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Martedì, 08 Agosto 2006 01:20

Alla luce della Parola (Matta el Meskin)

Alla luce della Parola
(come leggere la Bibbia)
di Matta el Meskin *




La Bibbia di fronte al lettore

La Bibbia è un libro diverso da tutti gli altri: gli altri libri sono scritti dall'uomo, la Bibbia invece non solo contiene le parole e i comandamenti di Dio, ma è anche stata interamente scritta sotto ispirazione divina. Perciò possiamo dire che è il libro di Dio, quello che egli ha dato all'uomo per guidarlo fino alla vita eterna.

Nell'Antico e nel Nuovo Testamento, sebbene il discorso, gli eventi, la storia e tutti i racconti si concentrino sull'uomo, in realtà chi è nascosto in essi è Dio. La Bibbia infatti ci descrive Dio e ce lo rivela attraverso gli eventi. Ma una descrizione completa di Dio non ci è data nello spazio di una generazione né di un libro e nemmeno di un intero periodo storico. È con grande difficoltà che la Bibbia si sforza di darci un'immagine mentale semplificata di Dio, narrando il suo rapporto diretto con l'uomo lungo un arco di cinquemila anni. Questo perché nessuno, in nessuna epoca, sia privato della possibilità di percepire riguardo a Dio qualcosa che appaghi la sua sete, a tal punto che ciascuno può sperimentare un tal fiume di gioia da credere di essere arrivato a conoscere Dio e di averlo compreso in pienezza. Chiunque invece ha l'audacia intellettuale di tentare di mettere da parte i propri limiti umani cercando dentro di sé di percepire un'immagine perfetta di Dio, è destinato a fallire e perde la capacità di raggiungere anche i più piccoli risultati compatibili con la sua statura umana.

È immensamente difficile per l'uomo comprendere Colui i cui giorni non hanno inizio né fine, perché Dio è perfetto e, pur essendo vero che noi possiamo percepirlo, la sua perfezione, come pure tutte le sue opere, restano insondabili.

La Bibbia cerca in molti modi di preparare intimamente l’uomo a ricevere Dio, sia rivelandocelo che facendocelo conoscere. Anche se apparentemente può sembrare che sia l’uomo ad andare incontro a Dio, la gioiosa e meravigliosa verità è che è Dio che viene verso l'uomo, come un amante e un padre pieno d'amore. “Se uno mi ama osservi le mie parole e il Padre mio lo amerà e noi verremo e prenderemo dimora in lui” (Gv 14,23). Questo è il motivo per cui il Signore ci ha comandato di preparare il nostro cuore per la sua venuta benedetta: “Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto” (Sal 57,7).

Così vediamo che la Bibbia nella sua interezza misteriosamente rivela Dio e ci prepara a riceverlo nei nostri cuori, perché possiamo d'ora in poi vivere con lui, preparandoci a ciò che sarà alla fine dei tempi, quando Dio sarà rivelato apertamente e noi lo incontreremo faccia a faccia per vivere con lui per sempre.

Il lettore di fronte alla Bibbia

Esistono due modi di lettura: il primo si ha quando uno legge e pone se stesso e la propria mente come padroni del testo e cerca di sottometterne il significato alla propria comprensione, che confronta poi con quella di altri; il secondo si ha quando uno legge ponendo il testo al di sopra di sé e cercando di rendere sottomessa la propria mente al suo significato, o anche ponendo il testo come giudice su di sé, considerandolo come il criterio più alto.

Il primo metodo è adatto per qualunque libro al mondo, sia che si tratti di un’opera di scienza che di letteratura; il secondo è indispensabile nel leggere la Bibbia. Il primo metodo porta alla signoria dell'uomo sul mondo, che è il suo ruolo naturale; il secondo porta alla signoria di Dio come Creatore onnisciente e onnipotente.

Ma se l'uomo confonde i ruoli di questi due metodi, viene a perdere le potenzialità di entrambi: se infatti legge le opere di scienza e di letteratura come dovrebbe leggere l'Evangelo, rimpicciolisce la sua statura, la sua abilità accademica diminuisce e scema la sua dignità in mezzo al resto della creazione; se d'altro canto legge la Bibbia come dovrebbe leggere le opere di scienza, comprende e sente Dio come qualcosa di piccolo, l'essere divino appare limitato e il timore di Dio si spegne. L'uomo acquista una falsa sensazione di superiorità sulle cose divine: è esattamente l'azione proibita commessa da Adamo agli inizi.

Comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale

Leggendo la Bibbia miriamo dunque alla comprensione e non alla ricerca, all'indagine o allo studio, perché la Bibbia deve essere capita, non investigata. È allora opportuno a questo punto far rilevare la differenza tra comprensione spirituale e memorizzazione intellettuale.

La comprensione spirituale è centrata sull'accettazione di una verità divina che cresce costantemente, sorgendo all'orizzonte della mente fino a invaderla completamente. Se la mente e le sue reazioni sono ricondotte a una volontaria obbedienza a questa verità, la verità divina continua a permeare la mente sempre di più e la mente si dilata con essa senza fine “per conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,19).

È chiaro da questo versetto che la conoscenza e l'amore di Dio, e delle cose divine in generale, sono immensamente superiori al livello della conoscenza umana. È perciò futile e sciocco per l'uomo cercare di "investigare" le cose di Dio, in un tentativo di afferrarle e sottometterle al suo potere intellettuale.

Al contrario, è l'uomo che deve essere sottomesso all'amore di Dio, così che la sua mente possa aprirsi alla verità divina. Allora sarà in grado di ricevere la conoscenza che sorpassa ogni altra. “E così, radicati e fondati nell'amore, abbiate il potere di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità” (Ef 3.17-18).

La memorizzazione intellettuale richiede che una persona passi da uno stato di sottomissione alla verità (attraverso la comprensione) a uno stato di dominio e di possesso su di essa. Richiede che la mente avanzi passo passo attraverso l'investigazione fino a trovarsi allo stesso livello della verità, e poi si innalzi a poco a poco al di sopra di essa fino a poterla padroneggiare, richiamandola e ripetendola a suo piacimento, come se la verità fosse un possesso e la mente il suo padrone.

Perciò la memorizzazione consiste nel determinare la verità, nel riassumerla e definirla nel modo più aderente possibile, così che la mente possa assorbirla e immagazzinarla. Cioè, la memorizzazione intellettuale è il contrario della comprensione spirituale, perché la comprensione spirituale si espande con la verità e la verità con essa fino “a tutta la pienezza di Dio”, cioè all'infinito. La memorizzazione intellettuale invece indebolisce la verità divina e la priva del suo vigore e del suo respiro: non è quindi una via adatta per avvicinarsi alla Bibbia, e porta a risultati minimi.

La memorizzazione spirituale

C'è un altro modo per memorizzare la parola di Dio, per mezzo del quale si può richiamare e riesaminare il testo, sebbene questo non lo si possa fare quando e come uno lo desideri, ma piuttosto quando e come lo desidera Dio. Questa è la memorizzazione spirituale, non intellettuale, e Dio la accorda attraverso lo Spirito santo a quanti comprendono le sue parole: “il Consolatore, lo Spirito santo, che il Padre vi invierà nel mio Nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che ho detto” (Gv 14,26).

Proprio come Dio concede la comprensione spirituale a quelli che con sincerità e onestà chiedono di conoscerlo, “a coloro le cui menti sono aperte a comprendere il testo”, così anche la memorizzazione spirituale è un'opera spirituale che Dio accorda a coloro ai quali è stato concesso di essere suoi testimoni. Quando lo Spirito santo richiama alla nostra mente determinate parole, lo fa con profondità e larghezza di spirito, non semplicemente facendoci ricordare il testo o il versetto, ma dandoci insieme una sapienza irresistibile e il potere spirituale di far emergere la gloria di quel versetto e la potenza di Dio in esso. Inoltre con le parole è inviato uno spirito di rimprovero, allo scopo di compungere il cuore.

Perciò vi è una straordinaria differenza tra la meccanica memorizzazione intellettuale e la memoria attraverso lo Spirito santo.

Nondimeno l'uomo deve prepararsi a questa memoria, rendendo il suo cuore consapevole della parola di Dio, meditandola frequentemente e immagazzinandola nel suo cuore con amore e diletto: "quando le tue parole mi vennero incontro, io le divorai” (Ger 15,16) ed esse erano “più dolci del miele alla mia bocca” (Sal 119,103). L'uomo così disposto le ripete costantemente a se stesso: “sulla tua legge ho meditato giorno e notte” (Sal 1,2), e ogni volta che incontra una parola che possa essergli utile la imprime nel suo cuore: “Ho conservato le tue parole nel mio cuore per non peccare contro di te” (Sal 119,11), proprio come ammonisce Dio chiedendo di parlare di esse “quando siedi in casa tua e quando cammini per strada, quando ti corichi e quando ti alzi. E tu le legherai come segnale alla tua mano e saranno come pendaglio tra i tuoi occhi” (Dt 6,8-9).

Ora, c'è una grande differenza tra un uomo che medita la parola di Dio perché è dolce e vantaggiosa alla sua anima, rallegra il suo cuore e consola il suo spirito, e uno che medita su di essa per ripeterla ad altre persone, per potersi distinguere come maestro e abile servitore dell' Evangelo. Per il primo la Parola rimane salda, perché fonda una consapevolezza del cuore o una relazione con Dio; per il secondo la Parola passa semplicemente nella memoria intellettuale, dove egli può usarla per tessere relazioni con gli altri.

Così, se uno cerca di leggere la Bibbia e imparare a memoria i versetti per usarli nell'insegna- mento alla gente e per una testimonianza fatta di parole - senza prima aver sottomesso se stesso alla verità divina, in modo da agire conformemente ad essa e da aprire la mente per ricevere comprensioni spirituali - egli ne ricava soltanto delle conoscenze e non dà una testimonianza utile, per quanti versetti o dimostrazioni chiare possa presentare con grande abilità intellettuale; lo Spirito infatti lo avrà abbandonato. Il peggior uso che possiamo fare della Bibbia è utilizzarla solo come fonte di versetti dimostrativi.

La comprensione spirituale delle parole, dei comandamenti e degli insegnamenti di Dio è il nostro penetrare nel mistero dell'Evangelo: “A voi è stato dato di conoscere i misteri del regno di Dio” (Mt 13,11). Il segno poi della comprensione spirituale è la sensazione di un'inesauribile sorgente interiore di intuizioni spirituali riguardanti la parola di Dio e la percezione che ogni verità è collegata a tutto il resto. Allora l'uomo diventa capace di collegare nel proprio cuore ogni verset to che legge con un altro versetto e ogni intuizione si dilata in armonia con un'altra, cosicché l'Evangelo diventa facilmente un tutto unitario.

Questa condizione non è raggiunta solo da chi ha speso molti anni nella lettura della Bibbia. È possibile che a qualcuno con un'esperienza di pochi mesi sia concesso di percepire questa sensazione, così da essere capace, usando i pochi versetti che gli sono familiari, di parlare di Dio con uno zelo, una sincerità e una forza tali da attirare a Dio il cuore degli altri. A costui basta leggere un versetto una volta sola perché gli resti poi indelebilmente impresso nel cuore per sempre, perché la parola di Dio è spirituale; in un certo senso è addirittura spirito, come dice il Signore: “Le parole che vi ho dette sono spirito e vita” (Gv 6,63).

Introduzione pratica alla comprensione dell' Evangelo

Non esiste alcun mezzo intellettuale per entrare nell'Evangelo, perché l'Evangelo è spirituale. Deve essere obbedito e vissuto attraverso lo Spirito, prima di poter essere compreso. Se qualcuno, che vive fuori dell'Evangelo cerca di capirlo, inciamperà e cadrà, e se osa cercare di insegnarlo sarà una pietra d'inciampo per quelli che lo seguono. Ma se qualcuno ha uno zelo autentico, un amore ardente e un'obbedienza totale a Dio ed esegue fedelmente anche un solo comandamento dell'Evangelo, questi penetra nel mistero dell'Evangelo senza esserne consapevole.

La prima cosa che scopre è la fedeltà di Dio nel compiere, nella sua anima, le promesse. Ciò rende la sua mente desiderosa di ricevere la scintilla della fede viva che accende nel cuore un grande fuoco di amore e di timore di Dio e ve lo fa ardere. L'esperienza spirituale di una persona e il grado della sua comprensione dell'Evangelo si approfondiscono proporzionalmente al grado di obbedienza fedele e puntuale ai comandamenti dell'Evangelo stesso.

Una sincera e umile accettazione dell'obbedienza a Dio, che scaturisce da un cuore non macchiato da falsità, ipocrisia, amore del mettersi in mostra o esibizionismo, e che non cerca qualche particolare risultato, può essere considerato l'inizio della vera via alla conoscenza di Dio. Infatti, quando l'uomo cerca di osservare i comandamenti, la sua intenzione è messa alla prova da tentazioni. Egli è aiutato a seconda del grado della sua fede e della sua perseveranza e, nella misura in cui riceve aiuto, la sua fiducia aumenta e la sua conoscenza di Dio e delle sue vie cresce più sicura.

Questo per dire che la comprensione spirituale dell'Evangelo e di Dio è il risultato del nascere di una relazione con Dio attraverso l'obbedienza ai suoi comandamenti. Non si tratti semplicemente di una comprensione di testi e versetti, bensì di una comprensione del potere della Parola e di una conoscenza della vita che scaturisce dal versetto, basate sull'esperienza, la fiducia, la testimonianza e su un'incrollabile fede in Dio.

