IL PROFETA MARIA
"Grandi cose ha fatto
in me l'Onnipotente"
di P. Alberto Valentini
E' necessario ricondurre la figura di Maria dalla periferia della fede al cuore del mistero della salvezza. Sin dai più antichi tempi del cristianesimo il popolo di Dio, nella sua dignità profetica, sacerdotale e regale, per ispirazione dello Spirito Santo, ha espresso su Maria concetti molto profondi, che spesso solo più tardi sono stati recepiti dai teologi. Così pure ci sono stati molti santi che hanno intuito sulla Vergine verità dopo molti secoli espresse dal magistero ufficiale della Chiesa.
Vediamo quindi come la semplice e saggia pietà popolare abbia anticipato tante riflessioni.
"La premessa al culto di Maria è iscritta nelle pagine dell'Antico Testamento."
Ciò si nota soprattutto nella narrazione dell'incontro con Elisabetta (Le 1,39-45). Costei, rivolgendosi a Maria, usa parole che riecheggiano il cantico vetero-testamentario di Giuditta (Gdt 16,15). In esso, infatti, per manifestare la gioia dell'avvenuta liberazione, si dice: "I monti fin dalle fondamenta con le acque sobbalzeranno". Questo "sobbalzare" dei monti trova un preciso riscontro nel sobbalzo gioioso del piccolo Giovanni ancora nel seno materno. Elisabetta così dice a Maria: "Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha sobbalzato di gioia nel mio grembo, e beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore".
L'evangelista Luca non avrebbe attribuito ad Elisabetta tali espressioni se Maria non fosse stata già proclamata beata dalla primitiva comunità cristiana in cui egli viveva. Una simile riflessione può essere fatta anche per le parole del Magnificat: "Tulle le generazioni mi proclameranno beata" (Lc 1,48), che rispecchiano la particolare considerazione di cui la Vergine godeva nella Chiesa delle origini.
La proclamazione della beatitudine si ricollega direttamente al retroterra dell'Antico Testamento, in particolare modo al linguaggio di alcuni salmi. E veramente Maria sarà sempre proclamata beata fino a che durerà il regno di suo Figlio, "e il suo regno non avrà fine" (Lc 1,33).
"Ripensare a Maria come ci è stata presentata dai Padri antichi."
Nel corso dei secoli tanti Padri della Chiesa, tanti eminenti teologi antichi e moderni hanno dato spazio a Maria nella loro riflessione, mettendo soprattutto in risalto il profondo collegamento della Vergine con il mistero della Chiesa e con l'esperienza di fede di ogni singolo credente. A tal proposito si può ricordare Karl Rahner, secondo il quale il culto spontaneo, ricco di fede, verso Maria, può farci capire a che punto siamo giunti nella nostra personale esperienza di fede. Anche il cardinale De Lubac sottolineava in un suo trattato come i rapporti tra la Vergine e la Chiesa non fossero solo stretti, ma addirittura intessuti dal di dentro, tanto da non poter parlare di una senza parlare dell'altra.
Nel Pedagogo (opera composta nel III sec. d.C.) l'autore, Clemente Alessandrino, affermava di conoscere una sola Vergine e madre, cioè la Chiesa. In tempi a noi molto più vicini, U. Rahner sottolineava l'urgenza di recuperare alcuni valori presenti nell'antica comunità cristiana e concernenti gli strettissimi rapporti tra Maria e la Chiesa: secondo i Padri, infatti, solo attraverso Maria si può arrivare a comprendere il volto materno della Chiesa.
Dobbiamo quindi ripensare con serietà e con molto amore alla figura di Maria così come ci è stata presentata dai Padri antichi.
E' straordinario constatare come essi, che pure vivevano in un contesto socioculturale non certo propizio a recepire i valori femminili, abbiano saputo sottolineare quanto una donna abbia potuto collaborare con Dio nell'opera della salvezza, facendosi portatrice di Cristo.
Nel commento al Vangelo di Giovanni, fatto da Origene, una delle menti più aperte e feconde nell'ambito della riflessione teologica antica, si può cogliere, per via indiretta, la convinzione che non è possibile essere discepoli amati se non si accoglie, oltre a Cristo, anche sua Madre, come Giovanni ha accolto Maria ai piedi della croce.
"Ma chi è il profeta?"
Tutti i dubbi che talvolta noi ci poniamo intorno alla figura della Vergine se li era già posti Giuseppe quando aveva pensato di " rinviarla in segreto ". Ma l'intervento dell'angelo (Mt 1,20) convince Giuseppe a non ostacolare l'opera dello Spirito Santo che si sta compiendo nella sua sposa.
Maria è veramente figura profetica, nella quale si compie il passaggio dal profetismo antico a quello neo-testamentario. Essa, come Cristo suo figlio, è profondamente inserita nell'orizzonte culturale, spirituale e istituzionale dell'antico Israele, in cui erano presenti ed operanti realtà quali il profetismo, la regalità e il sacerdozio.
Cristo concentra su di sé tutti questi valori, rinnovandoli profondamente e comunicandoli a tutti coloro che sono battezzati in suo nome. Egli è sacerdote, re e profeta (vedere a questo proposito la Lettera agli Ebrei, che sviluppa in modo esemplare tale riflessione).
Il discorso sul profetismo ci riconduce a Maria: il titolo di profeta le appartiene, poiché essa è come noi inserita nel mistero di Cristo. Ma chi è il profeta? Egli è colui che proclama con potenza, attraverso le sue parole e le sue opere, il giudizio, la parola, i disegni di Dio. Il profeta gioca tutta la sua vita su questa parola e rivela il volto amoroso di Dio, il significato delle vicende umane, il senso della storia, che è sempre unitamente teologico e ideologico (cioè teso a realizzare un fine ultimo: la costruzione del Regno di Dio) e cammina sempre secondo i disegni del Signore.
La Lettera di Paolo ai Colossesi contiene, a tal riguardo, parole mollo significative. Infatti, riferendosi a Cristo, dice: "Tutto è stato creato per mezzo di Lui e per Lui...tutto trova il suo fondamento in Lui" (Col 1,16-17). E veramente Cristo ricapitola tutta la creazione sotto il suo dominio. Tutta la storia, infatti, è progetto di Dio ed il profeta lo rivela.
Il profeta è una persona afferrata dal Signore e animata dal soffio impetuoso del suo Spirito, secondo le parole di Geremia: " Tu mi hai sedotto. Signore, ed io mi sono lasciato sedurre" (Ger 20,7).
Per sottolineare questa sua totale appartenenza a Dio, spesso il profeta deve cambiare il suo nome. Così pure Maria, nella sua dimensione profetica, viene chiamala dall'angelo "kecharitomène", cioè "piena di grazia", oggetto della più profonda tenerezza di Dio. Ma ancora, sempre nel racconto di Luca, possiamo trovare altre espressioni che mettono in risalto il particolare rapporto che ha la
Vergine con il Signore. Elisabetta, infatti, la definisce, in un continuo crescendo, "benedetta", "beata", "colei che ha creduto", ed infine "la madre del mio Signore".
I profeti sono afferrati, turbati, scossi dal soffio dello Spirito. Maria pure è scossa violentemente, è turbata dall'annuncio ricevuto. Il verbo greco "diataràsso" bene esprime lo sconvolgimento provato dalla vergine.
Come i profeti spesso pagano con la sofferenza, e talvolta pure con la morte, la fedeltà alla loro vocazione, cosi pure Maria paga il "sì" con tutta la sua esistenza.
I profeti prendono posizione opponendosi ai potenti, della terra, poiché proclamano i progetti di Dio, spesso in opposizione con quelli umani. La loro missione consiste nella liberazione del popolo da ogni forma di idolatria e di oppressione (esemplari a questo proposito sono i canti del Servo di Javè, nel Libro di Isaia).
Anche in Maria possiamo vedere tutto questo: essa è al vertice dei profeti dell'Antico Testamento, poiché quelli scorsero da lontano, "desiderarono di vedere...ma non videro" (Lc 10,24) la salvezza, mentre la vergine questa salvezza, Cristo, la ha contemplata da vicino, la ha tenuta tra le braccia. L'arrivo dei Magi, narrato da Matteo (Mt 2,1-12), prefigura la venuta di tutti coloro che, in seno alla
Chiesa, si vedono presentare il bambino da Maria sua madre.
I profeti non possono tacere quanto hanno visto ed udito, ma si sentono spronati a portare il loro annuncio anche in luoghi molto lontani. Allo stesso modo Maria, una volta ricevuto l'annuncio, si reca a portare il messaggio di salvezza alla casa di Zaccaria, in particolar modo ad Elisabetta, sua cugina. E' riduttivo spiegare il viaggio affrontato dalla vergine solo con il desiderio di aiutare la sua parente, attempata e incinta. Già S. Ambrogio aveva visto in quel viaggio la manifestazione della gioia dell'annuncio, una gioia ben conosciuta nella spiritualità veterotestamentaria. "Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero che annuncia la pace !" (Is 52,7). I piedi dei missionari, dei profeti, degli inviati da Dio corrono, poiché devono portare la proclamazione della salvezza. Una simile gioia in Maria è scaturita dal messaggio che ha ricevuto, dal saluto a lei dato dall'angelo.
E' interessante considerare che, nel testo greco, la parola "saluto", "aspasmòs", ha una forte connotazione affettiva, indica un saluto che scaturisce da una profonda relazione di amore. E' quindi la percezione di tutto questo a riempire di felicità Maria, a farla andare "in fretta" dalla cugina, alla quale il suo saluto, pure definito "aspasmòs", fa sobbalzare di gioia il bambino nel grembo, proprio come nell'Antico Testamento il Profeta Malachia aveva affermato che avrebbero saltellato di gioia i
vitellini per la venuta del giorno del Signore (Mal 3,20).
"... dalla salvezza sperimentata può scaturire la gioia vera"
Sempre in un simile contesto gioioso bisogna ricordare che, come Maria, anche gli Apostoli annunciano il messaggio di salvezza subito dopo aver ricevuto lo Spirito Santo. C'è un evidente parallelismo tra la narrazione dell'annuncio alla casa di Zaccaria e quella della prima predicazione degli Apostoli, tra l'infanzia di Gesù e quella della Chiesa. Del resto Luca, autore di questo Vangelo, è pure autore degli Atti degli Apostoli.
Le grandi opere di Dio ricordate nell'Antico Testamento trovano la loro pienezza in Cristo, che porta la liberazione e salvezza. Solo dalla salvezza che è stata realmente sperimentata può scaturire la gioia vera. La liberazione dalla schiavitù egiziana, il passaggio, da parte degli Ebrei, del Mar Rosso, mentre i carri del Faraone e l'esercito sono travolti nel mare (Es 14,19-31), fa toccare con mano l'amore misericordioso e salvifico del Signore verso il suo popolo. Nel capitolo 15 dell'Esodo esplode la gioia attraverso il grande cantico di liberazione che è la falsariga del Magnificat e che sarà ripetuto poi ogni volta che Israele sperimenterà la salvezza.
La liberazione dall'Egitto è l'evento fondante dell'antica storia della salvezza, come la Pasqua di Cristo è l'evento fondante della nuova. Ancora, in Apocalisse 15 riecheggia l'aulico cantico per bocca dei redenti dal Signore. Il cantico di Esodo 15 si sviluppa intorno al ritornello che la profetessa Miriam, sorella di Mosè e di Aronne, intona, danzando e scuotendo nelle mani i timpani, insieme a tutte le altre donne. Un canto simile viene intonato dalla profetessa Debora (Gdc 5) come pure da Giuditta, "e il popolo tutto a gran voce ripeteva questo canto di lode" (Gdt 15,14).
Anche Maria con il suo Magnificat si inserisce a buon diritto nella schiera di donne forti e coraggiose capaci di sperimentare e di cantare la salvezza.
"Il Magnificat è..."
Il Magnificat è un canto di Pasqua. Tutti i Vangeli dell'infanzia sono testi pasquali composti più tardi delle altre parti, quando già nella primitiva comunità cristiana era maturata una profonda riflessione teologica sulla storia della salvezza, quando già sulla culla del bambino Gesù rifulgeva la gloria del Risorto.
In passato il Magnificat è stato letto come un canto spirituale, personale, individuale Tale chiave di lettura, cosi intimistica, non è più ammissibile. A partire dal 1968 si privilegiò un'interpretazione sociale e politica del canto, quasi fosse una "Marsigliese" del popolo di Dio. Ma anche questa interpretazione è contestabile, in quanto porta a una totale mondanizzazione del testo.
Il Magnificat proclama con la forza la salvezza di Dio che si estende a tutto il popolo e ciascuna persona. Dobbiamo avere una visione teologica, umana e incarnata della salvezza, che però trascende la storia e i progetti mondani. Pertanto il Magnificat è un canto salvifico in cui si celebra la Pasqua di Cristo e della liberazione definitiva. Esso esprime bene ciò che doveva aver provato Maria quando le era stato dato l'annuncio. Per dirla col Manzoni, "di tal genere, se non tali appunto" dovevano essere stati i sentimenti della Vergine espressi nel canto, sgorgato, come ogni vera preghiera, solo da chi ha veramente sperimentalo la salvezza, l'esperienza pasquale.
Il Magnificat è dunque un canto di lode gratuita a Dio, ma è anche inno, benedizione senza fine, ringraziamento: riunisce in se stesso elementi derivati da vari generi letterari.
Il Magnificat è un canto eminentemente teologico, poiché ogni sua espressione ci riporta al Signore, che è il soggetto di quasi tutti i verbi presenti nel testo, ad eccezione di due, di cui è l'oggetto, e che opera una radicale liberazione.
Il Magnificat è un canto pasquale. Nel suo centro, nel cuore del testo, sono presenti i poveri e gli affamati, mentre i superbi e i potenti sono citati verso la fine del cantico. II Signore è interessato a liberare i poveri, non ad umiliare di proposito i potenti. A questi ultimi Egli mostra il suo volto severo solo se si rifiutano di ascoltare la sua parola e perseverano nell'oppressione dei più deboli.
Tale durezza ha un profondo valore pedagogico, poiché richiama ad una autentica conversione. Il Magnificat è quindi un canto di salvezza e di misericordia. poiché, come afferma l'enciclica "Redemptoris Mater", ci rivela il volto di Dio e insieme quello dei poveri, poiché i poveri sono del Signore.
Nato da donna
Galati 4,4:
di P. Alberto Valentini
[1] Ecco, io faccio un altro esempio: per tutto il tempo che l'erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, pure essendo padrone di tutto;
[2] ma dipende da tutori e amministratori, fino al termine stabilito dal padre.
[3] Così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo.
[4] Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge,
[5] per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli.
[6] E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!
[7] Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio. (Gal 4, 1-7).
Il testo di Galati 4,4ss appare emblematico: vi è racchiuso, per così dire il Mistero di Maria, donna umile e sublime, colei che primeggia tra i poveri del Signore ed è l'eccelsa Figlia di Sion e la kecharitoméne. (1)
Gli studiosi si accostano a questa pericope con molta circospezione: premettono che essa si riferisce a Maria solo in maniera indiretta, quasi incidentale, ma finiscono generalmente con accenti di entusiasmo, che possono anche lasciare perplessi. Essi parlano, in conclusione, di "preziosissima testimonianza di Paolo", di mariologia in germe, di condensato e anticipo degli sviluppi presenti nei vangeli dell'infanzia. "Dal punto di vista dogmatico - afferma O. Söll - l'enunciato di Gal 4,4 è il testo mariologicamente più significativo del NT... Con Paolo ha inizio l'aggancio della mariologia con la cristologia, proprio mediante l'attestazione della divina maternità di Maria e la prima intuizione di una considerazione storico-salvifica del suo significato".
Effettivamente il testo di Galati presenta una sintesi notevole, di tale densità da orientare validamente la mariologia di ogni tempo. Se ci si fosse attenuti a tali linee sobrie, ma di straordinaria concretezza, la storia della mariologia sarebbe probabilmente ben diversa. Il "mistero" della donna in Gal 4,4ss è totalmente inserito in un disegno cristologico-trinitario-ecclesiale.
La donna, di cui non si menziona neppur il nome - ma tutti sanno chi sia - è interamente al servizio dell'evento salvifico che impegna la stessa Trinità ed è a vantaggio di tutti gli uomini. Ella è coinvolta nella realtà della pienezza del tempo, decisa non dalla semplice maturazione della storia, né da eventi mondani o da scelte umane, ma dalla libertà e sovrana decisione del Padre di inviare il proprio Figlio. La missione del Figlio di Dio non è conseguenza della pienezza del tempo, proprio il suo ingresso nella storia che realizza tale pienezza, trasformando il chrònos in kairós. (2) Il tempo della fine è il tempo in cui il "principio" divino della nostra esistenza, Gesù Cristo, è penetrato in essa. La comparsa di Gesù Cristo in questo eone si basa sull'atto dell'invio e consiste nell'incarnazione. Il Figlio di Dio così inviato, si inserisce nella natura umana, determinata dalla donna, come il "divenuto dalla donna"" (H. Schlier).
(1) Piena di grazia.
(2) Momento, tempo propizio.
Il testo di Galati è pieno di paradossi e di confronti sconcertanti. Da una parte c'è Dio, il Padre, che prende l'iniziativa e invia il Figlio nel mondo; dall'altra c'è la donna, e con lei la condizione di fragilità, caducità, povertà radicale. Nascendo da donna, il Figlio di Dio nasce sotto la legge, in condizione di non-libertà - secondo la visione paolina - pur essendo l'erede e il signore di tutto (cf GaI 4,1). C'è in questo evento l'infinita condiscendenza del Padre e la kènosi (3) estrema del Figlio. Nella donna si nasconde la povertà della terra, con la quale, tuttavia, Dio non ha mai cessato di dialogare e nella quale, realizzando la pienezza del tempo, va ad abitare.
Se è paradossale il fatto che il Figlio di Dio nasca da donna, sotto la legge, in condizione di fragilità e di schiavitù, non è meno paradossale la logica che intende redimere gli uomini e renderli figli proprio attraverso tale condivisione di povertà esistenziale e di non-libertà. Come può un nato da donna conferire la dignità di figli di Dio, e come può uno schiavo liberare quanti attendono di essere affrancati? Nella nascita del Figlio di Dio dalla donna e nell'assunzione della condizione di schiavitù si manifesta effettivamente il mistero della follia di Dio che è più sapiente degli uomini e della debolezza di Dio che è più forte degli uomini (cf 1 Cor 1.25). La donna diventa così il segno visibile della kènosi di Dio, ma anche l'itinerario attraverso il quale gli uomini possono ottenere la loro dignità. Parafrasando l'antico effato liturgico, si può affermare che il Figlio di Dio è nato da donna perché tutti i figli di donna siano resi figli di Dio. E a coloro che sono diventati tali, il Padre (che ha inviato il Figlio) invia lo Spirito, come garanzia e sigillo di libertà. Animati dallo Spirito del Signore, essi possono finalmente gridare l'Abbà della confidenza, in totale parresia (4) e nell'inconcussa certezza di essere non più schiavi, ma figli ed eredi, per grazia di Dio.
