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Mercoledì, 05 Marzo 2008 23:46

La contemplazione in Santa Chiara

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 di Enzo Bianchi

della comunità di Bose

 

3) Chiara e la contemplazione

 

Verificare la contemplazione di Chiara a San Damiano potrebbe sembrare un discorso ovvio: Chiara e le damianite sono contemplative per eccellenza, tant’è vero che il loro spazio di vita è la clausura. Ma questa risposta in realtà è molto ingenua e anche sviante, e anche qui permettetemi dunque alcune precisazioni.

Negli scritti di Chiara compare tre volte il termine contemplatio (Ep. 3,13; 4,11.33) e quattro volte il termine contemplare (Ep. 2,20; 4,18.23.28), sempre nelle lettere ad Agnese, per invitare l’amata sorella a contemplare nel senso di vedere, meditare la povertà, l’umiltà, la carità, le delizie del Signore e in questa contemplazione (con chiara allusione a 2Cor 3,18) «trasformarsi totalmente nell’immagine della divinità di lui» (Ep. 3,13).

Non c’è mai un ricorso al vocabolario della contemplazione per definire la forma vitae damianita o della clausura, e quindi occorrerebbe essere più prudenti quando si applica a Chiara e alle sue sorelle una vocazione contemplativa, anche perché nella regola, quando si parla esplicitamente della preghiera delle minori (nei cc. 3, 7 e 10), la legislazione è tratta tale e quale, niente di meno e niente di più, dalla regola del primo ordine, che non è mai detto contemplativo.

Per Chiara, come per Francesco, il primato è quello della signoria di Dio su tutta la vita e tutte le cose; la centralità di tutto il vivere, il volere e l’operare è costituita da Cristo; la dinamica della vita di penitenza o di conversione è data e dev’essere cercata soltanto nello Spirito santo: ma questo è più che sufficiente per definire la contemplazione autenticamente cristiana.

Le parole di Chiara sulla preghiera restano quelle di Francesco: «Non si estingua lo spirito della santa orazione» (R. Cl. 7,2), «si abbia lo Spirito del Signore e la sua santa operazione e lo si preghi con cuore puro» (R. Cl. 10,9-10).

Quanto alle esigenze esteriori e concrete, pur necessarie alla contemplazione cristiana quali il silenzio, i due fondatori ne parlano allo stesso modo e nella stessa intenzione (cf. Rnb 11,1; Reg. Er. 5-7; R. CI. 5,1-2), e se Chiara norma come possesso uno spazio di terreno attorno al monastero quanto conviene al ritiro (R. Cl 6,14), a un clima di silenzio e di pace, lo fa perché questo è esigenza di ogni vita comune.

Certo, devo qui toccare il tema della clausura e so di toccare un tasto delicato, sovente interpretato in modo ideologico o difeso in modo acritico senza analisi profonda, seria e intelligente delle fonti. Ma basterebbe cogliere la differenza tra la visione che ha Chiara della clausura damianita e la visione del papa Gregorio IX nella lettera del 1228 per ricavarne un eloquente argomento per il problema.

Per Chiara la clausura non è mai una ferrea legge, è tutt’al più una salvaguardia dell’ambiente di vita comune, è una misura che in quei tempi non poteva essere smentita per delle donne, se si pensa che già l’ordine dei minori appariva in una novità sconvolgente rispetto alla cristallizzazione della forma della vita religiosa dovuta soprattutto al secolo precedente. Chiara legifera che «si può uscire dal monastero per motivo utile, ragionevole, manifesto e degno di approvazione» (R. Cl 2,13), e anche nel c. 11, non certo steso da Chiara, è scritto che la porta «non sta mai aperta se non quando è necessario e conviene» (R. Cl 11,6), mentre Gregorio IX si esprimeva sulla vita delle damianite mostrando la sua visione e la sua comprensione del progetto damianita in questi termini: «Il Signore vi ispira di chiudervi in questa clausura monastica per servirlo di cuore, perché, abbandonato il mondo e tutte le sue cose, voi possiate abbracciarlo con amore puro, immacolato e incorrotto» 14

Questa comprensione era stata d’altronde manifestata dallo stesso Ugolino, allora cardinale e non ancora papa, nella regola data alle damianite dove si legifera: «Onmi namque tempore vitae suae clausae manere debent: et postquam claustrum huius religionis intraverunt aliquae ... nulla eis conceditur licentia vel facultas inde ulterius exeundi nisi forte causa plantandi vel aedificandi eandem religionem ad aliquem locum aliquae transmittantur» (R. Ug. 4: «Per tutto il tempo della loro vita devono rimanere recluse: e una volta entrate nel monastero e abbracciata questa forma di vita ... non è più concessa loro alcuna libertà o possibilità di uscita, eccetto il caso in cui siano trasferite in qualche luogo per impiantare ed edificare la medesima forma di vita»).

Chiara è lontana da questo linguaggio e comunque non fa mai coincidere, come purtroppo avviene ancora oggi, contemplazione e clausura, la contemplazione quale conoscenza amorosa di Cristo e un fatto materiale quale la clausura, né sente plasmata la vita a San Damiano da una regola giuridica. Per Chiara come per Francesco (è certo però che gli accenti di Chiara sono femminili!) la contemplazione è assiduità con la parola letta nelle sante Scritture, ma anche ascoltata e ricevuta dai frati come cibo e nutrimento della fede e dell’anima, la contemplazione è preghiera continua nell’attenzione al Signore e a tutte le creature.

E’ proprio e specifico di Chiara l’aver dato alla contemplazione una dimensione propriamente evangelica: non era per lei attività straordinaria, riservata a un’élite, ai privilegiati dalla cultura, ma era atteggiamento quotidiano nello spazio dell’umile realtà delle case, dei lavori quotidiani. Contemplazione per Chiara è vita in Cristo, è sacrificio vivente e spirituale offerto al Signore: è significativo che l’unico riferimento che Chiara fa alla pagina dell’incontro di Gesù con Maria e Marta (cf. Lc 10,38-42), diventata nel suo tempo un luogo classico per affermare il primato della vita contemplativa sulla vita attiva, individua l’unico necessario in questo culto della vita a Dio (cf. Rm 12,1) e non intravede nessuna opposizione tra azione e contemplazione.

La contemplazione, poi, per Chiara e Francesco non è solo conoscere Dio, ma anche vedere gli uomini e le creature come le vede Dio. Chiara chiama Agnese «gioia degli angeli» (Ep. 3,11) e inventaria in modo nuovo le cose di Dio, le creature dalle quali vede sempre sgorgare una lode, un ringraziamento al Dio altissimo creatore.

Concludendo questo paragrafo, non si può non sottolineare come la via della beatitudine fosse per Chiara conoscere l’unico e vero Dio e colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3), e proprio per questo anche lei, senza formazione accademica ma pregando sempre, seppe parlare delle cose del Padre con grande intelligenza spirituale, a tal punto che Sora Angeluccia, testimone al processo di canonizzazione, diceva che Chiara sapeva «parlare de la Trinità e dire altre parole de Dio tanto suttilmente che appena i molto dotti le averiano potute intendere» (Processo, Test. 14,7).

 

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Letto 4516 volte Ultima modifica il Venerdì, 21 Ottobre 2011 19:44

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