Un eccellente esempio di lettura e comprensione dell'Evangelo

Il più grande comandamento attraverso cui l'uomo può sperimentare la provvidenza di Dio e ottenere il potere spirituale che svela i misteri e i segreti della Bibbia e illumina il cammino, è che l'uomo lasci ogni cosa e segua Cristo. Questo comandamento riassume infatti l'intero Evangelo. Questo è il versetto che sant'Antonio ascoltò: ne fu profondamente colpito e lo osservò con precisa determinazione. Così facendo raggiunse una vita in accordo con l'Evangelo e una comprensione, una conoscenza e una memoria della Bibbia che stupiva gli studiosi e i teologi, come sappiamo da sant'Atanasio il Grande. E tutto ciò, nonostante che Antonio non sapesse né leggere, né scrivere.

Molti Padri seguirono lo stesso modello e si verificarono in loro le stesse meraviglie, perché raggiunsero le vette della conoscenza della Bibbia, di Dio e della direzione spirituale, pur essendo analfabeti. Tra questi c'erano i grandi monaci Pambo e Pafnuzio, discepolo di Macario il Grande, di cui Palladio dice che aveva la grazia della conoscenza dei libri sacri e dell'arte di trasmetterli, sebbene non sapesse leggere né scrivere.

Molti altri nel mondo, uomini o donne, colti o ignoranti, sono entrati nel mistero dell'Evangelo attraverso uno fra i molti comandamenti, come la povertà volontaria e la semplicità di vita, rifiutando di mettere da parte del denaro per le eventuali necessità e mettendo la loro fede in Dio al di sopra di tutte le altre considerazioni. Attraverso ciò hanno sperimentato le meraviglie di Dio, le loro menti sono state aperte, hanno percepito il mistero del piano divino e capito le parole di Dio essendo persone che le sperimentavano nella vita quotidiana e le realizzavano. In questo modo erano capaci di evangelizzare con grande fede e coraggio.

Altri hanno abbracciato il rinnegamento dei piaceri mondani e dei divertimenti privi di vita; hanno sperimentato il potere della parola di Dio e trovato in essa grande consolazione e delizia; hanno capito che l'uomo vive della Parola più che del cibo e della scienza medica; hanno conosciuto Dio e lo hanno gustato e le loro menti sono state illuminate dalle sue parole.

Altri invece sono entrati nel mistero dell'Evangelo attraverso atti segreti di sacrificio, offrendo il loro denaro, le loro energie, il loro tempo per servire i poveri, gli indigenti, gli afflitti e i curvati dalle più svariate tribolazioni. Essi hanno agito con muto coraggio, dando tutto quanto avevano e sopportando ogni cosa al limite delle proprie possibilità. Tutti costoro hanno acquistato conoscenza, intuizione e comprensione dell'Evangelo e dei comandamenti del Signore, ma non la comprensione che deriva dal meditare sulla bellezza delle parole e della spiegazione del loro significato. La loro comprensione è invece quella che sgorga dall'esperienza ed è trasformata in vita eterna, perché costituisce una relazione vivente tra l'uomo e Cristo.

La meditazione accademica e la meditazione pratica

Vi è una comprensione accademica della meditazione della bibbia e ve n'è una pratica.

La meditazione accademica è il prodotto di idee derivanti dallo studio e dalla ricerca, dalla riflessione sul significato dei versetti e sui loro reciproci legami, è l'insieme di ragionamenti che arrivano a cogliere i fatti attraverso un processo di deduzione logica.

La meditazione pratica consiste nell’ispirazione che l'anima percepisce come risultato della propria esperienza, delle prove e delle lotte con la verità sostenute nel corso della sequela dei comandamenti evangelici. A questo si aggiungono anche la luce e i dettami dello Spirito, che l'uomo riceve nel giusto momento, senza aver in precedenza acquisito la conoscenza delle cose rivelategli.

La meditazione accademica della Bibbia stimola la mente, ma non mette in moto lo spirito; rende l'ascoltatore desideroso della verità senza mostrargli come accedervi; fornisce un'immagine di Dio, ma non può portare al faccia a faccia con Dio.

Questa discordanza della meditazione accademica rispetto all'esperienza spirituale e al segreto adempimento dei comandamenti porta a un culto puramente formale e a una falsa devozione intellettuale all'Evangelo. “Questo popolo mi onora con le labbra, ma i loro cuori sono lontani da me” (Mt 15,8).

Per quanto deplorevole, è questo il tipo di lettura, di comprensione, di esperienza e di insegnamento della Bibbia oggi più diffuso nella nostra Chiesa e, a dire il vero, in tutto il mondo. L'Evangelo è stato ridotto a una fonte da cui si possono citare dei versetti o in base alla quale dimostrare dei principi, e le idee che contiene sono diventate punti accademici per avvalorare sermoni e articoli. Così l'Evangelo è diventato una strada sicura per acquistar fama, titoli accademici e ammirazione mondana, anche se i fondamenti dell'Evangelo e la verità che contiene sono all'opposto della fama e della falsa sapienza del mondo, sono i nemici dell'ammirazione degli uomini. La chiesa subisce dunque una grave perdita quando abbandona l'insegnamento pratico della Bibbia e si occupa di quello accademico.

Quanto alla meditazione pratica della Bibbia, essa si raggiunge accogliendo la verità divina attraverso la segreta obbedienza ai comandamenti e come risultato della fedele adesione del cuore a Dio, con dovuto timore e autentica umiltà. Questo è il fondamento di una relazione pratica e sicura con Dio.

Ciò significa che la meditazione pratica edifica una vita interiore con Dio la quale infonde nelle parole, nei pensieri e negli insegnamenti dell'uomo la potenza divina. Così l'uomo può, con una sola parola, comunicare la verità all'ascoltatore, proprio come facevano i Padri, i quali vivevano l'Evangelo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze. Le loro parole non erano eloquenti o ripiene di ampollose meditazioni, ma trasmettevano il mistero, perché avevano il potere di conferire una vita nuova all'ascoltatore.

Nei detti dei padri monastici del IV secolo, e di quelli successivi, questo era lo schema tipico in cui veniva data l'istruzione: un novizio andava da un anziano e diceva: “Dimmi una parola, che io possa vivere”. L'anziano gli diceva poco o niente, ma a causa della potenza della sua esperienza e della grazia contenuta in essa, questo poco bastava al novizio per vivere e superare tutte le difficoltà che incontrava. Questa è l'immagine più vera di come l'Evangelo deve essere compreso e predicato. Quanto appropriate sono per noi, oggi, le parole dell'Evangelo secondo Giovanni: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17).

La potenza di una vita di effettiva semplicità

Se guardiamo indietro agli albori della chiesa, siamo sorpre si della sua forza, soprattutto di quella delle chiese appena fondate. Nonostante si trattasse di persone semplici, che non conoscevano la Bibbia – perché solo raramente un singolo cristiano possedeva dei manoscritti – e nonostante la loro fede in Cristo fosse recente e i precedenti costumi pagani avessero una profonda influenza, la loro vita spirituale e la manifestazione di fede, amore e zelo erano chiaro esempio di una vita robusta vissuta in accordo con i precetti dell'Evangelo, modello per una comprensione concreta del significato della vita eterna del regno di Dio, del vivere per fede, del morire al mondo, della fedeltà a Cristo, dell'attesa della sua seconda venuta e di una fede viva nella risurrezione. Ancor oggi facciamo ricorso alla loro fede e alla loro tradizione e solo a fatica comprendiamo le lettere inviate loro, quelle lettere che essi comprendevano facilmente e mettevano in pratica. Il segreto di tutto questo è che vivevano di quello che ascoltavano: ogni comandamento cadeva in cuori fedeli, disposti ad agire sinceramente di conseguenza; tutte le parole di Cristo penetravano profondamente nel tessuto della vita quotidiana, l'Evangelo era tradotto in azione e vita.

Queste persone semplici capivano l'Evangelo, capivano che era vita da essere vissuta, non principi da discutere, e rifiutavano di comprenderlo a livello puramente accademico. Fino a oggi quanti sono alla fedele sequela di Cristo traggono ancora vita per se stessi dalla sorgente viva della comprensione dei primi cristiani.

Queste prime comunità, ardenti di amore per Cristo, non avevano alcun credo, né patrologia, né interpretazione della Scrittura, ma le poche parole di Cristo che raggiungevano le loro orecchie diventavano immediatamente il loro credo, senza bisogno alcuno di spiegazione o insegnamento o interpretazione, ma bisognose solo, come essi compresero, di essere sperimentate e vissute. Attraverso l'esperienza scoprivano costantemente la potenza delle parole e portavano alla luce i misteri in esse contenuti. E così il loro zelo, il loro amore e la loro fede in Cristo e nell'Evangelo crescevano costantemente.

Quando ascoltavano: “Beati i poveri nello spirito” vendevano tutto e deponevano il denaro ai piedi degli apostoli.

Quando ascoltavano: “Beati quelli che ora sono afflitti” non badavano alle sofferenze e alle fatiche nel servizio del Signore.

Quando ascoltavano: “Beati i perseguitati a causa della giustizia” sopportavano le più crudeli umiliazioni, gli insulti e le aggressioni.

Quando ascoltavano: “Vegliate e pregate” si riunivano nelle catacombe per vegliare e pregare tutta la notte.

Poiché ascoltavano: “Amate i vostri nemici”, la storia non registra alcuna resistenza opposta dai cristiani, né attiva, né passiva, contro i loro persecutori. E piegarono il loro collo alla spada in umiltà e obbedienza per onorare le parole di Cristo.

Questo significava per loro leggere l'Evangelo e comprenderlo. In loro era nata la fame e la sete per la giustizia di Dio ed è per questo che lo Spirito santo aveva piena libertà di operare con loro: da quel momento avrebbe conferito potenza alla parola, rinsaldato i loro cuori, li avrebbe sostenuti nelle debolezze, guidati nell'oscurità, nell'angoscia e accompagnati nel cammino fino a quando, con grande gloria, avrebbero consegnato lo spirito nelle mani del loro creatore.

Lettura senza applicazione pratica e lettura realizzata

La lettura resta priva di utilità, la comprensione priva di forza, la memorizzazione una pura ripetizione di parole vuote se uno non si sottomette all'obbedienza del comandamento che legge e se la Parola non diventa una norma di vita, qualunque sia il sacrificio, il costo, la fatica o il disprezzo che ciò può generare. Il Signore Gesù dice anche molto di più, afferma che chiunque legge le sue parole e le capisce, ma non vi obbedisce, subirà distruzione e grande danno, come un uomo che fonda la sua casa sulla sabbia. “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti, e la sua rovina fu grande” (Mt 7,26-27).

Forse potete convenire con me che sarebbe stato meglio se non avesse costruito nulla, o ascoltato o conosciuto o imparato alcunché.

La vita dei farisei, dei sadducei era di questo tipo: obbedienza minuziosa alla legge, spiegazione ed esposizione qualificata dei comandamenti, pareri legali così dettagliati da oltrepassare la verità e la semplicità dello Spirito, il tutto riunito a opere morte e a una vita spiritualmente in rovina. “Ed ecco, un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene: fa' questo e vivrai»” (Lc 10,25-28).

Invece il Signore paragona chi ascolta le parole e vi obbedisce a un uomo che costruì la sua casa sulla roccia. Questo è segno che la potenza della Parola è interamente dipendente dall'esperienza pratica che uno ha di essa, poiché l'aiuto lo si può ricevere e lo si può conoscere solo nelle difficoltà e nel pericolo, e il misterioso soccorso dello Spirito santo solo attraverso l'obbedienza sincera ai precetti dell'Evangelo. Una parola posta sulle labbra di un uomo, se questi veramente vive di essa, è simile a una casa fondata sulla roccia; è salda e non deve temere alcun disastro: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia; cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sulla roccia” (Mt 7,24-25). A questo punto direte con me: “Oh, se solo la mia casa fosse fondata sulla roccia, e la mia lettura, la mia comprensione e la mia conoscenza dell'Evangelo fossero usate per vivere, e non come argomento su cui parlare e predicare, come soggetto di conversazione e di meditazione!”.

Un triste esempio di grande conoscenza senza realizzazione

Balaam era un veggente, capace di vedere nel futuro e dotato di poteri profetici: era quindi in grado di ascoltare e parlare delle meraviglie di Dio. Ma fu rigettato e divenne un avvertimento terribile e un esempio di quelli che annunciano la parola di Dio, sono capaci di svelare misteri, di fare profezie autentiche, di pronunciare benedizioni e offrire sacrifici, come Balaam, mentre i loro cuori sono impuri perché vivono segretamente lontano da Dio. Ascoltate cosa dice di se stesso: “Oracolo di Balaam, figlio di Beor, oracolo dell'uomo dall'occhio penetrante, oracolo di chi ode le parole di Dio e conosce la scienza dell'Altissimo, che vede la visione dell'Onnipotente, e cade ed è tolto il velo dai suoi occhi” (Nm 24,15-16). Ma tutti questi doni non furono sufficienti per stornare il cuore di Balaam da una condotta malvagia. Balaam cadde in un grave errore, come dicono i santi apostoli: Giuda nella sua lettera (Gd 11), Pietro nella sua seconda lettera (2Pt 2,15) e Giovanni nel libro dell'Apocalisse (Ap 2,14). Anche se esternamente benediceva il popolo di Dio, segretamente stava agendo contro di esso con un consiglio malvagio e si compiaceva di ricevere una ricompensaper quel peccato.