(3) Abbassamento, annientamento.
(4) Libertà di parlare.
Colpisce in questo testo "mariologico" il protagonismo trinitario, del Padre, del Figlio e dello Spirito. Da questo punto di vista siamo di fronte ad una testimonianza esemplare dell'agire divino nell'opera della salvezza.
Anzitutto il Padre, il quale appare con evidenza come l'iniziatore e il perfezionatore della salvezza. Le due proposizioni principali che costituiscono i pilastri portanti della pericope di Gal 4,4-7, hanno per soggetto il Padre e per verbo principale l’"inviare", concernente la missione del Figlio e dello Spirito. Il Padre non soltanto si trova in posizione dominante, come soggetto dei verbi principali, ma è collocato all'inizio e alla fine dei vv. 4-7, formando una significativa inclusione. Egli appare con evidenza - lo ribadiamo - come il principio e il fine dell’opera salvifica.
Anche il Figlio, ovviamente, ha una posizione di rilievo: il testo è marcatamente cristologico e il riferimento al Figlio è posto al centro del discorso, tra il Padre e lo Spirito. Egli appare implicitamente nella sua preesistenza divina ed esplicitamente nel suo essere "nato da donna". È l’"inviato" del Padre, il redentore e colui che comunica agli uomini la figliolanza divina. Il Figlio di Dio incarnato è l'operatore della nostra salvezza.
L'invio del Figlio, atto escatologico di Dio, che ha posto fine alla schiavitù dell'umanità con la grazia della dignità filiale, non esaurisce tuttavia il dono di Dio. La condizione di figliolanza richiede la presenza dello Spirito, che conferisce il carattere e la coscienza di figli con tutta la libertà che ne consegue. Questo secondo dono è postulato dal primo: all'invio del Figlio corrisponde, come necessario complemento, la missione dello Spirito. Il testo è esplicito in tal senso: lo stesso verbo col quale Dio manda il Figlio viene ripetuto per il dono dello Spirito. Non ci si limita alla trasformazione oggettiva, ma si è introdotti nell'esperienza personale, nella coscienza beata di sentirsi figli.
Insieme con la dimensione trinitaria, in questo testo che parla di schiavi liberati, è presente anche una nota essenziale, ma preziosa, di soteriologia e di antropologia soprannaturale, concernente la condizione nuova in Cristo e nello Spirito di quanti, sottratti alla schiavitù della legge e degli elementi mondani, sono diventati liberi, figli ed eredi, per grazia di Dio.
Tutte queste dimensioni - fondamentali nell'opera divina e nella salvezza delle genti - dicono riferimento più o meno diretto, ma imprescindibile, alla "donna" dalla quale è nato il Figlio di Dio. La sua figura appare in qualche modo un crocevia nei disegni divini. Alla luce di questo antico ed autorevole testo paolino acquistano concretezza le parole solenni del Concilio: "Maria... per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera i massimi dati della fede" (LG 65). Non a caso il testo di Galati viene citato con grande frequenza dai Padri e trova ampia valorizzazione nella liturgia della Chiesa. Anche i documenti magisteriali vi ricorrono volentieri. Con questo brano si apre il capitolo VIII della Lumen Gentium e con il medesimo testo ha inizio l'enciclica Redemptoris Mater. Giovanni Paolo Il non si limita a citarlo, ma ne sottolinea l'eccezionale portata trinitaria, ecclesiale e storico-salvifica: "Sono parole infatti che celebrano congiuntamente l'amore del Padre, la missione del Figlio, il dono dello Spirito, la donna da cui nacque il Redentore, la nostra filiazione divina, nel mistero della pienezza del tempo" (Red. Mat. 1).
GaI 4,4ss è dunque un testo di rara densità, sul quale bisognerà riflettere a lungo. È anche un brano dalle prospettive molteplici, da intendere in maniera sinfonica. Un approccio del genere corrisponde allo spirito dell'AMI (5) e ai criteri orientativi della sua rivista, che intende proporre una lettura interdisciplinare per far emergere la nascosta e. variegata ricchezza dei testi.
(5) Associazione Mariologica Italiana. La rivista è Theotokos è pubblicata dalle Edizioni Monfortane.
CHI È MIA MADRE
E CHI SONO I MIEI FRATELLI
di P. Alberto Valentini
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare.
Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano».
Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!
Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre». (Mc 3, 31-35).
Il brano sinottico concernente "la madre e i fratelli di Gesù" (Mc 3, 31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21) appare particolarmente difficile; non tanto in sé, ma per le interpretazioni parziali e talora polemiche alle quali è stato sottoposto. L'episodio continuerà probabilmente a suscitare discussioni, soprattutto nella redazione di Marco: un testo misterioso e sconcertante per alcuni e un cavallo di battaglia per altri, che vi scorgono un forte pregiudizio nei confronti della famiglia di Gesù e di sua madre. Le posizioni difficilmente evolveranno finché non si prenderà atto che:
- l'intento di questa tradizione sinottica e' positivo, non negativo: si parla della vera famiglia di Gesù, non dell'esclusione di quella naturale;
- non si tratta di un testo antimariano, per il semplice fatto che la pericope non è mariana, ma si occupa della madre e dei fratelli solo in rapporto al Regno;
- Mc 3,31-35 non dev'essere strettamente congiunto e tantomeno reso dipendente da 3,20-21, anche se allo stato attuale i due brani presentano un innegabile collegamento;
- le pericopi non vanno studiate e comprese isolatamente, ma alla luce del contesto immediato e remoto; anzitutto sincronicamente e sullo sfondo della teologia del redattore, e poi diacronicamente, prestando attenzione allo sviluppo delle tradizioni e agli apporti redazionali dei diversi autori del Nuovo Testamento, tenendo presenti le riletture dell'antica tradizione ecclesiale.
Alla luce di queste ed altre premesse - che permettono di intendere la Parola secondo lo spirito con il quale è stata scritta e trasmessa - si può comprendere quanto fragili e riduttive siano le interpretazioni suggerite dalla polemica e inversamente dall'apologetica. Non è più tempo di superficiali e sterili diatribe, ma di religioso ascolto della Parola nella sua densità e globalità: è la condizione, secondo Luca (8,2 1), per entrare nella famiglia di Gesù; è fare la volontà di Dio, nella prospettiva di Marco e Matteo (cf Mc 3,35; Mt 12,50).
In queste riflessioni ci soffermeremo sul brano di Marco, sia perché costituisce il testo-base, cui Matteo e Luca si richiamano o dal quale si differenziano, sia perché pone particolari problemi e suscita maggiori perplessità.
La prima difficoltà, vera "pietra d'inciampo" - che talora impedisce una lettura adeguata, secondo i criteri sopra accennati - è costituita dal v. 3,21, al quale la pericope 3,31-35 è legata in maniera più o meno diretta. Circa tale legame, da qualche decennio sembra divenuto di moda parlare di struttura a sandwich, di Framings, Ineinanderschachtelungen, Verschmelzungen..., termini ed espressioni che possiamo rendere con intercalazioni, strutture ad incastro, a forma concentrica... : un procedimento che compare con relativa frequenza nel vangelo di Marco. Esso consiste nell'interrompere un brano già avviato, introducendo un tema differente che spezza la narrazione, per poi riprendere il brano iniziale portandolo a conclusione. Uno degli esempi più evidenti e noti di questo genere è il racconto della figlia di Giairo, frammezzato dall'episodio dell'emorroissa e ripreso dopo tale interruzione (Mc 5,21-24.[25-34]35-43).
Secondo diversi autori, gli esempi di tale procedimento sarebbero piuttosto numerosi; ma proprio per questo i singoli casi devono essere vagliati con attenzione. Bisogna chiedersi se esista effettivamente continuità tra i due brani collegati e se realmente si possa parlare di struttura ad incastro. In una tesi di laurea, dedicata al nostro argomento e sostenuta presso l'università Gregoriana, A. Yoonprayong nega che in 3,20-35 si possa parlare di procedimento a sandwich. Mancherebbero componenti decisive come la continuità dei principali caratteri del racconto, un sufficiente accordo tra i soggetti e i verbi delle due parti, e in particolare l'effetto dei verbi della prima parte sulla seconda.
In realtà, coerenza e continuità tra i vv. 20-21 e 31-35 non sembrano evidenti: i soggetti sono diversi, come pure le intenzioni che essi manifestano, né si dà continuità a livello di conclusione. D'altra parte, perché si possa parlare di struttura concentrica si richiedono elementi obiettivi, molteplici e convergenti: solo in tal caso gli indizi sono probanti.
Detto questo, bisogna però riconoscere che tra i vv. 31-35 e 20-21 esiste un collegamento formale e tematico che merita attenta considerazione. C'è discussione tra gli studiosi se il blocco 3,20-35 risalga alla tradizione premarciana o se l'evangelista abbia ricevuto i tre episodi indipendenti e li abbia collegati così come adesso si presentano, o ancora se egli abbia diviso una tradizione unitaria tradizionale circa i parenti (3,21.31-35), inserendovi l'episodio degli scribi (vv. 22-30). Senza pretendere di risolvere tale problema, del resto non decisivo per noi, prendiamo atto della struttura tramandataci.
Nel blocco 3,20-35 si hanno dunque tre parti, riguardanti i parenti, gli scribi e la famiglia di Gesù, ma in realtà siamo di fronte a due temi che prendono l'avvio e sono raccordati dal v. 21: il primo, quello del 'incredulità nei confronti di Gesù, che trova accomunati - anche se a livelli nettamente diversi i parenti e gli scribi; l'altro, riguardante la vera famiglia di Gesù, nei confronti della quale sia oi par autou (coloro che gli stanno intorno) la madre e i fratelli sono fuori, in rapporto non tanto alla casa, ma a coloro che sono dentro, vale a dire intorno a Gesù.
In tale contesto, aperto dalla scena dei familiari e concluso dalla venuta della madre e dei fratelli, l'episodio degli scribi, oltre che aggiunto, sembra anche piuttosto marginale. Ciò è vero, ma bisogna affermare, paradossalmente, che tale inserzione (vv. 22-30) è responsabile per buona parte del clima negativo che grava sul v. 21 - col quale è collegata - e in qualche misura anche sui vv. 31-35, che immediatamente seguono.
Eppure il brano concernente gli scribi è profondamente diverso. La sua diversità, già insita nel fatto che si tratta di un elemento che interrompe il discorso, appare da molteplici indizi. Gli scribi non sono uditori occasionali, ma ascoltatori puntigliosi e sistematici del Maestro, pur non facendo parte della folla, né tantomeno dei discepoli: sono personaggi che si pongono sulle orme di Gesù per spiarne - direbbe Paolo - la libertà evangelica (cf Gal 2,4). Messi in discussione dalla sua azione e dalle sue parole - Gesù parla con autorità e non come gli scribi (cf Mc 1,22) -, essi compaiono fin dall'inizio del suo ministero e ne ostacolano in ogni modo lo svolgimento. Dopo un'impressionante sequenza di dispute (cf 2,1-12; 2,13-17; 2,18-22; 2,23-26; 3,1-6), giungono alla determinazione - già nella prima fase del ministero galilaico - di eliminare Gesù (cf Mc 3,6). Gli scribi, menzionati non di rado insieme con farisei, sommi sacerdoti ed anziani, ed anche con gli erodiani, sono gli avversari dichiarati di Gesù, il quale nei loro confronti usa un atteggiamento di severità e durezza estreme. Qualificandoli, nel nostro caso, con la formula "venuti da Gerusalemme", Marco li presenta come "I peggiori nemici", essendo Gerusalemme, nel secondo vangelo, la città notoriamente ostile a Gesù.
La punta estrema e isolata dell'incomprensione e del rifiuto, nella nostra pericope, si ha pertanto nei vv. 22-30: a differenza degli stessi spiriti maligni, che confessano la sua messianicità, gli scribi di Gerusalemme lo accusano di essere indemoniato - Lui che è venuto per distruggere le opere del diavolo (cf 3,27)- e di agire col potere del principe del demoni.
Nel confronto con i personaggi dei vv. 22-30, oi par autou risultano del tutto diversi e il loro giudizio, per quanto obiettivamente grave, si riduce a ripetere una voce (elegon) raccolta forse dagli stessi scribi (come potrebbe suggerire il vicino elegon del v. 22), ma senza la carica di negatività presente nella posizione di questi ultimi: si noti che l'accusa di peccato contro lo Spirito lanciata da Gesù, non è legata alle parole dei parenti ("è fuori di sé", v. 2 1), ma a quelle degli scribi ("ha uno spirito immondo", v. 30; cf v. 22). "I suoi" non vengono da Gerusalemme, né fanno parte delle autorità che han già deciso il suo destino: si muovono piuttosto per difenderlo e sottrarlo ad una situazione che a loro parere rischia di travolgerlo.
Ma chi sono concretamente i personaggi indicati con quel vago oi par autou? Rinunciando a spiegazioni ingegnose, ma poco convincenti, proposte da alcuni studiosi anche recentemente, e senza la pretesa di volerli identificare con esattezza, diciamo che sono quelli "dalla parte di Gesù"; possiamo qualificarli come familiari in senso lato, nei confronti della madre e dei fratelli che sarebbero i familiari più stretti. Il loro giudizio su Gesù: "è fuori di sé" e i loro intenti di "impossessarsi di lui", per quanto forse condizionati, rivelano un atteggiamento di forte incomprensione. Nonostante il dubbio formulato da Taylor, che i parenti "abbiano detto più di quanto effettivamente pensassero", oi par autou possono essere assimilati ai personaggi nazaretani - tra i quali sono inclusi anche quelli della sua casa e della sua famiglia - i quali "si scandalizzavano di lui", suscitando lo stupore di Gesù a motivo della loro incredulità (cf 6,1-6). Della mancanza di fede dei parenti abbiamo testimonianza anche nella tradizione giovannea (cf Gv 7,5). Ma si badi, né in ambito sinottico, né in contesto giovanneo si accenna mai a carenza di fede da parte della madre di Gesù. E neppure la si coinvolge, almeno esplicitamente, in iniziative in contrasto con la missione del Figlio.
Siamo così introdotti nel terzo episodio - quello della madre e dei fratelli, che conferma quanto ora si è affermato. Il brano non soltanto non presenta alcun contatto con la pericope degli scribi, nonostante la vicinanza, ma rivela un clima diverso anche nel confronti del v. 21: qui non c'è nessun giudizio o pregiudizio nei confronti di Gesù, né si ha intenzione di condizionarne l'attività. Più che le affinità, tra i vv. 20-21 e 31-35 emergono le differenze: i personaggi dei vv. 31-35 non necessariamente sono da identificare con quelli del v. 21; la stessa ambientazione della scena è diversa: la madre e i fratelli restano fuori e mandano a chiamare Gesù non a causa della folla che riempie la casa (come nel v. 20), ma a motivo della gente seduta intorno a Lui. Il fuori, che non è semplice indicazione spaziale, si spiega in rapporto al dentro, dove sono quelli che ascoltano il Maestro: in tale scenografia, Gesù appare come il centro di una cerchia interiore, di una nuova famiglia, che si distingue da tutti coloro che sono all'esterno, compresi i suoi familiari. Tale cerchia non va confusa con la folla del v. 21, nonostante il lettore sia portato ad identificarle. L'episodio dei vv. 3lss non si fonda su alcun precedente: "Nulla in 31-35 fa pensare a 3,21" (B. RIGAUX). Attenzione in 3,31-35 è centrata sulle parole di Gesù e non sulle intenzioni e le parole dei parenti.
Le differenze tra i vv. 31-35 e 21 sono dunque molteplici e di non lieve entità. Tuttavia il loro inserimento in una struttura del tipo A-B-A', nel blocco di 3,20-35, non si può ridurre a semplice artificio letterario: certamente i due episodi nell'intenzione dell'evangelista obbediscono ad una medesima tendenza. La domanda-risposta di Gesù circa la sua vera famiglia costituisce non solo il punto centrale dei vv. 31-35, ma influenza in qualche modo anche il v. 21.
Non sarebbe dunque la scena del v. 21 a condizionare quella dei vv. 31-35 - come frequentemente si sostiene - ma è quest'ultima, più articolata ed esplicita, caratterizzata dalla parola autorevole di Gesù, ad illuminare l'episodio del v. 21. Sullo sfondo dei vv. 31-35, la prima scena - molto breve e senza alcuna conclusione - appare più compiuta e positiva. I due episodi, lo ribadiamo, nonostante le differenze e l'originaria indipendenza, rivelano una medesima tendenza: affermare la nuova famiglia, costituita da quelli che sono dentro, seduti intorno al Maestro e aperta a tutti coloro che fanno la volontà di Dio. Tale famiglia è fondata sull'ascolto della Parola di Gesù espressione concreta della volontà del Padre - e si distingue, perfino si contrappone a tutti coloro che sono fuori, non esclusi i familiari. I vv. 31 – 35, sia ben chiaro, non intendono rifiutare la madre e i fratelli di Gesù, ma affermare positivamente la nuova famiglia spirituale ed escatologica nella quale gli stessi parenti sono invitati ad entrare.
L'assoluto del Regno ha segnato, anzitutto, l'esistenza di Gesù, il quale ha lasciato ogni cosa per dedicarsi alla sua missione e alla famiglia escatologica da Lui inaugurata. La sua dedizione al disegno del Padre è così radicale e totalitaria da causare l'incomprensione dei parenti, i quali si decidono a intervenire ritenendolo fuori di sé. Per tale forma di vita, Gesù ha costituito i "dodici" ("li fece dodici perché stessero con Lui" [3,14]); al medesimo genere di esistenza, subito dopo, invita i suoi familiari. La scelta dei dodici (3,13-19), che costituiscono il nucleo centrale della famiglia spirituale ed escatologica, precede infatti immediatamente la pericope dei parenti (3,20-35). Tale famiglia non è limitata, come quella terrena, ad alcuni con esclusione di altri, ma è spirituale ed universale: vi appartengono tutti coloro che fanno la volontà di Dio.
