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Domenica, 06 Febbraio 2022 16:08

Come Gesù vedeva la società

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Dario Vota

Un modo per avvicinarci alla persona concreta di Gesù nei suoi rapporti con coloro che incontrava è provare a ricostruire la percezione che egli ebbe della situazione della sua società.

Egli percepiva la situazione critica degli ebrei di Palestina perché era uno di loro: viveva nelle condizioni quotidiane e nei problemi comuni di una popolazione soggetta a dominazione straniera (gli abitanti della Giudea, che era sotto diretto controllo romano attraverso il governo dei prefetti, Ponzio Pilato al tempo della vita pubblica di Gesù) o a classi dirigenti e a sovrani che governavano con l'appoggio romano (gli abitanti della Galilea e della Perea sotto la tetrarchia di Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, e quelli di Batanea-Traconitide-Auranitide sotto la tetrarchia di Filippo, altro figlio di Erode)

  [sarebbe sempre buona cosa, quando ci si confronta con il      contesto storico di Gesù e dei Vangeli, avere sott'occhio una    cartina un po' dettagliata della Palestina al tempo di Gesù,      soprattutto delle regioni attorno al lago di Galilea].

Ma più che sulla realtà politico-istituzionale, l'attenzione di Gesù si appuntava sulle difficili condizioni di vita della maggior parte della popolazione, segnate da una povertà endemica, da una costante insicurezza legata a una delinquenza assai diffusa, da rapporti socio-economici ingiusti, dai drammi legati a un diffuso indebitamento, dall'alto numero di malati, di mendicanti e derelitti.

Nelle parabole, in particolare, traspare un'acuta consapevolezza da parte di Gesù della situazione critica attraversata dalla società in cui egli viveva.

Con le parabole Gesù rendeva comprensibile il suo messaggio attraverso il richiamo a condizioni reali in cui i suoi ascoltatori potevano riconoscersi.

Le parabole sono analizzate dai commentatori con attenzione preponderante ai contenuti teologici o di insegnamento esistenziale e morale (com'è logico, essendo il Vangelo un annuncio di fede da calare nella realtà di vita del credente), raramente viene preso in considerazione il loro sfondo sociale. Eppure questo – che è percepibile a una lettura un po' attenta e che rivela parecchie cose sulle concrete condizioni di vita della popolazione della Palestina di allora – può aiutarci a comprendere la percezione viva che Gesù aveva dei problemi della società in cui viveva e avvicinarci alla concretezza della sua personalità. Proprio perché si rivolgeva a persone reali, Gesù collocava i suoi racconti in situazioni comuni alle gente del suo tempo, cosicché il messaggio delle parabole era religioso sì, ma attento anche ad offrire spunti per affrontare situazioni critiche nella vita sociale.

Facciamo alcuni sondaggi su questo tema esaminando alcune tra le molte parabole evangeliche.

La parabola del seminatore (Mc 4,-8; Mt 13,1-9; Lc 8,4-8) parla di un contadino che semina su una terreno assai disuguale: in parte sassoso, in parte infestato da rovi, solo in parte adeguato a una buona crescita dei semi. Era probabilmente una situazione comune a terreni della (pur fertile) Galilea ai margini delle aree migliori, terreni poco curati nella preparazione alla semina forse perché affidati al lavoro di braccianti poco pagati o perché lavorati da contadini poveri con strumenti troppo limitati o semplicemente terreni di scarsa qualità. Il raccolto risulta così adeguato solo nella frazione migliore della proprietà, e, per quanto la resa qui sia ottima (ma una resa del 60 o addirittura del 100 per uno appare decisamente esagerata: probabilmente non era l'esattezza del dato che contava per Gesù ma offrire un'immagine evocativa di un ottimo raccolto), non è detto che compensi adeguatamente la parte di semina andata persa.

  [L'uso di una cifra esagerata sembra qui un po' come nella      parabola di Mt 18,23-35, su cui v. poco oltre]

La parabola mostra un Gesù che osserva e conosce il lavoro agricolo, coglie anche le difficoltà che lo insidiano, le perdite che rendono precario il futuro e minacciano la sopravvivenza, situazione tipica di molti villaggi che Gesù ben conosceva.

La percezione che Gesù aveva della situazione sociale ed economica della sua terra lo rendeva attento a vari aspetti di una crisi che rischiava di soffocare la vita di tanta gente. Lo si può cogliere bene in vari suoi detti e parabole che hanno come sfondo il problema dei debiti, argomento su cui egli tornò con insistenza più volte, a segnalare una situazione preoccupante in cui c'erano persone non in grado di restituire dei prestiti e, non potendo assolvere gli impegni che si erano assunti, vivevano in costante stato debitorio.