Balaam raggiunse il massimo grado di conoscenza, di comprensione, di visione e profezia accessibile all'uomo spirituale, ma il suo comportamento non era migliore di quello del più malvagio e disonesto tra gli uomini. La sua storia mostra chiaramente che la comprensione e l'insegnamento delle cose spirituali, anche a livello della profezia, se non sono sorretti da una vita e una condotta sante, nell'integrità e nel timore di Dio, non ci possono salvare dalla maledizione e dalla morte che sigillarono la vita di Balaam.

“Fate attenzione dunque a come ascoltate”

Prima di leggere la Bibbia o ascoltare la parola di Dio, guardate in voi stessi per vedere dove la parola di Dio andrà a posarsi. Torniamo a questo punto alla tanto amata parabola del seminatore.

“I semi caduti lungo la strada sono coloro che hanno ascoltato; ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo e nell’ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine, sono coloro che dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza” (Lc 8,12-15). “Fate attenzione dunque a come ascoltate” (Lc 8,18).

Di fronte all'annuncio dell'Evangelo ci sono quattro tipi di ascoltatori: non c'è bisogno di spiegazioni o chiarimenti, perché il Signore Gesù l'ha fatto lui stesso. Perciò guardate e vedete come il Signore dice che dovete ascoltare: con un cuore che trascorre la giornata al margine della strada? oppure con un cuore che non ha profondità, perché ha paura di sedersi in disparte a esaminare la propria vita? o con un cuore propenso a mettere da parte denaro come assicurazione per il futuro? o con un cuore sempre appesantito da preoccupazioni immaginarie?

Fate attenzione a come dovete ascoltare l'Evangelo. Sembra che il Signore voglia dire che uno ascolta con il cuore più che con le orecchie, e che la sua vita interiore influisce sulla parola di Dio: o uccidendola oppure facendola vivere e crescere rigogliosa. Così chiunque vuol ascoltare bene la Parola, comprenderla e custodirla in un cuore integro e buono, deve preparare interiormente il suo cuore, in modo che la Parola possa mettervi radici senza correre rischi, trovando in esso fedeltà a Dio e veracità nelle parole e nelle promesse. È assolutamente impossibile che uno possa capire quel che ascolta della parola di Dio, se non è assolutamente onesto di fronte a Dio e non ha deciso di rinunciare alla propria vita, agli incarichi, agli interessi, al denaro, al futuro e all'amor proprio per deporli ai piedi di Dio.

Infatti come può un uomo timoroso per il futuro comprendere questa parola del Signore: “Non affannatevi per il domani” (Mt 6,34) e “Non datevi pensiero per la vostra vita” (Lc 12,22)? E come può capire la croce chi si interessa del proprio onore? Come può comprendere la risurrezione chi ha paura della malattia e della morte?

Chi chiede di leggere l'Evangelo sta di fatto cercando la vita eterna e chi cerca la vita eterna deve assumere una posizione chiara nei confronti della sua vita presente!

La smemoratezza della Parola è un inganno psicologico

Non c'è illustrazione migliore di quella dataci dall'apostolo Giacomo quando descrive l'uomo che ascolta la parola dell'Evangelo e la dimentica come uno che vede la propria faccia in uno specchio, ma non appena lascia lo specchio dimentica qual è il suo aspetto. Infatti, chiunque disprezza la Parola che ascolta, perde immediatamente la percezione di sé.

Vi sono alcuni che porgono l'orecchio all'Evangelo, accolgono la Parola e la ripongono nel tesoro del proprio cuore. Sono sempre consapevoli dell'istruzione ricevuta e la pongono davanti a sé come uno specchio, servendosene continuamente per correggere le proprie azioni.

Vi sono altri invece che porgono l'orecchio all'Evangelo, ma non una sola parola di quel che ascoltano resta nel loro cuore, perché sono smemorati, non sanno valutare il peso delle cose e sono preoccupati da questioni per loro più importanti dell'Evangelo e della vita eterna, quali possono essere il lavoro, le preoccupazioni, i piaceri, tutte cose che essi possono considerare come facenti parte del servizio di Dio. Oppure nel loro cuore può non esserci assolutamente nulla, e anche questo è un disastro, perché mentre leggono l'Evangelo possono essere così commossi da gemere e persino piangere, ma in seguito restano invischiati nei propri affari e dimenticano sospiri e lacrime. Persone di questo tipo possono pensare che la loro smemoratezza sorpassa le capacità di controllo che possiedono, ma questo è un inganno psicologico. La verità è che l'anima vuol dimenticare l'Evangelo, perché l'Evangelo non le piace.

Uno può leggere l'Evangelo con regolarità ogni giorno, ma percepire una distanza incolmabile tra quello che ogni giorno legge e quello che ogni giorno fa. Questa distanza incolmabile è scavata dalla smemoratezza. Con il passare dei giorni la lettura dell'Evangelo è privata della sua potenza e efficacia, e non avviene alcun cambiamento di vita né alcun progresso nel cammino.

Questa smemoratezza è quel che l'apostolo Giacomo chiama autoillusione: ”Accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime. Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era” (Gc 1,21-24).

L'orecchio incirconciso

Questa espressione, così ricca di significato spirituale, fu pronunciata dal santo martire Stefano davanti al sinedrio riunito per giudicarlo, quando percepì che i membri di quell'assise stavano resistendo allo Spirito santo per assecondare i loro disegni.

“O gente testarda, incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito santo” (At 7,51).

Lo Spirito santo parla a noi attraverso l'Evangelo, ma solo l'orecchio circonciso può sentire la sua voce, cioè l'orecchio dal quale è stato rimosso il prepuzio. Con prepuzio Stefano intende la mancanza di sottomissione a Dio e l'avere un cuore troppo lontano da Dio per ascoltarne la voce. Quelli che hanno le orecchie o i cuori incirconcisi sono stranieri in mezzo al popolo di Dio: non comprendono i suoi comandamenti o non vi si adeguano, perché guardano a se stessi come a persone che non devono obbedire ad alcun impegno.

Colui il cui orecchio è incirconciso non ascolta lo Spirito, né viene da esso influenzato, né gli obbedisce. Di sua propria volontà, infatti, ha rifiutato di sottomettersi allo Spirito santo, senza provarne timore. Teme che lo Spirito possa chiedergli di rinunciare a cose, o posizioni, o principi, o relazioni che trova benefiche, o piacevoli e importanti per lui personalmente. Rinunciarvi sarebbe una perdita che egli non vuole accettare, così ha paura che lo Spirito santo possa chiedergli di agire contro se stesso e contro il mondo, perché il suo io gli è caro e il mondo è la sua delizia. L'uomo che ha l'orecchio incirconciso è colui che non ha reciso il prepuzio del suo io e non vuole recidere il prepuzio del mondo né dal suo cuore né dal suo orecchio. Non è mai disposto a sacrificare qualcosa o, per lo meno, non è disposto a sacrificare tutto per Dio. Ascolta lo Spirito santo ma non gli presta alcuna attenzione, cercando ogni volta di soffocare la voce della coscienza. Fin dall'inizio si è esonerato dalla responsabilità di ascoltare la voce di Dio.

Questa situazione era già stata descritta dal profeta Isaia e il Signore stesso ne ha fatto un significativo commento: “Vedendo non vedono e ascoltando non ascoltano e non comprendono (...). Perché il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi, e non intendere con il cuore, e convertirsi, e io li risani” (Mt 13,13-15; Is 6,9).

Qui il Signore denuncia l'intenzione dei suoi ascoltatori: facevano mostra di leggere e ascoltare i comandamenti di Dio, ma in realtà erano ben decisi a non lasciarsi influenzare. Così chiudevano i loro occhi e le loro orecchie in modo da non vedere e non sentire. Per questo il Signore denunciò le loro motivazioni: in realtà avevano paura che la voce di Dio risuonasse talmente chiara e che il biasimo dello Spirito santo diventasse così persuasivo da essere forzati a rinunciare alle loro posizioni errate e agli indebiti possessi, ai piani che avevano fatto per il futuro e alle peccaminose relazioni per le quali avevano venduto l'anima, e non solo l'anima, ma anche la vita eterna e persino Dio stesso. Essi, come molti di noi, non rifiutavano di leggere o ascoltare l'Evangelo, ma quando giungevano a certi passi, a certe frasi o a certi comandamenti, rimanevano confusi e li tralasciavano velocemente e chiudevano gli occhi, fuggendo ansiosamente lontano dalla voce dello Spirito santo. In questa situazione l'orecchio incirconciso rivela se stesso, poiché è disturbato dalla voce di Dio e la evita, proprio come il serpente chiude le orecchie per non ascoltare la voce dell'incantatore, per non obbedire né sottomettersi a lui: “O stolti Galati! Chi vi ha incantato affinché non aveste a obbedire alla verità?” (Gal 3,1; 5,7).

Fermiamoci un momento e torniamo ai passi e ai versetti e ai comandamenti che abbiamo evitato deliberatamente con vile determinazione. I nostri cuori protestavano per la nostra caparbietà, tremavano e battevano in fretta e con dolore, poiché eravamo consapevoli di opporre resistenza allo Spirito santo, rischiando la morte e l'allontanamento da Dio con questo andare per vie traverse. Correggiamo in fretta il nostro atteggiamento nei confronti della voce di Dio! Forse è questa l'ora per impadronirci pienamente del nostro io, per spezzarne l'ostinazione e l'orgoglio, per troncarne i piaceri e le paure e volgerci a seguire la voce di Dio. “Ricorda da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima. Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (Ap 2,5).

Può darsi che vi dispiaccia essere messi di fronte al vostro desiderio di grandezza e di comando, o alla vostra impurità e inimicizia, alla malizia e all'odio verso quelli che minacciano i vostri interessi, alla vostra slealtà o crudeltà, all'ingiustizia o ai vostri loschi giudizi, oppure alla vostra disonestà, al furto, all'illecito acquisto di beni, alla vostra mancanza di fiducia in Dio e al confidare nel denaro e nell’assicurazione per il futuro; oppure si può trattare di qualcosa di più di tutto questo, poiché state scappando con tutto il vostro essere lontano dal volto di Dio. Non avete alcun appoggio su terreno sicuro e state cercando ora di nascondere la vostra faccia da Colui che siede sul trono ”chiudendo i vostri occhi per non vedere!" (cf. Lc 8,10). In questa situazione, leggere l'Evangelo non è di alcuna utilità e ascoltarlo è solo causa di giudizio.

All'orecchio circonciso, invece, il prepuzio è stato tolto e non c'è più alcuna barriera che gli impedisca di ascoltare la voce di Dio, come per l'orecchio del giovane Samuele, che viveva in purezza e umiltà nel santuario: “Parla o Signore, perché il tuo servo ascolta” (1Sam 3,10). L'orecchio è aperto all'autorità dell'Evangelo e gioiosamente sottomesso alla voce di Dio, vigile alla sua chiamata, pronto a rispondere, qualunque cosa venga chiesta. Infatti chi ha l'orecchio circonciso è pieno di coraggio e capace di sostenere azioni contro se stesso in obbedienza alla voce dell'Altissimo. Il cuore che è pronto ad accettare le grandi richieste di Dio è capace di percepire ogni inflessione nella voce di Dio e non si lascia sfuggire nemmeno una parola.

Se a questo punto qualcuno mi chiedesse: “Come posso acquistare un orecchio che ascolta la voce di Dio?”, risponderei: “Prepara innanzitutto te stesso ad accogliere le sue domande, le sue richieste e indicazioni, e sii pronto nel tuo cuore a portarle a compimento, qualunque ne sia il prezzo. Immediatamente avrai un orecchio che ascolta la voce dell'Altissimo!”. “Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio, e io non ho opposto resistenza” (Is 50,4-5).

Onorare la lettura e l’ascolto dell' Evangelo

L'uomo che è consapevole di Dio non permette che la parola dell'Evangelo gli sfugga o sia dimenticata. Egli invece con rispetto, venerazione e timore ne fa una corona per la sua testa e la pone al di sopra di tutta la sua vita.

L'ardore degli uomini di fede è estremamente evidente quando ascoltano l'Evangelo: sembrano entrati alla presenza di Dio, o in piedi presso l’altare, in procinto di ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Non è che abbiano semplicemente preso l’abitudine di onorare l'Evangelo, o che fingano di comportarsi così, come gli ipocriti: la realtà è che dall'ascolto dell'Evangelo ricevono potere su potere, come se stessero ascoltando la voce di Dio stesso.

Tutto ciò era molto chiaro nella chiesa primitiva e la chiesa conserva ancora lo stesso zelo, rispetto e venerazione verso la lettura e l'ascolto dell'Evangelo. La tradizione della chiesa ha conservato alcuni gesti significativi, ed è per questo che il prete non potrà mai leggere l'Evangelo in chiesa senza aver prima innalzato una preghiera particolare perché lui e l'assemblea possano esser resi degni di ascoltare il santo Evangelo. Prima di incominciare a leggere, il diacono chiede a tutta l'assemblea di alzarsi in piedi nel timore di Dio per ascoltare l'Evangelo e tutta l'assemblea risponde alla sua richiesta e glorifica Dio. Inoltre il prete si toglie le scarpe per leggere l'Evangelo, perché sta alla presenza di Dio. Poi, dopo la lettura, l’intera assemblea passa in fila a baciare con gioia e lacrime l'Evangelo che il prete tiene aperto in mano. Nella chiesa primitiva la gente faceva questo spinta dallo zelo, dal timore e dall'amore per l'Evangelo ed esso è rimasto come un rito nella chiesa.