L'intenzione della nostra pericope pertanto non è polemica, anzitutto, ma kerigmatica: lo scopo non è di svalutare la famiglia terrena, ma di affermare la priorità e la necessità di entrare a far parte della comunità escatologica, attraverso la parola di Gesù e il compimento della volontà del Padre.
La necessità di passare da fuori a dentro risponde alla concezione marciana circa il segreto messianico del Figlio dell'uomo, che percorre tutto il vangelo. E un segreto che nessuno comprende, neppure i discepoli, i "dodici" e lo stesso Pietro - nonostante la professione di 8,29 - finché non sarà svelato dalle parole del centurione ai piedi della croce (15,39).
Su tale sfondo, si ridimensiona il contrasto - spesso notevolmente gonfiato - con la famiglia di Gesù, almeno come elemento caratterizzante della pericope. La "durezza" del linguaggio di Marco, del resto, è cosa ben nota: non soltanto i suoi nemici gerosolimitani vengono presentati ostili a Gesù, ma anche i suoi concittadini e familiari (cf 6,1-5); gli stessi discepoli appaiono dissociati da lui, mancano di fede (4,10), sono tardi a comprendere (4,13; 6,49-52; 7,18; 8,17-21; 9,32). Tale incomprensione e dissociazione si manifesterà soprattutto nella passione: nessuno come Marco ha sottolineato la solitudine di Gesù e l'abbandono da parte di tutti (cf 14,50).
Si dissolve così anche la presunta interpretazione "antimariana" della pericope: un aspetto che non emerge dal testo, per il fatto che in esso non è riscontrabile alcuna diretta intenzione mariologica. La madre di Gesù viene nominata insieme con i fratelli e le sorelle per affermare che la nuova parentela, che si instaura con Gesù e intorno a Gesù, presenta i connotati di una vera famiglia, non di semplice fraternità.
Ad eliminare dalla pericope ogni eventuale influsso negativo, derivante dal v. 21, hanno provveduto Matteo e Luca, i quali concordemente hanno omesso la scena dei parenti che vanno per impadronirsi di Gesù. Così facendo, essi hanno liberato il testo non solo dai pregiudizi derivanti dal v. 21, ma anche - sciogliendo la struttura concentrica A-B-A' di Mc 3,20-35 dall'influsso proveniente dall'episodio degli scribi.
Si noti che gli altri due sinottici, i quali hanno eliminato la prima scena, non hanno incontrato difficoltà nel riferire l'episodio della madre e dei fratelli, che pure costituisce una netta presa di posizione nei confronti della famiglia terrena di Gesù. Matteo non solo ripropone con immutata forza le medesime esigenze del Regno, ma, come Marco, addita la nuova famiglia in alternativa a quella naturale.
Luca, pur insistendo sulla comunità spirituale di Gesù, evita di contrapporre i due gruppi. Egli omette la domanda discriminante di Gesù ("chi è mia madre e chi sono i miei fratelli"), col gesto degli occhi o della mano, presenti rispettivamente in Marco e Matteo (cf Mc 3,33-34; Mt 12,48-49), ed esprime in positivo la condizione richiesta per essere madre e fratello di Gesù: l'ascolto e la pratica della parola di Dio. In ciò è evidente una trasformazione del logion riferito da Marco; non meno evidente è la sottolineatura della figura di Maria, quale credente (cf Lc 1,38.45; 2,19.51 b; 11,28), madre prima nella fede e poi nella carne. Ciò viene confermato dalla disposizione redazionale dell'episodio:
Luca colloca la scena della madre e dei fratelli, in un contesto diverso rispetto a Marco e Matteo: mentre questi riferiscono il brano prima della sezione delle parabole, Luca lo pone dopo di essa, presentando la madre di Gesù quale "terra buona", che accoglie la Parola, la custodisce e produce frutto nella perseveranza (cf Lc 8,15).
In conclusione - al di là di queste ed altre differenze dovute ai redattori ci sembra di poter affermare con B. Maggioni che: "In nessuno dei tre vangeli si scorge, nell'episodio preso in esame, un qualche tratto direttamente mariologico, se non la preoccupazione (assente in Marco, ma profondamente presente in Luca) di togliere qualsiasi ombra dalla figura della Madre. Si può dunque parlare di una crescente attenzione mariana, non però di una teologia mariana"; in ogni caso, è escluso un atteggiamento negativo nei confronti della madre di Gesù.
UN BRANO DIFFICILE:
LA RIVELAZIONE DI GESU' DODICENNE
AL TEMPIO (Lc 2,41-52)
di P. Alberto Valentini
[41] I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
[42] Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza;
[43] ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
[44] Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;
[45] non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
[46] Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava.
[47] E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
[48] Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
[49] Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
[50] Ma essi non compresero le sue parole.
[51] Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.
[52] E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Secondo una verità messa in luce da San Tommaso, il senso spirituale della Scrittura, cioè la sua interpretazione simbolica, non afferma nulla che non sia già contenuto nella lettera del testo sacro. In base a questo principio, una lectio delle pagine della Bibbia sulla figura della Vergine Maria non può limitarsi solo ai testi del Nuovo Testamento che parlano esplicitamente di lei: bisogna infatti prendere come punto di partenza i temi che fin dall'Antico testamento annunciano la sua presenza nel disegno di Dio. Nel breve spazio di queste pagine, si potrà accennare molto sinteticamente, solo ai più significativi.
Fin da Genesi 3, al termine del racconto del peccato originale, la storia appare come il campo dove si affrontano la discendenza del serpente e quella della Donna (3,5). L’ultimo scontro dell'uno contro l'Altra viene rappresentato in Ap 12, dove la vittoria di Dio è descritta attraverso il simbolo della Donna sottratta alla presa del drago. Dal momento iniziale a quello finale della storia della salvezza, la promessa di Dio, donata agli uomini (Abramo, Davide, ecc.) viene trasmessa di generazione in generazione attraverso il dono della maternità fatto alle donne: in questa successione. Un rilievo particolare assumono le figure femminili menzionate nella genealogia di Gesù (cf Mt 1,3 e 5.6), ma soprattutto il tema della cosiddetta maternità ammirabile. La prova della sterilità (Sara, Rebecca, la madre di Sansone, Elisabetta ecc...) che sottolinea l'impotenza umana nella trasmissione della vita, diventa il luogo privilegiato dove l'intervento di Dio manifesta, con la sua onnipotenza divina, la gratuità del dono del Figlio, dell’Erede, del futuro Messia (Is 7; Ger 31 ecc.).
Analogamente, in tempi di grave crisi, la salvezza viene al popolo di Dio attraverso la debolezza di una donna (Gdc 4,17-22; 5,24-27): in particolare, la storia di Giuditta svilupperà ampiamente il tema della vittoria di Dio sulla violenza dell'oppressore (Gdt 6,2) attraverso la fede e l'impotenza di una donna (Gdt 13).
Negli oracoli profetici, poi, dove la speranza di Israele è intrinsecamente connessa con la dinastia di Davide, lo sguardo si volge verso il tempo in cui "Colei che deve generare partorirà" (Mic 5,2; Is 7,14). La figura femminile della Figlia di Sion diviene personificazione dell'intero popolo eletto, a cui è promessa la presenza del Messia (Sof 3,14-17; Zc 2,14) e una maternità in prospettiva universale (Is 54,1-3; 66, 7-13; Sal 86,5-6).
Queste filigrane si raccolgono nei testi del NT che parlano di Maria. "Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge" (Gal 4,4). Sullo sfondo dell'annuncio cristiano della donna Madre di Cristo, si profila la madre del genere umano (Eva, Gen 3,20), prototipo della Madre del Messia. In Mc 6,3, Gesù è presentato come figlio di Maria, allo stesso modo in cui è presentato come figlio di Dio (Mc 1,1; 12,6-8.; 13,32; 15,39 cf 14,36). E’ attraverso di lei che Egli si inserisce nella storia e nel tempo degli uomini, nelle tradizioni del popolo eletto: è da lei che impara le parole umane che formulano il Vangelo, da lei apprende a vivere, a guardare, a sentire e ad amare. E quando Gesù affermerà "Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre" proclamerà la grandezza della Madre sua, che lo aveva formato alla regola fondamentale della propria vita (Mc 14,36).
Luca presenta la grandezza della Vergine con una nuova beatitudine. "Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano" (11,27-28). È questa infatti la parola fondamentale che attraversa i suoi racconti dell'infanzia di Gesù (Lc 1-2), scritti, si può dire, a partire dall'esperienza di Maria (cf Lc 2,19.56). L'annuncio dell'Angelo, che narra l'indicibile evento dell'incarnazione sulla falsariga delle vocazioni dei profeti (cf Es 3-4; Gdc 6,11-27; 1s 6; Ger 1; Ez 2,1-14), riprende testualmente le parole dell'Antica Scrittura: "Rallegrati, il Signore è con te" (Zac 2,14-17; Lc 1,28). Maria è la Figlia di Sion dei tempi ultimi, colei che ha ricevuto grazia: in di Lei, lo Spirto creatore (Gen 1,2), il principio del mondo nuovo (Ez 37,9) realizza l'impossibile (Gen 18,14; Lc 1,37), rendendola con la sua ombra il vero luogo della Presenza di Dio (Es 40,34; Lc 1,35).
Nella Visitazione, Elisabetta saluta Maria non solo con il titolo consacrato dalle Scritture ("benedetta tu tra le donne": cf Gdc 5,24; Gdt 13,10), ma riconoscendo in lei la Madre del Signore, Kyrios, titolo di Dio dell'AT Testamento greco, ripreso in Fil 2,11; 1 Cor 12,3. Nelle parole di Elisabetta, Maria è descritta come la prima figura della comunità dei credenti (Lc 1,45): e la Vergine le risponde con il Magnificat (Lc 1,46-55) un cantico interamente intessuto di reminiscenze bibliche, rielaborate in prospettiva cristiana.
Quando poi Luca racconta la nascita di Gesù e la sua circoncisione (2,1-20.21), mette in risalto l'incarnazione del Figlio di Dio, il Cristo Signore (2,11): la sua venuta al mondo porta la pace agli uomini e proclama la gloria di Dio (2,13-14). Il segno dell'evento (il Bimbo appena nato, deposto nella mangiatoia) mette al centro del quadro la maternità della Vergine (2,6-7.16): raccogliendo ogni cosa nel suo cuore, Maria esemplifica la vita cristiana come memoria e fede.
Anche nella consacrazione al Signore del Figlio primogenito (2,22b-24), lo spirito profetico di Simeone riconosce la venuta del Messia (2,26) e annuncia la maternità universale di Maria (2,35, cf Gv 19,25-27). E nel ritrovamento al Tempio del Figlio dodicenne, condotto a celebrarvi la Pasqua, sempre secondo la Legge (2,41-42), Gesù appare come il Maestro, interamente dedito al Padre (2,48-49) che sconcerta i suoi, come anticipando il suo destino pasquale (2,50).
Nei capitoli dell'infanzia di Matteo, il ruolo delle femminilità del disegno di salvezza (Mt 1,3.5-6) prelude alla funzione di Maria: la genealogia di Gesù culmina nei paradosso della concezione verginale (1,16). Ma è attraverso Giuseppe, sposo di Maria, che Gesù viene inserito nella discendenza davidica. La concezione dallo Spirito Santo (1,18.20) segna l'evento straordinario dell'Incarnazione e il ruolo unico assunto dalla Madre di colui che salverà il suo popolo dai suoi peccati (1,22-23; cf Is 7,14). La Vergine risalta ancora come Madre nel Messia nell'adorazione dei Magi, quando offre la regalità di Gesù al riconoscimento dei popoli pagani (2,11): e quando il Padre del Cielo richiamerà il Figlio dall'Egitto (2,15; cf Os 11,1).
In Giovanni, che per antonomasia è il Vangelo dell'incarnazione del Verbo, Maria riveste un ruolo apparentemente meno esplicito ma ugualmente centrale. Nel Prologo (1,13) è possibile intravedere un'allusione alla concezione verginale quando l'evangelista presenta "Colui che è nato non dalla carne e dal sangue, ma da Dio". Nei due episodi propri al IV Vangelo, a Cana (2,1-12) e ai piedi della Croce (19,25-27), Maria è la Donna per eccellenza (Gv 2,4; 19,26) la nuova Eva (Gen 2,23; 3,1-2.6.16.20) Madre dei viventi.
A Cana, il primo segno, che anticipa l'ora della manifestazione pasquale del Cristo (2,11), l’intercessione della Madre invita i servi (2,5) a "fare tutto quello che dirà loro" il Figlio, e così affretta la sostituzione dell'acqua delle purificazioni dei giudei (2,6) nel vino della nuova alleanza, simbolo dell'Eucaristia. Ai piedi della croce, nell'ora in cui tutto si compie (19,30), Maria riceve Giovanni come proprio figlio al posto di Gesù, divenendo Madre della Chiesa (Gv 19,26-27), e la maternità verginale di Maria diviene maternità spirituale di tutti i credenti, unendo indissolubilmente il mistero di Maria e il mistero della Chiesa.
Nell'Apocalisse, descrizione simbolica dell'ultimo orizzonte della storia, si compie lo scontro annunciato nella scena iniziale della creazione (Gen 3-15.15), ma al tempo stesso viene simboleggiato il rovesciamento, l'antitesi del peccato d'origine. Eva rappresenta l'umanità sedotta dal serpente e sottomessa alla morte, Maria rappresenta l'umanità nuova, sottratta per grazia alle prese del peccato e della morte. E’ una donna incinta che sta partorendo (12,2) il Figlio primogenito (Is 66,7), il Messia che regge le nazioni (Ap 12,5; Sal 2,9). Il Figlio e la Madre sono sottratti al Drago (12,5.13-16), ma la lotta del male contro il bene continua in coloro che obbediscono alle leggi di Dio e posseggono la testimonianza di Gesù Cristo (12,17): l'umanità nuova dei redenti, la Chiesa. Di nuovo i simboli di Maria e della Chiesa sono intrinsecamente connessi: Maria è la donna vestita di sole e coronata dalle dodici stelle (12,1) che inaugura la nuova creazione, archetipo della Chiesa Santa e immacolata, già partecipe della gloria. del Cristo risorto.
(a cura del Monastero Trappista N. S. di S. Giuseppe di Vitorchiano - VT)
L’Acquedotto
Commento al Sermone di San Bernardo
di P. Alberico Maria Giorgetti
Abbazia Chiaravalle Milanese
San Bernardo ha tenuto il sermone dell’acquedotto (1) per la festa della Natività della Beata Vergine. Già il simbolo "dell’acquedotto" ci rimanda al problema del genere letterario. Un sermone o non piuttosto un piccolo, ma completo trattato di mariologia? In ogni caso l’argomento è chiaro fin dalle prime parole del testo latino. Si tratta infatti della Fecundae Virginis della Vergine Madre o con una traduzione più letterale Vergine feconda. L’espressione si riferisce in modo singolare a Maria, ma anche alla chiesa nel suo insieme e ad ogni persona consacrata. La verginità per il nostro autore e per la sua epoca definiva l’ordine monastico, il monachesimo preso nel suo insieme.
Fin dalle prime parole del sermone è richiamato il cielo. Vi è come un confronto tra la liturgia celeste e quella che si celebra sulla terra:
«Il cielo onora la presenza della Vergine Madre, mentre la terra ne venera la memoria. Così, lassù, si ha la fruizione di tutta la sua bellezza, quaggiù il semplice ricordo: lassù la sazietà, quaggiù soltanto un piccolo assaggio delle primizie; lassù la realtà, quaggiù il nome». (par. 1).
L’accenno al nome porta subito Bernardo alla domanda sul perché, avviene questo? La risposta la trova nel Padre nostro di cui l’autore inizia qui un commento.
Esso è preghiera autentica, esprime veramente la fede della Chiesa perché insegnata da Gesù stesso. Fin dalle prime parole, "Padre nostro" rivela il mistero dell’adozione a figli e della santificazione del nome. Questo vale per noi, pellegrini sulla terra; infatti, nella beatitudine celeste non si vive nell’ombra, "ma piuttosto in piena luce". Il Padre ha generato il Verbo in santi splendori lo ha generato prima di lucifero: "Tra gli splendori dei santi, dal mio seno", afferma autorevolmente il Padre, "prima della stella del mattino, io ti ho generato" (Sal 109,3) (par. 1).
Letteralmente prima della stella del mattino, foriera di luce, ma anche prima della creatura angelica più bella e più splendente, Lucifero, che per la sua bellezza, si è ribellato a Dio ed è precipitato nell’inferno. Notiamo anche che, l’abate di Chiaravalle, parla giustamente, riguardo al Verbo di generazione non di creazione: Egli è, secondo l’espressione del concilio di Nicea, generato non creato.
(1) Testo latino in Opera Omnia S. Bernardi, a cura di J. Leclercq e H. M. Rochais, Romae editiones Cistercienses, 1968, Vol. V, pp 275-288. Testo italiano in: Testi Mariani del secondo millennio, cura di Luigi Gambero, Roma, Città Nuova, 1996, Vol. III, pp. 248-260.
Dalla generazione del Padre a quella della Vergine Madre
"Ebbene – dice S. Bernardo – la Madre ha senza dubbio generato quel medesimo splendore, ma nell’ombra, e precisamente in quella stessa ombra con la quale l’ha adombrata l’Altissimo. Ha ragione pertanto la Chiesa, non quella dei Santi, (2) che risiede negli splendori del cielo, bensì quella che è ancora viatrice sulla terra, di cantare: "mi sono seduta all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato" (Ct 2,3), (…) come se dicesse: dolce al mio gusto " (3). (par. 2). Quest’ombra è misericordiosa perché i nostri occhi infermi non potrebbero sopportare la luce del sole.
La Chiesa pellegrina sulla terra desidera la luce e si deve invece accontentare dell’ombra. Per questo il grido, fino a quando? ripetuto due volte:
"Fino a quando non mi risparmierai e non mi libererai dalla tua presenza, così che io possa inghiottire la mia saliva? (Gb 7,19) ". "Fino a quando resterà inattuata quella sentenza: "Gustate e vedete com’è buono il Signore? (Sal 33,9) " (par. 2).
Tuttavia anche quest’ombra è soave e dolce. Per questa ragione nella celebrazione liturgica, la Chiesa sposa può realmente prorompere in rendimento di grazie e di lode.
(2) Per Bernardo, come del resto per sant'Agostino la Chiesa dei Santi è la Chiesa che vive in cielo, che ha già raggiunto la gloria.
