Maria; Luca invece, che ignora Lazzaro, mostra le due sorelle come donne sole e, si direbbe, autonome (ma lo stesso vale per le altre discepole): un 'immagine abbastanza insolita nell'ambiente storico di Gesù.
La tradizione cristiana poi ha sempre attribuito alle due sorelle un ceto sociale ed economico elevato: non che ci siano indizi in proposito nella stringatissima narrazione di Luca, ma si supponeva che costituisse un onere non trascurabile accogliere in casa Gesù e tutto il gruppo dei discepoli che lo seguiva. Inoltre le donne di condizione elevata che si fanno seguaci di Gesù, mettendo anche i loro beni materiali al servizio della causa del Regno, costituiscono quasi un topos ricorrente nell'opera lucana (Vangelo e Atti), fin dalla pericope relativa alle discepole galilee (Lc 8,1-3).
Allora: in un villaggio di cui non si dice il nome, «una donna di nome Marta lo accolse...» (1). Marta è stata spesso considerata la maggiore delle due, la più autorevole, perché sua sembra l'iniziativa di ospitare, sue le responsabilità materiali connesse. Naturalmente questo non vuol dire nulla dal punto di vista storico, e l'evangelista non si dà molto pensiero della precisione ambientale e biografica di quanto racconta.
Importante è la differenza di atteggiamento delle due sorelle, che Luca interpreta o elabora, e comunque utilizza in funzione ecclesiale: Marta è tutta presa dai molti servizi («intorno al molto servire»: peri pollèn diakonìan), mentre Maria è seduta ai piedi di Gesù e intenta ad ascoltare la sua parola. Marta si lamenta dell'assoluta indifferenza della sorella nei confronti del proprio affannarsi, e Gesù le risponde che una sola cosa è necessaria, e Maria ha scelto la parte buona, che non le sarà tolta.
Maria, o l’ambigua predilezione
Per molti secoli Maria è stata vista come simbolo della vita spirituale. La spiritualità è la «parte buona», nei termini del vangelo di Luca, a patto che non venga resa sinonimo di non-concretezza, disimpegno, evanescenza, fuga (in alto o in fuori o in dentro); a patto che lo spirito non diventi il pretesto per separare, ritagliare, rifiutare... La mentalità religiosa patriarcale è costantemente esposta a questi rischi, e la consuetudine religiosa non aiuta la crescita della fede. Risultato, in questo caso: Maria di Betania è stata ristretta, irrigidita, dimenticata come discepola di Gesù, ciò che sempre avviene quando l'infinito di una persona viene limitato nel senso unico di un simbolo, quale che sia l'importanza del simbolo. Maria si trova così a essere un personaggio molto amato e rispettato e tuttavia evanescente, senza volto, senza carattere, senza autorevolezza..., attraente ma latitante, come lo Spirito.
Tra l'altro, abbiamo già accennato che nella tradizione d'Occidente è stata confusa con un'altra Maria anche più famosa di lei: Maria di Magdala, discepola prediletta e apostola della Risurrezione, ciononostante entrata nella tradizione cristiana e nell'immaginario religioso come peccatrice pentita. Sulla base dell'identità del nome, tanto diffuso in Israele in epoca neotestamentaria, e di qualche incertezza (sovrapposizione o fusione o sdoppiamento) in cui incorrono gli evangelisti, narrando tutti e quattro ma in diverso modo l'episodio in cui Gesù viene unto con olio profumato da una donna, per l'Occidente cristiano Maria di Betania diventò, almeno da Gregorio Magno in poi, Maria di Magdala «dopo la cura». Le eventuali isolate perplessità che si incontrano nella storia della tradizione a questo riguardo sono di ordine geografico - come faceva a essere «di Magdala», ovvero Galilea, una che era di Betania? - , e tanti predicatori attraverso i secoli sprecarono fiumi di non disinteressata eloquenza per commentare il preteso passaggio: peccatrice prima, poi contemplatrice-mistica («Quale stato, e quale stato!», esclamava Bossuet). Il passaggio sarebbe comunque meno strano di quanto sembri, perché ad accomunare peccatore e mistico vi è una certa idea di irregolarità, di extra-istituzionale, di fuori schema, che si accentua quando peccatore e mistico sono declinati al femminile.
Maria, dice Luca, «seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola». Questa notazione è sempre piaciuta molto nel corso di una tradizione cristiana tutta elaborata da uomini chierici: suona infatti così affettuosa e devota, così sottomessa... Tanto che, nell'impatto istintivo sul lettore-ascoltatore, il fatto di essere ai piedi, insomma l'abbassamento, finisce col predominare rispetto all'ascolto e alla Parola.