Coloro che hanno sperimentato la potenza dell'Evangelo nella loro vita non considerano ciò eccessivo, ma vanno anche oltre nel mostrare la loro venerazione: ci sono alcuni che digiunano sempre prima di leggere l'Evangelo; altri, quando leggono l'Evangelo da soli, si inginocchiano; altri ancora lo leggono sempre con pianto e lacrime.

Gli ammaestramenti di Dio all'uomo sono per lo più dati attraverso la lettura e l'ascolto dell'Evangelo, quando uno si trova in condizione di umiltà e preghiera, con un cuore aperto.

La voce del Figlio di Dio

“Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il Signore non solo bussa alla porta del cuore, ma anche chiama le sue pecore per nome, così che possiamo udire e aprire per lasciarlo entrare nelle nostre vite, affinché condivida con noi le lacrime che sono nostro cibo e condivida poi con noi il suo banchetto nuziale.

Non abbiamo bisogno di andare alla ricerca di Dio, come se fosse nascosto lontano; in questo modo non faremmo altro che consumarci nella ricerca riflettendo, meditando e andando a investigare nei libri. In ogni momento egli sta davanti a noi, alla porta del nostro cuore e non se ne allontana mai. Colpi della sua mano alla porta sono le sue parole ed egli non cessa mai di bussare, ogni giorno della nostra vita, così che lo spirito può destarsi dal sonno e distinguere la voce dell'Amante.

Non abbiamo bisogno di ricorrere ad ardenti suppliche, a lacrime e implorazioni commoventi, perché il Signore venga a noi: egli infatti è sempre presente e sta bussando anche in questo momento. E non smetterà, perché vuol entrare nelle nostre vite: è con noi infatti che egli trova riposo; condividere con noi la nostra croce e il buio della nostra notte è la sua gioia più grande, poiché egli ama ancora la croce.

Siamo noi invece che non diamo il giusto peso alla sua voce, attribuendole erroneamente poca importanza e disprezzandola.

Maria Maddalena subì la stessa tentazione quando sedette piangendo presso la tomba e credette che il Signore, che stava in piedi davanti a lei, fosse il giardiniere. Allora cominciò a implorarlo di darle il corpo di Gesù per poterlo avvolgere in un lenzuolo. Ma il Signore, non sopportando più a lungo il suo lamento, la chiamò per nome ed ella lo riconobbe immediatamente. Quante volte ce ne stiamo piangenti, guardando lontano verso il cielo, dove pensiamo che il Signore Gesù viva! Egli è presente e sta in piedi davanti a noi e tutto quello che ci impedisce di incontrarlo è la mancanza di percezione del nostro cuore! Quante volte ce ne siamo stati in preghiera davanti a lui, implorandolo di parlarci, sperando che potesse sentirci, ma era tutto inutile! Egli non smette mai di chiamarci per nome, e nulla ci impedisce di ascoltare la sua voce, se non la preoccupazione dei nostri problemi quotidiani.

L'errore che facciamo è quello di volerlo vedere nel tempo, nel mezzo degli eventi quotidiani che riempiono il nostro vuoto mentale ed emotivo. Ma in realtà il Signore è presente ora al di là di tutte queste cose, al di là del tempo e degli eventi, che egli governa secondo il suo piano sapiente. L'anima vigilante e semplice si accorge del tocco della mano del Signore, che scrive la storia della salvezza di ciascuno attraverso gli anni e la successione degli eventi. I nostri successi e i nostri fallimenti, guidati dall'Altissimo, cooperano positivamente alla nostra salvezza. Le sconfitte materiali non sono sconfitte spirituali; l’afflizione, la tristezza, la pena e la malattia sono il linguaggio della divina provvidenza, il suo codice segreto, che una volta decifrato nello Spirito, si traduce in risurrezione, gioia e gloria eterna.

L'altro errore che commettiamo è che vogliamo ascoltare la voce del Figlio di Dio con il nostro orecchio fisico e sentirla parlare un linguaggio umano con la voce di un uomo: ma la voce del Figlio di Dio non può avere questi limiti! Essa è una potenza che trasporta l'anima, la fa risorgere e la ristora; è una profonda, incommensurabile pace, è quiete e consolazione; è la vita stessa nel suo sconfinato respiro e nella sua altezza. Dove trovare allora le parole per esprimere il suo linguaggio e la sua voce?

Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce né muore allo spirare della brezza, né si smorza, né ritorna a lui vuota. E verrà l'ora in cui egli chiamerà e l'intera creazione risusciterà da morte.

“Se uno ascolta la mia voce...”. Ma nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio se non chi si è innalzato nello spirito al livello in cui Dio può guidarlo e chiamarlo, il livello del regno e della vita con Dio, il livello cioè al di sopra degli eventi quotidiani. Qui può ricevere da Dio l'istruzione per la sua vita e un piano per la sua salvezza e questo proprio attraverso gli eventi quotidiani, addirittura servendosene. Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.

Se il vostro orecchio è così addestrato spiritualmente da comprendere i simboli del messaggio divino come si manifestano negli eventi temporali, quando leggerete le parole sentirete la mano di Dio che bussa alla porta. Egli a volte busserà alla porta con delicatezza, a volte forte, e voi ascolterete la sua voce nel clamore e nelle tempeste così come nella brezza leggera. Egli vi chiama perché gli apriate la porta, perché riceviate da lui il mistero del suo banchetto nuziale, dopo aver condiviso il pane delle vostre lacrime.

Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell'uomo, ma profonda, più profonda dell'eternità stessa.


* Matta el Meskin, monaco copto egiziano, è il rinnovatore della vita monastica nel deserto di Wadi el Natrun in Egitto, è il padre spirituale molto conosciuto e stimato dall'intera chiesa copta e da tutti i cristiani presenti in Egitto. Dopo anni di vita eremitica ha inizio il suo irradiamento, giungono molti discepoli e ora attorno a lui, al monastero di S. Macario a Scete, cristiani di ogni estrazione accorrono per ascoltare il suo insegnamento spirituale.


Il presente testo è tratto dall’antologia di scritti di Matta el Meskin dal titolo Comunione nell'Amore, Edizioni Qiqajon, 1986, Magnago VC, a cui si rimanda. (I sottotitoli sono redazionali).



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La fede cambia il credente nella sua vita privata, nella sua vita interiore, ma lo rende sempre anche protagonista di una novità relazionale che riguarda il suo popolo, la sua comunità di vita, la sua discendenza diffusa nello spazio e nel tempo.

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Venerdì, 07 Luglio 2006 21:51

Il Paese delle croci di pietra (Aldo Ferrari)

Il Paese delle croci di pietra
di Aldo Ferrari


La grande cupola bianca dell’Ararat riempie il cielo turchese d’Armenia. Fonte e perno dell’universo armeno, fondale fisso di un paesaggio aspro e immutato, colma gli occhi e la mente con la persistenza propria del simbolo: di una terra e di una storia. La montagna infatti si trova oggi in territorio turco, al confine con la Repubblica armena. Quasi un miraggio, dunque, e insieme un orizzonte inciso in ogni sguardo, memento di tutto ciò che è stato e di tutto ciò che è.

L’Armenia è la più piccola delle quindici entità statali divenute indipendenti in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, e la sua popolazione, a causa della consistente emigrazione degli ultimi anni, è oggi ben inferiore agli oltre tre milioni e mezzo dell’epoca sovietica. Viaggiare in questo Paese significa entrare in contatto con una realtà che porta su di sè l’eredità di un passato tanto lungo e glorioso quanto tormentato. A partire dalle sue stesse dimensioni, che sono circa un decimo di quelle dall’antica Armenia, e che non le consentono oggi di avere un ruolo corrispondente a quello di molti periodi della sua storia. Ma almeno altrettanto importante, in chiave sia storica sia psicologica, è il fatto che tale ridimensionamento sia dovuto essenzialmente alla tragedia epocale del genocidio, che ha non solo sancito la perdita definitiva dei territori armeni occidentali, ma anche l’annientamento o l’espulsione della popolazione che vi abitava ininterrottamente da quasi tre millenni. Un evento cruciale per comprendere sia la diaspora che da esso è in larga misura scaturita, sia le sorti della Repubblica indipendente, che ancora ne subisce le ripercussioni. In primo luogo per i contrasti con la vicina Turchia, che non ha mai riconosciuto il genocidio, e quindi con l’altra Repubblica turca del Caucaso meridionale, l’Azerbaigian, con la quale l’Armenia ha in sospeso il contenzioso sul destino del territorio del Karabagh, abitato in larga maggioranza da armeni ma attribuito a Baku in epoca sovietica. Ciò significa che l’attuale Stato armeno deve fronteggiare non solo gli enormi problemi politici, economici e sociali di ogni Repubblica post-sovietica, ma anche una situazione geo-politica di estrema complessità. In questo compito è peraltro favorito dalla notevole compattezza etnica, mentre la forte coscienza nazionale che anima una diaspora più numerosa della popolazione che vive in patria consente a quest’ultima di non restare isolata e di trovare sostegno in numerosi Paesi del mondo (soprattutto nell’area del Vicino Medio Oriente, in Russia, in Francia e negli Stati Uniti).

Così come l’Ararat, anche la maggior parte dei monumenti del passato sono oggi in Turchia, dove versano in condizioni disastrose. Anche la Repubblica armena è ricchissima di testimonianze storiche e artistiche. Un itinerario attraverso questo territorio non può che iniziare dalla capitale, Erevan. Pur costruita prevalentemente in epoca sovietica, questa città ha nel complesso un aspetto gradevole, grazie ad un’urbanistica equilibrata e al pregio estetico del tufo, la pietra dalle numerose sfumature cromatiche che caratterizza l’architettura armena. Tra i monumenti più celebri è il Matenadaram (Biblioteca nazionale), che custodisce circa 17 mila manoscritti, molti dei quali impreziositi da bellissime miniature. Il fascino principale di Erevan nasce tuttavia dal profilo onnipresente delle sue vette perennemente innevate dell’Ararat, la montagna sulla quale, secondo la tradizione biblica, si arrestò l’arca di Noè. Nelle immediate vicinanze della città sorge il monumento alle vittime del genocidio. Una struttura all’aperto e un museo preservano la memoria della catastrofe che segnò in maniera indelebile la nazione armena.

È comunque lontano dal contesto urbano di Erevan che il genio specifico della cultura armena si manifesta con più intensità. In particolare, l’architettura è caratterizzata da uno stretto legame con l’ambiente; tende infatti ad inserirsi armoniosamente nel territorio, come se sorgesse dalla terra di cui riprende l’ocra e la porpora. Un esempio particolarmente significativo di questa aderenza al paesaggio è costituito da Geghard, un complesso monastico di straordinaria suggestione, costruito nel XIII secolo in un sito di antichi insediamenti eremitici. Rannicchiato nel fondo di una gola, il monastero si sviluppa in parte scavato nel vivo della montagna. Non lontano da Gerghard si trova il tempio pagano di Garni (I secolo d.C.), l’unico giunto sino ai nostri giorni in un’Armenia che per secoli si è intimamente identificata con la fede cristiana. Questa identificazione è stata duramente pagata dagli armeni, prima durante il lungo domino musulmano, poi sotto il «nero velluto della notte sovietica», per dirla con Mandel’stam, autore di “Viaggio in Armenia”. In questa terra ogni monumento cristiano assume pertanto un significato particolarmente intenso, testimoniando in maniera non scontata la fede di un popolo perennemente minacciato. Così a Noravank, un monastero isolato e deserto, costruito tra il XIII e il XIV secolo in una stretta valle con il medesimo tufo rossastro delle rupi circostanti, si ha l’impressione che al tramonto le mura assumano il colore del sangue. Naturalmente è solo una suggestione, indotta dalla conoscenza della dolorosa storia del popolo armeno.

Qui si trova la chiesa di Astvatsatsin (Madre di Dio), del XIV secolo, capolavoro dello scultore e miniatore Momik. Stretti gradini si inerpicano sulla facciata ovest fino all’ingresso, coronato da un timpano con l’immagine della Vergine con il Bambino attorniata dai santi Pietro e Paolo.

Quasi al confine con la Turchia, il profilo del monastero di Khor Virap (XVII secolo) si staglia contro il monte Ararat. Il nome in armeno significa “fossa profonda”. Al suo interno infatti è possibile discendere nella grotta in cui sarebbe stato imprigionato per tredici anni san Gregorio l’Illuminatore, colui che convertì l’Armenia la cristianesimo nei primi anni del IV secolo.

Non lontano sorge la cittadina di Etchmiatzin, il cui nome significa “l’Unigenito è disceso”, poichè Cristo vi apparve a san Gregorio. Qui risiede la suprema autorità della Chiesa armena, il “katholikos di tutti gli armeni”. Oltre alla cattedrale fondata da san Gregorio agli inizi del IV secolo, ricostruita nel V e nel XVII, vi si trovano alcune tra le più antiche e splendide chiese armene: ,Shoghakat (VI secolo, ricostruita nel XVII), che significa “effusione di luce”, e quelle intitolate alle sante vergini Gayanè e Hripsimè, edificate entrambe nel VI secolo. Nelle vicinanze di Etchmiatzin si incontrano anche le rovine dell’imponente chiesa di Zvartnots, del VII secolo, la cui ambiziosa e originale struttura non ha retto ai violenti terremoti che di frequente colpiscono questa regione. La corona di colonne superstiti lascia trapelare la leggendaria magnificenza di tempi passati.