(3) Notiamo la sensibilità di san Bernardo ai sensi, in questo caso al gusto, più sotto all'olfatto con il profumo, alla vista, al tatto. Egli sembra dipingere con le parole. Accanto ad una teologia profonda rivela un'altrettanta sensibilità all'arte, alla poesia.
L’acquedotto: tramite indispensabile alle sorgenti della grazia
Realmente Bernardo pensa e parla con la Bibbia. L’immagine dell’acquedotto è anche essa biblica. Come non pensare solo a titolo d’esempio, alla profezia d’Isaia riguardante l’Emmanuele? "Il Signore disse ad Isaia: Va’ incontro ad Acaz, tu e tuo figlio Seariasùb, fino al termine del canale (latino aquaeductus) della piscina superiore sulla strada del campo del lavandaio" (Is 7,3).
L’autore attinge anche dall’esperienza personale. L’acqua non si poteva sfruttare senza un canale che la convogliasse là dove doveva servire.
Cristo è la sorgente della vita eterna, la pienezza della vita, la fonte sempre viva, ma questa pienezza giunge a noi per mezzo di un acquedotto, quasi come uno stillicidio, un gocciolio di grazie, per quanto noi, nella nostra limitatezza di creature, possiamo attingere.
"Avete già capito – dice Bernardo – se non erro, di quale acquedotto intendo parlare, acquedotto che ha fatto giungere fino a noi la pienezza della sorgente che è sgorgata dal cuore del Padre, perché ne ricevessimo, se non in tutta la sua abbondanza, almeno nella misura della nostra capacità" (par. 4).
È Maria quell’acquedotto di cui Bernardo intende parlare. È infatti lei che è stata salutata dall’angelo come piena di grazia: "Ti saluto, o piena di grazia" (Lc 1,28) è lei la donna forte, di cui parla il libro dei Proverbi 31,10, profezia di Cristo e perciò profezia anche di Maria. Quest’acquedotto è stato costruito meravigliosamente da Dio stesso, quando è venuta la pienezza, dei tempi, dopo aver atteso cioè tanto tempo: "Ecco perché per tanti secoli il genere umano fu privo dei rivoli della grazia: perché non esisteva ancora il tramite di quel tanto sospirato acquedotto di cui stiamo parlando. E non c’è di meravigliarsi che si sia fatto attendere così a lungo, se si pensa per quanti anni il giusto Noè dovette dedicarsi alla costruzione dell’arca". (par. 4). Il riferimento all’arca serve ad indicare Maria, arca della nuova alleanza, perché portatrice e generatrice del Verbo di Dio. Se nell’antica arca, solo poche persone poterono trovare la salvezza, nella nuova tutti possono raggiungerla.
"Ma in che modo l’acquedotto in questione poté allacciarsi ad una sorgente così elevata? In nessun altro modo, se non con lo slancio del desiderio, con l’ardore della devozione, la purezza della preghiera come sta scritto: "La preghiera del giusto penetra i cieli" (cf. Sir 35,21) " (par. 5).
L’acquedotto ha potuto raggiungere una fonte così sublime per la purezza della preghiera e della vita. Questa è schematizzata con il consueto schema ternario:
Lo Spirito sopravviene in Maria come un balsamo che effonde all’intorno il suo profumo: " … su di te riverserà il suo unguento prezioso in tanta sovrabbondante pienezza, da farlo straripare copiosissimo da ogni parte" (par. 5).
Per san Bernardo il contemplativo o meglio lo spirituale deve riempirsi dello Spirito Santo per effondere il sovrappiù della contemplazione. Solo così potrà dare senza inaridirsi, perché, come vedremo più avanti, attingerà sempre dalla pienezza della sorgente stessa d’acqua viva.
Maria dispensatrice di grazia e di salvezza
Il piano di Dio è consiglio di sapienza e di pietà. L’uomo deve cercare di comprenderlo o meglio di in-tuere, di conservarlo e di scorgerlo nello stesso tempo già attuato e non ancora nel cuore:
"Considera attentamente o uomo, il piano di Dio, riconosci il disegno della sapienza e della misericordia. Come per irrorare l’aia di celeste rugiada Dio la riversò dapprima tutta sul vello (cfr Gdc 6,36-40), così per riscattare il genere umano ne depose l’intero prezzo in Maria. Per quale ragione agì in questo modo? Probabilmente perché Eva venisse scagionata per mezzo della figlia e l’uomo ponesse fine alle sue recriminazioni nei confronti della donna. D’ora in poi non dirai più, o Adamo: "La donna che mi hai dato, mi ha offerto dell’albero" (Gn 3,12) antico; dirai piuttosto: "La donna che mi hai dato mi ha nutrito col frutto benedetto"" (par. 6).
Maria è la Figlia per eccellenza che ha (ex-tratto fuori) scusato, la colpa della madre Eva. L’uomo non può più accusare la donna di avergli dato da mangiare dall’albero (de ligno) proibito, ma deve piuttosto dire di aver da lei ricevuto il frutto benedetto. (Gesù è il frutto benedetto dell’utero verginale di Maria). "Se elimini il sole che illumina il mondo – dice Bernardo – dove potrai trovare il giorno? Se elimini Maria, autentica stella che brilla sul mare grande e spazioso del mondo, che cosa rimarrà se non avvolgente caligine, ombra di morte e densissima tenebra? " (par. 6).
Maria, nostra avvocata presso il Figlio
Notiamo come, all’inizio del paragrafo sette, siano espressi i motivi, propriamente teologici della venerazione mariana. Venerazione, non adorazione, la quale è rivolta soltanto a Dio. È la volontà di Dio venerare Maria, ma è anche una sua volontà per noi, in nostro favore (motivo soteriologico). Vediamo cosa dice Bernardo:
"Veneriamo dunque Maria dal più profondo del nostro cuore, con i nostri più teneri affetti e desideri, perché così vuole colui che ha stabilito che noi ricevessimo tutto per il tramite di lei. Questa, insisto, è la sua volontà, ma per il nostro bene. Provvedendo in tutto e per tutto a noi miserabili, egli ci conforta nella trepidazione, tiene desta in noi la fede, rafforza la nostra speranza, allontana da noi la diffidenza, nella paura ci infonde coraggio".
Gesù è advocatus, Avvocato, presso il Padre. Maria è advocata presso Gesù: Ad vocatus, letteralmente è colui che è chiamato "ad", vicino presso. Bisognerebbe più propriamente tradurre forse avvocato difensore:
"Avevi paura di accostarti al Padre; al solo sentirne la voce ti nascondevi tra il fogliame? (cf. Gn 3,8-10). Ecco che egli ti ha dato Gesù come mediatore. Che cosa non riuscirà ad ottenere un tale Figlio da un tale Padre? (…) Hai paura anche di avvicinarti a Lui?" Ma è tuo fratello e carne tua... "provato in ogni cosa escluso il peccato" (Eb 4,15), per diventare misericordioso. Te lo ha dato Maria come fratello. Ma forse anche in lui temi la Divina maestà, perché, essendosi fatto uomo tuttavia ha continuato a essere Dio. Vuoi avere un avvocato e presso di lui? Allora ricorri a Maria. In lei l’umanità e certamente pura, e non solo perché non alterata dal peccato, ma per prerogativa naturale. Non ho alcun dubbio nell’affermare che anche lei sarà esaudita "per la sua pietà". Il Figlio esaudirà immancabilmente la Madre, come il Padre esaudirà il Figlio " (par. 7).
In Maria non vi è solo l’umanità, e pura, perché esente dal peccato ma anche un’umanità senza la divinità.
Il Figlio non vorrà certo opporre un rifiuto ad una richiesta della Madre, né il Padre negare qualche cosa al Figlio. Questa è la scala dei peccatori, la nostra fiducia, e la ragione della nostra speranza: "Hai trovato grazia presso Dio" (Lc 1,30) "le dice felicemente l’angelo".
Solo per grazia, siamo salvati. Notiamo la forma passiva.
Non dobbiamo cercare altre cose, afferma Bernardo nel paragrafo otto:
"cerchiamo la grazia, e chiediamola per intercessione di Maria, perché ella ottiene tutto quello che vuole e non resta mai inesaudita. Cerchiamo la grazia, ma presso Dio; presso gli uomini infatti la grazia è fallace. Vadano pure altri in cerca di meriti, quanto a noi preoccupiamoci di trovare la grazia" (par. 8).
Per l’abate di Chiaravalle, i nostri meriti sono la misericordia del Signore, né noi mancheremo di meriti finché il Signore non mancherà di misericordia. "Che se le misericordie del Signore sono molte, anche i miei meriti sono molti" (Sermone sul Cantico dei Cantici, LXI, 5). Prima di tutto viene la misericordia, la grazia. Per grazia siamo in questo luogo e abbiamo abbracciato la vita monastica. Una grazia rivolta non perché eravamo giusti, ma perché eravamo peccatori (4). Un insegnamento fermo che si appoggia a Paolo (1Cor 4,13). La conversione sta alla base della vita monastica. L’esperienza più forte è designata con le parole di Paolo dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia. Essa guarisce le nostre ferite proprio là dove il peccato ha deturpato la rassomiglianza con Dio. Della vita monastica elenca quella che sono le caratteristiche principali: l’umiltà, la conversione di vita e la verginità. Proprio perché Maria è rimasta umile, pur essendo in posizione così elevata da generare in lei il Signore degli Angeli, e, nello stesso tempo, vergine, ha potuto meritare la visita da un angelo.
(4) Un insegnamento fermo che si appoggia a Paolo (1 Cor 4,13). Si appoggia anche, e fortemente, all'esperienza di quei cavalieri che avevano abbandonato il mondo per servire Cristo. Essi avevano fatto l'esperienza della conversione, conversio o meglio conversatio morum, della Regola di S. Benedetto. La conversione della vita, dei costumi, morum, sta alla base della vita monastica.
Maria attinge alla sorgente che sta al di sopra degli angeli
Il discorso si avvia alla parte centrale. Maria è acquedotto, ma acquedotto che deve sempre risalire alla sorgente, "…come cioè non penetri più nei cieli soltanto con la preghiera, ma anche con l’incorruttibilità, la quale, come dice il Saggio, fa stare vicino a Dio" (cf. Sap 6,20).
"È infattii necessario che ella attinga al di sopra degli Angeli quell’acqua viva che deve riversare sugli uomini" (par. 9).
Maria si eleva, sopra gli Angeli, verso la stessa sorgente. Questo perché ciò che avverrà in lei è opera dello Spirito Santo, il quale sopravverrà su lei. Non basta un Angelo per quanto forte e sapiente. In Maria ha operato la Trinità intera. Maria è il capolavoro di Dio. Essa deve salire oltre gli Angeli per giungere a colui del quale essi proclamano incessantemente la santità. In principio era il Verbo e "il Verbo si è fatto carne", uomo, senza per questo cessare d’essere Dio; "e ormai abita fra noi (cf. Gv 1,14).
Abita certamente per mezzo della fede nei nostri cuori (cf. Ef 3,17), abita nella nostra memoria, abita nel nostro pensiero e si degna di abitare perfino nella nostra immaginazione. Poteva infatti l’uomo farsi un’idea di Dio prima dell’Incarnazione, se non si fosse costruito un idolo nel proprio cuore?" (par. 10).
Maria fa gustare ai credenti la memoria dei misteri di Cristo
Dio, "era incomprensibile e inaccessibile, invisibile e assolutamente inimmaginabile" (par. 11). Ha voluto essere visto toccato, pensato, imitato. Sicuramente Bernardo pensa alla Prima Lettera di Giovanni: "Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato, e ciò che le nostre mani hanno toccato, il Verbo della vita… noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi" (1 Gv 1-3).
Conseguentemente, quando pensiamo ai fatti della vita di Gesù, dal concepimento all’Ascensione al cielo, noi pensiamo Dio ed è l’unico modo che abbiamo di pensarlo. Ogni fatto della vita di Gesù è mistero e sacramento. Suscitano pensieri di santità e di pace, non solo perché lo sono in sé, ma anche perché li generano in noi. Notiamo in questi passaggi i principi teologici della lectio divina.
Vediamo anche tutta l’importanza della meditazione della vita di Cristo per poi imitarlo nella sequela. S. Bernardo afferma:
"ho sempre detto che meditare tali verità è sapienza, e che è indice di saggezza esternare il ricordo della loro dolcezza, dolcezza simile a quella che il bastone sacerdotale produsse in quantità nelle sue mandorle (cf. Nm 17,16-24), dolcezza che Maria, attingendola nei cieli altissimi, riversò ancor più copiosamente su di noi" (par. 11).
Perché Madre di Dio, Maria è superiore agli angeli
Maria, per la pienezza di grazia è giunta fino agli Angeli, per lo Spirito Santo super-veniente (sopra-veniente) li ha sorpassati. "Negli Angeli c’è carità, c’è purezza c’è umiltà. Ma in queste virtù non fu certo da meno Maria". Non dovrebbero essere queste le virtù principali in un cristiano e a maggior ragione in un monaco o monaca? Queste virtù sono state eminenti in Maria: Ma qual è la sua sovra-eminenza?
"Proseguiamo ora trattando della sua superiorità. "Infatti a quale degli angeli Dio ha mai detto" (Eb 1,5): "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te, stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo; colui che nascerà da te sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio"? (Lc 1,35) ". "Pertanto la maternità della Vergine è gloria eminentissima, e per singolare favore Maria fu resa tanto più eccellente degli angeli, quanto il titolo di Madre che ha ricevuto è superiore a quello dei ministri attribuito agli angeli" (par. 12).
Maria ha il nome ben più eminente di Madre. La grazia ha trovato colei che:
"…Era già piena di grazia, in quanto ardente di carità, integra nella verginità e pia nell’umiltà, ha meritato quest’altra grazia: di concepire senza conoscere uomo e di dare alla luce senza provare i dolori di parto. Ma c’è di più: quello che è nato da lei è chiamato Santo ed è il Figlio di Dio" (par. 12).
Maria modello di collaborazione con la grazia
Il nostro impegno dovrà essere quello di far sì che il Verbo, uscito dalla bocca del Padre per opera della Vergine, non venga a noi invano, ma per mezzo della stessa Vergine ritorni alla sorgente:
"Quanto a noi, fratelli, dobbiamo adoperarci con tutte le nostre forze affinché il Verbo, che dalla bocca del Padre è sceso fino sulla terra per il tramite della Vergine, non ritorni al Padre a mani vuote, ma, sempre per mezzo della medesima Vergine, riceva da noi grazia per grazia. Ricordiamoci bene che, finché viviamo nel desiderio della sua presenza, le grazie devono risalire alla sorgente dalla quale sono scaturite per continuare a fluire con sempre maggiore abbondanza. Se invece non ritornano alla sorgente, si disseccano, e così risultando noi infedeli nel poco non meriteremo di ricevere il massimo (cf. Lc 19,11-27) " (par. 13).
Eruttare (5), un verbo, che per noi ha un senso piuttosto dispregiativo, ma che per Bernardo e i medioevali era segno di una pienezza, in questo caso di cibo, che eruttava al di fuori.
La memoria, certamente nel primo senso della memoria liturgica e anche biblica, è un cibo spirituale che continuamente, masticato e ruminato, (letto e riletto, pregato, ascoltato e cantato) esce nello stesso tempo come pienezza (eructare) e sospiro di una presenza.
Anche noi, come Maria, dobbiamo risalire continuamente alla sorgente perché i fiumi non si dissecchino.
Se rimarremo fedeli all’ombra della memoria senza dubbio otterremo la luce della presenza.
Intanto dobbiamo fare la volontà di Dio e dobbiamo farla come in cielo, " …affinché la lode di Gerusalemme venga stabilita sulla terra", nella gioia e nella festa. L’Angelo non cerca la lode dall’Angelo, ma tutti insieme lodano il Signore. "Mentre sulla terra l’uomo aspira con cupidigia alla gloria che gli può venire da un altro uomo" (par. 14). Perché dunque l’uomo dovrebbe cercarla dall’uomo? "Quale esecrabile perversità!", esclama Bernardo.
(5) Eructemus memoriam donec praesentiam suspiramus: eruttiamo il ricordo, mentre sospiriamo la presenza.
Ai santi si addice la lode
"Taccia dunque fra noi la lingua maldicente, la lingua blasfema, la lingua boriosa, perché è bene per noi "attendere in" questo triplice "silenzio, la salvezza di Dio", in modo che si possa dire: "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta" (1 Sam 3,10) ". (par. 14).
Tuttavia, se si deve tacere dalle parole cattive, non bisogna rimanere del tutto muti, "per non costringere anche Dio al silenzio", dice Bernardo:
"Confessa a lui la tua vanagloria, per ottenere il perdono delle colpe passate. Invece di mormorare, ringrazialo per i benefici che ti ha concesso, così che te ne conceda ancora di maggiori. Quando sei scoraggiato parlagli nell’orazione, ed egli ti rassicurerà sulla vita eterna che ti attende. Confessagli, ripeto, le cose passate, per le presenti rendigli grazie e poi pregalo con maggior fervore per le future, affinché anch’egli non si astenga dal pronunciare parole di perdono, di munificenza e di fedeltà alle premesse fatte. Non tacere, torno a ripetere, per non costringere anche lui al silenzio. Parlagli invece, affinché anche lui ti parli e ti possa dire: "Il mio diletto è per me e io per lui" (Ct 2,16). (par. 15) ".
Bisogna parlarne, non agli uomini, ma al Signore. Della millanteria, per ottenere il perdono; della mormorazione, per essere riconoscenti per il passato e ottenere maggiori grazie per il presente; della diffidenza per ottenere la gloria futura. Questa non è la voce di mormorazione, ma quella della tortora:
"Ormai non sarà più considerata straniera colei di cui lo sposo dice: la voce della tortora si è fatta sentire nella nostra terra (Ct 2,12) " (par. 15).
Di che cosa è simbolo questo uccello? Esso è dello stesso genere della colomba, ma assai più piccolo e per lo più di colore bigio. La sua voce è spesso molesta; tuttavia ha qualcosa di piacevole perché annuncia la primavera. Per sentimento comune dei Padri in lei è allegoricamente encomiato il dono della castità, comunicato in speciale modo alla Chiesa, la quale ha sempre avuto un gran numero di persone dell’uno e dell’altro sesso degne di seguire l’Agnello ovunque vada. Le tortore vivono a coppie ed è provato che per tutta la vita non cambiano compagno. Sono quindi simbolo della fedeltà, come esprime san Bernardo. Le tortore, insieme alle colombe erano usate per i sacrifici, soprattutto da persone povere (6). L’amore di Dio è forte e costante ed anche noi dobbiamo rispondergli con la stessa fedeltà e costanza.