In realtà questa notazione affettuosa e devota costituisce nel suo contesto una trasgressiva novità. Stare «ai piedi di» qualcuno, nella lingua ebraica del tempo di Gesù, è espressione quasi tecnica che indica la situazione del discepolo rispetto al maestro, e qui Maria è riconosciuta come discepola - per di più con accenti solennemente positivi -, in un'epoca che escludeva le donne dallo studio della Legge, raccomandato invece e quasi prescritto a ogni uomo. Nella lingua ebraica e aramaica del tempo, la parola «discepolo» non aveva il femminile. Lo stesso Luca, che tra gli evangelisti è probabilmente il più aperto alle donne (anche perché scrive rivolgendosi a cristiani di cultura ellenistica e non provenienti dal giudaismo), alle donne accorda indirettamente il discepolato e l'apostolato, anche usando a loro riguardo certi termini chiave come «seguire» e «servire»; ma non usa nel suo vangelo il termine «discepola» (2).
In questo passo Gesù, lodando Maria che trascura i suoi doveri casalinghi, a preferenza della sorella che ad essi invece si immola, rigetta in modo solenne e definitivo gli schemi patriarcali, apre anche alle donne, nella logica del Regno, gli spazi dello studio e della riflessione spirituale.
«Maria, il silente sogno degli uomini, contiene dinamite», dice Elisabeth Moltmann-Wendel (3).
La sorella esemplare e squalificata
Nel vangelo di Luca, sia che questo fosse o non fosse esplicitamente nelle intenzioni dell'evangelista, Marta «tutta presa dai molti servizi» si conforma all'atteggiamento femminile tradizionale. Certo per noi sarebbe necessario distinguere tra femminile nel senso di «proprio delle donne» - per natura, quindi? - e femminile nel senso di «raccomandato alle donne», quindi culturalmente indotto.
Non vi è dubbio che, secondo l'evangelista, anche Marta ama moltissimo Gesù ed è felice della sua presenza; ma il suo amore e la sua gioia si esprimono col moltiplicare i servizi e preoccuparsi in primo luogo per questioni connesse con la vita materiale. Non si vorrebbe psicologizzare a oltranza, procedimento anacronistico e scorretto che i Vangeli non supportano quasi mai; eppure non possiamo fare a meno di rilevare che la frase di Marta - «Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata da sola a servire? Dille che mi aiuti...» -, quand'anche semplicemente fabbricata dall'evangelista allo scopo di creare un contesto all'importante detto di Gesù sull'unica cosa di cui c'è bisogno, rifletterebbe una costante del vissuto femminile. Sì, come tante altre donne qui Marta sembra compiere i suoi pretesi doveri domestici con efficienza e dedizione, ma anche con segreta sofferenza e comunque, a un certo punto, con insofferenza palese.
Non certo Marta donna del vangelo, ma il personaggio-Marta, il simbolo di Marta è una creazione della società patriarcale, con un fenomeno del tutto analogo a quello che si verifica per Maria: l'una e l'altra sorella sono ridotte a una sola dimensione e artificiosamente contrapposte. Tra l'altro contrapporre le donne l'una all'altra, creare o enfatizzare conflitti femminili - sempre intorno a un uomo, o a valori maschili, siano essi la fecondità fisica o il denaro o il potere o altro... - è un modo di neutralizzarne la possibile autorevolezza. Ispirano oggi tristi riflessioni certi dipinti sacri che, soprattutto dal Quattrocento in poi, raffigurano Marta vestita da ricca massaia (cioè, metà da signora e metà da domestica), sempre con qualche utensile domestico in mano e con grossi mazzi di chiavi alla cintura, illuminata da uno sguardo che molto ottimisticamente potremmo definire «corrucciato», se non proprio obliquo e invidioso.
Marta è stata patrona attraverso i secoli del personale di servizio domestico, soprattutto femminile, degli ospizi, degli infermieri e, più recentemente, delle collaboratrici domestiche dei preti. Ancora oggi in America si richiamano a santa Marta certi gruppi femminili ipertradizionalisti che vorrebbero per la donna l'esclusività del ruolo familiare e casalingo.
