Ecumene

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Le Chiese dell'oriente cristiano
XI. Il Patriarcato di Gerusalemme
di P. John Nellykullen

Data l’associazione con la vita di Gesù e con la comunità dei suoi primi discepoli, Gerusalememe è sempre stata di grande importanza per i cristiani. Data la grande accoglienza che la fede cristiana ha avuto nell’impero Romano, anche il prestigio di Gerusalemme è cresciuto in relazione. L’imperatore Costantino , che era molto favorevole al cristianesimo, fece costruire nel IV secolo delle magnifiche Basiliche nei luoghi sacri della Città Santa. La vita monastica giunse in Palestina immediatemente dopo la fondazione della prima communità in Egitto ed i monasteri hanno prosperato nella regione, specialmente nel deserto tra Gerusalemme ed il Mar Morto.

Nel 451 il Concilio di Calcedonia decise di elevare la Chiesa di Gerusalemme al rango di Patriarcato. Per questo motivo, tre provincie ecclesiastiche con 60 diocesi furono distaccate dal Patriarcato di Antiochia, cui avevano appartenuto fino ad allora. Sotto il dominio Greco-Bizantino, Gerusalemme continuò a crescere a causa dei numerosi pellegrinaggi verso“La Chiesa Madre”. Le invasioni dei Persiani nel 614 e degli Arabi nel 637 portarono questa prosperità verso la fine . Tante chiese e tanti monasteri furono distrutti. Una gran parte della popolazione si convertì all’Islam.

Nel 1099, i crociati presero Gerusalemme ed istituirono un Regno Latino che sarebbe durato un secolo. Durante questo periodo Roma creò un patriarcato latino in Gerusalemme. La linea dei patriarchi Greci continuò in esilio, di solito risiedendo in Constantinopoli. I patriarchi Greci tornarono poi alla loro residenza di Gerusalemme dopo la caduta del regno dei crociati.

Gerusalemme cadde in mano ai Turchi Selgiuchidi nel1187. Ma fu poi conquistata dai Mamelucchi Egiziani. I Turchi Ottomani ebbero il controllo della città nel 1516. Durante i 400 anni del dominio degli Ottomani vi furono molti conflitti tra i gruppi cristiani per il possesso dei Luoghi Santi. Nella metà del 19 secolo i Turchi confermarono il controllo greco su molti di questi luoghi. Questa situazione continuò senza cambiamenti durante il mandato della Gran Bretagna, iniziato nel 1917, e anche durante le amminastrazioni Giordana e Israeliana.

Il Patriarcato è governato da un Santo Sinodo presieduto dal Patriarca. I membri di questo Sinodo sono membri del clero nominati dal patriarca. Il loro numero non deve essere superiore ai diciotto, esiste inoltre un concilio misto che permette la partecipazione laica nel processo di presa delle decisioni da parte del patricato.

Il fatto che la gerarchia del patriarcato sia greca mentre i fedeli sono Arabi è stato occasione di contese anche in tempi recentissimi. Dal 1534 tutti i Patriarchi di Gerusalemme sono Greci, Adesso il Patriarca e i vescovi sono presi dalla Fraternità del Santo Sepolcro, una comunità monastica esistente in Gerusalemme fondata nel 16mo secolo. Essa ha 90 membri greci e 4 arabi. Il clero sposato proviene dalla popolazione araba locale. Quindi la liturgia Bizantina è celebrata in greco nei monasteri ed in arabo nelle parrocchie.

Le tensioni esistenti da lungo tempo, risultato di questa situazione, sono venute ancora una volta alla luce nel maggio 1992 per iniziativa del Comitato ortosio arabo per spingere verso l’arabizzazione del Patriarcato come unico modo di preservare un’autentica testimonianza ortodossa in questa regione. In quest’ultimo tempo nuove forti contestazioni sono nate dal problema dell’alienazione di proprietà ecclesiastiche, avvenuta a giudizio dei fedeli in modo ambiguo e lesivo del bene della Patriarcato e si è avanzata la richiesta che tutte le attività finanziarie del Patriarcato avessero carattere publico. Un’accusa è stata rivolta alla gerarchia greca e cioè quella di non avere veramente a cuore il bene della communità ortodossa araba, fatto reso evidente dalla costatazione che le scuole del patriarcato da 6 del 1967 si erano ridotte a tre nel 1994

Le tensioni e le contestazioni sono andate crescendo con le accuse al Patriarca di malversazione economica, di accordi e facilitazioni immobiliari segrete fatte al governo israeliano fino a che nel 1995, dopo gravi conflitti, il Patriarca Ecumenico con il suo Sinodo hanno deposto il Patriarca in carica sotituiendolo con l’attuale Theophilos III

Il patriarcato di Gerusalemme ha preso posizioni negative verso il movimento ecumenico. Nel 1989 ha ritirato i suoi delegati dai tutti i dialoghi teologici bilaterali in cui la Chiesa ortodossa era impegnato. Il Patriarca ha dichiarato che altri cristiani usavano i dialogi come mezzi per il proselitismo. Poiché la chiesa ortodossa ha già il possesso della pienezza della verità cristiana, ella non ha alcun bisogno di partecipare a tali discussioni.

Comunque, il patriarcato di Gerusalemme continua per far parte delle attività del del Concilio Mondiale delle Chiese e il Concilio delle Chiese in Medio Oriente. Il Patriarca Diodoros, predecessore del patriarca deposto Irinaios ha sottoscritto volontariamente nel 1993 la dichiarazione comune di responsabili delle Chiese locali, specialmente riguardo alla situazione dei cristiani della Terra Santa

Queste iniziative ecumeniche locali hanno preparato la strada alla stesura di un memorandum comune “Il significato dei cristiani di Gerusalemme”, che è stato sottoscritto dai Patriarchi e dai Capi di tutte le Chiese tradizionali presenti in Gerusalemme, il 23 Novembre 1994.Da questo periodo, i capi delle Chiese si radunano in ogni due mesi nel patriarcato Greco ortodosso sotto la presidenza del Patriarca in carica.


TERRITORIO: Israele, Giordania e Territori sottoposti al controllo dell’Autortà Palestinese

GUIDA: Theophilos III

TITOLO: Patriarca Greco-Ortodosso di Gerusalemme

SEDE: Gerusalemme

MEMBRI: 130.000

Pubblicato in Chiese Cristiane
Venerdì, 24 Novembre 2006 21:25

Rinnegare se stessi (Matta el Meskin)

Rinnegare se stessi

di Matta el Meskin

Il monachesimo è la via della vera e autentica morte al mondo, cioè a se stessi. Perciò la comunità monastica nella quale vive è per il monaco l'arena in cui si sottopone alla morte a se stesso. Se un monaco si sottopone a questa morte in tutta verità e sincerità verso Dio, e ogni giorno incomincia a vivere in Cristo, le porte dell'Amore divino si spalancano davanti a lui. Quando l'amore divino s'accende nel suo cuore, allora finalmente la vita in comunità diventa per il monaco un nuovo mondo di amore in cui fa traboccare la sua gioia. Perciò, sia che siate giovani, sia che siate anziani nella vita monastica, riflettete bene: se la comunità monastica è diventata per voi un luogo di amore, allora avete segretamente raggiunto lo scopo della vostra chiamata e la nuova vita. "Il nostro unico compito è amare Dio e trovare la nostra gioia in quest'amore". Ma se ancora giudicate e inciampate di fronte agli ordini delle vostre guide, agli errori dell'anziano e ai peccati del giovane, allora dovete esaminare ancora la vostra vocazione e ridiventare monaci da capo.

La vera morte al mondo è crocifiggere se stessi: è una morte interiore che non dipende dal digiuno, da precetti o da tanti atti di culto. Dipende piuttosto, prima che da tutte queste cose, accanto ad esse ed oltre ad esse, dal rinnegamento di se stessi, dalla compiacenza a rinunciare a se stessi e dall'abbandono pronto, spontaneo e senza esitazione della propria volontà. Questa era la via seguita dai Padri nell'istruire i novizi. Dalla vita di Samuele il confessore sappiamo che il padre spirituale gli insegnò a dire: "Sì", "Volentieri" e "Ho peccato", tutte espressioni piene di significato. Alcuni Padri avevano l'abitudine di dare ai loro discepoli ordini assurdi, di insegnar loro a non obiettare o discutere, per quanto gli ordini potessero sembrare loro sbagliati: la morte a se stessi infatti è più importante del successo in un qualsiasi compito.

Se sei un giovane monaco e ti rallegri nella tua vocazione, nella tua comunità e nella tua nuova vita, sappi che tutti gli elementi che contribuiscono alla morte a se stessi e al rinnegamento di sé, tutti gli elementi che aiutano la graduale distruzione della volontà propria e delle passioni – come il sopportare l'ingiustizia, le offese e lo scherno, la noncuranza nei confronti dei tuoi desideri, il disprezzo delle tue idee, delle tue opinioni e delle tue necessità primarie, il sopportare le sofferenze e le malattie che incontri nella vita – proprio questi elementi accendono l'amore divino e ne alimentano il fuoco. Le porte dell'amore divino sono spalancate per il monaco che vuole morire a se stesso e non conoscere più la propria volontà, perché al di là della morte a se stessi nasce la forza dell'amore, perché il Signore si rivela solo nei cuori di coloro che si sono abbandonati a lui totalmente e completamente. "Se uno vuol essere mio discepolo non conosca se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mc 8,34).

Il monaco che cerca il volto di Dio deve ricordare che il dio dell'uomo naturale è il suo proprio io; quest'uomo è pronto a sacrificare il fratello, la famiglia e Dio stesso per soddisfare le proprie passioni e i propri desideri. Di conseguenza quando si intraprende la vita monastica inizia una lotta senza riserve tra il proprio io e Cristo. Prima di essere una guerra aperta, visibile o tangibile, essa è qualcosa di non definibile e spaventoso, qualcosa che spesso uno percepisce solo dopo aver commesso delle gravi colpe nei confronti di Cristo. Allora ci si rende conto che il proprio io è realmente impegnato in una guerra con Cristo, cerca di annientarne la presenza e di sbarazzarsi completamente della sua persona.

Il monaco deve soprattutto comprendere che il vero culto reso a Cristo significa morte a se stessi, perché vi può essere obbedienza a Cristo solo nella rinuncia alla volontà propria; gli si può rendere onore e gloria solo in un rifiuto categorico di ogni onore e gloria nei confronti del proprio io; vi può essere un'autentica lode a Cristo solo nel ripudio di ogni vanagloria e autoesaltazione. Il vero amore di Cristo può stare solo là dove c'è l'odio di se stessi, cioè l'odio della volontà propria e di tutti i piaceri, le comodità, le abitudini e le gioie dell'ingannevole schiavitù di questo mondo.

Allora è chiaro che il culto reso a Cristo consiste nel rinnegamento di sé e nel non conoscersi dall'inizio alla fine. Questa morte è totale, non parziale, ed è reale, non apparente; esiste infatti una morte parziale che inganna e una morte esteriore che è falsa.