Se vogliamo rimanere fedeli al Signore occorre lottare con l’Angelo. È chiaro il riferimento scritturistico che riporto per intero: "Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpi all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: "Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto". Gli domandò: "Come ti chiami? Rispose Giacobbe". Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai lottato con Dio e con gli uomini ed hai vinto" " (Gen 32,23-28). Occorre combattere fino all’aurora, perseverare nelle prove fino all’esaudimento.
Occorre ricordare che il giorno ebraico iniziava con la sera precedente con il Vespro. Occorreva quindi passare tutta la notte, il tempo dell’oscurità, del pericolo, prima di giungere all’aurora, foriera del nuovo giorno.
(6) Cfr. Bestiario biblico, Cultrera Paolo, Roma, Libreria editrice Vaticana, 2000, pagg. 194-195.
Il Diletto ama pascolare tra i gigli
Il giglio delle valli è il giglio comune abbondante nella terra di Gesù. Perciò lo Sposo del Cantico ama paragonarsi al giglio (7).
"Così dunque il Diletto "si pasce tra i gigli, finché non spiri la brezza del giorno" (Ct 2,16-17) e alla bellezza dei fiori non succeda l’abbondanza dei frutti. Ma intanto, per noi, questo è il tempo dei fiori e non dei frutti, poiché viviamo nella speranza più che nella realtà... " (par.17).
"Camminiamo "nella fede e non nella visione" (2 Cor 5,7) " – aggiunge S. Bernardo – godendo nell’attesa più che del possesso della felicità. Il giglio è un fiore molto profumato, ma anche estremamente delicato. Occorre tener presente la nostra debolezza, "noi abbiamo questo tesoro in vaso di creta" (2 Cor 4,7) ".
Lo sposo, il diletto, ama camminare tra i gigli, "lo sposo non si pasce di un giglio solo, né si accontenta della sua compagnia. Ascolta che cosa dice infatti colui che dimora tra i gigli: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18,20) " (par.17). Gesù ama, stare nel mezzo, non la singolarità o che ci si apparti in luoghi reconditi (8).
Riguardo ai gigli, mi sembra opportuno ricordare alcuni passi del commento di San Bernardo: "Forse pascersi tra i gigli vuol proprio dire compiacersi del candore e del profumo delle virtù... ? È suo cibo la mia penitenza, suo cibo la mia salvezza, suo cibo io stesso" (Sermone sul Cantico, LXXI 4,5).
(7) Cfr. Erbario biblico a cura di Paolo Cultrera, Roma, Libreria editrice Vaticana, 2000, pagg. 128-132.
(8) Non si intende certo disapprovare la vita eremitica, ma la singolarità; l'appartarsi da soli, oppure a piccoli gruppi, evidentemente per mormorare o per fare congiure.
È sempre gradito quello che si offre a Dio per le mani di Maria
"In Maria egli si pasceva abbondantemente come tra una distesa di gigli. Non sono infatti altrettanti gigli la bellezza della sua verginità, l’eccellenza della sua umiltà, il fulgore della sua carità? Certo, possiamo coltivare anche noi tali gigli, ma saranno di qualità assai inferiore. Ebbene, neppure tra questi lo sposo disdegna di pascersi, purché davvero, come abbiamo detto, una gioiosa devozione illumini il nostro rendimento di grazie, la purità di intenzione renda più gradita la nostra orazione e il nostro atteggiamento indulgente ci ottenga la remissione dei peccati, come sta scritto: "Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve, e se fossero rossi come porpora, diventeranno bianchi come lana" (Is 1,18).
Ad ogni modo, qualunque sia l’offerta che ti appresti a fare, ricordati di affidarla a Maria, affinché per il medesimo canale attraverso il quale la grazia è giunta fino a noi, essa ritorni al Largitore di ogni grazia. Se lo avesse voluto, Dio avrebbe potuto fare a meno di questo acquedotto e donarci la sua grazia direttamente; invece ha pensato bene di servirsi di tale tramite. Forse le tue mani grondano sangue o sono immonde perché non le hai scosse per disfarti di qualsiasi regalo (cf. Is 33,15). Perciò, se non vuoi che risulti a Dio sgradito quel poco che desideri offrire, cerca di affidarlo alle mani amabilissime e degnissime di Maria. Poiché esse sono come altrettanti candidissimi gigli, colui che ama bearsi tra i gigli non potrà lamentarsi di non aver trovato tra i gigli qualunque cosa egli trovi tra le mani di Maria". (par.18).
L’ultimo paragrafo è quasi una conclusione di tutto il sermone. Gesù amava pascolare presso Maria. Trovava in lei gigli profumatissimi e bellissimi: la verginità, l’umiltà. Questi gigli deve trovarli anche in noi, seppure di minor valore rispetto a quelli di Maria. Sono la gratitudine e la gioia, la purezza d’intenzioni e la preghiera, la compassione e la confessione dei peccati. Tutto quello che ci prepariamo ad offrire, facciamolo per mezzo di Maria. Gesù lo gradirà certamente. Chi ama i gigli, non respingerà, né rifiuterà quello che si trovano nelle mani di Maria.
IL "SEGNO" DI CANA
Padre Alberto Valentini
La pericope di Cana (Gv 2,1-11[12]), inserita in posizione strategica all'inizio del quarto vangelo, è brano qualificante della letteratura giovannea, la più tardiva e matura del Nuovo Testamento, particolarmente densa di riflessione teologica e di simbolismo cristologico. Qui, più che altrove, il racconto è al servizio del messaggio.
Non che gli scritti giovannei trascurino o prescindano dalla storia; in essi, tuttavia, gli eventi hanno una portata "simbolico-sacramentale": nascondono e manifestano al tempo stesso le realtà divine che il Verbo fatto carne - proveniente dal Padre - rivela e comunica. Con Lui irrompe nel mondo la vita eterna, e la condizione umana è investita e trasfigurata dalla gloria di Dio.
Eventi, azioni, gesti e personaggi presentano, per conseguenza, un marcato orientamento teologico, più specificamente cristologico: sono al servizio della rivelazione e dell'opera del Figlio di Dio. In questa luce e in tale contesto va inserita e compresa anche la figura della madre di Gesù.
La tradizione giovannea - a differenza di quanto avviene in Luca - appare piuttosto sobria, quantitativamente, nei confronti di Maria: ne parla solo all'inizio (a Cana, appunto), al termine del vangelo (presso la Croce) e indirettamente in Apocalisse 12.
Ma, almeno per quanto concerne il Vangelo, è il caso di dire che la quantità è inversamente proporzionale alla qualità: nei due episodi - di Cana e della Croce - si tocca il vertice della riflessione neotestamentaria sulla madre del Signore. Ella non è più soltanto la credente e la madre di Gesù, ma - proprio in quanto credente e madre - è posta all'inizio e al termine del Vangelo, al servizio della fede e della vita dei discepoli. In tal modo ella è coinvolta direttamente e in maniera unica con la persona e l'opera del Figlio suo (cf LG 56).
La pericope delle nozze di Cana, nonostante i lunghi e numerosi studi, cela ancora ricchezze misteriose, quasi inesauribili. È un testo-chiave, ovviamente non solo per la comprensione della figura della madre di Gesù - oggetto particolare di questa nostra riflessione -, ma prima e più in generale per penetrare nel vangelo di Giovanni, per intenderne il messaggio recondito ed accedere alla sua straordinaria cristologia.
Dopo il fondamentale capitolo primo - comprendente il Prologo, la testimonianza resa a Gesù da Giovanni Battista e la chiamata dei primi discepoli (il tutto scandito da una sequenza precisa di giorni e di ore, importanti per la concezione giovannea) -, ecco, subito, all'inizio del capitolo secondo, la presenza della madre di Gesù. La pericope di Cana, lo ribadiamo, non riguarda in primo luogo lei, che pure vi è profondamente inserita. Proprio perché incastonata nel mistero della rivelazione del Figlio di Dio - nel contesto di realtà teologico-salvifiche grandiose - la figura della Vergine acquista un rilievo particolare. Ciò appare più chiaramente dal confronto di questo episodio con quello della madre di Gesù presso la croce (Gv 19,25-27). Posti all'inizio e al vertice del mistero-ministero di Gesù e dei "segni" che lo rivelano, i due brani formano una grande inclusione. Costituiscono, in certo modo, gli estremi in mezzo ai quali si svolge l'intera catechesi giovannea.
IL "PRINCIPIO" DEI SEGNI
Come si può già intuire, la ricchezza dell'evento di Cana è veramente notevole.
Il testo si apre con una determinazione di tempo e di luogo e si conclude parallelamente con un' indicazione spazio-temporale:
- v. 2, 1: "E il terzo giorno ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea...
- v. 2,11I: Questo fece Gesù come principio del segni in Cana di Galilea
- v. 2,12: Dopo questo discese a Cafarnao... e vi rimasero non molti giorni".
Un episodio inquadrato con tale cura e solennità non può essere una normale festa di nozze, ma un evento epifanico. Esso si svolge non solo nel tempo e nello spazio dell'esistenza umana, ma è inserito nei giorni, nelle ore e nello spazio stabiliti dal Padre. In tale ambito, e solo in esso, si svolge l'azione di Gesù, il quale è venuto non per compiere la sua volontà, ma quella di Colui che l'ha mandato (cf Gv 6,38). A dissipare ogni equivoco, del resto, giunge puntuale la voce dell'evangelista che, nel punto culminante del testo, spiega il senso dell'evento: "Questo fece Gesù come "principio" dei segni, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui" (v. 11).
Il "segno" è un azione o un prodigio compiuti da Gesù per rivelare la sua identità di Figlio di Dio e la sua presenza salvifica in mezzo a noi.
Cana è il "principio" dei segni che seguiranno: un archetipo, un segno-tipo che sta all'inizio, che prefigura e anticipa tutti gli altri, rivelandone il senso e la finalità. Non si tratta dunque di un semplice episodio, ma di un evento fondamentale, che inaugura la missione di Gesù e ne mostra, anticipandoli, gli estremi sviluppi. Con esso egli manifesta la sua "gloria", lo splendore e la dignità divina che aveva presso il Padre prima della creazione del mondo (cf Gv 1,1 ss; 17,5) e della quale sarà rivestito nella risurrezione. Il segno permette di contemplare la gloria, esperienza che conduce alla "fede": "e i suoi discepoli credettero in lui" (v. 11). Queste componenti fondamentali della teologia giovannea, segno-gloria-fede, mostrano come la pericope di Cana sia profondamente radicata nel quarto vangelo e ne annunci i principali sviluppi. Non saremo dunque stupiti quando, sotto termini ed eventi apparentemente comuni, vedremo emergere simbologie e realtà densissime.
Colpisce in particolare il fatto che il "principio" dei segni sia introdotto con la formula "il terzo giorno" (v. 1). Non si tratta, ovviamente, di un semplice dato cronologico: l'espressione, com'è noto, evoca il mistero della risurrezione, il "segno per eccellenza", nel quale si manifesta in pienezza la gloria del Figlio di Dio e i discepoli credono in lui. "Il terzo giorno" esprime ancor oggi la nostra fede nella risurrezione. Nel segno di Cana dunque un anticipo del grande segno, del mistero pasquale di Cristo e della novità che esso comporta.
"Il terzo giorno" non è solo profezia del futuro, ma anche memoria del passato, di un altro terzo giorno, nel quale Israele ricevette la Legge ai piedi del Sinai e l'accolse in atteggiamento di fedeltà (cf Es 19,10-11.16; 24,7), mettendosi al servizio di Dio e divenendo il popolo dell'alleanza.
In tale ampio e denso contesto di memoria e di profezia il quarto vangelo introduce "la madre di Gesù" (v. 1). La pericope, che inizia sottolineando la sua presenza, nel corso del racconto la indica ripetutamente con la stessa caratteristica formula (vv. 3.5.12). Come "madre di Gesù", nel v. 3, ella interviene presso il Figlio, segnalando una situazione divenuta difficile per la mancanza di vino al banchetto di nozze.
LA MADRE DI GESÙ, LA "DONNA" E L'"ORA"
Secondo lo stile comune ai personaggi giovannei (cf Nicodemo, la samaritana, il cieco nato...), la madre di Gesù inizialmente si colloca e parla su un piano umano, per così dire fenomenologico, come appare dall'espressione "non hanno vino" (v. 3). Gesù però la trasporta immediatamente ad un livello diverso e superiore, prospettandole un altro tipo di intervento e di presenza: "Che c'è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora" (v. 4).
È una risposta enigmatica e, a prima vista, sconcertante, dalla quale emergono tuttavia rivelazioni preziose.
Chiamandola "donna" e non madre - come sarebbe stato naturale e logico - Gesù prende le distanze dal legami familiari, per affermare la sua identità e la sua missione. La risposta echeggia quella rivolta al "padre" e alla madre nel momento in cui, dopo dolorosa ricerca, lo ritrovano nel tempio di Gerusalemme: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo stare nella casa del Padre mio?" (Lc 2,49), e richiama le parole riferite dai sinottici circa sua madre e i suoi fratelli (cf Me 3,31-35; Mt 12,46-50; Lc 8,19-21). La carne ed il sangue devono cedere il posto ai progetti del Padre che è nei cieli e alle esigenze della fede.
D'altra parte l'appellativo "donna", come si è notato, verrà ripreso da Gesù nel testo parallelo della croce (Gv 19,26), e conferito ufficialmente a sua madre, per sottolinearne la nuova identità e il compito nei confronti del discepolo amato e dunque di tutti i discepoli.
Il termine "donna" solo presso la croce - nel mistero pasquale di Cristo acquisterà chiarezza e significato pieno, ma già a Cana rivela un senso positivo e nuovo, come si può arguire dalle parole che la madre di Gesù rivolge ai servi, in conseguenza dell'enigmatica, ma non negativa risposta del Figlio.
In ogni caso, Gesù rivendica un suo spazio anche nei confronti della madre e del suo iniziale intervento: non è infatti giunta la sua ora (cf v. 4).
L'"ora" è il tempo dell'evento pasquale di morte e risurrezione m cui il Padre e il Figlio saranno glorificati (cf Gv 13,31; 17, 1): a quell'ora è orientata tutta l'esistenza di Gesù. Indubbiamente si dà inclusione e tensione teleologica tra l'affermazione iniziale: "non è ancora giunta la mia ora" (Gv 2,4) e quella del compimento: "Padre, è giunta l'ora" (Gv 17,1). Tale ora, verso cui tutto converge, è determinata dal Padre e nessun altro ha il potere di anticiparla.
Dopo la risposta di Gesù, l'intervento di Maria - prima legato a una situazione contingente - si trasforma in invito ai servi a fare la volontà del Figlio: "Tutto quello che egli vi dica, fatelo!" (v. 5), formula che evoca l'antica professione di fedeltà all'alleanza (cf Es 24,7). Quelle parole, legate ad una fondamentale esperienza passata, introducono a un evento nuovo che a Cana si sta compiendo, ad un "segno" che rivelerà la gloria del Figlio di Dio.
SIMBOLO, MEMORIA E PROFEZIA
È sempre più evidente che l'episodio di Cana non è una semplice festa di nozze: tutto appare sacramentale e simbolico, e prepara altri gesti, come quello in cui Gesù moltiplica i pani per poi rivelare che vero pane è il suo corpo e vera bevanda il suo sangue (cf Gv 6,55). Tutto diviene simbolo, memoria e profezia: la festa nuziale è il segno della comunione di Dio con il suo popolo, nozze che si attuano in Cristo, sposo della Chiesa (si noti che nel capitolo seguente - in Gv 3,29 - il Battista si definisce significativamente "amico dello Sposo", il quale, evidentemente, è Cristo).
Nelle nozze c'è sempre un banchetto, e sulla tavola non può mancare il vino, elemento particolarmente sottolineato nel nostro brano (ricorre cinque volte sulle sei di tutto il quarto vangelo), il cui significato emerge in particolare dal contrasto con l'acqua. L'acqua di cui qui si parla è lustrale, usata per la purificazione dei giudei, componente rituale della legge antica. Essa viene trasformata nel vino nuovo, simbolo dei tempi messianici finalmente presenti, con la gioia che li caratterizza.
Il vino indica non solo i tempi messianici con la nuova legge e la festa concomitante, ma Cristo stesso. Il maestro di tavola, infatti, non sa "donde venga" (cf 2,9) - secondo il tipico linguaggio giovanneo, il mondo non sa "donde" venga Gesù -, a differenza del servi che, avendo eseguito ciò che egli ha detto, sono diventati suoi amici, ai quali tutto è stato rivelato (cf Gv 15,14s). L'architriclino non comprende come mai lo sposo (che in realtà è Gesù) abbia riservato il vizio buono fino a quel momento. La risposta è che i tempi messianici sono compiuti e lo sposo ha profuso in abbondanza i beni della salvezza.
L'evangelista può dunque concludere, rivelando l'eccezionale densità dell'episodio narrato:
- "Questo fece Gesù come principio dei segni in Cana di Galilea
- manifestò la sua gloria
- e i suoi discepoli credettero in lui" (v. 11).
In questo densissimo testo, Maria appare inizialmente come "la madre di Gesù": il titolo viene ripetuto quattro volte (vv. 1.3.5.12). Ma non è questo dato, tradizionalmente acquisito, che l'evangelista intende sottolineare: a lui preme mettere in rilievo la presenza della madre, la "donna" accanto al Figlio, al servizio della sua missione e della fede dei discepoli.
Da madre, ella diventa discepola di Cristo, passando da una richiesta contingente ("non hanno vino") ad una totale adesione di fede nei confronti del progetto salvifico e della rivelazione del Figlio; anzi ella assume un ruolo di mediazione - simile a quello di Mosè - a vantaggio dei servi del Signore e della loro fedeltà all'alleanza.
Come "donna", ella ha una missione - in continuità con l'antica "Figlia di Sion" - al servizio di tutto il popolo di Dio, come apparirà con maggior evidenza nella scena del calvario.
La madre di Gesù, per la sua fede-obbedienza, è anche la prima dei discepoli del Signore, di coloro che accogliendo la parola di Gesù costituiscono la comunità della nuova alleanza. Ella - insieme con questa comunità - è la vera sposa di Colui che, al di là dei simboli, è lo Sposo della chiesa e dell'umanità: Gesù, il Verbo eterno venuto nel mondo. Nel mistero della sua "ora" si realizzano le nozze escatologiche di Dio con il suo popolo.
L'ANNUNCIO A MARIA
di Padre Alberto Valentini
Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: <<Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te>>. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L'angelo le disse: <<Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine>>.