Infatti, un altro itinerario di grande bellezza conduce al lago di Sevan, sulle cui rive azzurre si trovano due piccole chiese del IX secolo (Astvatsatsin e San Karapet) che un tempo sorgevano su un’isola e che oggi l’abbassamento delle acque, usate per l’irrigazione, ha ricondotto sulla terraferma. Nelle vicinanze si trova il cimitero di Noraduz, dove si possono ammirare numerosi khatchkar, le splendide “croci di pietra” che costituiscono forse le creazioni più caratteristiche dell’arte sacra armena. La croce (surb nshan, ovvero “santo segno”) ha del resto un ruolo centrale nella spiritualità del popolo armeno.

«Regno di pietre urlanti - / Armenia, Armenia!». Questi versi del poeta Mandel’stam sono un buon viatico per il cammino. Gettano una luce rivelatrice su una terra che, posta tra l’Anatolia e il Caucaso, conserva ancora oggi un sapore primigenio. Viaggiare per l’Armenia significa dunque percorrere sentieri che risalgono alle radici primordiali del mondo, penetrare nel cuore di chiese tetragone che hanno il colore del fuoco e nei silenzi secolari di monasteri simili a misteriosi congegni rotanti attorno ai rocchi delle alte cupole. E impastarsi lo sguardo nell’ocra di una terra all’ombra perenne dell’Ararat, «tenda di nomadi».

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Si può capire perché una teologia della creazione possa derivare e non "fare da premessa" alla fede che presuppone l'esperienza dell'alleanza e della liberazione.

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Sabato, 03 Giugno 2006 21:42

Armenia. Arte senza confini (Herman Vahramian)

Armenia. Arte senza confini
di Herman Vahramian

«Quando un’idea si conserva immutata attraverso lunghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo e la forza dominante che anima l’opera». Il pensiero di Ananda K. Coomaraswamy, grande studioso dell’universo indiano, trova perfetto esempio nelle vicende dell’arte e della cultura armene. L’elemento costante e fondamentale che garantisce in esse la permanenza del senso nella permutazione delle forme, è un’ansia, una tensione metafisica verso un centro generatore, un “nodo” primordiale, archetipico. E, come questo è simile a un ventre materno universale, così la terra natale è chiamata “Madre Armenia”, originata dall’incombente entità della “madre-monte Ararat.

Ecco allora la dea Anahid, signora della fertilità, il cui nome significa “la Pura”, scolpita nell’oro che sarà il colore di Maria in tutte le terre mediorientali e in Russia. Ecco Vahagn, il dio guerriero che diventerà San Giorgio, l’uccisore dei draghi. Ecco il dio Aramazd, l’Ahura Mazda zoroastriano, e il culto del Sole (gli armeni sono chiamati Arevordì, “Figli del Sole”) il cui disco si trasmuterà nell’aureola cristiana. Ma con il martirio dei santi Bartolomeo e Giuda Taddeo, gli apostoli che avevano portato il Vangelo in Armenia, anche Aramazd si convertirà al cristianesimo.

Questo processo arriva a compimento nel 301, quando quello armeno diviene il primo popolo cristiano della storia. Il primato della conversione significa per gli armeni l’irrevocabilità nei secoli futuri della scelta fatta. Da questa scaturisce un modus vivendi che costituisce un amalgama quasi perfetto fra le nazioni e la cultura armena, da un lato, e la religione cristiana dall’altro.

La scelta religiosa e culturale operata dagli armeni rispondeva alle loro strategie di sopravvivenza come nazione. Dapprima impero, poi ridotta a entità territoriale omogenea e spartita in seguito fra Est e Ovest, l’Armenia fu oggetto nei secoli di devastazioni e stermini. Greci, romani, persiani, arabi, turchi selgiuchidi, mongoli, e ancora tartari, turchi ottomani e russi ne fecero oggetto di massacri e distruzione. Tra le cause (anche del genocidio) la posizione strategica del territorio e la ricchezza prodotta dai suoi abitanti. Ne derivano consistenti emigrazioni dall’Armenia storica (che comprendeva l’odierna Turchia, tutto il Caucaso meridionale e parte della Siria fino ai confini con la Mesopotamia) verso Bisanzio, la Cilicia, la Polonia, la Romania, la Russia. Flussi migratori che contribuirono alla costruzione di imperi, nazioni e città fino al lontano Bengala, alla Cina, all’Asia centrale. Gli armeni, oggi appena sei milioni sparsi in tutto il mondo, per definire la propria vicenda storica già nel Seicento coniarono l’espressione “genocidio bianco”, ovvero senza spargimento di sangue. Il popolo armeno si è reso presto conto di essere nell’arco della storia “fuori dalla civiltà” e si è aggrappato al cristianesimo come a un’ancora di salvezza. La ferrea adesione alla religione cristiana e la memoria di una costante persecuzione culminata nel genocidio sono le due chiavi, le due ideès fixes, con cui il popolo armeno osserva il mondo. Impossibile distinguerle, o peggio ignorarle, salvo a prezzo di un grave e pericoloso fraintendimento.

Capitale della Grande Armenia cristiana fu Anì. Già imponente fortezza e nodo strategico commerciale sulla Via della Seta, oggi è distrutta e abbandonata in Turchia. Col cristianesimo, e soprattutto nel Medioevo, Anì divenne la «città di mille e una chiesa». La sua cattedrale fu costruita nel 1001 da Trdat, l’architetto armeno che restaurò la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli, distrutta da un terremoto nel 986. e per la cattedrale fu importato il lampadario più grande dell’India (X secolo), mentre varie campane tibetane furono sistemate nelle chiese minori.

L’architettura si era sviluppata a partire dal IV secolo d.C. in perfetta contemporaneità con la conversione. La cupola, elemento cardine dell’architettura armena, simile a una tenda appuntita, è la rappresentazione simbolica di un braccio, una mano chiusa e un dito che tendono verso il cielo. Se in principio il modello più diffuso è quello a pianta basilicale, a partire da VII secolo compaiono le chiese cruciformi che si svilupperanno sia in ambito cittadino sia monastico dando vita a complessi di squisita fattura. Ad aghtmar, sul lago di Van (oggi in Turchia), le superfici murarie si popolano di figure, divenendo un vero e proprio libro di pietra. L’architettura armena sembra rifiutare la vicina e potente Bisanzio per guardare direttamente all’Europa, divenendo così un ponte tra Oriente e Occidente. E non meravigli che i celebri pensieri leonardeschi sulla pianta centrale siano posti in relazione con una conoscenza indiretta degli edifici armeni.

A partire dal X secolo gli armeni, costituiti in compagnie di “maestri muratori” composte di maestranze e architetti, percorsero le strade dall’India all’Europa costruendo sinagoghe, caravanserragli, moschee, monasteri. In particolare nella regione balcanica centrale e a Costantinopoli buona parte degli edifici fino all’Ottocento è di fattura armena e perfino nel Taj Mahal in India operarono maestranze armene. C’è persino chi vede nelle compagnie di maestri muratori l’origine della massoneria. Fino agli anni settanta del secolo scorso, vicino al solco inferiore del basamento del duomo di Milano esistevano i logo dei maestri petrografi armeni, che qualche sovrintendente disinformato ritenne fatti con temperini da coppie di passaggio: furono inesorabilmente “armenizzati”, ovvero cancellati.

Con l’architettura gli armeni diffusero dal Golfo Persico fino all’India e al Tibet il simbolo di Cristo (khatch, “croce” in armeno, è una parola ancora oggi utilizzata in diverse lingue orientali) e con esso altri segni quali l’Albero della vita, le Porte del Paradiso (il tappeto posto sotto il feretro di Giovanni Paolo II conteneva questo simbolo armeno), il Sole ariano (o zoroastriano: la parola “ariano” nelle lingue orientali significa semplicemente “iraniano”) o svastica, che il nazismo nella sua foga predatrice adottò scambiandolo col simbolo opposto, quello della “morte del Sole”.

Vanto degli armeni sono i due santi monaci Mesrob e Sahak, che nel V secolo inventarono un nuovo alfabeto nazionale. Tradussero quel che era disponibile sul mercato della cultura occidentale (diversi testi antichi sono sopravvissuti solo in lingua armena) e avviarono “i secoli d’oro dello scritto e della parola”. I monasteri divennero università e soprattutto biblioteche (matenadaram, letteralmente “magazzini di codici”). Buona parte dei volumi fu depositata nei patriarcati e nei monasteri posti al di fuori del territorio armeno: da Gerusalemme a Venezia, da Vienna a Bombay fino all’Istituto Lazarev di Lingue Orientali fondato da un armeno a Mosca.

Fino alla Seconda guerra mondiale il libro (nono solo i testi sacri, ma il libro tout court) fu considerato sacro dagli armeni. Si racconta che durante il genocidio in Anatolia, agli inizi del Novecento, la Bibbia più grande del mondo, oggi nel matenadaram (Biblioteca nazionale) di Everan, fu tagliata in due da un capofamiglia perchè troppo pesante e la prima metà fu trasportata fino al mare e dorso di un mulo. L’uomo tornò dopo quaranta giorni per caricare l’altra metà e solo da ultimo recuperò la famiglia per salvarla dai massacri compiuti dai turchi.

L’alta considerazione dei libri si sviluppò anche in relazione al gesto efferato di Alessandro Magno. Egli bruciò tutto ciò che di cartaceo e pergamenaceo trovò sulla sua strada. Tra le innumerevoli biblioteche grandi e piccole che furono arse dietro suo ordine, la più famosa resta la Biblioteca Reale di Persepolis. E così il condottiero si guadagnò il soprannome di Guzhastak, che in pahlavide antico e in armeno classico significa “barbaro e portatore di sciagura e sventura”.

Per sopravvivere come entità etnica e religiosa gli armeni inventarono il camouflage artistico e culturale. Camuffamento è infatti la parola utilizzata da Arshile Gorkij (1904-1948), alias in armeno Vostanik Adoyan. Gorkij fu un esponente dell’arte d’avanguardia americana nota col nome di Action Painting. La sua fu una pittura autenticamente armena, che egli “contrabbandò” come arte americana.

Fino al XVIII secolo gli armeni esportarono in tutto il mondo conosciuto calligrafi, amanuensi, miniaturisti, pittori, e poi medici, chirurghi e soprattutto alchimisti. Naturalmente sotto nomi non armeni.

Tra le arti la lavorazione dei metalli raggiunse livelli di eccellenza. In Anatolia officine e fonderie realizzavano sculture in bronzo per Atene e per Roma. Si narra che Nerone ricevette in regalo dal re Tiridate I i quattro cavalli che oggi ornano la basilica di San Marco a Venezia. Dovunque in Medio Oriente gli armeni misero in relazione Est ed Ovest, agevolati dal fatto di “possedere” la Via della Seta, la grande strada commerciale e di comunicazione che collegava Oriente e Occidente.

Dall’Ovest gli armeni introdussero la civiltà greca e romana e molto più tardi i primi brandelli della nascente civiltà industriale europea, come la tecnologia tipografica (in quasi tutti i Paesi mediorientali il primo libro stampato fu opera di un armeno) e ancora, a partire dalla fine dell’Ottocento, la fotografia. Il genocidio annichilì la cultura armena, le cui manifestazioni persero la propria radice originaria per finire assimilate o usurpate da altre culture. Furono distrutti o dispersi i manoscritti, i gioielli, i tappeti e tutto ciò che costituisce parte di un patrimonio culturale. Furono spezzate le relazioni artistiche, sociali, commerciali e interrotte le vie di comunicazione. Malgrado ciò la cultura e l’arte armene sopravvissero in periferia. E facendosi forza della propria situazione marginale furono capaci di ritagliarsi una fetta di universalità, pur rimanendo sconosciute ai più.

(da I luoghi dell'infinito)

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S. Giovanni Crisostomo ed il suo tempo
Conferenza di S. Em.card. Špidlík





Don Sergio Mercanzin:

Quando un nostro collaboratore ha invitato padre Špidlík a tenere qui una conferenza su Giovanni Crisostomo, ha risposto: “Volentieri, ma ad una condizione: che io sia ancora vivo!”. Non solo è vivo, ma nel frattempo è diventato cardinale! La porpora non gli ha tolto lo humour. Sembra che a qualcuno lui abbia detto: “Che vuoi, c'è chi cade dal motorino e chi diventa cardinale”. Ho incontrato questa mattina un sacerdote greco il quale ha detto che il cardinalato dato al padre Špidlík è un grande riconoscimento all'Oriente cristiano e a tutti coloro che, come lui, lo hanno fatto conoscere ed amare all'Occidente. Mi diceva prima padre Špidlík che alcune chiese ortodosse proprio ufficialmente, ad esempio il patriarca ecumenico Bartolomeo, hanno esultato - glielo hanno detto - per questa nomina, perché hanno visto in questo un riconoscimento altissimo della spiritualità orientale. Padre Špidlík ha insegnato per mezzo secolo a discepoli in tutto il mondo, tra i quali anche il sottoscritto. Ha ricevuto premi da cattolici e da ortodossi, i suoi libri sono tradotti in tantissime lingue, compreso l'arabo. Per presentarlo preferisco, però, citare una intervista che ha dato alla rivista 30giorni. Chiedono a Sua Eminenza: “Lei ama spesso ricordare Serafino di Sarov, forse il più grande mistico russo dell'800”. Risposta: “Il più grande? Meglio non dare premi. Davanti a Dio chi è più grande? Può darsi una mamma che ha educato cinque figli”.