Il mondo a cui Gesù si rivolgeva doveva apparirgli travagliato da una povertà endemica, in cui l'insolvenza dei debiti generava conflitti e talora forte aggressività. Ciò che Gesù narrava fa intuire, ad esempio, l'esistenza di una catena di debitori legati fra loro da reciproco e pesante indebitamento: alcuni, essendo a loro volta creditori, cercavano di ottenere spietatamente la restituzione di ciò che altri dovevano loro.

Cosa significava, a livello di esistenza quotidiana, essere un debitore insolvente? Significava poter essere privato della libertà, essere sottoposto al potere altrui. Onesto o disonesto che fosse, il debitore doveva rendere conto ai proprietari e subire rappresaglie più o meno pesanti e odiose; la vulnerabilità sociale del debitore era talmente grave da metterlo in pericolo di essere venduto o messo ai lavori forzati o imprigionato finché qualcuno non avesse saldato il debito per lui.

Si veda a questo proposito la parabola del servo spietato (Mt 18,23-35). Al di là della cifra esagerata del suo debito,

  [Il servo che deve al suo padrone 10.000 talenti è debitore di   una cifra spropositata: il talento era un'unità di peso variabile, a seconda delle regioni del mondo greco-romano e vicino-orientale, da 26 a 34 kg; a livello monetario, uniformato al valore dell'argento, un talento era pari a 6000 dramme ateniesi o 6000 denari romani; se la paga giornaliera di un operaio era in media di un denaro, un talento equivaleva alla paga di 6000 giornate lavorative: oggi sarebbero, nelle condizioni normali di 240 giorni lavorativi all'anno, 25 anni di lavoro; per un operaio generico regolarmente inquadrato che oggi guadagni sui 1200 euro netti al mese, quindi un netto annuo di un po' meno di 16.000 euro, sarebbero circa 400.000 euro; moltiplicandoli per i 10.000 talenti della parabola, si arriverebbe a 4 miliardi di euro: una cifra già di per sé enorme ma che, se rapportata al valore del denaro nell'antichità, la cui circolazione era imparagonabile per piccolezza a quella di oggi, era allora strabiliante: nessun servitore o comunque dipendente, per quanto affidatario di un incarico di grossa portata economica, poteva risultare debitore di una cifra simile. Per raffrontarla con una cifra uguale in un famosa vicenda della storia antica, si può citare il caso più celebre, di due secoli prima di Gesù: la fine della seconda guerra punica (201 a.C.), quando Roma impose alla sconfitta Cartagine (che era stata la maggiore potenza economica del Mediterraneo) un'indennità di guerra di 10.000 talenti d'argento]

emergono dal racconto sia la doppia relazione debitoria, che doveva essere tutt'altro che rara, sia la possibilità di vendere il debitore e con lui la sua famiglia per saldare il debito.

Gesù mostrava così di considerare la condizione dei debitori come un dramma grave che serpeggiava nella società e che non toccava soltanto lo strato più miserevole della popolazione (i poveracci, senza casa e senza lavoro): la parabola presenta infatti due individui appartenenti a strati sociali attivi, persone che lavorano, almeno una delle quali alle dipendenza di un grande signore, e che si sono troppo indebitate. Anche la legge era spietata e poteva decretare la sconfitta del debitore insolvente con la condanna alla prigione o addirittura alla riduzione della persona a proprietà di un'altra. Le relazioni sociali ne risultavano indebolite, e la risposta di Gesù a questo dramma, in una situazione che gli sembrava irrisolvibile, era il condono dei debiti.

Difficile dire se quest'idea nascesse in Gesù da una considerazione di realismo o dipendesse dall'idea utopica (perché mai davvero messa in opera) del giubileo, presente nell'immaginario religioso ebraico, o ancora se fosse ispirata a idee di Giovanni il Battista; è chiaro comunque che il fatto sociale dell'insolvibilità dei debiti era percepito da Gesù come talmente rilevante da diventare lo schema simbolico del rapporto fra l'uomo e Dio e fra uomo e uomo, tanto da entrare come invocazione nel Padrenostro: rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12).

Questa presenza dimostra che l'attenzione alla situazione di povertà e di crisi sociale era per Gesù tutt'altro che secondaria. Gesù guardava a una situazione in cui vari ceti sociali non potevano in nessun modo uscire dallo stato di indebitamento, situazione che evidentemente gli pareva risolvibile solo attraverso un condono generalizzato senza condizioni. Un condono che era condizione per chiedere a Dio il condono del debito-peccato: la grandezza della misericordia di Dio diventava comprensibile perché si conosceva la crisi sociale in atto che rendeva impossibile far fronte ai debiti impellenti.