Allora Maria disse all'angelo: <<Come è possibile? Non conosco uomo>>. Le rispose l'angelo: <<Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio.
Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio>>.
Allora Maria disse: <<Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto>>. E l'angelo partì da lei. (Lc. 1, 26-38).
A questo brano fondamentale della Rivelazione neotestamentaria - l'evangelo annunciato a Maria - attingono, da quasi duemila anni, la riflessione dei teologi e la pietà dei santi, la contemplazione degli artisti, la meditazione e lo stupore dei credenti.
Oggetto di innumerevoli commenti, in ogni epoca, il testo non ha certo esaurito le sue potenzialità, ma cela ancora notevoli ricchezze che attendono di essere esplorate.
In tempi recenti, sullo slancio di nuovi metodi letterari ed approcci ermeneutici, si sono proposte diverse interpretazioni di Lc 1,26-38(1); ma proprio tale varietà di prospettive rivela l'inadeguatezza dei singoli procedimenti e la necessità di una lettura sinfonica, sempre aperta a ulteriore intelligenza del testo.
Ci è sembrato opportuno ritornare direttamente al testo lucano, sottolineando alcuni aspetti di particolare interesse.
La prima osservazione che si impone a proposito di Lc 1,26-38 - come in genere per i racconti
NOTE
(1) A questo proposito si veda in particolare la rassegna precisa e sintetica di B. PRETE, Il genere letterario di Lc 1,26-38, in Ricerche storico bibliche 4 (1992) 55-80.
La prima osservazione che si impone a proposito di Lc 1,26-38 - come in genere per i racconti dell'infanzia sia di Matteo che di Luca - è che si tratta di un brano eminentemente cristologico: tutto in esso è finalizzato al mistero di Gesù figlio di Davide e Figlio di Dio. Solo in questa luce, all'interno di questo disegno, c'è spazio per la figura di Maria e per una riflessione su di lei, a livello di tradizioni preevangeliche, di redazione lucana e di interpretazione teologica. Per conseguenza, quelle letture che insistono unilateralmente sul genere di vocazione, di missione o altro, con riferimento quasi esclusivo alla figura di Maria, non si pongono in una prospettiva felice per la comprensione globale del testo. "Quanto più ci si rende conto che Lc 1,26-38 è una narrazione cristologica, tanto più si comprende che nel testo sono presenti anche asserzioni mariologiche. In tal modo, con pochi tratti - mediante un uso magistrale dell'arte di omettere ciò che non è essenziale - ...viene delineata un'immagine insondabile di Maria" (2).
Come d'abitudine, Luca è molto attento all'organizzazione del testo e alla sua delimitazione, all'interno di un disegno più ampio e di una struttura visibilmente elaborata.
Il nostro brano è compreso tra un invio-ingresso (vv. 26.28) e una partenza (v. 38b) (3). L'intera pericope è posta pertanto sotto il segno di una missione da parte di Dio e di un ritorno a Lui. La Parola, uscita dalla sua bocca, non torna indietro senza aver compiuto ciò per cui è stata inviata (cf Is 55,11).
NOTE
(2) H. SCHÜRMANN, Il Vangelo di Luca, Brescia 1983, 130.
(3) In Luca ricorrono diversi motivi-ritornello per delimitare le pericopi. Il motivo della partenza, in particolare, si trova a conclusione di ben sei episodi su sette (1,23.38.56; 2,20; cf 2,43.51).
L'angelo del Signore si trova all'inizio e alla fine della pericope: è lui che, inviato da Dio, entra dalla Vergine Maria, ed è lui che, compiuta la sua missione, ritorna da Colui che l'ha inviato. Il punto di riferimento della sua azione è la Vergine di Nazaret, alla quale è destinato l'annuncio; il contenuto del messaggio, ovviamente, è la nascita di Cristo Signore e, in connessione, la maternità divina della Vergine.
Gabriele è l'angelo che sta al cospetto di Dio e viene inviato per comunicare i disegni divini e recare lieti annunzi (cf Lc 1,19). Nell'Antico Testamento egli è presentato in rapporto col compimento delle promesse messianiche (cf Dn 9,21-27), che nella pienezza dei tempi si realizzeranno in maniera piena e definitiva.
Nell'annuncio a Zaccaria il messaggero celeste si sposta dalla presenza di Dio al tempio di Gerusalemme, luogo terreno della dimora divina, nell'ora solenne dell'incenso, mentre tutta la moltitudine all'esterno è raccolta in preghiera: non si dà in terra luogo più santo del tempio di Dio né momento più ieratico!
L'annuncio a Maria è presentato in maniera totalmente diversa: non avviene nel santuario, neppure in Gerusalemme o in Giudea, ma in una terra di confine, semipagana e deprezzata (cf Gv 7,41.52), nella "Galilea delle genti", tra un "popolo che camminava nelle tenebre..." (cf Mt 4,12-16; Is 9,1); non si svolge in un capoluogo o città illustre, ma nell'oscuro villaggio di Nazaret (cf Gv 1,46), che l'Antico Testamento non menziona mai. L'angelo non appare a un sacerdote anziano e neppure a un uomo, ma a una donna, anzi a una sconosciuta fanciulla, vergine, in condizione di radicale povertà. Il vino nuovo degli eventi escatologici infrange ormai schemi e criteri collaudati, sconvolge gerarchie ritenute irreversibili e tradizioni pesantemente inveterate. Fin dall'annunciazione si manifesta quel "renversement de situation" che caratterizza tutta la logica neotestamentaria, e che Luca - evangelista dei poveri - sottolinea con insistenza ed originalità, come nel cantico della Vergine (cf 1,48.52-53).
Di Zaccaria ed Elisabetta si ricorda - oltre la comune provenienza da famiglie sacerdotali - la pietà genuina, la rettitudine di vita secondo i canoni della religiosità tradizionale; se ne evidenzia la sterilità e la vecchiaia, che non impediranno, tuttavia, di portare frutto; ma ciò rimane nell'ambito di esperienze veterotestamentarie, a partire da Abramo e Sara, e non reca ancora i segni della novità evangelica: la Legge e i Profeti fino a Giovanni (cf Lc 16,16).
Di Maria si mette in luce - insieme con la "laicità femminile" e la marginalità, non solo geografica - la freschezza della condizione verginale, aperta alle misteriose potenzialità dello Spirito. In lei si manifesta in maniera tipica la povertà della condizione umana e l'esuberante potenza della grazia di Dio. Il ponte che collega le opposte sponde della sua taeinwsiV e delle grandi cose operate in lei dal Signore, è costituito dal casato davidico - cui appartiene Giuseppe suo sposo - dal quale sorgerà il Messia d'Israele. Tutto poggia, dal punto di vista umano, sulla dinastia di Davide secondo la promessa; ma il compimento supererà ampiamente gli annunci messianici e le speranze d'Israele.
Gabriele si manifesta a Zaccaria come messaggero di liete notizie (1, 19): gli annuncia la nascita di un figlio che procurerà gioia e allegrezza a lui e a molti (cf 1,14). Su tale sfondo, in maniera parallela, la prima parola rivolta alla vergine Maria (Kaire)non può essere un semplice saluto, ma un pressante invito alla gioia: sta per sorgere "un sole dall'Alto" e "Dio viene a visitare e redimere il suo popolo" (cf 1,78.68). Lo stesso messaggio risuona all'inizio dei cantici dell'infanzia (1,46s.68), nell'annuncio ai pastori (2,11), nella lode della schiera celeste (2,13), nelle voci festanti di coloro che hanno visto e udito (2,20). L'esultanza per la salvezza di Cristo Signore che pervade tutta l'opera lucana, esplode con particolare intensità nel vangelo dell'infanzia (cf 1,46s.68; 2,11.13.20...).
Il parallelismo più diretto per il nostro testo è da ricercare in un'altra annunciazione, quella ai pastori, ai quali l'angelo comunica una grande gioia (euaggelisomai umin caran megalh n) (2,10). L'oggetto del messaggio, dal quale scaturisce l'incontenibile esultanza per tutto il popolo, è il medesimo dell'annunciazione a Maria (anche se i verbi non sono più al futuro, ma al passato): la nascita del Messia davidico, Cristo Signore: (etecqh umin shmeron swthr os estin Cristos kurios en polei Dauid) (2.11).
La nota gioiosa è suggerita anche dallo sfondo veterotestamentario delle parole rivolte a Maria, che echeggiano gli annunci escatologici concernenti la figlia di Sion, in particolare il testo di Sof 3,14-17 (cf anche Zc 9,9; GI 2,21): "Gioisci, figlia di Sion, / esulta, Israele, / e rallegrati con tutto il cuore, / figlia di Gerusalemme!... / Il Signore tuo Dio in mezzo a te / è un salvatore potente..." . I contatti sono notevoli: si ha l'impressione di una rilettura intenzionale dei testi profetici, ovviamente con attualizzazioni neotestamentarie (cf vv. 32.35). La figlia di Sion non è più un simbolo o una personificazione astratta del popolo, ma assume il volto concreto della Vergine di Nazaret: "...con lei, eccelsa figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura una nuova economia, quando il Figlio di Dio assunse da lei la natura umana..." (LG 55).
Al saluto gioioso segue l'appellativo kecaritwmenh: un nome nuovo, che designa ormai la personalità della Vergine davanti a Dio e di fronte al mondo. Sul significato di questo titolo, oggetto di assidua ricerca fino ai nostri giorni, non è il caso di indugiare, anche perché una sintesi aggiornata ed esemplare si trova nelle pagine di questo volume a firma di Mario Cimosa. Osserviamo semplicemente che si tratta del primo appellativo attribuito alla Vergine, alla luce del quale devono essere intesi e spiegati tutti gli altri. Il termine, raro nella Scrittura (si trova solo in Si 18,17 ed Ef 1,6), è imparentato con caari, che nel LXX indica il favore del re (1 Sam 16,22; 2Sam 14,22;16,4; 1Re 11,19; Est 2,17; 5,8; 7,3; 8,5...) ed anche l'affetto dell'Amato (Ct 8, 10).
Il titolo viene commentato dall'espressione seguente dell'angelo: "... hai trovato carin davanti a Dio" (v. 30): si tratta di una benevolenza in vista della missione - vale a dire, della maternità divina -, ma che incide profondamente sulla persona cui tale benevolenza è destinata.
Il saluto è da intendere secondo il genere letterario degli annunci: un parallelo importante si trova in Dn 9,23, ove il medesimo Gabriele così si rivolge a Daniele: "Fin dall'inizio delle tue suppliche è uscita una parola e io sono venuto per annunziartela, poiché tu sei un uomo prediletto ". Illuminanti sono anche le parole che l'angelo indirizza a Gedeone: "Il Signore è con te, eroe valoroso... ; va' con questa tua forza e salva Israele" (Gdc 6,12.14). Similmente, il titolo di kecaritwmenh anticipa il contenuto del messaggio e prepara la Vergine alla dignità di madre del Messia Figlio di Dio.
"Il Signore è con te", espressione fondamentale della teologia dell'alleanza, garantisce la presenza e la protezione del Signore, senza di che la missione ricevuta risulterebbe del tutto impossibile.
Maria che alla visione dell'angelo non aveva mostrato alcun timore, a differenza di Zaccaria - il quale etaracqh... idwn (1,12) - si spaventò grandemente per la parola (epi tw logw dietaracqh) che le veniva rivolta.
Tale reazione della Vergine offre all'angelo l'occasione di esporre con chiarezza il suo messaggio.
Le parole dei vv. 31-33, pur presentando affinità con quelle dette a Zaccaria (vv. 13.15-17), rivelano tratti ben diversi che collocano l'annuncio a Maria in una sfera unica. Sulla scorta della profezia di Is 7,14, esse evidenziano anzitutto il compito della madre, e subito dopo la natura messianico-davidica del bambino, con l'affermazione della sua perenne regalità sulla casa di Giacobbe.
La missione di Maria è presentata nel v. 31 mediante tre verbi di cui ella è soggetto esclusivo: concepirai-partorirai-chiamerai. Se i primi due verbi si coniugano ovviamente al femminile, l'imposizione del nome non è di per sé compito materno. Diversamente da Lc 1,13 (cf Mt 1,21), è lei che attribuisce il nome (come in Is 7,14 TM): l'averlo sottolineato è un discreto accenno alla maternità verginale.
Il nome da dare al bambino è Gesù. Luca - a differenza di Mt 1,21- non ne spiega subito il significato salvifico: lo farà più tardi, in particolare nell'annuncio ai pastori (2,11) e nei cantici di Zaccaria (1,69.71) e Simeone (2,30). Il v. 31, che presenta la maternità messianica, è formulato sulla falsariga dell'oracolo dell'Emmanuele (Is 7,14). Luca tuttavia, secondo il suo stile, non cita la fonte veterotestamentaria né riferisce il nome di Emmanuele, a differenza di Matteo (1,22-23) che ripropone esplicitamente- l'oracolo isaiano ed enfatizza il senso ("Dio con noi") di quel nome che nel primo angelo riveste particolare importanza, assolvendo anche ad una funzione strutturante e inclusiva (cf Mt 28,20).
I vv. 32-33, sempre partendo da annunci veterotestamentari (4), presentano in maniera più dettagliata la figura del Messia davidico. Il confronto con il precursore (1,15ss) fa emergere la singolare grandezza ed unicità del figlio della Vergine, il quale "sarà grande" in assoluto e verrà chiamato "figlio dell'Altissimo". Questo titolo non indica la divinità: è l'appellativo classico del re davidico, come appare in 2Sam 7,14; Sal 2,7; 89,27. Il vocabolo Altissimo, abituale nell'ellenismo e nei LXX per designare Dio, nel Nuovo Testamento ricorre quasi esclusivamente in Luca. Le formule "figlio di Dio" o "figlio dell'Altissimo" (5), applicate al re, indicano la vicinanza e la particolare protezione del Dio dell'alleanza sulla sua persona e sulle sue imprese.
Il seguito della descrizione presenta la regalità davidico-messianica del nascituro, sempre sullo sfondo dell'oracolo di Natan (cf 2Sam 7,14): il Signore lo porrà sul trono di Davide e garantirà in perpetuo la stabilità del suo regno sulla casa di Giacobbe.
Come si vede, non è ancora espressa la divinità dei bambino né l'universalità del suo dominio che in seguito sarà proclamata da Simeone (2,32). Il messaggio angelico non è dunque ancora completo: sarà approfondito ed esplicitato nel v. 35. A tale chiarimento è finalizzata l'interrogazione di Maria (v. 34), che si frappone alle parole dell'angelo.
NOTE
(4) Cf 2Sam 7,12-15; Ger 23,5; 33,15; Zc 3,8; 6,2; Is 11,10.
(5) Lc 1,33.35.76; 6,35.8.28: At 7.48:16.17 e Mc 5,7; Eb 7.1.
L'affinità tra la domanda della Vergine e l'obiezione di Zaccaria (1,18) è solo apparente. In realtà l'atteggiamento dei due personaggi è radicalmente diverso, come risulta - non solo dal fiat di Maria (v. 38), proclamata beata per la sua fede (v. 45), a differenza di Zaccaria punito per la sua incredulità - ma dal tenore e dall'oggetto delle due domande. Mentre il sacerdote alle parole di Gabriele, che hanno già rivelato l'evento, obietta con scetticismo: "da che cosa saprò questo?", Maria non mette in discussione la verità del messaggio, ma semplicemente interroga circa il modo del suo compimento:
"come sarà questo?" Nell'economia del racconto la domanda della Vergine è strategica: serve a introdurre una rivelazione più piena del mistero di Gesù e ad esplicitare il senso e la modalità della sua particolarissima condizione di madre-vergine. Ciò che avviene puntualmente nella risposta dell'angelo (v. 35).
Mentre nel v. 31 si sottolineava l'opera della madre nella generazione del bambino, nel v. 35 è in primo piano l'azione dello, Spirito-Potenza dell’Altissimo, il quale interverrà sulla Vergine: "per questo Colui che nascerà sarà chiamato "santo" (6), Figlio di Dio".
NOTE
(6) Qui non è più la madre - a differenza del v. 31 – a dare il nome. Si noti in parallelo il kalesousin di Mt l,23: lo "chiameranno" Emmanuele, con trasformazione del testo masoretico di Isaia che presenta "lo chiamerai" attribuito alla madre dell'Emmanuele.
L'enunciato cristologico dei vv. 32s, con la sua escatologia veterotestamentario-giudaica dell'al di qua, resta inferiore nei confronti di quella dei vv. 35s, dove per di più il titolo di Figlio di Dio viene inteso in senso profondo. Tra i due enunciati è innegabile una differenza di contenuto" (7).
Le proposizioni del v. 35 presentano un evidente parallelismo progressivo:
"Lo Spirito Santo verrà su di te
e la Potenza dell'Altissimo ti adombrerà;
per questo Colui che nascerà sarà chiamato santo, Figlio di Dio".
Si tratta di espressioni parallele, dense di simbolismo e di allusioni bibliche: Spirito santo e Potenza dell'Altissimo sono locuzioni sinonime (cf At 10,38), evocanti lo Pneuma creatore aleggiante sulle acque primordiali del caos (Gen 1,2) e atteso la fine dei tempi, nel futuro escatologico, come forza proveniente dall'alto (cf Is 32,15) (8).La Potenza dell'Altissimo adombrerà la Vergine, come la nube che conteneva la šekînâ (cf Es 40,34; Nm 9,18.22; 10,34), vale a dire, la presenza efficace di Dio in mezzo al suo popolo. Ad opera dello Spirito del Signore e della sua Potenza si realizza dunque una nuova creazione: il bambino che nascerà sarà non solo di nome (9), ma in realtà e totalmente "santo", Figlio di Dio. Del figlio di Zaccaria, si era detto che sarebbe stato ripieno di Spirito santo fin dal seno materno (1,15), come altri personaggi dell'Antico Testamento, non che sarebbe stato generato per opera dello Spirito. Non solo, ma il v. 35 presenta una novità assoluta, al di là delle attese d'Israele: lo Spirito discenderà non sul Messia, ma sulla madre vergine, rendendo in tal modo santa la radice e il germoglio che da essa spunterà.
Certo, anche il v. 35 è espresso con terminologia tradizionale, dal momento che la cristologia neotestamentaria si è sviluppata alla luce degli annunci e delle attese messianiche. Il linguaggio che Luca adopera nel v. 35 è infatti in relazione con la presentazione del Messia davidico nei vv. 32-33. Si notino in merito anche delle affinità stilistiche e un certo parallelismo:
- v. 32 "egli sarà grande" / "sarà chiamato figlio dell'Altissimo"
- v. 35 "sarà chiamato santo " / "Figlio di Dio".