P. Špidlík questa sera ci parla di S. Giovanni Crisostomo.



S. Em.card. Špidlík:

Allora dobbiamo parlare di Giovanni Crisostomo. Una volta ho comprato alla vecchia sede della Libreria Russia Ecumenica una piccola icona dei “Tre gerarchi” che raffigurava S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzieno e S. Basilio, tre vescovi, senza iscrizioni che indicassero chi era ognuno dei tre; però si potevano riconoscere. Secondo le regole iconografiche S. Basilio deve avere la barba nera a punta, S. Gregorio Nazianzieno deve avere la barba quadrata e S. Giovanni Crisostomo deve avere una barbetta ed essere semicalvo. Era davvero così?

Beh, le icone lo dicono - o lo ricordano o lo sanno per rivelazione - dunque io non lo metto in dubbio.

Brevi cenni sulla vita di S. Giovanni Crisostomo

Della vita diciamo solo molto brevemente che Giovanni Crisostomo è nato ad Antiochia fra il 345 e il 350, a metà del secolo. In quel tempo c'erano ancora due mondi cristiani, greco e semitico, ma cominciavano a fondersi gli influssi dell'uno e dell'altro. S. Giovanni Crisostomo che è nato ad Antiochia è diventato poi Patriarca di Costantinopoli ed anche la sua educazione in certo senso ha risentito della mescolanza di due atteggiamenti qualche volta abbastanza diversi verso le cose. Gli antiocheni, come semiti, conoscevano meglio la Bibbia perché la leggevano nello spirito, nella mentalità semitica, nella quale era stata scritta. La mamma era vedova ed educava questo figlio che aveva però anche un altro educatore, greco, Libanio, sofista. Giovanni è andato a scuola della Scrittura da questi autori di cultura semitica, tra i quali il futuro vescovo Teodoro di Mopsuestia, uno di questi “duri”. Fu ordinato lettore, ma pensava all'ascesi - questi antiocheni avevano queste montagne, questi asceti, stiliti, reclusi, ecc. Il ragazzo è andato a fare l'ascesi e si è ammalato. Dunque tornò in città e fu ordinato diacono e sacerdote e predicò nella grande chiesa di Antiochia con grande successo - da ciò viene il suo nome Crisostomo (bocca d'oro)! Nel 397 morì il Patriarca di Costantinopoli e lui fu eletto nuovo Patriarca e l'anno seguente consacrato, ma un asceta e un semita a Costantinopoli, non poteva non creare dei conflitti, diciamo come un napoletano a Torino, o un piemontese in Sicilia. Tutto va bene spiritualmente, in spostamenti come questi, ma ci sarà qualche problema! Lui, asceta, arriva in una grande città e comincia a picchiare in testa a tutti i vizi, soprattutto all'imperatrice Eudossia, la quale ha poi convocato il sinodo che ha deposto Giovanni Crisostomo. Ma tutto era stato fatto troppo in fretta, era troppo scandaloso e la deposizione fu ritirata. Ma lui picchiava di più. Dunque arrivò il decreto di esilio, prima in Armenia. Ma là riceveva ancora troppe lettere, troppe visite. Dunque vollero mandare nel Ponto, ma morì sulla strada.

La sua vita non sembra così lunga come si pensa, quando si vede tutto ciò che si è scritto di lui. Quante prediche, quanti trattati - c'è anche lo pseudocrisostomo; chissà chi lo imitava o copiava.

I temi da lui affrontati sono diversissimi e io ne approfittavo sempre molto. Perché nella collezione dei Padri, curata dal Migne, ci sono gli indici. Allora quando si cercava un bel testo si trovava più facilmente che negli altri Padri.

Vivere per imitare Dio

Cominciamo dal primo principio che, allora, si cercava: quale è la fondamentale legge morale?

Sappiamo che c'erano due diverse tendenze. Gli stoici dicevano: “vivere secondo natura”, i platonici dicevano: “imitare Dio secondo le possibilità”. Vivere secondo natura è passato fino a S. Tommaso, a Dante, ecc., nella morale cristiana. Ma i primi cristiani avevano un po' paura di questo termine. Questa natura, questo destino! Contro il destino scrivevano molti autori, perché avevano paura del destino. Così come oggi, quando parliamo di diritti naturali, abbiamo anche paura di cosa ci mettono dentro. I platonici dicevano: “imitare Dio secondo la possibilità”. Aristotele all'inizio della sua morale distingue tre tipi di uomini. Prima categoria: gli uomini che vivono la vita utilitaria, mangiano per lavorare e lavorano per mangiare. Non sono mai felici! Il secondo tipo è di coloro che vivono la “vita politica”: i politici che lavorano per gli altri - in quel tempo ancora si credeva che i politici lavorassero per gli altri! Vita apostolica, fanno felici gli altri. Ma la vita più felice è la vita contemplativa: elevare la mente a Dio. Allora la contemplazione è la vita più perfetta. Allora la vita contemplativa. Questo è certo, ma Crisostomo non era così meccanico come altri. Si domanda: chi è quel Dio che vogliamo imitare? Questo è il problema secondo me anche oggi, quando si imitano queste contemplazioni del lontano Oriente. Chi è quel Dio? Per i platonici è un'idea, per i cristiani Dio è Padre, non un'idea, ma una persona. Io ho detto altre volte - devo stare attento per non dire qualche eresia! - che noi latini abbiamo un po' falsificato il Credo. Sapete perché? Abbiamo messo una virgola. Perché noi cantiamo “Credo in unum Deum” e poi “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Ma in quel tempo non c'era nessuno che dubitasse dell'esistenza di Dio. La professione di fede era: “Credo in un solo Dio Padre, che è onnipotente e creatore del cielo e della terra”. Dunque Dio è Padre e Crisostomo insiste “imitare Dio”, Dio è philantropos, amante degli uomini. Lo si può dire degli dei pagani e dei platonici che amano gli uomini? No, non si può dire, mai.

Eros e agape. Amare Dio nel prossimo in S. Giovanni Crisostomo

Voi sapete qual è il trattato classico sull'amore prima del Cristianesimo? Il Symposium di Platone. Symposium: bevono un po' insieme e discutono; questo è la vera teologia, no? Discutono: come si dice “amore” in greco? EroS. Eros è nato dal padre cielo e dalla madre indigenza. Cosa significa questo? Io non ho soldi (indigenza della tasca), ma vedo il padre economo che ne ha la cassa piena, comincio ad amare quella cassa! Cioè l'uomo ama ciò che vede e non ha. Se ho lo stomaco vuoto amo la pastasciutta, se amo il movimento seguo il calcio, la Juve, la Roma ecc. Se amo la musica sono musicista, se amo la filosofia sono filosofo e se amo Dio sono l'uomo più divino che possa esistere. Dunque l'uomo secondo Platone è tanto grande quanto grande è il suo amore. Questo suona molto bene, questo testo poteva essere preso dai cristiani come tale. S. Agostino ha copiato parecchie di queste cose, però qualche cosa non va. L'uomo ama ciò che non ha. Ma che cosa Dio non ha? Ha tutto. Può desiderare allora qualcosa? No! Dunque il dio platonico non può amare gli uomini, non è philantropos, è un'Idea in alto, come se diciamo: “noi amiamo il sole e il sole non ama noi”. Siamo solo noi, da una sola parte, ad amare. Voi sapete quando si usa l'espressione amore platonico, quando un ragazzino ama una diva del cinema e questa non ne sa niente. C'è amore solo da parte del ragazzo. Dunque noi amiamo Dio, ma Dio non ama noi.

Ma noi amiamo Dio perché, come dice S. Giovanni, Lui ci ha amati per primo. Allora queste cose non vanno. S. Paolo e S. Giovanni dicono che Dio è amore; si può dire allora che Dio è eros, desiderio?

No, non si può dire, perciò hanno trovato un'altra parola greca: agape. Dunque abbiamo due nomi diversi per l'amore: eros e agape. Uno significa desiderare e l'altro avere e dare. Il Vangelo spiega questo molto bene con un testo in cui Gesù dice: “Se amate i vostri amici e parenti in cosa siete diversi dai pagani? Anch'essi amano gli amici perché li desiderano. Amate i nemici perché nessuno desidera avere nemici. Se amate i vostri nemici sarete come il Padre vostro in cielo che dà la pioggia per i buoni e per i cattivi”. Dunque “amare” in senso cristiano significa regalare. Allora eros e agape. C'è un vescovo protestante scandinavo, A.Nygren, che ha scritto un libro su questo, “Eros e agape”, e la sua sentenza è più o meno questa, (ha fatto una buona raccolta di testi). Dice: “All'inizio il Vangelo distingue molto bene questi due amori, ma la gente non ha capito bene, ha mescolato tutto insieme e così sono nate la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Hanno mescolato questi due amori, senza rendersene conto. Per fortuna è venuta la Riforma che ha detto di non desiderare la beatitudine in cielo, di non cercare i meriti e tutte queste cose - questo è eros. Bisogna avere agape, regalare e non cercare di ricevere qualcosa da Dio”. Cosa dite voi? Qual è il vostro illuminato parere?

Diciamo che distinguere è bene, separare no. Dio è agape, ma noi siamo sia eros che agape. Se non desidero mangiare vado dal medico per curarmi, se non desidero studiare sarò bocciato. Dobbiamo desiderare, ma, inoltre, siamo capaci anche di amare, cioè dare. Dunque Dio ci ama e noi, secondo il suo esempio, dobbiamo essere capaci di questo amore divino. Questo amore divino a chi si rivolge? Si rivolge a chi incontro. Ma possiamo amare Dio? Era tanto difficile affrontare questi temi che poi i Padri non volevano mai scrivere sull'amore. Dicevano: “E' troppo difficile”. Climaco dice “Chi parla d'amore parla di Dio”, meglio lasciar stare. Solo S. Basilio all'inizio della sua Regola dice quattro motivi per i quali amiamo Dio.

Ognuno ama la luce, Dio è la luce infinita. Che cosa è, eros o agape? Ognuno ama la luce e Dio è la luce infinita. E' eroS.

Ognuno ama la bellezza, Dio è la bellezza infinita. Che cos'è? Eros.

Ognuno ama i benefattori, Dio è il nostro più grande benefattore, io amo Dio. che cos'è? Eros.

A questo punto, Basilio dice il quarto argomento. Io ve lo dirò, voi riderete, ma io non so come dirlo altrimenti. Immaginatevi il giudizio finale, a sinistra sono i dannati, a destra gli eletti e Basilio si trova tra i dannati. Viene il diavolo davanti a Gesù Cristo e dice: “Vedi quel Basilio? Tu l'hai creato, io no, ma lui ha seguito me. Tu gli hai dato tanti benefici, io gli ho dato soltanto guai, ma lui ha seguito me. Tu gli hai promesso beatitudine, io l'inferno, ma lui ha seguito me”. Basilio dice: “Va bene finire all'inferno, ma che quel diavolo possa vantarsi così davanti a Gesù Cristo io non lo sopporterei!”. Che cos'è questo? Che l'uomo può dimenticare se stesso e dire che l'interesse di Dio è superiore al mio. Questa noi la chiamiamo “contrizione perfetta” e quella purifica l'anima da tutti i peccati, perché solo Dio è capace di darcela. E' un po' difficile.

S. Giovanni Crisostomo è più concreto e dice: “Possiamo amare Dio? Sì, nel prossimo”. Perché Cristo ha detto “ciò che avete fatto a lui l'avete fatto a me”, e così Dio è philantropos, ama noi. E noi possiamo amare Dio. Allora ha fatto una bella sintesi della cultura greca con un precetto del Vangelo. Questa filantropia divina è una cosa molto importante. Allora, più che l'amore di Dio comincia a parlare dell'amore cristiano. Parla sempre dell'amore cristiano. Ma qual è l'amore cristiano? Lui dice che è soprattutto agape, perché eros è sempre un po' passionale. Amo, amo, amo, poi la passione passa e ti odio! Il vero amore non può passare, è stabile, perché è regalare. Se accetti, bene! Se non accetti, non importa.

Un proverbio tedesco dice: “L'amore che poteva passare non era amore”. Era una passione. Eros è passionale. E' sempre particolare, verso una ragazza e non verso l'altra. “Io amo Gina, non te!”. I monaci dicevano che bisogna amare tutti gli uomini senza distinzione, chi ama uno più dell'altro non è un vero cristiano. Come principio va bene, ma non è facile applicarlo. E' strano quando leggiamo le regole monastiche: è sempre vietato severamente l'amore particolare. S. Basilio dice: “Se c'è tuo fratello nel monastero, devi dimenticare che è tuo fratello. E' un fratello come gli altri”. Tutti uguali.

Anche in seminario si perseguitavano gli amori particolari. Quando due stavano tanto insieme, il Rettore diceva: “Mescolatevi, mescolatevi”. Più tardi, l'unica prudente era S. Teresa d'Avila che diceva: “Nei piccoli monasteri l'amore è uguale, ma nei grandi monasteri se non hai qualche amore particolare non hai amicizia con nessuno”. Questo vale per il mondo che è un monastero troppo grande! Se voglio amare americani e africani, ma dimentico che sto a Roma... Il principio formulato è: amore uguale per tutti. Poi Giovanni Crisostomo dice, l'amore passionale è facilmente attratto dal corpo, mentre l'amore spirituale è più concentrato sul bene dell'anima. Il bene dell'anima è dare il buon esempio, non dare scandalo. Una cosa che i monaci consideravano come grande beneficio dell'amore era rimproverare i difetti, la “correzione fraterna”. Sapete che nei monasteri c'era il capitolo, il monaco si inginocchiava in mezzo e tutti dicevano: “Tu fai questo, tu non hai pulito questo”, e lui: “Ringrazio per il vostro amore”. Più tardi dicevano con più prudenza Teodoro lo Studita: “Deve farlo chi sa farlo con carità, altrimenti succedono guai”, perché è come curare una ferita con il coltello. Non va bene!