Il monaco deve esaminare con attenzione il processo di morte del proprio io, perché l'io è pieno di tranelli e inganni e usa molti stratagemmi disorientanti per far sì che la morte si presenti come illusione o come forma esterna: in tal modo esso riesce a prendersi gioco sia del monaco che di Cristo e a vivere e venire esaltato al posto di quest'ultimo. Il monaco deve sempre stare in guardia contro il culto di se stesso che in realtà è il rinnegamento e il non conoscere Cristo, qualunque sia poi il posto che occupano nella sua vita la chiesa, la croce, il vangelo, le preghiere, le prostrazioni, le lacrime e il battersi il petto!

L'io è davvero morto quando accetta la propria morte apertamente e segretamente. Questa condizione è chiaramente percepita da tutti. Ognuno infatti si rende conto che un monaco il cui io è morto non ha alcuna volontà propria, ha abbandonato ogni polemica, ostinazione, spirito di contraddizione, ogni tranello, inganno, astuzia, ogni ambiguità, mormorazione, collera; non chiede più il rispetto preteso per paura di perdere la propria dignità, perché tutto è buono, tutto gli reca beneficio e ogni situazione e ogni cosa operano per il suo bene e la sua edificazione. Tutto questo diventa naturalmente trasparente e chiaramente visibile, senza ricercatezza, né ostentazione o parole. Il modo stesso in cui un tal monaco lavora basta di per sé a proclamare la divina verità che egli sta avanzando saldamente e sicuramente lungo la via della morte a se stesso.

D'altra parte, se l'io rifiuta di sperimentare segretamente la morte, esso comincia a fare qualche passo sulla strada dell'auto-rinnegamento, così da sembrare morto a se stesso, anche se in realtà non lo è. Qui la strada del falso monachesimo si divide in tre sentieri, ciascuno dei quali è un labirinto senza uscita.

1. Il primo falso sentiero è quello che potremmo chiamare il grande inganno. In questo stato l'io, apparentemente morto, è tanto astuto e sleale da trarre in inganno il suo "padrone" nel compimento meticoloso di ogni rito e dovere di culto e nell'incitarlo a sforzi straordinari, a un ascetismo severo e ad altre fatiche sia in pubblico che in privato. Tuttavia, dato che non è morto, gli è impossibile prestare culto a Cristo senza qualche riconoscimento umano. Così escogita tutti i mezzi possibili per rendere note le sue imprese e i suoi sforzi, al fine di attirarsi rispetto, onore, lode e affetto da parte degli altri. Quando li ottiene è soddisfatto e moltiplica i suoi sforzi, le sue regole ascetiche e le pratiche. Ma se gli vien meno questa ricompensa, perde vigore nei suoi sforzi e tentativi e le sue attività e i suoi atti di culto diminuiscono considerevolmente.

Questo sentiero ingannevole è estremamente pericoloso; l'anima infatti è completamente asservita, crede di rendere culto a Dio, mentre in realtà sta rendendo culto al proprio io.

Abbiamo chiamato questo sentiero "il grande inganno", proprio perché chi lo percorre vive la vita intera nell'illusione di rendere culto a Dio, illusione creata dall'inganno del proprio io. Può accorgersi del proprio stato solo se prende atto delle tante specie di peccati segreti che commette contro Cristo: questi non possono in alcun modo essere l'opera di un uomo veramente morto a se stesso e che vive nell'amore divino, formando un solo spirito con Cristo.

2. Il secondo falso sentiero può essere chiamato l'inganno esplicito. Qui l'io non può convincere il suo "padrone" a fare grandi sforzi e così accetta di salvare soltanto le apparenze, accontentandosi solo dei compiti esteriori, ma non facendo alcuno sforzo per impegnarsi nel culto e nella lotta nascosta o negli sforzi spirituali segreti. Questo tipo di io è manifesto alla persona interessata, in altre parole: questa conosce se stessa, vede in se stessa, è consapevole delle proprie infamie e accondiscende all'inganno di fronte agli altri. Qui l'io inganna solo gli altri, convincendoli di essere pio e morto al mondo, ma non inganna il suo "padrone".

Questo è il motivo per cui l'abbiamo chiamato il sentiero dell'inganno esplicito, mentre abbiamo chiamato il primo "il grande inganno", dato che in quel sentiero l'io inganna anche il suo "padrone".

In entrambe queste situazioni troviamo che lo scopo dell'io che rifiuta di morire per volontà propria è quello di venir onorato, glorificato e lodato per gli atti di culto e le preghiere che compie. Questo è uno sfacciato culto di se stessi e un'usurpazione del diritto esclusivo di Cristo alla gloria e all'onore.

3. Il terzo falso sentiero possiamo chiamarlo errore manifesto. Qui l'io non può convincere l'individuo a intraprendere una qualsiasi attività o a fare qualche sforzo per rendere culto a chicchessia, perché l'io preferisce apertamente e chiaramente rifiutare il culto, lo sforzo spirituale e la preghiera. In questo caso l'io non chiede onore, gloria o lode con un ingannevole culto e nello stesso tempo non accorda alcun onore, gloria o lode agli altri; giunge al punto di negare il bisogno dell'adorazione stessa e rifiuta il dovere che abbiamo di faticare nel cammino spirituale, derubando così Dio di tutti i diritti che l'uomo è tenuto a riconoscergli. Qui il rifiuto dell'amore di Cristo e la rinuncia ai nostri obblighi di rendergli culto e amarlo sono diretti e aperti. L'io qui è smascherato davanti a se stesso e a tutti nel suo errore e indossa la persona e le azioni del maligno.

"Le vostre parole sono state dure contro di me – dice il Signore –. Ora voi dite: «Come abbiamo parlato contro di te?». Avete detto: «È inutile servire il Signore. Che vantaggio abbiamo ricevuto per aver custodito il suo incarico e aver camminato come in lutto davanti al Signore degli eserciti? D'ora innanzi giudichiamo beati i superbi; prosperano quelli che compiono il male e anche quando mettono Dio alla prova restano impuniti». Allora parlarono tra di loro i timorati di Dio; il Signore fece attenzione e li ascoltò e un libro di memorie fu scritto davanti a lui per quelli che lo temono e onorano il suo nome. Essi saranno miei – dice il Signore degli eserciti – mia speciale proprietà nel giorno che io preparo, e io farò grazia ad essi come un uomo fa grazia al figlio che lo serve. Allora ancora una volta potrete distinguere tra il giusto e l'empio, tra chi serve Dio e chi non lo serve" (Mal 3, 13-18).

Nella vocazione monastica non c'è quindi possibilità di scelta tra il morire o il non morire a noi stessi: infatti o c'è la morte a se stessi, oppure c'è il fallimento completo nella vita monastica, che terminerà con la condanna e l'inimicizia da parte di Dio. O moriamo a noi stessi e allora perseveriamo con Cristo e viviamo con lui nello spirito giorno per giorno, ora per ora, momento per momento, mentre il suo amore arde in noi finché raggiungiamo il cielo; oppure non moriamo a noi stessi, preferiamo essere indulgenti con il nostro io, onorarlo, lodarlo, glorificarlo e fargli festa, e allora indirizziamo ogni nostro culto, ascetismo e preghiera a onore dell'io, facendo cosi allontanare per sempre il vero Cristo dall'anima. Verrà allora il giorno in cui il monaco si renderà conto di aver invano faticato nella sua vita a onore di un falso Cristo, che in realtà non era altro che il proprio io, che adorava e al quale rendeva culto.

L'autentico monachesimo è la pratica della morte radicale a se stessi, cercando di spezzare tutte le strade che conducono al proprio io, così che non possa mai più risorgere e rivivere.

Se la morte a se stessi fosse un processo il cui compimento dipendesse unicamente dalla volontà personale e dalle capacità umane, sarebbe impossibile da realizzare, perché l'io è più forte della ragione e della volontà e le pone a suo servizio. Inoltre l'io coincide con l'uomo stesso quando questi lascia via libera agli istinti naturali.

Ma la morte a se stessi nella vita con Cristo è un processo compensativo: come prima cosa riceviamo in anticipo la forza di morire a noi stessi, prima che ci sia chiesto di intraprendere un atto di volontà. Questa forza è la forza della croce, cioè della morte volontaria a se stessi. È una grande forza mistica, che Cristo personalmente sperimentò per primo e ci trasmise come un libero dono di grazia. Così per essa noi sappiamo con Cristo morire al mondo e il mondo può morire a noi stessi. Questa forza di Cristo, cioè la grazia della croce, non ci è trasmessa da sola, priva del pegno della gloria: ci è dato infatti di pregustare la vita eterna, e questo è il più delizioso dono di Cristo. Perciò la morte a se stessi e al mondo a causa dell'amore di Cristo ha sempre bisogno di questi due elementi di supporto: la forza della croce, per far morire l'io facilmente, e la pregustazione della vita eterna che è pegno della risurrezione, per consolarci nel faticoso processo della morte dell'io. La morte a se stessi è perciò diventata facile e dolce, nonostante la sua difficoltà e asprezza, per coloro che senza paura intraprendono la via della rinuncia radicale a se stessi e alla propria volontà a causa e per amore di Cristo. Può questa verità incoraggiarci a subire senza timore la morte a noi stessi?

Nessuno pensi che il processo della morte dell'io sia complesso, ricco di misteri o gradi differenti. Non può essere! È estremamente semplice, non è altro che la determinazione della persona di affidare l'intera sua vita in ogni particolare, il passato insieme al presente e al futuro, senza esitazione nelle mani di Cristo, rinunciando così per sempre ai propri desideri, come un bambino affida con amore al padre quanto di più caro possiede, sicuro di ricevere in cambio qualcosa ancora migliore. Consegnamo a Cristo il nostro "io" impuro e mondano e la nostra volontà stupida e folle e al loro posto riceviamo l'Io stesso e la vita di Cristo, mentre egli ci trasporta sulle ali della sua santa volontà.

Come sono dunque beati quelli che sono morti a se stessi! Chi infatti è morto a se stesso non teme di perdere proprio più nulla nella sua vita, perché ha già perso tutto: l'io è, per così dire, tutto ciò che appartiene all'uomo sulla terra. Costui non teme più nemmeno la morte perché le si è sottoposto deliberatamente, invece di doverglisi sottoporre – prima o poi – contro la propria volontà.

L'io che non è morto chiede sempre di essere innalzato al di sopra degli altri, specialmente delle guide e di chi ha degli incarichi, cercando di stupire gli altri con la simulata condiscendenza nei confronti dei deboli, per accattivarsi la loro simpatia e la ammirazione della gente ed essere così elevato sopra gli altri. Si serve anche della carità, dell'offerta di doni, della cortesia, dell'adulazione e della difesa degli oppressi in modo da distinguersi dagli altri e apparire diverso dalle ingiuste, negligenti, vili e stupide guide: l'io le dipinge di fronte agli altri con queste tinte, in modo da apparire più virtuoso di loro.

Ricordatevi di tutto questo e siate vigilanti su voi stessi. Esaminate scrupolosamente i motivi dei vostri straordinari digiuni, preghiere, veglie, dei molti e importanti gesti di servizio, della vostra straordinaria umiltà o della volontà di offrire voi stessi totalmente. Fate bene attenzione che tutto ciò sia solo a causa del vero e fedele amore di Cristo e non abbia come scopo la gratificazione personale, l'essere onorati e rispettati dalla gente.