Nel v. 32 la condizione di figlio dell'Altissimo è in relazione con l'intronizzazione messianica di Gesù; nel v. 35 la figliolanza divina è legata alla sua nascita, per opera dello Spirito, dalla Vergine.
Il v. 35 presenta dunque diversi contatti con i vv. 32-33, ma in realtà, in quei versetti, non è possibile trovare un vero precedente. La rivelazione del v. 35 è spiegabile a partire dalle prime formulazioni cristologiche neotestamentarie, fondate sulla risurrezione di Cristo. Si pensi, in particolare, a Sal 2,7 ("Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato") e Sal 110,1 ("Siedi alla mia destra"), applicati rispettivamente alla risurrezione di Cristo (cf At 1 3,32s; 2,32-36).
NOTE
(7) H. SCHÜRMANN, op. c.,142.
(8) Espressione ripresa anche in Lc 24,49 e At 1,8, in contesto pentecostale, accostando significativamente la venuta dello Spirito-Potenza dall'alto su Maria (Lc1,35), per la generazione del Figlio di Dio, alla nascita della comunità ecclesiale a Pentecoste.
(9) Il verbo klhqhnai non indica semplicemente "avere un nome": esso qualifica la natura e l'identità della persona.
Nel racconto dell'annunciazione, pertanto, troviamo una cristologia messianico-davidica in linea con le attese d'Israele, e una cristologia esplicitamente neotestamentaria, elaborata alla luce dell'evento pasquale.
Il testo parallelo più illuminante e comprensivo del duplice livello cristologico presente in Lc 1,32-33 e 35 sembra essere Rm 1,3-4, che descrive la condizione umano-divina di Cristo Signore:
v. 3: "Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne (cf Lc 1,32),
v. 4: costituito Figlio di Dio, con potenza, secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore" (cf Lc 1,35).
Pur senza parlare di dipendenza diretta, non si può non restare colpiti da tale schema parallelo. É notevole, in particolare, il raggruppamento lessicale-tematico (Figlio di Dio, potenza, Spirito santo - e questo a partire dalla risurrezione!) presente in Rm 1,4 e in Lc 1,35.
A conferma - anche se inadeguata - del mistero della nascita del Figlio di Dio, l'angelo addita alla Vergine la maternità di Elisabetta (v. 36) e le ripete quanto un giorno era stato detto ad Abramo (cf Gen 18,14), che, cioè, nulla è impossibile a Dio (v. 37). Gabriele evoca il personaggio per la cui fede prese l'avvio la storia santa d'Israele, e nella cui discendenza sarebbero state benedette tutte le stirpi della terra. Ora che tale promessa di benedizione sta per compiersi è necessaria una disponibilità simile, anzi superiore a quella del patriarca. L'Antico Testamento inizia con la fede di un uomo segnato dagli anni, la pienezza del tempi si inaugura con l'obbediente adesione di una giovane donna- La fede di Maria è più radicale di quella di Abramo, ma l'atteggiamento rimane il medesimo: la piena coscienza che Dio è capace di compiere quanto ha promesso (cf Rm 4,21).
Giunge dunque, puntuale e generosa la risposta della Vergine: "Ecco la schiava (doulh) del Signore: avvenga a me secondo la tua parola" (v. 38). Il sì di Maria è il punto di arrivo di un non facile itinerario di accoglienza del disegno di Dio, che si articola in tre fasi, come tre sono gli interventi dell'angelo. Al saluto iniziale di Gabriele (v. 28) ella risponde con il timore e la riflessione silenziosa (v. 29); alla comunicazione del messaggio (vv. 31-33), con la domanda di chiarimento (v. 34); alla spiegazione e piena rivelazione del mistero - alla luce dell'esperienza di Elisabetta e dell'antica fede di Abramo (vv. 35-37) -, la Vergine aderisce con l'umile e incondizionata obbedienza di tutto il suo essere.
Nella risposta di Maria sono evidenti due parti. La prima (‘Idou h doulh kurios) un'espressione quasi stereotipa per il costume orientale, che ricorre con frequenza nell'Antico Testamento: proclamandosi schiava, ella dichiara certamente la sua povertà davanti al Signore, ma anche la piena disponibilità a compiere quanto Egli ha stabilito.
Tale disposizione interiore prepara naturalmente la seconda parte della risposta, nella quale la Vergine non solo accetta, ma auspica (genoito) che nella sua vita si compia la Parola di Dio in tutte le sue virtualità. Il commento più pertinente alla risposta di Maria si ha nell'esclamazione di Elisabetta: "Beata colei che ha creduto che ci sarà un compimento alle cose che le sono state dette - parole sempre attuali (toiV lelalhmenoiV ) da parte del Signore".
Abbiamo già parlato - anche piuttosto ampiamente - di Maria di Nazaret, all'interno del racconto dell'annunciazione, accanto al Messia figlio di Davide e Figlio di Dio. È tuttavia utile mettere in luce, brevemente, gli aspetti più significativi della figura della Vergine, quali emergono da questa fondamentale pericope. È un'immagine particolarmente densa che tratteggeremo discretamente lasciandoci guidare dal testo.
Anzitutto ella appare come la povera del Signore. All'inizio del racconto dell'annunciazione si è colpiti immediatamente dal contrasto tra la grandezza di Dio che invia Gabriele - un angelo che sta alla sua presenza - e la povertà della "vergine", sullo sfondo di un'oscura e periferica contrada di Galilea. Tale contrasto esalta l'iniziativa della grazia di Dio che irrompe verticalmente dall'alto e trasforma in pienezza (kecaritwmenh ) l'indigenza di un'umilissima creatura. Si giustifica così il primo motivo del Magnificat " .... ha guardato alla bassezza della sua serva... ha fatto per me grandi cose... da questo momento tutte le generazioni mi proclameranno beata!" (Lc 1 ,48-49a).
Una dimensione fondamentale della povertà di Maria deriva dal fatto che ella è una vergine, anzi la vergine, come ribadisce, in maniera esplicita, il testo. Il v. 27 che introduce sulla scena la giovane donna di Nazaret la presenta per ben due volte con il titolo di parqenoV. L’appellativo è posto in netto rilievo all’inizio e al termine del versetto formando una significativa inclusione. Gabriele è inviato apo tou qeou certamente eis polin thV GalilaiaV, ma la vera sua destinazione è proV parqenon; e, in conclusione, si insiste: kai to onoma thV parqenou Mariam.
Non si tratta di un semplice qualificativo, ma di un aggettivo sostantivato, che designa concretamente la persona e ne rivela in qualche misura l'identità. Né si riduce a un appellativo antropo-sociologico per indicare una giovane ragazza: il significato che emerge dal contesto è anzitutto teologico, orientato alla missione di madre del Figlio di Dio.
La maternità verginale è un dato fondamentale dei racconti dell'infanzia sia di Luca che di Matteo, i quali su questo punto qualificante - come su diversi altri - convergono, nonostante l’evidente diversità delle fonti cui attingono e degli interessi redazionali. Sia l'uno che l'altro si appoggiano alla profezia della madre dell'Emmanuele (Is 7,14), interpretata alla luce della cristologia neotestamentaria, come appare esplicitamente da Mt 1,22-23 e in trasparenza da Lc 1,31-33.35.
La rivelazione dell'angelo presenta Maria come la madre del Re-Messia. Sullo sfondo rimane sempre la citata profezia isaiana, secondo la quale la giovane donna - "vergine" per il Nuovo Testamento - darà alla luce un figlio regale; ma nel vv. 32-33 all'oracolo dell'Emmanuele si aggiunge la profezia di Natan (2Sam 7) riguardante il discendente davidico che regnerà stabilmente sulla casa di Giacobbe. Grazie all'intreccio di questi annunci, il testo lucano si sofferma anche sulla madre vergine del Messia. Ella è la madre del Re, la G'bîrah, la Regina-madre, con tutta la dignità che questa figura riveste nella cultura del Medio Oriente e nella tradizione d'Israele (10).
Anche su questo punto i dati dell'infanzia di Luca convergono con quelli di Matteo: si pensi, in particolare, alla sottolineatura della madre-vergine dell'Emmanuele e "Re dei giudei" in Mt 1,18-25 e 2,1 - 12.
Il bambino che nascerà dalla Vergine, pur discendendo dal casato di Davide, presenta una novità assoluta: è generato dall'Alto per opera dello Spirito ed è pertanto Figlio di Dio. È erede di una regalità divina, la cui durata è senza fine. Su tale sfondo messianico-divino la Vergine appare quale eccelsa G'bîrah, madre del Re-Signore, della. stirpe, di Davide secondo la carne, costituito glorioso Figlio di Dio con Potenza nella sua risurrezione (Rm 1,3-4). La Pasqua, evento decisivo della cristologia neotestamentaria, giustifica anche la dignità regale della Madre del Signore (cf Lc 1,43).
"Vergine" è il primo appellativo attribuito a Maria dall'evangelista, kecaritwmenh il primo nome col quale Gabriele la saluta. Se la verginità è segno di radicale indigenza, la condizione di kecaritwmenh esprime la pienezza ottenuta per pura grazia. Maria, la povera per antonomasia agli occhi del mondo, è in realtà la kecaritwmenh davanti a Dio.
Il titolo dev'essere inteso in particolare all'interno del saluto di Gabriele che si compone di tre parti: Caire / kecaritwmenh / o kurioV meta sou, di cui costituisce l'elemento centrale e decisivo. È evidente infatti che il caire iniziale tende verso il kecaritwmenh, al quale fa riferimento anche per una forma di allitterazione. Il terzo elemento, "il Signore è con te", ricorre anche in altre angelofanie, ma qui, accanto a kecaritwmenh , acquista un senso particolare, sempre in rapporto alla vocazione e missione della Vergine.
NOTE
(10) Cfr. H. Cazelles, La Mère du Roi-Messie dans l’Ancien Testament, in Maria et Ecclesia, V, Roma, 1959, 39-56.
Allargando ulteriormente la rete dei contatti, kec aritwmenh presenta un certo legame - a motivo della comune radice verbale - anche con le parole successive dell'angelo: "Hai trovato carin presso Dio" (v. 30). Questa relazione non solo arricchisce il titolo, ma lo colloca all'interno di un'importante tradizione di benevolenza divina a Davide e alla sua discendenza. In At 7, 46-47 si legge: "Questi (Davide) trovò grazia davanti a Dio e gli domandò di poter trovare una dimora per la casa (o per il Dio) di Giacobbe. Salomone poi gli edificò una casa". Dal testo lucano dell'annunciazione sembra di poter affermare che non solo il discendente messianico è in relazione con Davide suo padre, ma, grazie alla cariV divina, anche con la madre. Maria, in tal modo, viene inserita nella linea della promessa e benedizione garantite alla discendenza davidica.
La Vergine presenta anche i tratti della figlia di Sion escatologica, vagheggiata e cantata dai profeti. La figlia di Sion incarna la comunità dell'alleanza, sposa di Dio e madre del Messia che porterà la salvezza al popolo. Dopo essere rimasta sterile e abbandonata, vedrà una discendenza numerosa ad opera del Signore che la rinnova con il suo amore. La figlia di Sion non si identifica con tutto il popolo, ma con una porzione di esso: con la comunità dei poveri, con il resto santo d'Israele depositano delle promesse di Dio e del loro compimento. Il saluto rivolto alla Vergine nell'annunciazione ci assicura che i tempi sono compiuti, che Dio sta per venire ad abitare in mezzo al suo popolo.
Maria, che la Potenza dell'Altissimo copre con la sua ombra, riveste anche il simbolismo dell'arca dell'alleanza Sembra troppo, è vero, pensare a una specie di identificazione con l'arca, su basi simboliche e letterarie; d'altra parte non è possibile escludere o minimizzare contatti piuttosto evidenti e molteplici. Effettivamente in Maria l'antica figura si compie. Quanto Davide domandava: poter trovare una dimora, una casa per il Dio di Giacobbe (cf At 7,46) qui effettivamente si realizza, anche se in una maniera che va ben al di là delle antiche concezioni e attese.
Con la domanda del v. 34 ("Come è possibile? non conosco uomo"), Maria appare una donna ricca di personalità e piena di concretezza: interlocutrice di Dio a nome dell'umanità. il suo atteggiamento, esemplare sul piano della fede e della responsabilità, assume particolare significato in riferimento alla donna contemporanea: "desiderosa di partecipare con potere decisionale alle scelte della comunità, ella contemplerà con intima gioia Maria che, assunta al dialogo con Dio, dà il suo consenso attivo e responsabile non alla soluzione di un problema contingente, ma a quell'"opera dei secoli", come è stata giustamente chiamata l'incarnazione del Verbo" (Marialis Cultus, 37).
A conclusione del dialogo con l'angelo, Maria si proclama serva del Signore. Senza riprendere quanto precedentemente si è detto, nella duplice accezione sottesa al termine doulh (schiava e serva) possiamo sottolineare almeno due aspetti: da una parte, l'umiltà della Vergine davanti alla maestà del suo Signore, al quale dichiara la sua totale appartenenza; d'altra parte, la dedizione incondizionata alla sua missione, caratteristica costante e tipica dei servi di Dio. Il compito della Vergine è indubbiamente la maternità messianico-divina, alla quale il Signore l'ha preparata facendone la kec aritwmenh e assicurandole la sua efficace ed amorevole presenza (cf v. 30).
Maria infine, è la credente: tutto il racconto dell'annunciazione tende alla sua risposta di fede. Il sì della Vergine è posto a conclusione della scena, dopo di che l'angelo può ritornare a Colui che l'ha inviato.
La fede - unica possibilità di collaborare con Dio - è la chiave per penetrare la figura della Vergine ed il segreto della sua singolare maternità. Come dirà Agostino, ella concepì prima nel cuore e poi nella carne. Prima però della riflessione patristica, Elisabetta aveva messo in rilievo tale atteggiamento fondamentale della madre del Signore. Ripiena di Spirito santo, dopo aver proclamato a gran voce il prodigio inaudito della divina maternità, ella dichiara beata Maria a motivo della sua fede, definendola h pisteusasa, la credente. Queste parole proferite da Elisabetta assumono particolare significato, essendo ella testimone diretta delle conseguenze dell'incredulità di Zaccaria. Implicitamente ella contrappone l'atteggiamento di Maria a quello dell'anziano sacerdote. Anche in questo caso è riscontrabile il capovolgimento di situazione neotestamentario, che evidenzia la fede della donna rispetto all'incredulità dell'uomo, in contrasto con tutta la tradizione antica.
Si noti anche il parallelismo tra il v. 38, conclusione dell'annunciazione, e il v. 45, col quale terminano le parole di Elisabetta: ambedue centrati sulla fede di Maria. Nel v. 38 Maria si dichiara serva, esprimendo con tale qualifica la sua obbedienza di fede (cf Rm 1,5; 16,26); nel v. 45 Elisabetta l'addita come la credente, rivelando la componente fondamentale della sua personalità (11).
Alla sua fede è legato il frutto della maternità e la beatitudine che, dopo Elisabetta, le riconosceranno tutte le generazioni (cf Lc 1 ,48b).
Il brano dell'annunciazione ha rivelato molte dimensioni della figura di Maria. In conclusione, vogliamo mettere in luce un aspetto, di solito trascurato, ma indubbiamente fondamentale: la dimensione trinitaria del brano e dunque la nota trinitaria della figura di Maria che, al dire di Paolo VI, è "intrinseca ed essenziale" (12). L'obiezione che si adduce a questa visione è che lo Spirito in Lc 1,35 è presentato quale Potenza divina e non esplicitamente come Persona della Trinità. In tal modo, tuttavia, non si tiene conto dell'importanza dello Spirito nella teologia lucana e del fatto che la redazione di Lc 1-2 è certamente tardiva e dunque in possesso di una visione trinitaria acquisita. La cristologia ed anche la pneumatologia neotestamentarie, sviluppate a partire dalla Risurrezione di Cristo - Paolo parla dello "Spirito di Cristo" (cf Rm 8,9ss) - sono state retroproiettate al battesimo di Gesù (Lc 3,22; cf At 10,37-38) e più tardi alla sua concezione, per cui egli è fin dalla nascita "santo" e Figlio di Dio (1,35).
NOTE
(11) Si noti come le due espressioni, poste a conclusione dei due brani – si richiamino in una specie di parallelismo progressivo:
- v. 38: Idou h doulh kuriou geneito moi kata to rh ma sou.
- v. 45: makaria h pisteusasa oti estai teleiwsiV toiV lelalh menoiV aute para kuriou.
(12) Il discorso di Paolo VI riguardava la pietà mariana, ma è ancor più importante ed urgente per la riflessione teologica. In ogni caso, così egli si esprimeva: "E’ sommamente conveniente, anzitutto, che gli esercizi di pietà verso la Vergine Maria esprimano chiaramente la nota trinitaria... che in essi è intrinseca ed essenziale" (Marialis Cultus, 25).
Nel racconto dell'annunciazione tutto avviene, come sempre, per iniziativa del Padre (apo tou qeou), a partire da Dio e per sua disposizione. È illuminante, in tal senso, il rapporto strutturale già indicato: da Dio, apo tou qeou (26) ad una vergine proV parqenon. (v. 27). La struttura evidenzia i personaggi - divino e umano - che sono all'origine del Messia davidico-Figlio di Dio. Il rapporto di paternità e maternità nei confronti di Colui che nascerà coinvolge - anche se in maniera essenzialmente diversa - il Padre che è nei cieli e la vergine Maria. Ella diviene in qualche modo la partner di Dio nei confronti del Figlio e della sua missione. Per questo ella è vergine e kec aritwmenh , benedetta più di ogni altra creatura "con ogni benedizione nei cieli, in Cristo" (Ef 1,3).
Ovviamente la Vergine è in strettissimo rapporto col Figlio di cui è madre in maniera unica e - non avendo egli un padre terreno - con un ruolo particolare ed esclusivo (cf v. 31). Come in Mt 1-2, si dichiara senza equivoci che nessun uomo interviene nella nascita di quel bambino. Il primo evangelista lo esprime a più riprese e in maniere diverse, come con l'efficace formula stereotipa: "Il bambino e sua madre"; Luca, insistendo sulla condizione di "vergine" di Maria e sottolineando in maniera unilaterale il ruolo della madre nella generazione e perfino nell'imposizione del nome al bambino. Maria pertanto è in una relazione profondissima con Colui che diviene suo Figlio, senza cessare di essere Figlio del Padre. La sua è certo una generazione nella carne, ma prima e anzitutto una maternità nella fede.