L'amore particolare del matrimonio in S. Giovanni Crisostomo

Adesso vorrei trattare un argomento sul quale ho fatto un articolo. Lo consideravano come una scoperta, ma poi hanno detto: “Sì, è vero!” L'amore matrimoniale, qual è? Cade in questi termini monastici o no? E' amore “particolare”: si ama la moglie più della vicina, ecc. L'obiezione qual è? Questi monaci, con questi principi, hanno sempre parlato della verginità, mentre della spiritualità del matrimonio non scrivevano niente. Mancava totalmente. Beh, totalmente no. Agostino aveva scritto varie cose ed io ne ho cercato i testi. S. Giovanni Crisostomo che stava in mezzo alla gente, a Costantinopoli, si rendeva conto che doveva esserci una posizione della Chiesa verso il matrimonio. Crisostomo parte dal problema del tempo. Il problema del tempo era in un certo senso simile a quello di oggi. C'erano molti schiavi che alla fine ricevevano la libertà, perché nell'Impero cristiano a questi schiavi, divenuti vecchi, davano cristianamente la libertà. Ma cosa potevano fare questi poveri vecchi? Si radunavano insieme, alcuni dicevano che dovevano avere anche la cittadinanza, perché tutti gli uomini sono uguali. E' interessante che anche Marco Aurelio, che perseguitava i cristiani, diceva questo, ma lo diceva in questo senso: “Siamo tutti della stessa natura e nell'Impero romano tutti devono avere gli stessi diritti”. Questo piaceva anche ai Padri della Chiesa: siamo tutti uguali, prendiamo parte all'uguaglianza degli uomini. Ma quando Crisostomo era ancora studente, c'era Giuliano l'apostata, portatore di una reazione di nazionalismo romano: “Noi siamo romani, non come questi extracomunitari. Non è vero che tutti gli uomini sono uguali. Perché i cristiani dicono che discendiamo tutti da Adamo? Come è possibile se uno è bianco e l'altro è nero, uno è intelligente, l'altro stupido? Tante differenze. Gli uomini sono tutti differenti, è inutile dire che sono uguali”.

Cosa rispondevano i Padri della Chiesa? Hanno preso un principio: Dio ci ha creati tutti uguali, le differenze vengono dal peccato. Dunque se ci sono ricchi e poveri è colpa del peccato, dell'avarizia. Noi dobbiamo superare la differenza tra ricchi e poveri; questo è un obbligo per i cristiani. Stupidi ed intelligenti devono avere diritto all'istruzione, come ai tempi moderni.

C'è però un'altra differenza: ci sono l'uomo e la donna. Da dove viene questa differenza? Dal peccato? L'unico che ha avuto il coraggio di sostenerlo era Gregorio di Nissa. Diceva che dopo essere stati scacciati dal Paradiso hanno ricevuto un vestito di pelle e questo era il sesso. Il sesso sarebbe stato solo dopo il peccato, ma nessuno poteva accettare questo. Dio stesso ha creato l'uomo e la donna. Perché Dio ha fatto questa differenza, per procurare guai? Tutte le guerre cominciano nella famiglia, perché Dio ha fatto questa differenza? La maggior parte dei Padri è “femminista”. Affermavano: “Tutte le differenze sono nel corpo, ma l'anima è uguale. L'anima è l'immagine di Dio e nell'anima l'uomo e la donna sono uguali per la vita spirituale”. Infatti le Regole per le benedettine e i benedettini, basiliani e basiliane, sono uguali, per la donna e per l'uomo, perché la vita spirituale non conosce differenza tra uomini e donne. C'è una biografia, se non vera è molto ben trovata, di S. Marina. S. Marina voleva entrare nel monastero, ma i monasteri femminili erano troppo pieni e non l'hanno accettata, così è entrata in un monastero maschile e nessuno si accorse che era una donna. E' successo però che nel villaggio una donna doveva partorire e gli impiegati dello Stato volevano sapere chi fosse il padre del nascituro. Uno di quei monaci era salito là. Allora li misero tutti in fila e fu indicata proprio Marina. Lei non disse nulla, lavorò il doppio per nutrire il bambino e solo alla sua morte si è scoperto che era vittima di calunnie.

Si sosteneva che la spiritualità maschile e femminile è uguale. Solo S. Giovanni Crisostomo dice: “Hanno lo stesso valore, ma non sono uguali”. La matematica non è né maschile né femminile, ma l'atteggiamento verso la matematica può essere differente nell'uomo e nella donna. Così la vita spirituale: è dello Spirito Santo, ma l'atteggiamento verso di essa può essere differente. Sono dunque diversi! E si chiede: “Perché Dio ha fatto questa differenza?” Secondo l'antica mitologia greca, i giganti si erano ribellati a Giove il quale li aveva tagliati in due e da allora una metà cerca l'altra. Va bene, ma tutte queste sono favole! La risposta di S. Giovanni Crisostomo secondo me è bellissima. Non è ancora abbastanza apprezzata, ma è bellissima: “Affinché l'unione fosse non della natura, ma per mezzo dell'amore, l'amore che unisce due persone differenti”. Quindi il matrimonio è sacramento dell'amore. E' imitazione della SS. Trinità, come il Padre ama il Figlio, così il marito ama la moglie e per mezzo dell'amore si trasferisce sulla terra il grande sacramento del matrimonio. E' bellissimo.

L'amicizia spirituale, il celibato e la verginità

Adesso però potreste dire: “Va' e sposati!” Per me sarebbe facile, perché sono ancora giovane, ma per gli altri non lo so! (Il cardinale ride). Perché non andate in tutti i monasteri dalle suore e dai monaci a dire “Sposatevi perché questo è il sacramento dell'amore”? Offro 50 euro per una buona risposta. Di nuovo Crisostomo ha una bellissima risposta “L'amore è partecipazione di Dio e deve crescere”. E come cresce? Come la Bibbia: dall'AT al NT, dal corporale allo spirituale. All'inizio l'amore è piuttosto corporale, ma deve crescere nella spiritualità e quelli che capiscono che possono amare gli altri spiritualmente, scelgono il celibato. La Bibbia dice: “Chi lo può capire, capisca”.

Dunque verginità e matrimonio sono opposti ma, in un certo senso, la verginità è, in un certo senso, continuazione del matrimonio. Alla fine dei secoli non ci si sposerà più perché tutti avranno l'amore spirituale. Voi sapete che lo stesso pensiero si trova in pensatori moderni che dicono: “All'inizio è attrazione sessuale, ma questa deve svilupparsi in vera amicizia”. Se fra marito e moglie non cresce l'amicizia, il matrimonio fallisce. E' una bella cosa. Una volta dovevo tenere a Milano una conferenza all'Università. L'hanno annunciata: padre Špidlík parlerà della teologia del sesso. Era così pieno che quasi non riuscivo ad entrare! Ma alla fine molti ragazzi mi hanno chiesto: “Ma perché non ci dicono queste cose? Ci dicono solo: questo si può, questo non si può!” Bisogna capire che qui c'è un dinamismo, che se si blocca questa evoluzione è una tragedia. Crisostomo aveva capito molto bene questo, ma non aveva molto tempo per svilupparlo. Soltanto, agli eretici che criticavano il matrimonio rispondeva: “Perché calunni il nido dal quale sei uscito?” Infatti nel rito bizantino c'è la festa della concezione della beata Anna. Dal santo matrimonio di Gioacchino e Anna nasce la Vergine. Questo è amore fra gli uomini.

Il valore del lavoro: Adamo lavorava, prima del peccato, per sviluppare la sua personalità

C'è un altro aspetto moderno che Crisostomo ha sviluppato molto bene: il lavoro. La manifestazione dell'amore è il lavoro. In quel tempo evidentemente il lavoro, soprattutto quello manuale, si stimava poco, erano le opere “servili”, dei servi - per questo di domenica sono proibite. Se zappo la terra per più di tre ore è peccato mortale, se studio fino a diventare matto, questo è bene, di domenica si può fare! C'è distinzione. Ma i cristiani cercavano di riabilitare il lavoro manuale. Crisostomo dice: “Siamo figli di un operaio. S. Paolo lavorava per non essere di peso agli altri. L'uomo è stato posto nel Paradiso per coltivarlo, il mondo è per noi, ma affinché si sviluppi, l'uomo deve lavorare”. La questione è sempre stata: Adamo, nel Paradiso, lavorava? Ma c'era già tutto, perché doveva lavorare? La risposta di Crisostomo è: “Lavorava, perché altrimenti non avrebbe sviluppato la sua personalità”. Il lavoro è necessario per sviluppare la propria personalità. Adamo lavorava e coltivava il Paradiso. Dopo il peccato cosa è successo? Al lavoro si è aggiunta la fatica, e questo è il guaio. La fatica viene dal peccato. Allora dobbiamo scappare da ogni fatica? Crisostomo dice che anche questa è medicinale, ci aiuta a superare le nostre cattive inclinazioni. Uno che lavora vince tutti i vizi. Dunque anche la fatica è molto utile. Chi non lavora non deve mangiare. L'istituzione degli schiavi era il problema del tempo. I Padri non osavano dire – e neanche S. Paolo - che non era giusta, perché tutto il sistema economico era basato su questo. Abolire la schiavitù avrebbe causato il crollo totale dell'economia. Possiamo vedere nella vita di S. Melania, che voleva dare la libertà a tutti i suoi schiavi, che questi si ribellavano. Sarebbe stato come chiudere la FIAT, una grande azienda. Non si potevano lasciare gli schiavi. Quindi si ponevano solo dei limiti: trattateli bene, trattateli come fratelli. Ma la schiavitù non era in discussione. Invece Giovanni Crisostomo, come anche Gregorio di Nissa, dice: “E' contro la natura. Dio ci ha dato due mani, non ci ha dato gli schiavi, gli schiavi ci sono stati dati dalla società corrotta”. Allora sarebbe molto bello che ognuno lavorasse tutte le cose da solo. Le donne che lavorano sono più belle di quelle che mangiano soltanto, gli uomini che lavorano sono più sani. Dunque il lavoro è una cosa molto nobile. E Crisostomo loda ciò che qualche tempo fa ci ha creato problemi, i preti-operai. C'erano molti contadini ordinati sacerdoti, non come oggi il prete che va in fabbrica, ma semplicemente nel villaggio ordinavano prete un contadino. Crisostomo in un'orazione dice: “Quando vedo questi fratelli, che un giorno arano la terra con i buoi e la domenica fanno la liturgia celeste, sono sempre molto commosso nel vedere questi semplici sacerdoti che lavorano con le mani”. I monaci cosa devono fare? C'erano i messaliani che dicevano: “Il lavoro è per i secolari, i monaci devono solo pregare”. Certi schiavi si rifugiavano nei monasteri perché è più facile cantare che zappare la terra. Questi messaliani furono condannati. Conoscete S. Benedetto che ha insegnato: “Ora et labora”. Molti messaliani scappavano anche in Occidente, anche in Italia. Sembra che a Trento ci siano questi martiri che erano arrivati, chissà come, dalla Cappadocia. Rovinarono il tempio dei pagani con grande zelo. Uno di questi vide un monaco ortodosso che lavorava dei cestini. Gli disse: “Io non lavoro”. Il monaco gli diede un libro spirituale, ma la sera, quando fu il momento di mangiare, nessuno lo chiamò. Allora lui tornò e disse: “Padre, oggi non si è mangiato?” “Sì, si è mangiato, ma noi che siamo corporali; tu che sei come un angelo di Dio, pensavamo che non ne avessi bisogno”.

Dunque - “ora et labora” - i monaci lavoravano. E non solo per se stessi, perché non hanno bisogno di tanto. Tutto quello che producono in più è a favore dei poveri. I monasteri sono diventati istituti di beneficenza. Orfanotrofi, ospedali per vecchi, scuole, tutto era opera dei monaci. C'era un grande patrologo, padre Gribomont, ha fatto fare ad uno a Bologna una tesi sul lavoro dei monaci. Il risultato era: qualche volta i monaci erano corrotti, ma i monaci corrotti cosa facevano? Mangiavano più del necessario, bevevano, ma quando l'opera dei monaci passava allo Stato, i “giusti” impiegati statali consumavano molto di più, con tutta l'onesta amministrazione! Che differenza passa tra la vita monastica e quella cristiana? I monaci non sono diversi, vogliono solo osservare tutti i comandamenti. La vita monastica è esempio della vita cristiana e la chiesa orientale è molto monastica. Non si distinguono ordini apostolici e contemplativi. Gli orientali dicono che tutti devono essere contemplativi. Il vescovo non deve perdere la contemplazione, se lo fa deve ancora stare nel monastero. Dunque si potrebbero dire ancora tante cose, ma speriamo che adesso finiamo qui e voi andate a lavorare invece di fare questa contemplazione!