L'io che non è morto cerca sempre di evitare le occupazioni e le situazioni che potrebbero rivelare la sua debolezza. Si trattiene perciò dall'accostarsi a tali compiti ricorrendo a scuse svariate, come la mancanza di esperienza, l'inadeguatezza dei fratelli o la malattia. Può anche arrivare a chiedere un tempo di solitudine e di silenzio per evitare quelle situazioni e non lasciar trasparire i propri difetti.

Guardatevi dunque dal seguire il vostro io e dal nascondere le sue imperfezioni, per non perdere l'occasione di purificare le vostre infermità, anche se sono all'inizio; chi infatti svela le sue debolezze fin dal loro nascere acquista al loro posto la vera umiltà e toglie per sempre di mezzo l'orgoglio. Chi invece nasconde i propri difetti, vivrà con essi per sempre. Meglio perciò subire la vergogna in questa vita che non nell'altra, davanti agli angeli e ai santi!

L'io che non è morto non può sopportare di essere disprezzato, insultato, giudicato indegno o sminuito. Se lasciate ancora spazio a sentimenti di astio o di amarezza, in relazione al modo in cui siete trattati da un padre, da un fratello, da un superiore o da un inferiore, voi venerate ancora voi stessi e l'amore di Cristo non è ancora penetrato nel vostro cuore. L'uomo infatti il cui io è stato crocifisso con Cristo ed è morto, non solo è contento di sopportare sdegno, insulto, scherno o ingiustizia, ma addirittura li desidera ardentemente.

L'io che non è morto non può sopportare di ricevere ordini o direttive da uno che gli è inferiore per cultura, età o stato; questo infatti gli sembra un attentato ai suoi diritti, alle sue capacità, al suo rango. L'uomo il cui io è morto, invece, si considera all'ultimo posto, senza alcun diritto, né capacità, né posizione sociale.

L'io che non è realmente morto a se stesso trova da un lato molto facile scegliere per sé l'ultimo posto, ma, d'altro lato, non può sopportare che altri gli assegnino un posto appena inferiore a quello che lui considera come la sua giusta posizione.

Questo io vive palesemente in modo conforme a un falso vangelo: per lui infatti l'adempimento del comandamento sta nel servire i propri interessi e non nell'obbedienza ai comandamenti di Cristo.

Ricordate sempre che chi sceglie l'ultimo posto è provato con il fuoco e che, secondo le parole di Isacco il Siro, "colui che umilia se stesso per essere onorato dagli uomini, Dio lo smaschererà".

Il segno invece che l'io è morto è il suo amore e il suo desiderio per l'ultimo posto: egli non lo ricerca, per timore di vanagloria, ma aspetta che gli venga assegnato dagli altri!

Se l'io che non è morto non è onorato dai membri della comunità, o è disprezzato da essi, allora odia pregare con loro e non può sopportare di stare in mezzo a loro o di cantare inni insieme e cerca sempre di evitare, per quanto possibile, queste situazioni. Ciò rivela che le sue preghiere e i suoi inni riguardano il suo onore e non quello di Dio o l'amore di Cristo. Si vede così quanto può essere falso il culto a Dio!

Quanto invece all'io che è morto, per lui la comunità è un luogo di amore, vita, gioia e lode a causa della presenza del Signore. L'anima che ama i fratelli ha attraversato la morte ed è giunta alla vita, perché il Signore è sempre presente in mezzo alla comunità.

Un monaco può non riuscire a mettere radicalmente a morte il proprio io e così essere incapace di trovare la via stretta. Per una tal persona, quanto più aumenta la sua conoscenza, tanto più ardua diventa la sua salvezza; quanto più si addentra nei segreti della virtù, sia per quel che legge che per quel che ascolta, tanto più diventa incapace di praticarla, poiché il suo io, che non è stato spezzato, lo inganna appagandolo con la conoscenza, quasi questa potesse sostituire le sue opere. Ciò accade perché l'io sa bene che il compimento delle vere opere ha come sicura conseguenza la sua morte ed egli non vuole morire! L'io inganna il monaco e lo illude, facendogli credere di possedere tutte le virtù dei santi di cui legge la vita e di non aver bisogno di sforzarsi o di compiere alcunché, perché è già perfetto. Non appena sente parlare di qualche virtù o opera buona pensa di possederne anche di migliori, perché l'io fa suo tutto ciò di cui sente parlare e lo rivendica per sé. Quest'uomo si inebria dell'amore di sé, loda se stesso di fronte agli altri e ne provoca gli elogi. Secondo lui, nessuno è alla sua altezza e ognuno ha capacità inferiori alle sue. Se possiede un difetto evidente, lo imputa agli altri o alle circostanze; se ne possiede uno di nascosto, lo tiene segreto anche al proprio padre spirituale. Se commette un errore senza essere visto, insiste che gli altri sono i colpevoli e se è colto sul fatto tira fuori un sacco di scuse per provare la sua innocenza. Per lui, i suoi peccati sono leggeri, mentre gli sbagli degli altri sono crimini imperdonabili. Esprime rammarico solo per evitare critiche e chiede scusa solo per conservare la propria posizione. A poco a poco il pentimento diventa per lui una debolezza e lo scusarsi una vergogna.

Se non volete essere così, cercate fin dal primo momento della vostra vita monastica di mettere in atto, sperimentare e praticare solo ciò che è fonte di virtù e non le opere o gli scritti degli altri. Imparate come esporre con semplicità il vostro io a tutto ciò che può metterlo sotto il potere della croce, perché questa è la morte volontaria, in modo da intraprendere la via della virtù attraverso la porta della croce e non attraverso quella della ragione. Cercate anche di mettere in pratica quel che predicate e di parlare solo di ciò che avete sperimentato, non di quello che avete letto o di cui avete sentito parlare; come dice Paolo, "Noi ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui" (2Cor 10,15); "Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi" (2Cor 3,5); "Perché nessuno mi giudichi di più di quello che vede o sente da me" (2Cor 12,6); "Perché non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda" (2Cor 10,18).

È possibile anche che un monaco perda la capacità di mettere a morte il suo io quando è ormai a metà strada, dopo aver assaggiato e preso parte ai doni di Dio. Ma la brama di conoscenza si impadronisce di lui ed egli desidera diventare uno studioso dei misteri dello Spirito, cercando la gloria mondana e abbandonando il confortevole seno di Dio e quella semplicità che introdusse i pescatori di Galilea al libero dono della sapienza dello Spirito. Tale monaco si smarrisce dalla via della salvezza dopo essersene mostrato degno e questo lo rende costantemente nostalgico del passato e lo fa sentire di giorno in giorno sempre più smarrito e disorientato. Egli non ha però la forza di tornare sui propri passi, perché il suo io si è ora insuperbito a causa delle conoscenze raggiunte e la via stretta è in realtà diventata per lui gravosa e ripugnante. Le opere di penitenza di un tempo diventano per lui amare e aspre perché l'io si è gonfiato a causa del sapere. Così, pensando che tornare sui propri passi è così difficile da sembrare impossibile, s'inoltra di giorno in giorno lungo vie sempre più perverse e scivolose. Il problema di un io siffatto è che si vergogna sempre di se stesso. Accetta facilmente la lode, ma poi la rivomita, quando si ricorda della propria debolezza e dell'umiltà di un tempo. Ama l'onore, ma non vi trova alcun conforto. Le cattedre dell'insegnamento sono estremamente allettanti, ma sedersi su di esse è immediatamente motivo di pena, a causa dell'amaro rimorso per il passato di umiltà. L'io si rende conto che la volontà propria mette radici e che questo costituisce un insulto alla volontà di Dio, ma la dolcezza del frutto della disobbedienza e la bellezza dell'albero della ribellione non lasciano vedere le loro conseguenze. E così l'io assapora lo smarrirsi lontano da Dio, fino a quando, alla fine, si desta unicamente per constatare di essere completamente fuori strada, lontano dall'albero della vita e anche dall'albero della conoscenza.

Se dunque volete restare al sicuro fino alla fine sulla strada della morte a voi stessi, seguite la via stretta del pentimento, fino al giorno della morte. Non siate sedotti dal sapere, che vi rende sicuri di voi stessi. Al contrario aggrappatevi alla semplicità, che conduce alla profonda sapienza dello spirito. Fate della confessione delle colpe la vostra occupazione redditizia, e non muovete nemmeno un passo sulla via del sapere spronati dal desiderio della gloria mondana, se non volete precipitare, ancora giovani, nell'abisso.

Esiste un tipo di io che non è morto a se stesso il quale, quando la conoscenza legittima gli risulta troppo difficile da portare, arso com'è dalla fama mondana a basso prezzo, dà via libera al suo padrone, inducendolo insistentemente a diventare un ladro al servizio del proprio io, rubando per lui non oro o argento, ma i detti, le azioni e i pensieri dei Padri, prendendoli dai loro libri o dalle loro labbra e attribuendoli a se stesso, così da essere lodato per cose che non gli appartengono. Si illude di dar gloria a Dio. "Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? [...]. Come alcuni [...] ci calunniano dicendo che noi [così] affermiamo" (Rm 3,7-8). Questo io rende infelice il suo padrone, poiché, senza che egli se ne renda conto, lo opprime con molti peccati e iniquità che non sono meno gravi di quelli commessi da un delinquente comune, mentre appare agli altri un ministro della virtù e un rappresentante della rettitudine.

Vigilate dunque e siate ben attenti alla mortificazione del vostro io. Condannatelo prima che vi condanni. Privatelo di quanto gli appartiene, così che non possa usurpare ciò che appartiene agli altri. Poiché se queste cose sono insopportabili e riprovevoli per una coscienza libera, quanto più lo sono per Dio!

Esiste un tipo di io tirannico, astuto e ingannatore che domina e rende schiavo il suo padrone allo stesso modo in cui un ipnotizzatore rende schiavo chi è in suo potere. Lo sprona con continui incitamenti ad avere visioni e sogni durante il sonno, tutti frutto delle macchinazioni dell'io, in complicità con le sue passioni e le sue aspirazioni. Essi sembrano tutti facilmente applicabili agli eventi quotidiani, e armoniosamente connessi, quasi fossero reali. L'individuo si sveglia solo per credere di essere diventato un santo durante la notte! Comincia a dire in giro le sue visioni e i suoi sogni altamente significativi e tutti sono stupefatti da questo io, lo lodano e lo glorificano come se fosse un santo dotato di doni di illuminazione, rivelazione e profezia. Egli così si illude ancor di più, convinto com'è che sia tutto vero, mentre in realtà è tutto opera di autosuggestione per mezzo di concetti mentali e fantasie imposti all'animo debole dall'ambizioso io. Questi costringe la mente a rappresentare, nel sonno o nel dormiveglia, con logica sorprendente, ciò che egli desidera, o ciò che teme, a tal punto che l'io sembra possedere una natura superiore a quella delle altre persone e soddisfà così la sua ambizione. Quando l'io non riesce a tenere sotto controllo il suo padrone, così da soddisfare le sue brame con opere, parole e capacità pratiche, lo costringe a usare concetti mentali in sogni o visioni di estrema chiarezza, così da compiere ciò che non è riuscito a fare nella realtà tramite le capacità e risorse pratiche e così che l'io sia glorificato in ogni modo e a ogni costo.