A partire dal tardo Medioevo Marta viene anche elogiata dai predicatori, che sviluppano la sua fisionomia prendendo in prestito i tratti della «donna perfetta» di cui si legge nel libro dei Proverbi (31,l0ss.). La cura della casa, i molti servizi, sono oggetto non solo di lode ma di raccomandazione, di imposizione: insieme alla maternità sembrano la vocazione femminile per eccellenza, a cui si sottraggono solo le vergini consacrate. Eppure nella tradizione che risale ai Padri della chiesa, a cui si rifanno più o meno direttamente tutti i predicatori successivi, le parole di Gesù relative all'unica cosa che conta, parole di solenne rivelazione, venivano caricate in senso sprezzante e de-qualificante, e andavano oltre la figura evangelica di Marta per ricadere su tutte le donne «normali»; anche se queste incorrevano nel biasimo più accorato quando rifiutavano il loro ruolo di addette alla vita materiale per cercare altre vie di realizzazione di sé.
Dai servizi al servizio
Il fatto è che i molti servizi (lo si vorrebbe dire senza mancare di rispetto alla generosità e all'abnegazione di tante donne che la storia ha dimenticato) non sono ancora «il servizio»: quello che è vocazione comune per uomini e donne se vogliono essere discepoli e discepole di Gesù «venuto per servire» (Mc 10,45), in mezzo ai suoi «come colui che serve» (Lc 22,26), quel servizio che non somiglia per niente a qualsivoglia servitù - ché anzi solo dopo essersi liberati dalle varie servitù vi si può giungere davvero.
Per ragioni non troppo misteriose, nella tradizione cristiana la pur dequalificata Marta di Luca veniva preferita a quella giovannea: infatti nel cap. 11 del quarto vangelo (racconto della risurrezione di Lazzaro), Marta non appare in faccende ma parla, eccome; è l'interlocutrice di Gesù, innegabilmente più importante della sorella, in un colloquio di grande spessore teologico che costituisce un evento progressivo di rivelazione ed è uno dei più lunghi colloqui che i vangeli ricordino (4).
Confrontandosi in un colloquio alla pari con Gesù, per di più in un momento drammatico, sia per lei (ha appena perduto il fratello) sia per Gesù (dinanzi a opposizioni accentuate e a un più deciso tentativo di eliminarlo, che sarà coronato da successo nel giro di pochi giorni), Marta, non più presa dai molti servizi, è ancora «attiva» in senso forte, in quanto si pone come soggetto e rivendica la parola. In questo senso è certo significativo, al di là del puro dettaglio narrativo, che sia Marta a mediare per sua sorella l'appello di Gesù (il quale rimane inespresso nel racconto giovanneo): «il Maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28).
La cultura patriarcale è stata sempre restia ad accordare alle donne «la parola». La parola, s'intende, autorevole e dialogica: ben altra cosa rispetto alla disimpegnata loquacità - alias chiacchiera -, che alle donne è stata invece sempre attribuita, fino a diventare un luogo comune, ingiusto spesso come tutti i luoghi comuni. Anche rivendicare la parola, e assumerla per comunicare, è un modo di esercitare il servizio; ma anche aprirsi all'ascolto della Parola è pane del servizio.
La «parte migliore»: considerazioni patristiche
L'interpretazione tradizionale di Marta e Maria come simbolo rispettivamente della vita attiva e di quella contemplativa, che poi resterà dominante anche se in termini scritturistici è impropria, risale in sostanza a Basilio di Cesarea e viene poi ripresa, approfondita e consolidata da Gregorio Magno.
Basilio, nella raccolta di scritti comunemente conosciuta come Esercizio di ascesi, e in particolare nelle cosiddette Regole ampie, rispondendo a una domanda relativa alla mente non dissipata, afferma: «Quell'esercizio per piacere a Dio che è secondo il vangelo di Cristo, si attua per noi con l'allontanarci dalle cure mondane e con l'estraniarci assolutamente dalle distrazioni che causano affanno» Si ha qui una citazione implicita dell'episodio di Marta e Maria: il termine che indica le distrazioni affannose infatti è perispasmon, lo stesso adoperato in Lc 10,39 (5).
Anche in un altro punto delle stesse Regole, condannando le raffinatezze della mensa particolarmente sconvenienti per coloro che fanno esercizio di ascesi, Basilio squalifica e limita la figura di Marta, e in modo veramente un po' banale, come se la sollecitudine di lei fosse di ordine gastronomico.
In modo più significativo riprende il tema di Marta e Maria nelle Costituzioni asceticheAsketikài Diatàxeis) rivolte agli «asceti che vivono solitari oppure in comune». Proprio nel cap. I, dove si afferma che la preghiera dev'essere anteposta ad ogni altra occupazione, porta l'esempio evangelico delle sorelle di Betania, ammettendo che in tutt'e due vi era un desiderio buono – kalé prothymìa -, ma di diverso valore:
«L’una ristorava la parte visibile, ma l’altra rendeva servizio all'invisibile. Infatti non per questo scopo siamo venuti, sdraiarci su letti, nutrire il ventre..., ma siamo qui per pascerci con la parola di verità e la contemplazione dei divini misteri. Gesù in verità non disse a quella di smettere quanto aveva intrapreso; ma lodò questa per la sua attenzione.