Un'altra parabola ci mette davanti a un'immagine che fa intuire la condizione penalizzante degli strati miseri della società, è quella dell'amministratore scaltro (Lc 16,1-8). Accusato di aver amministrato in modo scriteriato i beni del suo ricco padrone e sul punto di essere licenziato, l'amministratore vuole evitare di ridursi a occupazioni per lui umilianti come zappare la terra o mendicare, e con astuzia riduce la quantità di prodotti dovuti al padrone da alcuni che lavorano sulle sue terre, per procurarsi degli amici disposti ad aiutarlo nei momenti di difficoltà.

Il racconto rispecchia un rapporto socio-economico che doveva essere assai diffuso nella Palestina di allora: un grande proprietario terriero, che poteva risiedere in città e non in campagna, faceva gestire le proprietà agricole da amministratori locali ai quali lasciava la responsabilità della gestione e una certa libertà di azione purché gli garantissero l'affitto pattuito con gli affittuari; l'amministratore, se abile e spregiudicato nel trattare direttamente con gli affittuari, poteva approfittarsi di loro e prendersi dei margini di guadagno personale anche consistenti; e la cosa era considerata normale. Nel caso della parabola il fattore, per procurarsi la gratitudine degli affittuari, può aver alterato i conti e ridotto in modo consistente quanto da loro dovuto al padrone.

Al di là dell'insegnamento morale e spirituale, la parabola trasmette informazioni sulla stratificazione sociale in una realtà di campagna. Al livello più basso stava la mendicità, considerata condizione irrecuperabile; il lavoro dei campi come braccianti o servi stava a un livello leggermente migliore, ma comunque basso e precario perché non concedeva sicurezza né abbondanza. Fattori e amministratori vari erano più vicini ai proprietari, dirigevano la condotta di dipendenti e servi ma erano sottoposti a regole di fedeltà ed efficienza; appartenevano a un livello di persone che conoscevano le pratiche gestionali e del commercio, maneggiavano denaro e beni e sapevano ottenere profitti.

Nelle parabole di Gesù emerge una società in cui sono molti i mendicanti, i malati cronici, i derelitti senza casa e lavoro.

Si veda, ad esempio, la parabola degli invitati al banchetto (Mt 22,1-14; Lc 14,15-24): il servo mandato a cercare ospiti di qualunque tipo per la cena non fa fatica a trovare per le piazze e per le vie della città ... poveri, storpi, ciechi e zoppi (...) e anche per le strade e lungo le siepi (Lc 14,21.23). Persone condannate a vivere senza riparo, ai bordi delle strade, anche di campagna, ai crocicchi, dunque collocate nelle zone più infime del territorio. Erano i più miseri, l'estremo più basso della scala sociale, l'esatto opposto dei ricchi e potenti.

E' quanto evidenzia la parabola del ricco e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31), dove si inquadrano nettamente i poli opposti della società. Proviamo a metterne in luce l'implicito sociale.

Il vestire abiti sontuosi e mangiare splendidamente sono simboli che indicano l'estrema ricchezza, il corpo piagato e la fame sono simboli della povertà estrema; vestito e cibo sono le immagini più immediatamente evidenti per definire la collocazione sociale (non si può non pensare a Giovanni il Battista, che tramite il vestito e il cibo si allontanava polemicamente dalla ricchezza e si avvicinava alla condizione dei più poveri).

Il mendicante, nella percezione di Gesù, sintetizza situazioni estreme che erano ben visibili nella società: la penuria totale di denaro e beni, un'iniqua distribuzione della ricchezza. La situazione del mendicante è qualcosa di tormentoso, che non può lasciare indifferenti; Gesù la indica come una realtà non tollerabile, ma sembra irrecuperabile con mezzi umani sul piano sociale: mentre i debiti, come si è visto, possono essere saldati con un condono, la condizione del mendicante può essere risolta solo con l'avvento del regno di Dio.

E' chiaro da questo che i modi con cui al tempo di Gesù si guardava ai problemi sociali, e i problemi stessi, non sono confrontabili con i modi attuali e con gli studi contemporanei sui processi di sviluppo e sottosviluppo; c'è una distanza culturale rispetto a noi oggi nella percezione sociale di Gesù e del mondo di allora. Gesù non ragionava nei termini di un "modello di sviluppo" o di un progetto di riforma sociale.