Siate dunque attenti e vigilanti fin dall'inizio. State in guardia contro gli ingannevoli trucchi dell'io e le sue ambizioni e speranze, perché se riesce a sfuggire alla morte nonostante la vostra vigilanza, in realtà comincerà a vivere nelle visioni e nei sogni, comandando a tutti i talenti dell'anima e della mente di lavorare per la sua definitiva lode e glorificazione quale io soprannaturale. Solo un rifiuto totale sia delle visioni che dei sogni può impedirgli di procedere su questa strada; tuttavia, per assicurare il vostro progredire lungo la stretta via della salvezza, è possibile che visioni e sogni siano concessi a quelli la cui statura spirituale è elevata e la cui salvezza non corre pericolo.

L'io che non è morto odia ed evita la confessione, perché la confessione lo condanna e lo espone. Ma l'io che è morto o è disposto a morire, trova conforto nella confessione e la ricerca con gioia, superando ogni ostacolo, perché nella confessione viene purificato e purificato nuovamente, fino a diventare candido.

L'io che non è stato messo a morte, se decide di non morire, nasconde i propri difetti nella confessione. Comincia allora a diventare aggressivo nei confronti della confessione e del suo confessore, accusandolo di ignoranza, trascuratezza o parzialità e fa di questi pretesti una barriera definitiva che gli impedisce di esporre i propri difetti.

L'io che non è stato messo a morte e che ha deciso di non morire non trova vantaggio nelle parole o nei consigli del padre spirituale, anche se questi fosse lì a consigliarlo ogni giorno e ogni ora. Le sue parole diventano per lui un peso insopportabile. Ma l'io che è morto, o che è pronto a morire, a una sola parola del padre spirituale si lancia lungo la via della vita eterna e corre senza stancarsi; le parole di rimprovero gli sono dolci come il miele.

* * *

Coraggio, fratelli! Ecco, lo Sposo – che amiamo ma non possiamo vedere – viene come un ladro nel mezzo della notte per sorprenderci. Vegliamo dunque per poterlo ricevere e beato colui che Egli troverà vigilante.

(tratto da Matta el Meskin, Comunione nell’amore, Qiqajon 1986, pp. 127-140 )

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Maria è la prima nell'ordine delle creature ad avere ricevuto la pienezza di grazia come totale accoglienza dello Spirito Santo e quindi totale testimonianza del Figlio, ma anche totale "svuotamento" di ogni peccato.

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Le Chiese dell'oriente cristiano
X. Il Patriarcato di Antiochia
di P. John Nellykullen

Antiochia era un centro urbano importante nel mondo antico, dove, secondo gli “Atti degli apostoli”, i discepoli di Gesù furono per la prima volta chiamati cristiani. Antiochia divenne la sede della patriarcato che incluse tutti i cristiani sia della provincia orientale dell’impero Romano che oltre.

La reazione al Concilio de Calcedonia suscitò uno scisma nel patriarcato. Il gruppo principale che ripudiò il Concilio formò la Chiesa Siro-Ortodossa. La Chiesa che aveva accettato Calcedonia comprese essenzialmente i greci e le parti ellenizzate delle popolazioni locali.

Questa era la situazione quando Antiochia cadde nelle mani degli aggressori Arabi nell’agosto del 638. Considerati come collaboratori del nemico Impero Bizantino, i Greci locali ebbero un lungo periodo di persecuzioni. Il trono patriarcale fu perciò quasi sempre vacante o occupato da un Patriarca-residente all’estero, questo durante il secolo settimo e la prima parte del secolo ottavo.

I Bizantini hanno riconquistarono la città nel 969, e la tennero fino al 1085, quando Antiochia cadde in mano ai Selgiuchidi Turchi. Il patriarcato prosperò sotto il dominio Bizantino e durante questo periodo la liturgia siriaco-occidentale fu gradualmente sostituita dall liturgia Bizantina, un processo che sarebbe stato completato nel secolo dodicesimo .

Nel 1098 i crociati presero Antiochia ed istituirono un Regno Latino in Siria che durò circa due secoli. Un patriarcato Latino fu istituito, mentre la linea dei patriarchi Greci continuò in esilio.

Successivamente Antiochia fu conquistata dai Mamelucchi Egittiani nel 1268, ed il patriarcato Greco tornò ad occupare la sede . Poiché Antiochia da lungo tempo è ridotta a una città piccola, il patriarcato è stato trasferito a Damasco nel 14° secolo. Nel 1517 la zona passò dal dominio dei Mamelucchi Egiziani a quello dei Turchi Ottomani e rimase. sotto il controllo Turcho fino alla fine del prima guerra mondiale. La Chiesa fu indebolita da una scisma nel 1724, quando molti fedeli divennero cattolici e formarono la Chiesa Greco cattolica di rito melkita.

In questo periodo la grande maggioranza dei fedeli di questo patriarcato era araba. Nel 1898, l’ultimo patriarco Greco fu deposto ed un successore Arabo fu eletto in 1899. Cosi il patriarcato divenne completamente Arabo . Un movimento vigoroso di rinnovamento che ha coinvolto la gioventù ortodossa è attivo dal 1940. L’accademia di teologia San Giovanni Damasceno, situata vicina Tripoli del Libano, fu istituito dal patriarcato nel 1970 e nel 1988 fu incorporata ufficialmente all’Università di Balamand.

Il Santo Sinodo del patriarcato di Antiochia è composto dal Patriarca e tutti i Metropoliti attivi. Questo sinodo viene convocato almeno annualmente. Ha la funzione di eleggere il Patriarca e gli altri Vescovi, di preservare la fede e prendere le misure opportune contro le violazioni dell’ordine ecclesiastico. Inoltre, il Concilio Generale della comunità è formato dal Santo Sinodo e da rappresentanti del laicato. Si raduna due volte all’anno. E’ responsabile degli affari finanziari, educativi, giuridici ed amministrativi. Per eleggere un nuovo Patriarca, questo organo sceglie tre candidati e uno di questi sarà eletto dal Santo Sinodo.

Il patriarca attuale è attivo nel movimento ecumenico, ed è coinvolto nelle attività per restaurare l’unità dei cristiani che hanno radici nell’antico e indiviso patriarcato Antiocheno. Per questo motivo ha incontrato 22 Luglio, 1991, il patriarca siro-ortodosso, Ignatius Zakka I Iwas. Hanno firmato un documento che ha esortato al “rispetto completo e reciproco tra le due Chiese”. Questo documento ha proibito il passaggio dei fedeli da una Chiesa all’altra; ha pensato alla possibilità di incontri dei due sinodi; ha dato direttive per l’intecommunione dei fedeli e anche per la Concelebrazione Eucaristica del clero delle due Chiese.

Il Patriarcato partecipa ad una commisione teologica per il dialogo bilaterale con la Chiesa Greco-Cattolica di rito Melkita, per esplorare i modi al fine di sanare lo scisma del 1724. In un atto senza precedenti il Patriarca della Chiesa Cattolica Greca di rito melkita, Maximos V, ha parlato ad un incontro del Santo Sinodo Antiocheno nell’ottobre del 1996. Il Patriarca Antiche ha fortemente sostenuto la continuazione del dialogo internazionale con la chiesa cattolica.

Ci sono negli anni recenti forti emigrazioni di cristiani antiocheni nel nuovo mondo. Varie diocesi sono state istituite in America del Nord, Argentina, Brasile ed Australia. In America del Nord, l’Archidiocese siro-Antiochena è sotto la guida del metropolita Philip Saliba. L’archidiocesi ha 204 parrochie negli USA e 16 in Canada. Questa giurisdizione include il vicariato occidentale composto principalmente da ex-episcopaliani con circa di 10.000 membri, come pure, una missione evangelica ortodossa antiochena che è nata nel campus Crusade per Cristo e dove si usa il rito Bizantino.

La diocese Antiochena ortodossa di Australia è guidato dal vescovo Gibran di Larissa. Questa diocesi ha 9 parrocchie, ed ha inoltre le tre comunità in Nuova Zelanda. Anche una parrocchia russa della lingua inglese in Melbourn è sotto questo vescovo e, è servito dal clero della diocesi antiochena.

C’è una comunità ortodossa Antiochena a Londra in Inghilterra. Inoltre, esiste un gruppo di ex-Anglicani con circa 700 membri, articolato in 9 communità, chiamato “Pellegrinaggio all’Ortodossia”, esso è stato accolto nella Chiesa ortodossa sotto la giurisdizione del vescovo Antiocheno di Parigi che nell’ aprile 1995, ha ordinato due ex-preti anglicani provenienti da questo gruppo come preti ortodossi; in seguito ci sono state molte altre ordinazioni. Alcune di queste comunità usano il rito Bizantino, altre usano una versione modificata della liturgia occidentale.


TERRITORIO: Siria, Libano, Iraq, Kuwait, Iran, le due Americhe, Australia, Europa

GUIDA: Ignatius IV (nato nel 1920, eletto nel 1979)

TITOLO: Patriarca di Antiochia e di tutto l’Est

RESIDENZA: Damasco, Siria

MEMBRI: 750.000

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Santificazione e deificazione *






“Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3,21). Ciò comporta da una parte di stare “saldi nel Signore così come avete imparato” (ibidem, 4,1) e dall’altra che i credenti dimentichi del passato e protesi verso il futuro corrano “verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù” (ibidem, 3,14). E tutto ciò non in una fuga utopica, ma nella pesante esperienza del quotidiano, fatto di tentazione, di morte e di sofferenza, “diventando conforme a Cristo nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione” (ibidem, 3,11). Questo pensiero che Paolo commenta, in base alla sua esperienza personale ai cristiani di Filippi, riassume un aspetto importante della intera esperienza cristiana che si fonda su questi elementi basilari, la vocazione, cioè l’essere ferrati da Cristo, l’essere conquistati da lui (katelệmptện ypộ Christoû), come si esprime S. Paolo, il conformarsi (symmorphizộmenos) a lui, ed essere da lui trasfigurati (metaschệmatizei to sộma).

Ciò implica un processo, una continua tensione. “Dal punto in cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea” (ibidem, 3,16). Questa visione di cambiamento è pienamente assunta da S. Gregorio di Nissa, che nel proporre Mosè come tipo dell’uomo chiamato da Dio e della esperienza di ogni uomo di giungere alla conoscenza di Dio e al proprio rinnovamento, afferma: “Nessuno ignora che ogni essere soggetto per natura a mutamenti, non rimane identico a se stesso, ma passa continuamente da una condizione all’altra”.

Inoltre “nessun limite circoscrive la vita perfetta e può arrestare il progresso”. La perfezione è nel progresso. La santificazione che altro non è che la conformazione a Cristo, la perfetta immagine visibile di Dio, esprime questo misterioso processo di trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera in ogni uomo, trasformandolo ad immagine di Dio.