Allora, stammi bene a sentire: per mezzo di due donne si intende parlare di due stati di vita, l'uno però inferiore, perché riguarda più il servizio corporale (quantunque molto utile anch'esso), l'altro migliore perché, innalzandosi alla contemplazione dei misteri, è più spirituale. Tu che mi ascolti, intendi queste cose nel senso spirituale e scegli delle due quella che vuoi».
Ricorda poi che rendere servizio agli altri, anche nelle necessità materiali, è un agire raccomandato da Cristo, e aggiunge:
«Se poi desideri servire, servi nel nome di Cristo. (...) Sia che tu accolga i forestieri, sia che ristori i mendicanti, sia che abbia pietà di chi soffre, sia che stenda la mano per aiuto a coloro che si trovano nel bisogno e nella sventura, sia che renda servizio agli ammalati, Cristo riceve tutte queste cose in se stesso».
Ma subito dopo questa sottolineatura quasi d'obbligo, torna con fervore al suo tema preferito:
«Se invece vuoi imitare Maria, la quale - lasciato il servizio del corpo - si innalza alla contemplazione delle meraviglie celesti, svolgi questa attività in modo avveduto [gnésiòs mètelthe to pràgma]. Lascia andare il corpo, abbandona la coltivazione dei campi e la preparazione e l'abbondanza delle vivande, e siediti ai piedi del Signore, ascolta la sua parola per diventare partecipe dei segreti delle cose divine. Infatti la contemplazione [theorìa] degli insegnamenti di Gesù supera il servizio reso al suo corpo. (...) Al primo posto è la parola spirituale, tutte le altre cose sono secondarie» (6) (traduzione nostra).
Sarà però Gregorio Magno, in diversi scritti e soprattutto nelle Homiliae in Hiezechielem, a codificare e consegnare ai secoli futuri la valenza simbolica delle due sorelle di Betania. Nella terza omelia del libro I, Marta e Maria esprimono le due scelte di vita possibili per un operaio della Parola, tra cui Gregorio si sente diviso: predicare (ciò che può essere di maggiore utilità per gli altri ma implica sempre un rischio di esteriorità e dissipazione), oppure meditare e pregare in solitudine?
«Due sono poi le forme di vita dei santi predicatori, cioè l'attiva e la contemplativa; ma l'attiva precede nel tempo la contemplativa, perché dall'operare il bene tende alla contemplazione. Quella contemplativa poi è superiore all'attiva quanto al merito, perché questa si affatica per l'utilità del lavoro presente, quella invece già assaggia nell'intimo sapore il riposo che verrà. (...) Lo esprimono bene nell'Evangelo quelle due donne, Marta e Maria. Marta infatti era occupata dai molti servizi; invece Maria sedeva ai piedi del Signore e ascoltava le sue parole. Dunque l'una era intenta al lavoro, l'altra alla contemplazione. L'una coltivava la vita attiva attraverso il servizio esteriore, l'altra quella contemplativa attraverso la tensione del cuore alla Parola. E quantunque l'attiva sia buona, tuttavia migliore è la contemplativa, perché quella viene meno insieme con la vita mortale, invece questa nella vita immortale cresce a maggiore pienezza. Perciò si dice: Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta. (...) Infatti, anche se realizziamo qualcosa di buono per mezzo della vita attiva, per mezzo della contemplativa voliamo alla nostalgia del cielo» (7) (traduzione nostra).
Nella seconda omelia del libro II l'argomentazione viene ripresa in termini quasi identici, all'inizio, ma poi con maggiore approfondimento.