Il rapporto con lo Spirito santo non si può descrivere in termini di sponsalità, né definire con categorie a noi familiari come quella di Padre e di Figlio. Lo Spirito è inafferrabile come il vento di cui tuttavia si avverte la brezza e la sconvolgente violenza; è soffio di vita, principio misterioso che plasma l'universo e crea la vita. Nel v. 35 viene presentato quale Potenza proveniente dall'alto, come nube che adombra la Vergine: è principio di amore, sorgente di vita e di presenza divina. Nella nascita del Figlio di Dio lo Spirito è indubbiamente il protagonista, come appare dai verbi che ne esprimono l'azione: verrà su di te... ti adombrerà. Non è agevole scandagliare la densità del mistero: è certo, tuttavia, che l'intervento dello Spirito nella Vergine di Nazaret é "un momento culminante della sua azione nella storia della salvezza" (Marialis Cultus, 26).
Come si vede, il testo di Lc 1,26-38 è una pagina fondamentale della cristologia neotestamentaria, all'interno della quale la figura della Vergine acquista tutto il suo significato. L'annunciazione riguarda la nascita del Messia figlio di Davide e Figlio di Dio, ma è rivolto alla Vergine di Nazaret chiamata ad una maternità verginale per opera dello Spirito. La pericope presenta dunque anche un'eccezionale concentrazione mariologica, che dev'essere esplicitata alla luce del contesto lucano immediato e remoto, sullo sfondo dell'attesa messianica e della rivelazione neotestamentaria. "Chiunque voglia approfondire biblicamente la dottrina mariana non può farlo che mediante una maggiore comprensione della storia della salvezza".
(fine)
LA MADRE DI GESÙ
NEL MISTERO DELL'ORA
di Padre Alberto Valentini
La pericope di Gv 19,25-27 è veramente una scena notevole, inserita nel cuore del mistero pasquale di Cristo. La sua importanza emerge dalla densità del brano, dal contesto dell'"ora" e dal suo rapporto con l'episodio di Cana.
CANA E LA CROCE
Iniziando da quest'ultimo, bisogna dire che la scena delle nozze (Gv 1-12) non solo annunzia ed anticipa, in qualche misura, quella della croce, ma attinge in essa senso compiuto e rivela la sua densità. Poste all'inizio e al termine del Vangelo, costituiscono due episodi-chiave, fondamentali non solo per comprendere la figura e il ruolo di Maria, ma lo stesso messaggio giovanneo.
Le due scene, attentamente orchestrate, appaiono in evidente parallelismo. I personaggi sono i medesimi:
- Gesù, rispettivamente all’inizio e al compimento della sua opera;
- La madre di Gesù (sua madre) - la "donna";
- I discepoli
In un caso come nell'altro, la Vergine non viene presentata col nome di "Maria", ma con l'appellativo "la madre di Gesù" e con quello particolare di "donna", titolo mai usato da un figlio nei confronti di sua madre! In ambedue i brani si parla dell'"ora" di Gesù, che a Cana non è ancora giunta (cf 2,4) e sul calvario è compiuta (cf 19,27). Sia l'episodio di Cana, sia quello della Croce sono seguiti dalla medesima espressione: "Dopo questo ... " (2,12; 19,28), formula che secondo alcuni studiosi non sarebbe semplicemente temporale, ma consequenziale, rivestendo nel contesto notevole importanza:
-2,12: "Dopo questo" si ha una comunità di fede riunita intorno a Gesù;
-19,28: "Dopo questo" tutte le cose sono compiute.
Possiamo dire, in generale, che se Cana si presenta sotto il segno dell'ora non ancora venuta, la Croce costituisce il compimento dell'ora.
Se a Cana c'era il "principio" dei segni, il segno archetipo, sulla Croce c'è il segno per eccellenza (il Figlio dell'uomo innalzato) che rivela la gloria di Dio, grazie al quale i discepoli credono in lui.
Gv 19,25-27 NEL CONTESTO DELL'ORA DI GESU’
La scena di Gv 19,25-27 riceve luce dal confronto con Cana, ma rivela la sua eccezionale densità nel contesto immediato degli "atti" di Gesù in croce (Gv 19,17-37). Si tratta di cinque episodi nei quali si articola l'ultima fase della passione:
- l'iscrizione del titolo sulla croce (vv. 19-22)
- la divisione delle vesti (vv. 23-24)
- le parole alla madre e al discepolo (vv. 25-27)
- il compimento dell'opera affidata dal Padre (vv. 28-30)
- la trasfissione del costato (vv. 31-37).
La nostra pericope, come si vede, è al centro degli eventi supremi dell'ora di Cristo, tutti altamente simbolici e di eccezionale portata teologica.
Non si può non sottolineare con R. Bultmann la profonda unità di queste scene e la loro importanza, dal momento che l'evangelista le presenta quale misterioso compimento delle Scritture.
Non possono dunque essere lette su un piano materiale e fenomenologico, ma devono essere intese quale rivelazione pasquale. Sembra anzi che proprio nel nostro episodio sia presente uno schema di rivelazione, che mette in luce la vera identità della madre di Gesù e del discepolo amato.
Nonostante la presenza di altre persone, al centro della scena del calvario ci sono - come si è notato - tre protagonisti:
- Gesù, che nella sua maestà regale di Figlio dell'uomo innalzato sulla croce, comunica le rivelazioni supreme e dona le ultime disposizioni testamentarie.
- Maria, la quale - a differenza di Cana - non parla, ma è al centro dell'attenzione quale depositaria principale delle volontà del Figlio. Ella viene nominata quattro volte come madre di Gesù, una volta come madre del discepolo e una come "donna".
- Il discepolo, non menzionato all'inizio tra coloro che stanno presso la croce, ma poi reso destinatario, come Maria, del dono del Maestro.
Dal punto di vista della frequenza, la figura maggiormente sottolineata è la Vergine. Ella appare anzitutto quale madre di Gesù, ma anche come la donna madre del discepolo. Questa rivelazione esplicita, peculiare del quarto Vangelo, faceva parte dei segreti del Padre e del Figlio, dei misteri della salvezza, che solo al momento dell'ora vengono svelati.
Il discepolo, a sua volta, non è solo colui che segue il Maestro ed è da lui amato, ma - appunto perché tale - è anche il figlio della "donna".
Maria è così madre di Gesù e donna-madre del discepolo.
Se la maternità nei confronti di Gesù è tradizionalmente accettata, il titolo di "donna" e madre del discepolo richiede delle spiegazioni.
IL DISCEPOLO DI GESU’
Come sempre nel quarto vangelo, e specialmente in queste scene della Passione, non ci si può limitare ad una comprensione materiale, e dunque superficiale, del messaggio. La nostra non è un semplice atto di pietà familiare nei confronti di una madre che sarebbe rimasta sola, come spesso ancora si afferma, specie in ambito non-cattolico. Ciò contraddice al testo stesso che sottolinea anzitutto la presenza e il ruolo di Maria ("Donna, ecco il tuo figlio"), e solo in secondo luogo, come conseguenza, il suo affidamento al discepolo ("Ecco la tua madre").
E poi non bisogna dimenticare che i rapporti che intercorrono tra di loro non si muovono sul piano della natura, ma su quello della generazione secondo lo spirito.
Chi è- dunque il discepolo? E’ una persona e al tempo stesso un simbolo. Secondo R. Bultmann le parole di Gesù innalzato solennemente sulla croce hanno in fondo lo stesso significato di quelle rivolte al Padre nella preghiera sacerdotale di Gv 17,20ss: "non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me...".
Anche secondo M. Dibelius il discepolo amato esprime "il tipo dei discepoli": l'uomo della fede, il testimone della croce, "il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, con la loro posizione in rapporto a Dio, sono diventati essi pure fratelli di Gesù (20,17) ".
Si noti che il discepolo, nel nostro testo, è presentato per tre volte (vv. 26-27) e sempre con l'articolo determinativo, per così dire, in forma enfatica: il discepolo amato rappresenta tutti coloro che hanno creduto ed hanno accolto Gesù. Essi costituiscono il nuovo popolo di Dio:
sono la comunità dei redenti dal sacrificio dell'Agnello (al quale non dev'essere spezzato alcun osso) (vv. 33.36); sono la chiesa nata dal sangue e dall'acqua, scaturiti dal costato del Redentore (v. 34), la nuova Eva tratta dal fianco del nuovo Adamo dormiente sulla croce.
LA DONNA, MADRE DEI FIGLI DI DIO
La donna, per conseguenza, è la madre del discepolo e dei discepoli, anzi della comunità di tutti coloro che erano dispersi e per i quali Gesù ha offerto la sua vita. Egli infatti "doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi" (G. 1l,51s).
Nel pensiero veterotestamentario i dispersi figli di Dio sono i figli d'Israele esiliati tra le genti a motivo dei loro peccati (cf Dt 4,25-27; 28,62-66; 30,1-4, ecc.). Il Signore che li aveva disseminati tra i popoli lontano dalla loro terra, li ricondurrà nel loro paese e nella loro casa. Dei regni divisi di Israele e di Giuda farà un solo popolo e un discendente di Davide sarà il loro pastore (cf Es 34,23-24; 37,24). Con essi stringerà un'alleanza nuova, il cui mediatore sarà un misterioso "servo" (cf Is 42,6; 49,8), il quale offrirà la sua vita in riscatto per le moltitudini (cf 53,10s).
Tutte le genti verranno allora e si raduneranno in Gerusalemme, che diventerà madre di figli innumerevoli (cf Is 49,19-20; 60,1-9; Tb 32,12s). Già sposa di Dio - abbandonata a causa delle sue infedeltà e privata dei figli - essa vedrà il ritorno del Signore ed accoglierà entro le sue mura una discendenza innumerevole e sconfinata. Sarà una maternità prodigiosa ed universale. La città-comunità, indicata frequentemente col simbolo di una donna, sposa e madre, e con il titolo di "figlia di Sion", è invitata a gioire per la redenzione e il ritorno dei suoi figli. "Agli occhi della prima generazione cristiana osserva A. Serra - la madre di Gesù si configurava come l'incarnazione ideale della "figlia di Sion". In lei, persona individua, maturava esemplarmente la vocazione di Sion-Gerusalemme e di tutto Israele, popolo dell'Alleanza".
Su questo sfondo, il discepolo amato rappresenta tutti i redenti. E Maria la donna-figlia di Sion, simboleggia la comunità dell'alleanza, madre dei figli di Dio un tempo dispersi ed ora raccolti in unità.
Maria non è figura soltanto dell'antica figlia di Sion, nella quale peraltro le splendide promesse si realizzarono solo parzialmente e temporaneamente: ella inaugura e realizza, quale primizia, la vocazione della nuova Sion, la comunità della nuova e definitiva alleanza, madre di tutti i credenti. Proprio perché madre di Cristo, "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29). Maria è madre di tutti coloro che sono rinati per la fede in lui. La sua maternità, iniziata con la nascita di Gesù, attinge sul Calvario la sua pienezza.
Come si vede, l'episodio di Gv 19,25-27 va ben al di là di una semplice scena domestica, d'un atto di premura filiale da parte di Gesù nei confronti della madre che ormai sarebbe rimasta sola.
L'ACCOGLIENZA DELLA MADRE
Di fronte a questa maternità, dono-rivelazione del Maestro, il discepolo è chiamato ad un atteggiamento di fede, a un'adesione vitale, a una decisione che sorge dal profondo della sua libertà: decisione libera, ma non facoltativa. Il discepolo amato non può non accogliere il dono del suo Signore. L'accoglienza della madre è una delle note che caratterizzano il vero discepolo di Cristo. "E da quell'ora il discepolo l'accolse ... " (v. 27).
L'ora dell'accoglienza della madre - che non è tanto indicazione cronologica, ma momento teologico - coincide (ed è di grande significato) con il compimento dell'ora di Gesù. L'espressione "dopo questo ... ", con la quale inizia il verso seguente (v. 28) non pare - come s'è notato - una semplice formula di transizione, ma intenderebbe sottolineare uno stretto legame tra quel che precede e quel che segue. "Dopo questo (in conseguenza di ciò), Gesù, sapendo che tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, dice... (v. 28). Come si vede è un linguaggio particolarmente solenne, nel caratteristico stile giovanneo, che colloca il nostro episodio al culmine dell'ora stabilita dal Padre e come suggello dell'opera salvifica. Con il dono-rivelazione di Maria quale madre dei credenti e con la sua accoglienza da parte del discepolo si compie l'opera di Cristo.
Sono visioni splendide e grandiose, emergenti dalle misteriose profondità del vangelo giovanneo, che possono essere sondate solo dal "discepolo amato". É il caso di ripetere la finissima e nota intuizione del grande Origene:
"Bisogna dire che, di tutte le Scritture, i Vangeli sono la primizia e che, tra i Vangeli, la primizia è quello di Giovanni, di cui nessuno può attingere il senso, se non si è chinato sul petto di Gesù e se non ha ricevuto da Gesù Maria per madre" (Enarrationes in psalmos 124, PL 37, 1651).
Alla luce dell'episodio di Maria presso la croce, si illumina anche il misterioso "segno" di Cana. Si comprende meglio il senso delle nozze e dell'ora, e il compito di quella donna nella vita dei discepoli del Signore.
Alla luce della Croce gloriosa di Cristo si comprende il senso profondo della storia del mondo, in particolare di questo. Tempo che, pur tra grandi prove, sofferenze e conflitti, è segnato dalla grazia di Cristo e dall’amore del Dio-Trinità. Un tempo in cui il popolo di Dio continua e continuerà a sperimentare la costante presenza della Madre del Signore, la cui missione non è compiuta né si compirà fino al ritorno glorioso del Signore. Perché ad ogni generazione che irrompe sulla scena della storia ella offrirà Cristo speranza indefettibile degli uomini e futuro dell’universo.
(Fine)
LA PREMURA DI DIO PER I DEBOLI ED I POVERI
Padre Alberto Valentini
L'enciclica Redemptoris Mater invita a riflettere sulla figura di Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa. Non si tratta, ovviamente, d'un semplice ritorno al Concilio, ma di "una nuova e approfondita lettura di ciò che il Concilio ha detto sulla Beata Vergine Maria" (n. 48).
La novità risiede innanzitutto nell'approccio, che non è solo dottrinale, ma anche dinamico-esperienziale. L'itinerario, il pellegrinaggio di fede è la prospettiva particolare con la quale l'enciclica coglie la figura di Maria e quella della Chiesa. In tale contesto si colloca la riflessione circa "II Magnificat della Chiesa in cammino" (nn. 35-37). Il canto della Vergine, che per tanti secoli ha nutrito la fede e la pietà dei credenti, è oggetto ai nostri giorni di un'attenzione particolare. È difficile sottrarsi alla suggestione molteplice di questo canto: il contemplativo vi può scoprire facilmente la lode estatica del Dio della sua vita e della sua salvezza; l'umile e il povero possono identificarsi nella spiritualità della "serva" per magnificare l'eterna misericordia del Signore; chi è impegnato nel sociale e nel politico può appropriarsi dei vigorosi versetti (51-53) che esaltano la potenza di Dio che disperde i superbi, depone i potenti e innalza i deboli. E si potrebbe continuare: il canto si presta ad essere letto in più prospettive.
"La Vergine Madre è costantemente presente in questo cammino di fede del popolo di Dio... lo dimostra in modo speciale il cantico del "Magnificat" che, sgorgato dal profondo della fede di Maria nella visitazione, non cessa nei secoli di vibrare nel cuore della Chiesa" (n. 35). È una constatazione fondata sull'esperienza dei secoli: la Chiesa ha fatto suo molto presto il canto di Maria. Sant'Ambrogio già lo proponeva quale espressione della pietà del credente: "Sia in ciascuno l'anima di Maria per magnificare il Signore; sia in ciascuno il suo spirito per esultare in Dio" Expositio Evangelii secundum Lucam, 11, 26).
Il "Magnificat" costituisce "un'ispirata professione di fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con l'elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere (di Maria) verso Dio" (n. 36). Solo il credente - colui che ha visto, udito e creduto - è in grado di cantare le opere di Dio. La fede è la sorgente della gioia, e sorgente della fede è le rivelazione di Dio, manifestatasi pienamente in Cristo Signore. Alla base dell'esultanza di Elisabetta (Lc 1,41-45) e di Maria (Lc 1,46-55: il "Magnificat") c'è il "fìat" della serva (Lc 1,38) alla rivelazione di Dio, che annunciava la nascita di Gesù, Figlio dell'Altissimo e discendente davidico (Lc 1,32), Cristo Signore (Lc 2,11).
Certo, ogni canto, ogni salmo è una commossa professione di fede, e il "Magnificat" lo è in maniera particolare. Canto eminentemente teologico, rivela il vero volto di Dio-salvatore-potente-santo-misericordioso-fedele per sempre... È il Dio che ha accompagnato costantemente il cammino d'Israele e che, nella pienezza dei tempi, in Cristo Gesù nato da Maria, si è attendato come Emmanuele in mezzo al suo popolo.
Il "Magnificat", infine, manifesta la premura di Dio per i poveri. Dal canto di Maria la Chiesa attinge più chiara coscienza "che non si può separare la verità su Dio che salva... dalla manifestazione del suo amore di preferenza per i poveri e gli umili". È importante sottolineare questo, salvaguardando però la radice teologica, insieme con la dimensione sociale, dell'impegno per i poveri. Si tratta di problemi organicamente connessi "col senso cristiano della libertà e liberazione".
Anche questa lezione circa la spiritualità e la concretezza storica dell'impegno della Chiesa scaturisce dalla Parola di Dio e in particolare dal messaggio del "Magnificat". Il canto di Maria è profondamente teologico - come si è notato - ma, proprio perché teologico, è incarnato nella storia. Nella storia il Signore opera e rinnova continuamente il suo disegno, sfigurato dalle violenze e dalle ingiustizie, segno del peccato del mondo. Il Figlio dell'Altissimo nato dalla Vergine e chiamato "Gesù" ("egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati" Mt 1,21), è venuto per liberare i poveri (cfr. Lc 4,18-19). Consacrato dalla potenza dello Spirito, che rinnova la faccia della terra, egli ha portato nel mondo la rivoluzione della giustizia di Dio affidata non alle armi, ma alla "compromissione" di tutti i credenti.
Ecco alcuni tratti della riflessione pontificia sul "Magnificat". Questo canto rivela la fisionomia spirituale della Vergine Maria e segna l'itinerario di fede e d'impegno della Chiesa, in ogni tempo.