I. Guarigione dell’uomo

S. Giovanni Damasceno (sec. VII), il cui pensiero rappresenta una solida corrente teologica e spirituale che ha fortemente influito sulla elaborazione del pensiero cristiano di oriente, presenta una visione antropologica di estremo interesse anche attuale. Egli parte dal dato biblico che ripropone sotto varie forme e ripetutamente, ma che costituisce il dato di fondo e inamovibile. L’uomo è “creato razionale, intelligente e libero, a immagine di Dio”. Seguire quindi questa natura è vivere secondo la volontà di Dio, è vivere secondo virtù. Egli è tuttavia bene attento a non attribuire la perfezione ad uno sforzo puramente umano, perché è Dio che ci sostiene in questo sforzo. “Senza il suo concorso e il suo aiuto noi né vogliamo né facciamo il bene”. Questa synergia, cooperazione umano-divina, garantisce l’autentico progresso dell’uomo, che libero, può sempre non cooperare e anche deviare dalla vocazione alla quale è chiamato: “Sta a noi rimanere nella virtù, di seguire Dio che ci invita, noi però possiamo rigettarla e così operare il male.

Se rimaniamo nella natura, siamo nella virtù; scivolando dalla natura, dunque dalla virtù, nella contronatura, noi penetriamo e restiamo nel male”.L’affermazione della libertà umana è quindi fondamentale per la comprensione del comportamento cristiano L’identificazione fra “agire secondo natura” e “seguire la virtù”, e di converso “agire contro natura” e “operare il male” presuppone la concezione biblica (Gen 1,26) dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. E’ una visione antropologica radicalmente positiva, nonostante la condizione di creatura dell’uomo e quindi soggetto a molteplici limitazioni di intelligenza e di volontà. Di conseguenza quando il Damasceno tratterà “dell’economia divina in vista della nostra salvezza” e deve spiegare in cosa consiste l’opera terapeutica (kệdemonia) di Dio in favore dell’uomo si pone su un piano di correzione etica e quindi di conversione, così come la “caduta” dell’uomo è posta sulla linea della “disubbidienza”. “Non avendo osservato l’ordine del creatore, l’uomo è spogliato della grazia (chậris), privato della familiarità (parrệsia) con Dio e rivestito della necrosi”.

Mantenuto il parallelismo natura-virtù, il Damasceno presenta la conversione come un passaggio dal diavolo a Dio, un cambiamento di tendenza, conseguentemente di comportamento. “La conversione,il passaggio dalla contronatura a ciò che è secondo natura, dal diavolo verso Dio, avviene per mezzo dell’ascesi e della sofferenza”.

Egli parla tuttavia di esigenza della natura “di essere rinnovata” (anakainisthệnai) collegandola immediatamente con l’altra esigenza di “essere istruita circa la via della virtù che allontana dalla corruzione e conduce alla vita eterna”.

Questo malessere tuttavia è misterioso e più oscuro di quanto non comprende la stessa ragione. “Bisognava che colui che ci doveva liberare dal peccato non avesse conosciuto il peccato”. L’uomo ha bisogno di una guarigione più profonda. Se questo primo atto è esclusiva opera di Dio che, attraverso Cristo redime l’umanità, il resto esige la piena partecipazione dell’uomo partendo da una ripresa di coscienza della propria alienazione dalla propria “naturale” vocazione. La “conversione” di conseguenza a questo cambiamento di rotta intellettuale (metànoia) e morale, si pone come atto primario ed essenziale della santificazione quale processo di assimilazione a Dio.

II. Partecipazione alla vita divina

“Uno solo è santo, uno solo è Signore, Gesù Cristo”. Questo inno si ripete in ogni celebrazione eucaristica nella Chiesa bizantina, mantiene nella giusta evidenza che la santità è la natura di Dio e che Gesù Cristo è Dio vero da Dio vero, come si professa nel Credo, e sottolinea anche l’unicità della natura di Dio Trino. La santità che si attribuisce all’uomo, ai santi non può essere che per partecipazione. S. Giovanni Damasceno, parlando dei santi e delle ragioni che permettono ed esigono la loro venerazione, applica loro per analogia i titoli di “dei, re e signori”, titoli che sono innanzitutto dovuti e in modo unico a Dio. “Io dico che sono “dei, re e signori” non per natura, ma perché hanno dominato e regnato sulle passioni, conservato inalterata la somiglianza dell’immagine divina secondo cui erano stati generati (perché si chiama re, anche l’immagine del re) e perché si sono uniti liberamente a Dio, offrendogli una dimora e divenendo, in questa partecipazione per grazia, ciò che Egli è per natura”. In questo pensiero del Damasceno si mantiene netta la necessaria distinzione fra Dio e l’uomo deificato, superando la permanente tentazione dell’uomo di sostituirsi a Dio (Gen 3,5.22, peccato dei progenitori; Gen 11,4 torre di Babele), di ogni umanesimo paganeggiante. La partecipazione è tuttavia reale. Il Damasceno nello stesso capitolo cita vari testi delle scritture per mostrare che Dio abita nell’uomo e lo trasforma. “Io farò la mia dimora in essi” (Lev 26,12); “Non sapete che i vostri corpi sono il tempio dello Spirito Santo che dimora in voi?” (2 Cor 3,6). E tutto ciò per l’antico progetto divino che ha destinato gli uomini ad essere a immagine di Cristo. Dio Padre “nella sua prescienza li aveva destinati a essere conformi all’immagine del suo Figlio”, vera immagine di Dio invisibile, “affinché il suo Figlio sia il primogenito fra tutti i redenti” (Rom 8,29).

Il processo di questa trasformazione avviene per partecipazione alla natura divina per benevolenza di Dio. “La divina potenza ci ha donato tutto ciò che giova per la vita e la pietà, avendoci fatto conoscere Dio Padre, che ci ha chiamati alla fede per manifestare la sua gloria, in grazia di cui ci ha messi in possesso dei preziosi e magnifici beni promessi, affinché per mezzo di questi voi diveniate partecipi della natura divina” (2Pt 1,3-4).

Questa partecipazione si realizza attraverso la fede e per mezzo della sacramentale inserzione in Cristo. S. Giovanni Damasceno nel De Fide orthodoxa parla soltanto di due sacramenti: il battesimo e l’eucaristia.

a) “Noi confessiamo un solo battesimo per la remissione dei peccati e per la vita eterna, perché il battesimo significa la morte del Signore. Noi siamo quindi seppelliti con il Signore, come afferma l’apostolo” L’immersione nell’acqua – morte di Cristo è un avvenimento radicale. “Così come il Signore non è morto che una sola volta, noi non dobbiamo essere battezzati che una sola volta”. E più avanti: “Il battesimo, con la triplice immersione, significa i tre giorni passati da Cristo nella tomba”. L’assimilazione alla morte ha anche di converso l’aspetto di resurrezione alla vita.

Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rom 8,11). Sulle tracce di S:Paolo, S:Giovanni Damasceno fa questa sintesi: “L’uomo è composto di anima e di corpo. Ci è data una duplice purificazione per mezzo dell’acqua e dello Spirito.

Lo Spirito ci rinnova “a immagine e somiglianza”; l’acqua per grazia dello Spirito purifica il corpo dal peccato e libera dalla corruzione; l’acqua esprime l’immagine della morte, lo Spirito dispensa le arre della vita”. Non è il rito religioso che opera questa “rigenerazione psichica” – come si esprime il Damasceno – come in un’operazione magica, ma l’azione misteriosa dello Spirito che agisce attraverso il rito, per l’opera redentivi e rigenerativa di Cristo.

“Egli si è fatto uomo come noi, ci libera dalla corruzione per mezzo della sua passione; fa calare dal suo costato santo e immacolato, una sorgente di liberazione, l’acqua che ci fa rinascere e ci lava dal peccato e dalla corruzione, il sangue bevanda che procura la vita eterna” Il battesimo inserisce in Cristo, con cui si forma un “corpo misterioso” attraverso cui si comunica la vita, la nuova vita, la vita divina.”Per mezzo del battesimo noi riceviamo le primizie dello Spirito e la nuova nascita diventa l’inizio, il sigillo, la salvaguardia e la luce di un’altra vita”. Siamo nel cuore del mistero cristiano: il ristabilimento della comunione tra Dio e l’uomo, attraverso l’incarnazione di Dio e la deificazione dell’uomo. Nello stesso capitolo il Damasceno parla dell’unzione che si riceve al battesimo e che rende conformi a Cristo. Non distingue dal battesimo questa “cresima” che fa parte dell’intero avvenimento battesimale (morte, resurrezione, conformazione a Cristo, vita nuova).

“L’olio (èlaion) nel battesimo è ricevuto per l’unzione (chrisin), facendo di noi dei cristi (christoûs) e proclamandoci la misericordia (éleon) di Dio per mezzo dello Spirito Santo; così come la colomba portava un ramo di ulivo a coloro che erano stati salvati dal diluvio”. Diluvio – battesimo – purificazione; olio – ulivo – salvezza; unzione che trasforma in cristi – unti conformi a Cristo. Il pensiero si coordina attraverso la concezione teologica e mistica dell’incorporazione a Cristo. Il rituale bizantino del battesimo fa cantare, a sua conclusione, un versetto dell’epistola di S:Paolo ai Galati che riassume questa concezione: “Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27). “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).

b) Questo processo si completa nell’eucaristia. Partecipando all’eucaristia, purificati, “noi siamo uniti al corpo del Signore e al suo Spirito e diveniamo corpo di Cristo”. Il Damasceno spiega questo processo analizzando i termini di partecipazione e di comunione. “Si usa il termine partecipazione (metalệpsis) perché in essa, l’eucaristia, noi partecipiamo alla divinità di Gesù. Si dice anche comunione (koinonia) – e con ragione – perché in essa comunichiamo al Cristo e partecipiamo alla sua carne e alla sua divinità, comunichiamo e ci uniamo gli uni agli altri; poiché partecipiamo a un solo pane, tutti diventiamo un corpo e un sangue di Cristo e membri gli uni degli altri, inseriti in Cristo”.

Infine il Damasceno spiega perché il pane e il vino della eucaristia vengono talvolta detti anche “simboli, antitipi” (antitypa) dei beni futuri e afferma: “non perché non siamo veramente il corpo e il sangue di Cristo, ma perché da ora noi, attraverso di essi, partecipiamo alla santità di Cristo, mentre allora noi parteciperemo con l’intelletto alla visione diretta”. La partecipazione al sacramento è partecipazione al corpo di Cristo; per mezzo di essa si prende parte alla divinità stessa di Cristo.

Una tale partecipazione implica una interiore purificazione. S. Giovanni Damasceno usa l’immagine del carbone ardente, presa dal profeta Isaia. “Accostiamoci con ardente desiderio, con le palme delle mani in croce e riceviamo il corpo del Crocifisso. Volgendo verso di lui gli occhi, le labbra e il viso, prendiamo il carbone ardente divino perché il fuoco del nostro desiderio appropriandosi l’ardore del carbone divino bruci i nostri peccati, illumini i nostri cuori, e noi siamo deificati partecipando al fuoco divino”. Ricompare così la componente della purificazione. Il processo di santificazione nell’uomo ha permanentemente questi due poli: liberazione dal peccato e assimilazione a Cristo. Il santo è colui che ha raggiunto la condizione di “creatura nuova”, immagine vivente di Cristo; in più, il santo è colui che liberato dalla schiavitù del peccato ha raggiunto la “statura” di Cristo.