«Ci hanno espresso bene entrambe queste forme di vita quelle due donne, Marta e Maria: di loro una era occupata dai molti servizi, l'altra invece sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la parola dalla sua bocca. E lamentandosi Marta di sua sorella perché trascurava di aiutarla, il Signore le rispose dicendo: Marta, ti affatichi e ti occupi di tante cose, ma una sola è necessaria. Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.che non le sarà tolta». Infatti la vita attiva viene meno insieme al corpo. Chi può offrire del pane all'affamato nella patria eterna, dove nessuno ha fame? Chi dar da bere all'assetato, dove nessuno ha sete? Chi seppellire un morto, dove non muore nessuno? La vita attiva ci viene tolta insieme al mondo presente, invece quella contemplativa viene iniziata qui per essere portata a compimento nella patria celeste; perché il fuoco dell'amore che qui comincia ad ardere, quando avrà visto colui che ama, divamperà con più forza. La vita contemplativa dunque non viene tolta, perché, una volta allontanata la luce del mondo presente, diviene perfetta» (8) (traduzione nostra). Ecco, la parte di Marta non viene biasimata, ma si loda quella di Maria. Infatti non è detto che Maria ha scelto «la parte buona», ma «la migliore», affinché anche la parte di Marta fosse giudicata buona. Perché poi la parte di Maria sia la migliore, si deduce quando viene detto: «
Di grande interesse il paragrafo successivo della stessa omelia, nel quale viene introdotta in funzione simbolica l'altra coppia di sorelle bibliche, Lia e Rachele:
«Tutt'e due queste forme di vita, come è stato detto anche prima di noi*, furono espresse in figura dalle due spose del beato Giacobbe, cioè Lia e Rachele».
Vi è un 'intuizione importante: così come avvenne a Giacobbe per volere di Dio, l'uomo di Dio deve prendere in moglie entrambe le sorelle,
«perché chiunque si rivolge al Signore aspira alla vita contemplativa, desidera la quiete della patria eterna, ma prima è necessario che nella notte della vita presente operi il bene che può, che sudi nella fatica, cioè che sposi Lia, affinché dopo, per “vedere il principio”**, si riposi nell'abbraccio di Rachele. Infatti Rachele aveva buona vista, ma era sterile, Lia invece aveva gli occhi malati, ma era feconda; Rachele era bella e infeconda, perché la vita contemplativa è affascinante nell'animo, ma, siccome desidera star quieta nel silenzio, non genera figli dalla predicazione» (9) (traduzione nostra).
Il parallelo tra Rachele contrapposta a Lia e Maria contrapposta a Marta appariva anche in una lettera indirizzata alla principessa Teoctisto (sorella dell'imperatore d'Oriente Maurizio): qui Gregorio esprime il proprio rammarico per essere stato strappato alla quiete della contemplazione dal servizio pontificale, da lui non ricercato e nemmeno desiderato, accettato però per obbedire a Dio.
«Ero innamorato del fascino della vita contemplativa, come di Rachele, sterile ma di buona vista, e bella (Gen 29); essa, quantunque nella sua inerzia generi meno figli, tuttavia vede la luce con più acutezza. Ma, non so per quale ragione, nella notte è stata fatta congiungere con me ha, cioè la vita attiva, feconda ma dagli occhi malati; Lia che ci vede di meno, anche se fa più figli. Mi affrettavo a sedere ai piedi del Signore con Maria, ad assorbire le parole della Sua bocca, ed ecco che sono sospinto con Marta a servire in ciò che è esteriore, a far fronte a tante cose (Lc 10,39 ss)» (10) (traduzione nostra).
Gregorio riprende il tema di Marta e Maria in un'altra lettera indirizzata a una nobildonna della corte di Bisanzio, ma in modo molto diverso: concentra l'attenzione su Maria, che però identifica (come anche in alcune omelie sui Vangeli) con l'anonima peccatrice Galilea e con Maria di Magdala. Ratifica con il suggello della sua autorità e del suo prestigio una confusione che ammiccava da tempo ma, dopo di lui, sarà stabile e indiscussa in Occidente per quasi quindici secoli. Nel commentare le parole di Gesù, «le sono rimessi i suoi molti peccati perché ha molto amato» (Lc 7,47), aggiunge:
«Come poi le siano stati rimessi ci viene mostrato anche in ciò che avvenne dopo, perché sedeva ai piedi del Signore e ascoltava la Parola dalla sua bocca (Lc 10,39). Infatti, rapita nella vita contemplativa, aveva ormai oltrepassato quella attiva che ancora conduceva Marta sua sorella (ivi, 40). Con grande slancio andò anche a cercare il Signore dopo che era stato sepolto» (11) (traduzione nostra).
Servizio di mensa, servizio della Parola
Occorre sempre tener presente che, come si accennava, il terzo evangelista, quando contrappone le figure così stilizzate delle due sorelle di Betania, non intende affatto ragguagliare sul loro temperamento - per noi irraggiungibile - o sulle loro abitudini. È probabile invece che abbia in mente due diversi tipi di convertito, due diversi tipi di impegno nella chiesa. Diciamo «convertito» e «impegno nella chiesa», sottolineando che non si tratta qui di decidersi per Dio o contro Dio, di dare o non dare l'assenso al messaggio di Gesù: le persone di cui si parla qui hanno già fatto un'opzione cristiana, anzi sono fedeli convinti e di prima linea, e forse proprio per questo la riflessione ecclesiale dell'evangelista risulta più delicata e complicata.