Domanda

Innanzi tutto un grazie per l'esposizione chiara, provocante e luminosa. Avrei una piccola osservazione. Quando lei ha detto, molto giustamente, che Dio è pienezza e non ci può essere desiderio, indigenza, quindi eroS. Cosa che non è vera per noi creature che non abbiamo questa pienezza di essere. Tutto a posto, secondo le categorie di Atene: Dio è immutabile e anche santo, Dio non muta. Tuttavia Dio ha deciso di mandarci suo Figlio, di farsi uomo, di confrontarsi con gli uomini, di permettere che gli uomini lo rifiutino, di aspettare con amore. In questo senso, non per sua innata indigenza, ma per una sua decisione, pur essendo sovrano di tutto, lui dipende dalla cooperazione, dall'atteggiamento dell'uomo, quindi soffre finché l'uomo non lo accetta pienamente. In questo senso, un po' di desiderio c'è anche in Dio che vorrebbe che io fossi meglio di quel che sono. A proposito dell'eresia di cui lei parlava, quando stavo in Zambia c'erano dei gruppi che attendevano alle pulizie, c'era un gruppo che puliva solo la Chiesa. “Noi siamo spirituali”, dicevano, ma anche loro usavano i servizi igienici!

Risposta

Qui ci sono due problemi molto seri: come Dio può ascoltarci quando preghiamo? Filone di Alessandria, grande filosofo ebreo, ha portato all'università la traduzione dell'Antico Testamento in greco, per mostrare ai filosofi che anche noi abbiamo la saggezza. I filosofi ridevano: “Che ridicolo! Dio promette una cosa, gli Ebrei sono cattivi e lui si arrabbia; gli offrono dei buoi e lui si pacifica; dice: va bene, lo farò”. Ma Dio è immutabile! Come è possibile questo?”

Filone, buon ebreo devoto, non sapeva però cosa rispondere, diceva solo: “Se Dio non è libero, neanche noi lo siamo; siamo una macchina”. E' una risposta ad hominem. Ad Alessandria viveva Origene che diceva: “Tutto questo proviene dal nostro modo di pensare. Noi siamo nel tempo; qualcosa è prima, qualcosa è dopo, ma Dio vede tutto presente. Per lui questa cosa del prima e del dopo non esiste”. C'è un libro spirituale italiano che si chiama “Don Camillo”. Lì c'è questo problema, esposto in modo semplice. Gesù dice a don Camillo: “Senti, don Camillo, tu cammini spensierato, attraversi il binario e cadi in terra. Arriva il treno, tu preghi: oh Signore, fa che il treno passi sull'altro binario. Il treno passa là e tu ringrazi il Signore che ti ha salvato. Ma non poteva saltare da un binario all'altro, era già partito sull'altro binario!” Don Camillo non sa cosa rispondere e Gesù gli dice: “Sei tanto stupido? Non sai che prima che il treno partisse io ho visto la caduta, ho sentito la tua preghiera e ho arrangiato le cose in questo modo, sia secondo l'orario che secondo questo dialogo fra di noi”. E' una bella risposta.

Conferenza tenuta presso la Libreria Russia ecumenica, il 9 dicembre 2003.

a cura del Centro Russia Ecumenica
00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30
tel 06-6896637


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Martedì, 02 Maggio 2006 00:24

I. Credo in Dio Padre Creatore (Michelina Tenace)

La fede, come riconoscimento dell'esistenza di un altro, passa dall'esperienza di una relazione-rivelazione dove l'affermazione di Dio come Creatore non è cronologicamente prima né esclusivamente cristiana.

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«Credo nello Spirito Santo che procede...» La tradizione orientale e occidentale
di Tomás Spidlík




Quando si pone la questione della differenza che passa fra i cattolici e i cristiani ortodossi, sentiamo spesso due risposte diverse. Gli uni dicono: Non esistono delle differenze sostanziali, si tratta di due Chiese sorelle con due tradizioni che si completano a vicenda. È però un ostacolo principale dell’unione il fatto che essi non riconoscono il papa come capo principale e infallibile della Chiesa universale. Gli altri dicono di più: Dopo un millennio di separazione sono apparse anche varie differenze nella fede stessa. Fra queste la più importante è il Filioque che la Chiesa occidentale ha aggiunto al testo del Credo: Crediamo nello Spirito Santo «che dal Padre e dal Figlio procede». Nel primo e originale testo, approvato nei Concili di Nicea e di Costantinopoli leggiamo: «che procede dal Padre». Una sola parola aggiunta dovrebbe costituire una notevole differenza nella fede? Sì, dicono gli ortodossi, dato che si tratta di professione di fede divina. Lo dicono tutti o ci sono anche interpretazioni più tolleranti?

Vediamo prima cosa dice del problema la Sacra Scrittura. Nel vangelo di San Giovanni lo stesso Cristo afferma che i discepoli riceveranno lo Spirito «che il Padre manderà» (14,25), ma in seguito Gesù aggiunge: «perché prenderà del mio» (16,14). San Paolo scrive che «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio» (Gal 4,6) che è «Spirito di Cristo».

Come interpretavano questi testi gli antichi cristiani? Nella professione di fede recitata durante il battesimo, come la riferisce Sant’Epifanio, leggiamo che lo Spirito «procede dal Padre e riceve dal Figlio». Si ripetono quindi semplicemente le parole del vangelo. Ma già San Damaso lo abbrevia e dice «procede dal Padre e dal Figlio». Questa formula cominciò ad essere generalmente usata in Occidente perché sostenuta dall’autorità di Sant’Agostino. San Cirillo di Alessandria e il grande dottore della Chiesa orientale San Giovanni Damasceno preferivano dire: «procede dal Padre per mezzo del Figlio». Si tratta quindi di diverse formule di spiegazione del mistero, ma nel testo del Credo durante la liturgia rimaneva il testo breve: Spirito «che procede dal Padre». Si temeva di aggiungere qualche cosa anche per il timore dell’eresia di cosiddetti pneumatomachi. Questi negavano la divinità dello Spirito Santo dicendo che fu creato per mezzo del Figlio. Allora era meglio lasciare semplicemente: «procede dal Padre».

Quando fu introdotto il Filioque nel simbolo di fede recitato durante la messa? Si dichiararono in favore di questa addizione i partecipanti al sinodo della Spagna visigotiniana a Toledo nel 589; in seguito al concilio di Francoforte del 794 lo decretò l’imperatore Carlomagno. Il papa di Roma Leone III consentì. Fu quindi l’inizio di una doppia recita del Credo in Oriente e in Occidente, ma il fatto non era oggetto di discussioni. Queste sorsero a Gerusalemme. L’abate del monastero del Monte degli ulivi introdusse nell’807 l’uso «dei Franchi» e i monaci del monastero di San Saba protestarono. Ma la controversia non ebbe troppe conseguenze.

Il vero conflitto ecclesiale sorse nei momenti della separazione fra la Chiesa latina e greca verso la fine del primo millennio. Da una parte Fozio accusò i missionari latini in Bulgaria che insegnavano il Filioque e con ciò proponevano «una falsa spiegazione del Credo», perché lo Spirito Santo «procede dal solo Padre». Al contrario il cardinale Umberto rimproverò i Greci che «avrebbero omesso» nella recita del Credo il Filioque. Notiamo che si tratta di due erronei equivoci. A Fozio rispondiamo: non è lo stesso dire che «lo Spirito procede dal Padre» o che «lo Spirito procede dal solo Padre». E sul conto del cardinale Umberto possiamo dire che sapeva poco della storia della liturgia quando disse che i Greci «avrebbero omesso» il Filioque. Purtroppo le controversie, in quel momento, ebbero gravi conseguenze e divennero il tema di mutue accuse.

Il grande concilio di unione tenuto a Firenze nel 1439 cercò una riconciliazione dichiarando che il latino con Filioque non vuole affermare altro che ciò che ammettono i Padri sia dell’Occidente che dell’Oriente, cioè che «lo Spirito procede dal Padre per mezzo del Figlio».

Quale importanza assume la questione nelle relazioni fra Chiesa cattolica e Chiese orientali oggi? In linea di massima, fra i teologi ortodossi, possiamo distinguere quattro atteggiamenti.

  1. I più radicali sono quelli che dicono che la formula latina è del tutto falsa e che porta delle conseguenze gravi: dato che i latini hanno un’altra fede nello Spirito Santo rispetto agli orientali, hanno anche una differente spiritualità.
  2. Moderati si possono dire quelli che affermano che si tratta in questo caso di questioni teologiche liberamente disputate come avviene per tante altre fra i teologi; non dovrebbero impedire l’unione delle Chiese.
  3. La terza opinione affronta il problema dal punto di vista della disciplina ecclesiale: è sempre pericoloso introdurre dei cambiamenti di maggior rilievo in qualsiasi campo, se vi è pericolo di diminuire l’unità del popolo di Dio; il Credo della liturgia fu composto con il consenso universale, la Chiesa latina non aveva il diritto di toccarlo senza consultare gli altri e perciò oggi dovrebbe ritirare la sua aggiunta.
  4. Infine notiamo un atteggiamento che fu la conseguenza di un dialogo concreto tra la Chiesa russa e gli anglicani intorno all’interpretazione e al senso da attribuire al testo della tradizione latina.

Se le opinioni degli ortodossi sono, come vediamo, diverse, i cattolici sono riusciti a unificare il loro atteggiamento che si può riassumere in poche parole. Già il Concilio di Firenze dichiarò in modo autorevole che il Filioque si deve intendere nel senso della tradizione comune in Oriente e in Occidente. La Chiesa di Roma permette di recitare il Simbolo niceno-constantinopolitano senza il Filioque là dove questa omissione si vede opportuna, come in certe Chiese orientali cattoliche.

È da notare che nelle diverse tradizioni linguistiche, talvolta le stesse parole assumono significati diversi: ciò avviene, per esempio, per il verbo “procedere” che può significare «provenire in qualsiasi modo» oppure indica la prima sorgente, la prima causa.

Laddove questa sfumatura linguistica è sensibile, allora è davvero opportune tralasciare la formula «procede dal Padre e dal Figlio», perché ciò significherebbe due sorgenti primarie. Il Concilio unionistico di Lione nel 1274 espressamente rifiutò una tale spiegazione, dicendo che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio «però non come dai due princìpi ma come da uno solo».

Possiamo quindi concludere che la questione sulla processione dello Spirito Santo è come tutte le altre verità di fede un mistero divino rivelato che non possiamo comprendere con gli argomenti razionali e nei dubbi di interpretazione cercare di trovare la concordia nel dialogo ispirato dalla carità ecclesiale e dall’amore per l’unità che è frutto dello Spirito.

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Mercoledì, 05 Aprile 2006 02:33

La Chiesa ortodossa (di Mervyn Duffy)

Le Chiese dell'oriente cristiano
La Chiesa ortodossa
di Mervyn Duffy




I cristiani ortodossi si considerano parte di una sola chiesa nel senso che condividono la stessa fede e gli stessi sacramenti, come pure la liturgia bizantina la tradizione canonica e quella spirituale. Tutti gli ortodossi riconoscono i primi sette concili ecumenici come normativi per la dottrina e la vita della chiesa. Si ritiene che un certo numero di concilii successivi abbia espresso la stessa fede delle origini. Sebbene si faccia comunemente riferimento ad essa come alla Chiesa Ortodossa, questa comunione è anche frequentemente chiamata la Chiesa Ortodossa Orientale, per distinguerla dalle chiese ortodosse orientali descritte nella sezione precedente.

A livello di governo ecclesiale, l’Ortodossia è una comunione di chiese che, tutte, riconoscono il patriarca di Costantinopoli come primus inter pares, o “primo fra uguali”. Sebbene egli non abbia l’autorità di intervenire negli affari delle chiese locali al di fuori del suo patriarcato, è considerato primo in dignità e centro simbolico di tutte le chiese ortodosse. Così il Patriarcato di Costantinopoli (conosciuto anche come Patriarcato Ecumenico) gode di una certa priorità fra le varie chiese ortodosse. Questo status è considerato come un servizio per promuovere la conciliarità e la mutua responsabilità. Questo ruolo include il convocare le chiese e il coordinare la loro attività, e talvolta intervenire in situazioni per tentare di trovare soluzioni a specifici problemi.

Lo scisma tra quelle che ora sono conosciute come chiese ortodosse e chiese cattoliche è il risultato di un secolare processo di allontanamento. Eventi come le scomuniche nel 1054 fra il Patriarca di Costantinopoli e il legato papale furono soltanto momenti salienti di questo processo. Inoltre, ogni chiesa ortodossa ha una propria storia di contrasti con Roma. Non c’è mai stata, per esempio, una separazione formale tra Roma e il patriarcato di Antiochia, anche se Antiochia condivise la comune percezione bizantina dello scisma. Oggi è largamente condivisa l’opinione che non ci siano stati fattori teologici in gioco in questo graduale allontanamento fra oriente e occidente. Tra questi ci fu l’interruzione di una regolare comunicazione in seguito a sviluppi politici e all’incapacità di entrambe le chiese di comprendere rispettivamente il Greco e il Latino. Inoltre erano in gioco questioni dottrinali, che riguardavano soprattutto la natura della chiesa. Le più importanti di esse riguardavano l’eterna processione dello Spirito Santo (questo in merito all’aggiunta del filioque al credo della chiesa occidentale) ed il significato del ruolo del vescovo di Roma come primo vescovo nella chiesa.

Due notevoli tentativi di ristabilire la comunione tra i cattolici e gli ortodossi avvennero durante il secondo concilio di Lione nel 1274 e nel concilio di Firenze-Ferrara nel 1438-1439. Sebbene unioni formali fossero state proclamate in entrambi i casi, alla fine esse furono rifiutate dalla popolazione ortodossa. I molti secoli di mutuo isolamento hanno avuto fine soltanto in questo periodo a noi contemporaneo. Un dialogo internazionale ufficiale tra le due chiese ha avuto inizio soltanto dal 1980.

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Da dove viene il mondo? Noi, da dove veniamo? Dove andiamo? Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?

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