III. Creatura deificata e espressione etica

“Dio è vita e luce e in lui, i santi sono nella luce e nella vita”. Questo risultato definitivo implica quasi sempre il passaggio attraverso le tenebre e il timore della morte. La provvisorietà, l’ambiguità, l’avversità del quotidiano vissuto costituiscono il contesto in cui si sviluppa la “creatura nuova”, il santo.

La “novità” dell’uomo si deve esprimere nel comportamento etico. Questa novità, determinata dalla incorporazione a Cristo e dall’inabitazione dello Spirito nell’uomo, viene così descritta da S: Paolo: “Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22); e sintetizza l’insieme con una espressione lapidaria: “Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (ibidem, 25). In tal modo l’immagine di Dio, secondo cui l’uomo è stato creato, si aggiunge la somiglianza. E l’uomo stesso diventa per gli altri “luce e vita”. Il consiglio evangelico è categorico: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”.(Mt 5,16)

Osservazione conclusiva

Il santo è colui nel quale ha trovato realizzazione la redenzione, l’uomo deificato. Egli è quindi la testimonianza viva dell’opera salvifica di Dio operante ed efficace. Come tale il Santo può essere proposto come esempio da imitare e da venerare ed è segno di speranza perché egli certifica che ogni uomo può realizzare la sua vocazione e che l’intera convivenza umana può essere trasformata in nuova creazione. La comunità cristiana, chiamata alla santificazione e alla deificazione, già incorporata a Cristo è germe e strumento di questa trasformazione dell’intera umanità.

Romano il Melode (sec. VI) nel suo kontakion per la festa di tutti i santi, sintetizza così, nel canto, questa visione: “La terra si è fatta cielo. I luminari del firmamento e i martiri nel pleroma della chiesa rifulgono e illuminano tutto l’universo, cosicché Davide può dire con noi: “I fulgori tuoi sono stati riflessi sulla terra, o ricco di misericordia”.

* da uno studio di Pavel Evdokimov

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Mercoledì, 27 Settembre 2006 01:45

IX. Il Patriarcato di Alessandria (di John Nellykullen)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IX. Il Patriarcato di Alessandria
di P. John Nellykullen


Fino al periodo seguente al Concilio di Calcedonia (451 d.C.), i cristiani d’Egitto erano uniti in un singolo patriarcato. La controversia intorno all’insegnamento cristologico di Calcedonia, tuttavia, portò ad una divisione tra la maggioranza che rigettò il Concilio (la Chiesa Copta) e buona parte della minoranza che lo accettò. Il patriarcato greco ortodosso d’Alessandria è nato dal secondo gruppo. È stato calcolato che nel secolo VII vi erano in Egitto 17 o 18 milioni di Copti e circa 200 mila (ufficiali imperiali, soldati, mercanti e altri Greci) di quelli che avevano accettato il Concilio di Calcedonia. In quel tempo ambedue i gruppi usavano l’antica liturgia alessandrina, ma nel Patriarcato greco fu gradualmente sostituito dalla liturgia bizantina, e con il secolo XII il rito alessandrino scomparve.

Nel 642, con la conquista araba e il ritiro dell’armata bizantina, i Greci in Egitto furono perseguitati per il loro legame con l’impero bizantino. La difficile situazione peggiorò nel 1517 con la conquista turca. Il patriarca greco d’Alessandria cominciò a vivere dentro e fuori Costantinopoli e il Patriarcato ecumenico spesso gli affidò degli incarichi.

Solo nel 1846, con l’elezione del patriarca Hierotheos I, i patriarchi risedettero di nuovo ad Alessandria.

Il coinvolgimento del Patriarcato ecumenico nell’amministrazione della Chiesa d’Alessandria cessò nel 1858 con la morte di Hierotheos I.

Il Patriarca Melitios II (1926-1935) formulò le leggi locali del patriarcato e le sottopose al governo egiziano. Con queste leggi il patriarcato si rese indipendente e si giovò della protezione governativa. Melitios fu il primo patriarca ad essere riconosciuto dal decreto reale, poiché in quel tempo l’Egitto non faceva più parte dell’impero ottomano. Melitios inoltre fondò il seminario S. Atanasio, organizzò il tribunale ecclesiastico e stabilì la giurisdizione del patriarcato in Africa, introducendo nel suo titolo “Tutta l’Africa” al posto di “Tutto l’Egitto”.

Nei primi anni del secolo XX una significativa immigrazione di Arabi greci e ortodossi in Egitto e in altre parti d’Africa aumentò i membri del Patriarcato. Nel 1907 il numero dei Greci in Egitto era stimato essere di 192.000 e nel 1997 il numero era sceso a circa 165.000. Oggi il Patriarcato ha la giurisdizione su tutti i fedeli d’Africa greco-ortodossi.

Nel 1930 uno spontaneo movimento d’indigeni africani verso la Chiesa ortodossa cominciò in Uganda sotto la guida dell’anglicano Reuben Spartas. Egli fu ammesso alla piena comunione con il Patriarcato greco ortodosso d’Alessandria nel 1946 e le comunità ortodosse nell’Africa dell’est, fondate sotto la sua guida, sono state organizzate nel 1958 nell’arcidiocesi di Irinoupolis con quartiere generale a Nairobi. Questo gruppo è ora servito dall’aumentato clero indigeno africano, che annovera tre vescovi. Nel 1998 vi erano 80 sacerdoti in Kenia, 22 in Uganda e 11 in Tanzania.

Nel novembre 1994 il Santo Sinodo del Patriarcato ha creato una diocesi separata per l’Uganda e ha eletto il vescovo ausiliare di Irinoupolis per l’Uganda, Teodoro Nagiama, come suo primo metropolita. Questi è stato il primo vescovo nero eletto capo di una diocesi della Chiesa ortodossa.

Il Patriarca Partenios III, che fu in carica dal 1987 fino alla morte nel 1996, è stato energico esponente del movimento ecumenico e uno dei Presidenti del Consiglio Mondiale della Chiese. Il Papa o Patriarca Petros VII, suo successore a 47 anni, alla sua intronizzazione confermò la sua partecipazione al Consiglio Mondiale delle Chiese e al Consiglio Africano delle Chiese. Inoltre s’impegnò a riorganizzare la struttura amministrativa del Patriarcato, a curare la missione nell’Africa nera, a riaprire l’Istituto degli Studi orientali in Alessandria e a far rivivere Analecta, la rivista patriarcale. Egli è morto prematuramente nel 2004 per un incidente aereo.

Il Patriarcato è governato sulla base di una serie di regolamenti, adottati alla fine del secolo XIX. E’ stabilito un sistema sinodale d’amministrazione, in contrasto con il precedente governo del solo Patriarca; il Patriarca è eletto dal clero e dai laici. Il Santo Sinodo, composto da almeno sette metropoliti, deve riunirsi almeno una volta all’anno, ma ordinariamente lo fa ogni sei mesi.

Attraverso gli sforzi dell’arcivescovo Macario III di Cipro, nel 1981 è stato aperto un seminario in Nairobi. Originariamente chiamato Macario, nel 1998 esso è stato rinominato Scuola Patriarcale Ortodossa. In quell’anno (1998) contava 42 studenti provenienti dalle varie parti d’Africa. Vi sono due comunità religiose greche e due composte da elementi di etnia araba. Il Patriarcato conta in tutto circa 200.000 africani neri e 150.000 degli altri, i più d’etnia greca.



Territorio
: Egitto ed altre nazioni africane.

Guida: Papa Theodoros II (nato nel 1954, eletto nel 2004)

Titolo: Papa e Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa.

Membri: 350.000

Sito web: www.greece.org/gopatalex

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Le Chiese dell'oriente cristiano
VIII. Il Patriarcato di Costantinopoli
(Patriarcato Ecumenico)
di P. John Nellykullen


La cultura greca era predominante nella regione orientale dell’impero romano durante il tempo iniziale dell’espansione cristiana quando il lavoro missionario di San Paolo portò alla cristianizzazione della cultura greca.

Il processo di adozione del Cristianesimo come religione imperiale, iniziato dall’imperatore Costantino, fu realizzato in pieno da Teodosio alla fine del quarto secolo. Costantino aveva già trasferito la capitale dell’impero a Bisanzio, una città greca, nel 330, chiamandola Costantinopoli, nuova Roma.

La Chiesa di Costantinopoli ha avuto subito grande importanza, grazie allo stato di capitale dell’Impero Romano. Il Concilio di Costantinopoli nel 381 stabilì, nel canone 3, che il vescovo di questa città avrebbe avuto un primato di onore dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli era la nuova Roma. Così Costantinopoli ha avuto la precedenza rispetto agli antichi patriarcati di Alessandria e di Antiochia. Il canone 28 di Concilio di Calcedonia nel 451 ha riconobbe poi l’estensione del territorio del Patriarcato di Costantinopoli e la sua autorità sui vescovi delle diocesi “tra i barbari”, cioè sui luoghi fuori dell’impero Bizantino o non-greci. Il patriarca di Costantinopoli ha presieduto la Chiesa dell’Impero Romano orientale per almeno mille anni e il lavoro missionario di questa Chiesa ha portato la fede Cristiana nel territorio nord dell’impero. Haghia Sophia, la cattedrale di Costantinopoli era il centro della vita religiosa del Cristianesimo nell’Oriente.

Lo scisma tra Roma e Costantinopoli preceduto da un lungo periodo di tensioni più o meno esplicite culminò nel 1054, con la mutua scomunica tra il Patriarca Michele Cerulario ed il legato papale, cardinale Umberto. La quarta crociata ed il saccheggio della città da parte dei Crociati Latini nel 1204 causò la vera divisione anche nella mentalità della gente comune. Dopo lo scisma tra Roma e Costantinopoli questa ebbe il primato sulle Chiese di tradizione bizantina.

Nel 1453 i Turchi (Ottomani) conquistarono Costantinopoli e nonostante diverse restrizioni contro Cristiani, il Patriarca venne nominato etnarca, cioè capo della comunità etnica ortodossa dell’impero e mantenne la sua posizione di “primus inter pares” tra i patriarchi ortodossi. Così mantenne una autorità morale sui patriarcati greci di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Però l’assunzione dell’autorità civile comportò un prezzo molto caro. Quando i Greci insorsero contro i Turchi nel 1821 il Patriarca Gregorio V fu ritenuto responsabile ed impiccato alla porta del patriarcato. Due metropoliti e 12 vescovi furono ugualmente impiccati.

Una Chiesa autocefala greca, distaccata da Costantinopoli, fu fondata nel 1833, dopo la formazione dello stato indipendente greco nel 1832. Dopo la prima guerra mondiale una persecuzione contro i Greci residenti in Istanbul, nuovo nome di Costantinopoli, causò un forte esodo dei greci .