Una specie di illuminazione aggiuntiva, se non del tutto perspicua, potrebbe venirci dal cap. 6 degli Atti, là dove si parla dell'istituzione dei Sette (abitualmente chiamati «diaconi», benché nel testo il termine non si trovi).
Al di là della notazione sul malcontento dei cristiani ellenisti verso quelli provenienti dal giudaismo, qui ci interessano le parole dei Dodici: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense» (At 6,2). Evidentemente era un'antitesi ben presente alla mente di Luca e alla sua sollecitudine pastorale: non certo l'antitesi tra azione e contemplazione, che si sarebbe diffusa più tardi soprattutto per impulso monastico, ma quella tra servizio di mensa e servizio della Parola - quantunque sentiti l'uno e l'altro, e giustamente, come «servizio» (12). È evidente che Luca attribuisce un'importanza molto maggiore al servizio della Parola: oggi intuiamo che anche il concetto di «mensa» potrebbe e deve essere dilatato, ben oltre il senso puramente assistenzialistico.
Per sentirsi provocare a fondo dalle due sorelle di Betania, occorre affrancarsi il più possibile dall'antitesi tradizionale azione-contemplazione: in primo luogo, perché i due poli si tradiscono a vicenda se assolutizzati e non integrati; in secondo luogo, perché né Gesù né gli evangelisti pensavano in questi termini. La contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa è di remota origine classica, successivamente intrecciata con preoccupazioni ascetiche e contemptus mundi, ma rimane abbastanza estranea alla mentalità biblica.
Non si tratta nemmeno della moderna riedizione dell'antitesi in termini di preghiera/impegno, diffusa negli anni Sessanta e Settanta, assai meno oggi perché avvertita, pur nella generosità dei presupposti, come semplicistica e insoddisfacente. Si tratta piuttosto di due diverse linee di impegno: da un lato, quella che mette in primo piano l'annuncio del Vangelo e della vita nuova in Cristo, dall'altro, quella che privilegia l'assistenza caritativa e la sollecitudine nei confronti dei più deboli.
Le due sorelle sono state spesso lette anche, ed è giusto, come paradigma dell'ospitalità; e questa è una declinazione specifica dell'accoglienza. L'una e l'altra sorella hanno un atteggiamento e un intenzione di accoglienza: sono indiscutibilmente felici di accogliere Gesù in casa, ma differiscono nelle priorità. Marta tende soprattutto a fare qualcosa per lui, Maria ha intuito che c'è qualcosa di più: aprirsi al dono di Dio che viene attraverso lui. Ciò potrebbe riferirsi anche ai casi in cui l'ospite non è Gesù e la sua «parola» è tutta diversa, talvolta parola senza parole, talvolta senza nulla di affascinante, come è spesso il messaggio della povertà e del bisogno. Entrambi gli atteggiamenti (darsi da fare per l'altro affinché stia bene; aprirsi al dono recato dall'altro) hanno una loro intrinseca dignità, e il «fare qualcosa per» non è affatto inferiore: anzi m certi casi risulta urgente e non trascurabile.
Naturalmente né sul terzo né sul quarto vangelo ci si può appoggiare per capire qualcosa di più, biograficamente parlando, su Marta e Maria. Le lettura dei due passi che le riguardano, soprattutto di quello di Luca, nel corso dei secoli è stata alquanto ideologica. E gli stessi evangelisti sono un po' ideologici (inconsapevolmente?), nella trasmissione dei fatti e dei detti di Gesù e nella selezione dei materiali di cui dispongono; quanto meno, sono condizionati dai propri schemi mentali e da considerazioni di opportunità pastorale, tanto più quando si parla di donne.
L'uno e l'altro vangelo non riportano di Maria nemmeno una parola (13); forse non occorreva, e tuttavia di quella parola in qualche modo sentiamo oggi la mancanza.
Oggi sappiamo che azione e contemplazione non sono ambiti contrapposti che si escludono a vicenda, ma due accentuazioni nello stesso progetto di esistenza redenta: non tanto nel senso di «fare un po' tutt'e due le cose», ma nel senso unitario, più profondamente cristiano, di trasformare il mondo con la propria preghiera e di pregare con il proprio lavoro.