Oggi nel territorio turco vi sono appena 5000 o 6000 greci appartenenti al Patriarcato al quale appartengono anche alcune parti della Grecia (il Monte Athos, la Chiesa quasi-autonoma di Creta, e le isole del Dodecanneso). Al patriarcato apparteneva anche la scuola teologica nell’isola di Halki, presso Istanbul, ma questa fu chiusa dal governo nel 1971.e malgrado i tentativi di riapertura e le mezze promesse da parte del governo la situazione non è ancora stata risolta. Il patriarcato sovrintende anche ad alcuni Istituti Teologici Accademici in Grecia, così pure alla Scuola nel monastero di Giovanni il Teologo nell’isola di Patmos, all’Istituto Patriarcale per gli studi patristici a Tessalonica, ed all’Accademia Ortodossa di Creta. Nel 1993 il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha istituito l’Istituto Ortodosso “Patriarca Atenagora” presso la Graduate Theological Union a Berkeley, California, come Istituto Patriarcale ufficiale. Il patriarcato ha anche un centro ortodosso a Chambésy, Svizzera, preso Ginevra.

La Repubblica Monastica del Monte Athos, sebbene sia in Grecia, è sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico. La costituzione Greca ammette l’autonomia amministrativa dei monasteri. Questi dopo un periodo di rilevante diminuzione numerica vedono oggi di nuovo un periodo di fioritura di nuove vocazioni

Nel mese di dicembre del 1989 il Patriarcato ha inaugurato il nuovo ufficio centrale amministrativo al Phanar (un quartiere di Istanbul), ricostruendo l’edificio che era stato distrutto dal fuoco nel 1941. …

Il Patriarca Bartolomeo ha dato nuovo vigore al ruolo della sua Chiesa nell'ambito dell'ortodossia ed oltre. Nel marzo 1992 ha convocato i capi di tutte le chiese autocefale ad Istanbul, e nel settembre del 1995 nell’isola di Patmos. Il patriarca ecumenico ha rivolto un discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo nell’aprile del 1994, visitato Papa Giovanni Paolo II nel giugno 1995 ed altre volte successivamente, visitato l’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 1995. Nello stesso anno ha partecipato al Concilio Mondiale delle Chiese a Ginevra. Un’ altra iniziativa è stata la ripresa della pubblicazione della rivista patriarcale, Όρθοδοξία, che usciva regolarmente dal 1926 al 1963, in collaborazione con l’Istituto Patriarcale di Tessalonica. Per sua iniziativa un’ufficio patriarcale è stato aperto presso l’ufficio centrale della Comunità Europea in Bruxelles il 10 gennaio 1995.

Purtroppo la situazione della comunità greca e del Patriarcato rimane precaria in Turchia come è evidente per tutta una serie di eventi dolorosi come la profanazione del cimitero greco a Istanbul e l’incendio di una scuola greca. Konrad Raiser, allora segretario generale del Concilio Mondiale delle Chiese ha scritto al primo ministro turco nel novembre del 1993, esprimendo preoccupazione sulla restrizione dei diritti fondamentali della minoranza greca nel paese, ha chiesto al governo turco di proteggere la minoranza greca contro l’intolleranza religiosa, di garantire il suo diritto alla sua cultura ed alla sua lingua, di evitare l’uso della comunità come una pedina da giocare nella dispute internazionali, di mostrare la buona volontà permettendo la riapertura della scuola teologica di Halki. Però i problemi rimangono: nel maggio 1994 tre bombe sono state disattivate prima della esplosione nell’ambito della residenza patriarcale; nel settembre 1996 è stata fatta esplodere una granata nel complesso del patriarcato, fortunatamente senza ferire nessuno; un’altra esplosione di una bomba nel dicembre 1997 ha danneggiato gravemente il complesso. Un diacono è stato ferito. Nel gennaio 1998 una chiesa nella città è stata saccheggiata e incendiata. Il custode è stato ucciso.

Anche in questa circostanza il patriarca Bartolomeo ha rifiutato il suggerimento di trasferire il patriarcato a Tessalonica o in un’altra città greca, perché Istanbul è stata sempre la sede del patriarcato, salvo qualche breve interruzione nel 13mo secolo. Inoltre, rimanere a Istanbul, incrocio di diverse civilizzazione e lingue, permette al patriarcato di stare oltre le concorrenze e le chiusure nazionaliste. Infatti il patriarca ha vigorosamente condannato i nazionalismi eccessivi come detrimento dell’Ortodossia e della pace nel mondo. Per questi motivi il Patriarca crede che la presenza del patriarcato in uno stato laico a maggioranza islamica sia vantaggioso per la Chiesa Ortodossa.

Il Santo Sinodo presieduto dal Patriarca governa la Chiesa patriarcale. Il Sinodo comprende 12 vescovi metropoliti che hanno le loro diocesi in Turchia e recentemente anche fuori di essa malgrado l’opposizione del governo turco. Dopo l’abolizione del Concilio misto nel 1923, non vi è più stata una partecipazione laica all’amministrazione del Patriarcato.

Sia la Chiesa Ortodossa in diaspora, che altre giurisdizione di varie etnie fanno parte del Patriarcato Ecumenico. Arcivescovo Gregorio di Tiatira e della Gran Bretagna risiede in Londra e guida nella sua diocesi 4 monasteri, 100 parrocchie e cappelle in Inghilterra ed una parrocchia a Dublino, Irlanda.

L’Arcivescovo Stylianos presiede ai fedeli Ortodossi greci in Australia. Qui l’arcidiocesi ha 120 parrocchie e 2 comunità monastiche, ha aperto la Scuola Teologica Ortodossa Greca di San Andrea a Sydney nel 1986. L’arcidiocesi è divisa in cinque distretti. Tre vescovi ausiliari, sotto l’autorità dell’arcivescovo, presiedono a tre di questi circoscrizioni. Sia i greci ortodossi della Nuova Zelanda, che in Corea ed in Giappone sono sotto la cura pastorale del Metropolita Dyonosios. La Metropolia di Hong Kong fondata nel 1996, è presieduta dal Metropolita Nikitas che ha giurisdizione sulle comunità greco ortodosse di Cina, Singapore, India, Indonesia e Filippine.

Il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha diviso, nel 1996, l’ Arcidiocesi del Nord e Sud America in quattro metropolie: 1) America (Stati Uniti), 2) Toronto e tutto il Canada, 3) Buenos Aires e Sud America, 4) Panama e America Centrale. L’arcidiocesi greco ortodossa d’America è presieduto dall’ Arcivescovo Spyridon. Negli Stati Uniti ci sono otto diocesi, 570 parrocchie, e 8 comunità monastiche. La Metropolia del Canada ha 76 parrocchie e due monasteri sotto la guida di metropolita Sotirios (…). L’arcidiocesi dell’America amministra la Scuola Teologica greco ortodossa di S. Croce in Brookline, Massachusetts. La Metropolia del Canada ha aperto una Accademia Teologica Greco Ortodossa a Toronto nel 1998.


Territorio: Turchia, Grecia, le due Americhe , Europa Occidentale, Australia.

Guida: Patriarca Bartolomeo I (nato 1940, eletto 1991)

Titolo: Arcivescovo di Costantinopoli/Nuova Roma, Patriarca Ecumenico.

Residenza: Istanbul (Costantinopoli), Turchia.

Membri: 3.500.000

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La Madre di Dio non si impone alla fede. Nel cammino di fede, semplicemente, la troviamo sempre presente, o all'inizio o alla fine, perché porta dentro, per aver una volta portato il Figlio, tutta l'umanità che da lei il Figlio ha preso e mai lasciato.

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Sabato, 02 Settembre 2006 21:22

Le chiese ortodosse autocefale (di Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
Le chiese ortodosse autocefale
di Mervyn Duffy


Ci sono tredici chiese ortodosse generalmente riconosciute come “autocefale”, che in greco significa “con un proprio capo”. Una chiesa autocefala possiede il diritto di risolvere tutti i problemi interni con la sua autorità ed è abilitata a scegliere i propri vescovi, incluso il Patriarca, l’Arcivescovo o il Metropolita che è a capo della chiesa. Mentre ogni chiesa autocefala agisce indipendentemente, essa rimane in piena comunione sacramentale e canonica con tutte le altre.

Oggi queste chiese ortodosse autocefale includono i quattro antichi patriarcati orientali (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), esistono poi dieci altre chiese ortodosse emerse nel corso dei secoli in Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Cipro, Grecia, Polonia, Albania, e nelle repubbliche Ceca e Slovacca. Di sua iniziativa, il patriarcato di Mosca ha concesso lo status autocefalo a molte delle sue parrocchie nordamericane sotto il nome di Chiesa Ortodossa in America. Tuttavia, poiché il Patriarcato di Costantinopoli reclama il diritto esclusivo a concedere lo status autocefalo, esso e molte altre chiese ortodosse non riconoscono l’autocefalia della Chiesa americana.

Nove di queste chiese autocefale sono patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Georgia. Le altre sono guidate da un arcivescovo o da un metropolita.


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Etiopia, laboratorio di tolleranza

di Giuseppe Caffulli

«Credo che l'Etiopia nella sua lunga storia sia stata e sia tuttora un esempio di pacifica coesistenza di genti e culture diverse. Il cristianesimo, l'ebraismo, l'islam ed altri hanno una lunga storia in Etiopia. L'antica tolleranza ha portato alla coesistenza pacifica dei credenti di queste religioni per secoli. Diversamente da altre parti del mondo, percorse da estenuanti scontri civili, abbiamo creato sistemi sociali e culturali che ci hanno permesso di gestire i conflitti che sorgevano da incomprensioni tra confessioni religiose. È una lezione buona, che tutti dobbiamo seguire per poter ostacolare le conseguenze pericolose del fondamentalismo. Anche se dobbiamo essere onesti: la strada della pace non è automaticamente segnata». Abuna Paulos è patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia, una delle Chiese cristiane di più antica tradizione, calata in un contesto dove il dialogo tra le religioni e le Chiese è una sfida (e una necessità) costante. Ma anche il rischio del fondamentalismo religioso si fa ogni giorno più concreto. In margine alla partecipazione al meeting Uomini e religioni di Milano, ha concesso in esclusiva questa intervista a Mondo e Missione.

Santità, qual'è oggi la situazione della Chiesa ortodossa d'Etiopia?

La nostra Chiesa ha conosciuto svariati problemi nel corso dei secoli. Durante le diverse dominazioni la Chiesa ha sofferto molto, perché è diventata il bersaglio del potere di turno. Oggi viviamo un periodo di sostanziale tranquillità. Il governo attuale ha imboccato la strada della democrazia e questo atteggiamento si riflette positivamente anche nelle relazioni con la Chiesa. Il popolo, durante il regime comunista, ha sopportato - insieme a molte altre vessazioni - anche la proibizione di partecipare alla vita della Chiesa. Ora invece si assiste a un risveglio della frequenza alle celebrazioni e dell'interesse per la religione, specie nei giovani. I nostri monasteri stanno vivendo una stagione felice: sono moltissime le nuove vocazioni. Viviamo un momento di grazia, che spero possa continuare. Mi auguro solo che chi, come me, ha ruoli di responsabilità nella Chiesa, sappia cogliere e dare risposte alle esigenze spirituali dei giovani.

E lo stato delle relazioni con la Chiesa cattolica?

Le relazioni con la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane presenti in Etiopia sono buone. Non ci sono conflitti tra le nostre Chiese. Lavoriamo insieme per rispondere alle sfide comuni, che sono quelle che un Paese come il nostro propone ogni giorno. Un impegno è quello del bene del nostro popolo.