Azione e contemplazione sono strade di salvezza; non però al punto di non poter essere cammini perversi, quando agire e contemplare isolati e assolutizzati diventano modi opposti e pure affini di generare divisione e sospetto nell'esperienza umana. La contemplazione non vale più nulla se assomiglia a un'evasione; l'azione non vale più nulla se priva di anima, di profondità e di autocoscienza.
Lo stesso Gesù ha offerto anche in questo un esempio di magnifica integrazione: sarebbe difficile dire, senza forzature, se nella sua vicenda di uomo dominassero la dimensione attiva o quella contemplativa. E nella sequela autentica di Gesù, nel discepolato che egli può chiedere o accettare, le due dimensioni convergono.
Un commento spirituale senza parole
Nel chiostro di San Marco a Firenze, l'affresco del Beato Angelico che raffigura la preghiera di Gesù nel Getsemani rivela una scelta singolare e importante rispetto all'iconografia consueta. Come in tanti altri dipinti sullo stesso tema, Gesù è raffigurato in alto, isolato in una drammatica solitudine; nella parte centrale campeggiano le figure piuttosto pesanti (più per l'atteggiamento che per le dimensioni) di Pietro,
Giacomo e Giovanni, immersi nel sonno. Il fatto nuovo è che in primo piano nell'affresco si trovano Marta e Maria, inequivocabili perché i nomi sancta Maria e sancta Martha sono iscritti in cerchio nell'aureola. Proprio la presenza delle due sorelle, in quanto si discosta da ciò che narrano i Vangeli, è chiaramente intenzionale e trasmette un messaggio teologico più preciso.
Marta e Maria, in abito bigio di terziarie domenicane, sono separate e raccordate da un muro rispetto al resto della scena. Evidentemente l'artista vuole sottolineare che si tratta di una presenza spirituale: possono ben trovarsi a Betania, in casa loro, ma sono lì, e ben sveglie e presenti a quanto accade; invece i tre discepoli maschi sono riusciti a rimanere svegli poiché non comprendono. Sono sedute accanto, in atteggiamento consapevole, corrispondente ma non speculare, serio ma non drammatico, concentrato ma non intimistico. Maria è immersa nella lettura di un libro (ciò significa, secondo la convenzione pittorica del tempo, che sta meditando), mentre Marta fissa lo sguardo pieno di affetto e di attenzione sulla sorella che legge: nulla di più lontano da quella specie di rivalità velata - gelosia femminile, sotterranea lotta per la predilezione - che è stata fatta emergere dal vangelo di Luca. Qui Marta e Maria simboleggiano non solo il discepolato intrepido, fedele e veggente, ma anche l'integrale, riconciliata solidarietà in cui esso si incarna.
Note
1. «Nella sua casa» è aggiunta di alcuni codici antichi.
2. Lo usa invece, quantunque in modo più generico, nel libro degli Atti: «A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità...» (At 9,36).
3. E. MOLTMANN-WENDEL, Le donne che Gesù incontrò, Queriniana, Brescia 1989, p. 66.
4. Valutando a occhio, ovvero senza andare a contare le righe, abbiano l'impressione che in tutto l’insieme dei vangeli ci sia un solo colloquio più lungo di questo: quello con la Samaritana, nel cap. 4 dello stesso vangelo. Notiamo di passaggio che anche qui l'interlocutrice di Gesù è una donna, e per di più, sono diversi aspetti, irregolare.
5. He Màrtha de periespato peri pollen diakonian. C’è anche un riferimento a 1 Cor 7,35, in cui Paolo affermava che la vergine, a differenza della donna sposata, può servire il signore senza preoccupazioni (aperispàstôs).
6. PG XXXI, 1326-1327
7. GREGORIO MAGNO, In Hiezechielem I, hom. III, 9: Due autem sunt sanctorun praedicatorum vitae, activa scilicet, et contemplativa, sed activa prior est tempore quam contemplativa, quia ex bono opere tendit ad contemplationem. Contemplativa autem maior est merito quam activa, quia haec in usu praesentis operis labor, illa vero sapore intimo ventura iam requiem degustat. (...) Quod bene in Evangelio duae illae mulieres designant, Martha scilicet et Maria. Martha enim satagebat circa frequens ministerium; Maria autem sedebat ad pedes Domini et verba sua audiebat. Erat ergo una intenta operi, altera contemplationi. Una activae serviebat per exterius ministerium, altera contemplativae, qui ista cum mortali vita deficit, illa vero in immortali vita plenius excrescit. Unde dicitur: Maria optimam partem elegit, quae non auferetur ab ea (...) Nam etsi per activam boni aliquid agimus, ad caeleste tamen desiderium quam contemplativam volamus. (Corpus Christianorum – series Latina CXLII, Brepols, Turnholti MCMLXXXII, 37-38; cfr PL CX,809).
8. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 9: Bene has atrasque vitas duae illae mulieres signaverunt, Martha videlicet e Maria, quarum una satagebat circa frequens ministerium, alia vero sedebat ad pedes Domini et audiebat verbum de ore eius. Cumque contra sororem Martha quereretur quod se adiuvare negligeret, respondit Dominus dicens: Martha, occuparis et satagis circa multa, porro unum est necesarium. Maria autem optimum partem elegit, quae non auferetur ab ea. Ecce pars Marthae non reprebenditur, sed Maria laudatur. Neque enim bonam partemm elegisse Maram dicit, sed optimum, ut etiam pars Marthae iudicaretur bona. Quare autem pars Mariam sit optima, subinfertur, cum dicitur: Quae non auferetur ab ea. Activa enim vita cum corpore deficit. Quis enim in aeterna patria panem esaurienti porrigat, ubi nemo esurit? Quis potum tribuat sitienti, ubi nemo sitit? Quis mortuum sepeliat, ubi nemo moritur? Cum presenti ergo saeculo vita aufertur activa, contemplativa autem hic incipitur, ut in celesti patria perficiatur quia amoris ignis qui hic ardere inchoat, cum ipsum quem amat viderit, in amore ipsius amplius ignescet. Contemplativa ergo vita minime aufertur, quia subtracta saeculi luce perficitur. (CC-SL CXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).
* [Citazione implicita da AGOSTINO, Contra Faustum manichaeum XXII, pp. 52 ss.].
** [Gregorio si riferisce all'etimologia corrente, accettata anche da Agostino, secondo cui il nome Rachele significa «principio di visione» e Lia “laboriosa”]
9. GREGORIO MAGNO, In Hiezechiel. II, hom. II, 10: Has utrasqae vitas, sicur et ante nos dictum est,, duae beati Iacobi mulieres signaverunt, Lia videlicer et Rachel. (...) Quia videlicet omnis qui ad Dominum convertitur contemplativat vitam desiderat, quietem aeternae patriae appetit, sed prius necesse est ut in nocte vitae praesentis operetur bona quae potest, desudet in labore, id est Liam accipiat, ur postea ad videndum princium in Rachei amplexibus requiescat. Erat autem Rachel videns, et sterilis, Lia vero lippa, sed fecunda, Rachel pulchra et infecunda, quia contemplativa vita speciosa est in animo, sed dum quiescere in silentio appetit, filios non generat ex praedicatione... (CC-SLCXLII, 230-231; cfr PL CX, 954).
10. GREGORIO MAGNO, Epist. I ad Theoctistum, 5: ...Contemplativae vitae pulchritudinem velut Rachelem dilexi, sterilem, sed videntem e pulchram (Gen 29); quae etsi per quietem suam minus generat, lucem tamen subtilius, videt. Sed, quo iudicio nescio, Lia mihi in nocte coniuncta est, activa videlicet vita; feconda, sed lippa; minus videns, quamvis amplius parens. Sedere ad pedes Domini cum Maria festinavi, verba oris eius percipere; et ecce, cum Martha compellor in exterioribus ministrare, erga multa satagere (Lc 10,39 ss.). (CC - SL CXL, 6).
11. GREGORIO MAGNO, Epist. VII ad Gregoriam, 22: ... Quomodo antem fuerint dimissa, in hoc etiam monstratum est, quoci postmodum est secutum, quia ad pedes Domini sedebat et verbum ex ore illius audiebat (Lc 10,39). In contemplativa enim vita suspensa, iam activa transcenderat, quama adhuc Martha illius soror tenebat (ibid., 40). Sepultum quoque Dominun studiose conquisivit... (CC - SL CXL, 54).
12. Tra parentesi, stando al racconto di Luca, i Sette vengono eletti in modo specifico per il Servizio delle mense, ma forse le cose non stavano esattamente così: gli unici due, di quei sette di cui sappiamo qualcosa, vengono presentati (Stefano nei capp. 6-7, Filippo nei cap. 8) in atto di predicare, e degli altri servizi che pure potevano esercitare non viene detto nulla, evidentemente perché considerati meno caratterizzanti.
13. Vi è l'eccezione apparente di Gv 11,32 («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!») ma, qualunque che sia l'intenzione dell'evangelista, è semplice duplicato della frase attribuita a Marta (Gv 11,21).
(da Vita Monastica, n. 229, ottobre/dicembre 2004)