Ci sono esempi di collaborazione con la Chiesa cattolica ormai di lunga data. Ad Arba Minch, nell'estremo sud del Paese (M.M., aprile 1998, pp. 60-61), i padri spiritani si sono messi al servizio della formazione dei diaconi ortodossi... Che giudizio ha di questo esperimento, peraltro discusso anche in casa cattolica?

Sono convinto che le forme di collaborazione bilaterale vadano approfondite e sviluppate tra la nostra Chiesa e quella cattolica. Penso al campo della scuola, dove i cattolici hanno una tradizione e una competenza riconosciuta. Sarebbe davvero una cosa ottima per tutti poter lavorare insieme. Detto questo, a differenza di Arba Minch, non sempre i rapporti corrono su questi binari. Non c'è nessuna forma di antagonismo verso i cattolici in quello che sto dicendo. Pongo la questione da un punto di vista semplicemente cristiano. La Chiesa cattolica è ricca di personalità e risorse, di saggezza e forze spirituali. La critica che faccio è questa: perché utilizzare questa ricchezza in ambito missionario? Perché adoperarla nella logica di includere? La varietà delle confessioni religiose è un patrimonio straordinario. Le differenze delle nostre Chiese di antica tradizione sono semplicemente modalità diverse per esprimere la ricchezza della medesima radice cristiana. Le differenze costituiscono una forma di bellezza, sono come note che insieme formano un accordo. Esiste una unità da ricercare sul piano teologico ed ecclesiologico. Esiste un’altra forma di unità, già visibile, che si evidenzia nell'aiuto fraterno. La competizione, invece del sostegno, non è un atteggiamento cristiano.

Le forme di collaborazione tra le nostre Chiese esistono non solo ad Arba Minch. Ma mi chiedo: perché non lavorare ancora di più insieme? Questo vale anche per le altre Chiese cristiane, che possono fornire il loro apporto di incoraggiamento e sostegno.

In Etiopia esiste una forte componente musulmana...

La comunità musulmana è presente nel Paese da moltissimo tempo. Nel passato non ci sono stati conflitti né con i musulmani né con altre confessioni religiose. L'atteggiamento complessivo della Chiesa ortodossa nei confronti delle altre religioni è sempre stato di tolleranza. Anche i re d'Etiopia hanno sempre avuto un atteggiamento di benevolenza nei confronti dei musulmani. Oggi nel Paese, ma questo è una costante che accomuna diversi contesti, la situazione dell'islam è cambiata rispetto al passato. Ho visto una grande moschea a Roma, del costo di molti milioni di dollari. Ci sono molte moschee in Germania e in Gran Bretagna e in Francia, dove l'islam è la seconda religione. L'islam è cambiato, si sta diffondendo ovunque e sta rivendicando spazi. Bene, il mondo è di tutti. E questo fenomeno di espansione è legittimo. Ma proprio perché il mondo è di tutti dobbiamo cercare di vivere insieme.

L'Etiopia non è l'unico Paese in cui gli islamici stanno portando avanti un'azione nei confronti dei cristiani. Questo avviene anche in Europa, in America. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che i musulmani siano in Etiopia, perché sono ormai ovunque. Ciò che preoccupa me personalmente è che gli organismi internazionali, e l'Onu in prima battuta, non perdano l'occasione di proporre delle politiche d'inclusione sociale e di lotta alla povertà capaci di togliere terreno fertile al fondamentalismo e di offrire a tutti delle opportunità di vita, in modo che insieme si possa costruire una convivenza pacifica.


Il Paese è uscito di recente da una sanguinosa guerra con l'Eritrea.

Siamo amareggiati per la guerra scoppiata con l'Eritrea, perché i nostri Paesi hanno radici comuni, siamo un solo Paese, siamo fratelli e sorelle. È stata una sciagura questa guerra. Il popolo ha pregato fortemente per la pace e la fine del conflitto, e così è avvenuto anche in Eritrea. Non credo personalmente che l'Etiopia abbia intrapreso questa guerra per ambizione o espansionismo. Certamente qualcuno ha spinto e incoraggiato. Non so chi. Ma non c'era ragione perché due popoli fratelli si combattessero, Appena poi la guerra è scoppiata, si sono fatte avanti nazioni per controllare e condizionare.

Ricordo che il governo dell'Etiopia ha sempre chiesto una soluzione pacifica del conflitto. Nessuno ha voluto ascoltare. Il costo di vite è stato enorme da entrambe le parti. L'eventualità della guerra tra i due Paesi non sembra ancora risolta. E per questo chi ha responsabilità deve parlare molto chiaramente, per spazzare il campo da ogni possibilità di scontro armato. Noi condanniamo fermamente la guerra, ma non possiamo negare la possibilità di difesa.

Per secoli la Chiesa etiope è stata legata alla sede di Alessandria. Come sono oggi i rapporti?

L'Etiopia ha ricevuto il Vangelo nel 34 d.C. Le comunità che si erano formate erano però povere di mezzi e di risorse umane. Allora il re mandò degli ambasciatori ad Alessandria, che era la Chiesa più vicina, per avere aiuto. Chiese di ottenere istruzioni circa la vita delle comunità cristiane e la consacrazione di un vescovo. Cosa che avvenne per mano dell'allora patriarca Atanasio il Grande. In seguito la Chiesa d'Alessandria non permise che ci fosse nessun vescovo che non fosse egiziano. Così è stato per secoli. Siamo stati sempre trattati come una Chiesa bambina e abbiamo sempre avuto vescovi stranieri. Solo cinquant'anni fa abbiamo potuto consacrare un patriarca etiope e vedere riconosciuta la nostra tradizione di Chiesa autocefala. E questo è stato possibile anche grazie al nostro imperatore (Haile Selassie, l'ultimo negus - ndr). Ora noi vogliamo vivere in pace, come Chiese sorelle. Sento dire spesso che in Egitto sono contrariati e non desiderano cooperare. A dire il vero non lo hanno mai fatto. Innumerevoli volte abbiamo patito la fame e la siccità in Etiopia, e da quella che si riteneva la nostra Chiesa madre non abbiamo mai avuto nessun aiuto. Ripeto: agli inizi della nostra storia cristiana, siamo stati noi a chiedere un aiuto ad Alessandria; poi abbiamo avuto la pazienza di aspettare secoli. Infine abbiamo ottenuto legalmente il diritto di proclamarci Chiesa indipendente. Non vogliono esserci amici? Mi dispiace, ed è una cosa triste da un punto di vista cristiano. Credo che comunque sia una diatriba che riguarda le alte gerarchie della Chiesa. Sono stato al Cairo e a Gerusalemme. Il popolo mi ha sempre accolto con deferenza e simpatia.

Esiste oggi una forte diaspora dei cristiani etiopi all'estero. Come assicurare loro assistenza pastorale?

Fin dall'occupazione italiana nel Paese è iniziata una forte diaspora. Ora ci sono circa 40 milioni di cristiani ortodossi etiopi nel Paese, cinque milioni all'estero, in tutti i Paesi del mondo. In Italia esiste una numerosa comunità. Ma mentre anni fa la diaspora era iniziata sull'onda di questioni politiche, oggi le motivazioni sono essenzialmente di ordine economico. La ricerca di condizioni di vita migliori porta a scegliere l'emigrazione. Molti comunque decidono poi di ritornare e costituiscono oggi una risorsa per la ricostruzione del Paese. Uno dei nostri maggiori problemi oggi è quello dell'assistenza pastorale ai nostri fedeli fuori dal Paese. Abbiamo parrocchie e diocesi in diversi Paesi del mondo, in Europa, America del Nord e del Sud. Ovunque ci siano fedeli cerchiamo di inviare un sacerdote. Abbiamo Chiese anche in diversi Paesi musulmani, dove andiamo in pace per assistere i nostri fedeli. Si tratta di zone dove non siamo mai stati presenti, anche se l'attività pastorale è limitata alla sfera dell'amministrazione dei sacramenti e alle celebrazioni. È un grande impegno, perché siamo una Chiesa povera e non abbiamo grandi possibilità finanziarie.

Santità, più volte ha denunciato la pratica del proselitismo, specie da parte dei gruppi protestanti...

Specialmente negli anni segnati da profonde difficoltà economiche e dai periodi di siccità e carestia, questo aspetto si è reso evidente. In quei frangenti la generosità dei cristiani all'estero si è manifestata con la raccolta e l'invio di aiuti. Per distribuirli sono stati inviati in Etiopia dei rappresentanti che li hanno usati in modo diverso, cioè per attrarre i fedeli nelle proprie comunità. Questa non è l'attitudine dei cristiani. È stato fatto spavaldamente, sfacciatamente. Sappiamo che gli aiuti non provengono dalla persona che li distribuisce direttamente, ma dalla generosa solidarietà di comunità di varie parti del mondo. Ma quei loro rappresentanti si sono comportati in modo egoistico, come gente che vuol essere vincente, la più forte, maggioranza. Credo che solo il cuore semplice e onesto, l'atteggiamento cristiano, è l'unico che risolverà un certo tipo di problemi. Purtroppo questo atteggiamento aggressivo continuerà, non c'è più timidezza (pudore), non c'è più paura. Penso che la gente sia libera di scegliere in cosa credere, ma questo comportamento non è ammissibile... Non è possibile fare leva sulla povertà per condizionare le scelte di fede.

Durante l'occupazione italiana in Etiopia, nel 1937, ci fu la pagina nera di Debre Libanos. Qui il generale Graziani fece sparare su centinaia di monaci e diaconi indifesi. Crede che l'Italia debba chiedere perdono per quell'eccidio?

La richiesta di perdono è un passo importante, una soluzione. Chi si pente merita il perdono. Chiedere scusa è un gesto di comprensione, di coraggio, di forza, non di umiliazione; il segnale di una volontà di costruire permanenti relazioni di pace. L'Italia oggi è in grado di aiutare l'Etiopia nella sua fase di ricostruzione e rinascita. Credo che i fatti di Debre Libanos debbano certamente essere inquadrati nella loro fase storica, quella della colonizzazione dell'Africa. Ma riconoscere il proprio errore potrebbe essere un segno di grandezza di cui andare fieri.

La Chiesa ortodossa etiope è tra i membri fondatori del Consiglio mondiale delle Chiese. Lei è ottimista o pessimista circa il cammino verso l'unità dei cristiani?

La meta dell'unità visibile non è ancora raggiunta. Dobbiamo chiederci tutti insieme perché non siamo riusciti a raggiungere l'obiettivo originale dell'ecumenismo. Da parte mia, credo che abbiamo fallito perché il nostro legame con Dio è stato troppo debole. Indebolendosi questo legame con Dio, si è ridotto anche il nostro amore gli uni per gli altri. La parola stessa di nostro Signore - «ama il prossimo tuo come te stesso» - è disattesa ed è stata sostituita dall'amore per sé. Quando ciascuno pensa a sé, come si può raggiungere l'unità? Questa è la ragione per cui assistiamo ad una tendenza a tradirsi tra Chiese Cristiane, ad un atteggiamento di superiorità, alla tendenza del proselitismo. Sono questi inciampi che ci impediscono di camminare verso la cooperazione fraterna e l'unità delle Chiese.

(Tratto da Mondo e Missione, gennaio 2005, pp. 28-32)

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