[Anche questo dovrebbe ricordarci che non si può spiegare e pretendere di attualizzare un brano di Vangelo accostandolo unicamente con il nostro modo attuale di vedere la vita e la società, con i nostri schemi mentali e con la nostra psicologia, senza tener conto della realtà storica (sociale, economica, culturale, ecc.) dei tempi di Gesù, ben diversa dalla nostra. Così facendo – e ripeto una cosa che ho già scritto in sede di presentazione del tema di quest'anno, ma la ritengo importante – si rischia di costruire un Gesù adattato troppo semplicisticamente alla nostra psicologia, come se Gesù e la gente che egli incontrava, i suoi primi discepoli e gli ascoltatori del loro annuncio, gli evangelisti e i loro primi lettori pensassero e guardassero alla vita, alla società, al mondo, all'universo, alla religione con lo stesso atteggiamento di noi oggi e non invece con quello di gente di 2000 anni fa in Palestina; insomma, un Gesù troppo filtrato attraverso le "lenti" culturali e psicologiche di noi oggi].

Gesù, poi, sembrava pensare che la società in cui viveva fosse costantemente minacciata dalla delinquenza. Stando alle parabole, c'erano briganti che si aggiravano per le strade (Lc 10,31), che rubavano pecore (Gv 10,8-10), ladri che assalivano e scassinavano le case di notte (Lc 12,39), aggredivano e legavano i proprietari (Mt 12,29): una criminalità che minacciava la vita di tanti e creava paure.

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 31-37) segnala l'esistenza di briganti. Non ladri comuni, ma bande organizzate e armate, predatori che seminavano dolore e violenza e lasciavano spesso morti e feriti sulla strada, in questo caso lungo una strada isolata che attraversava zone montagnose adatte agli agguati (prendendola come esempio di strada pericolosa, Gesù sembrava considerare quella da Gerusalemme a Gerico come notoriamente infestata da briganti).

Si delinea sullo sfondo un sistema di vita minacciato da ruberie che spaventano per la loro ferocia; una realtà di banditi e di ladri che Gesù evidentemente ben conosceva perché dalla paura di questi era segnata la vita dei villaggi e delle strade che egli frequentava. E la pericolosità della figura del bandito serviva da paragone: così nella scena dell'arresto di Gesù ("Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni": Mc 14.48).

Soprattutto di ladri i Vangeli parlano in numerosi passi: ladri che penetrano nelle case all'improvviso, soprattutto di notte. Una presenza sociale endemica, che era parte del malessere sociale complessivo; una presenza sentita da tutti come una minaccia, tant'è vero che Gesù la citava spesso come l'esempio tipico di pericoli incombenti e inattesi (non a caso l'immagine dell'irruzione di un ladro appare come un simbolo del ritorno del Figlio dell'uomo che avverrà all'improvviso mentre uno meno se l'aspetta o nel cuore della notte quando non è accorto o vigile: Mt 24,43-44).

Un altro elemento significativo della percezione che Gesù aveva della società del suo tempo è il contrasto città-campagna. Da una parte gli insediamenti rurali, con una prevalente economia agricola e pastorale, con qualche attività artigianale e (in riva al lago di Galilea) di pesca; dall'altra i centri urbani (in Galilea: Sefforis, Tiberiade, Betsaida Julia, e, poco più a nord, Cesarea di Filippo) avviati a inizio I secolo d.C. verso modi di vita ellenistici (tipici cioè del mondo greco-romano). Nella sua vita pubblica Gesù per lo più evitò i centri cittadini (a parte Gerusalemme), forse perché, con i modelli di vita in essi prevalenti, gli sembravano aver perso i valori etici tradizionali e le possibilità di accogliere un annuncio rivolto a genuini israeliti.

Al di sotto della sua riflessione religiosa, la parabola dei vignaioli (Mc 12,1-9; Mt 21,33-41; Lc 20,9-16) dà la rappresentazione di un grave contrasto tra città e campagna. Un proprietario terriero entra in conflitto con i lavoratori della sua vigna in campagna; la serie di contrasti che ne nascono è punteggiata da aggressioni e anche da omicidi che colpiscono perfino il figlio del padrone. E' lo scontro tra un proprietario assenteista (diede la vigna in affitto a dei contadini e se ne andò lontano per molto tempo: Lc 20,9), interessato solo a raccogliere la sua parte di prodotto della vigna (al momento opportuno mandò un servo dai contadini a ritirare da loro la sua parte del raccolto della vigna; Mc 12,2), e i fittavoli che, o perché esasperati da un rapporto di affitto che li sfrutta o perché decisi ad appropriarsi con la violenza di un patrimonio altrui, agiscono con estrema brutalità.

Quello che si profila dietro il racconto è un esempio di tensioni socio-economiche e di contrasti che non doveva essere un caso isolato, anche se la parabola può aver estremizzato in modo schematico i termini di un conflitto più complesso, in cui i lavoratori della campagna, soprattutto affittuari e braccianti, dovevano non di rado covare forme di risentimento verso i proprietari terrieri.

Un aspetto del contrasto città-campagna appare anche nella parabola del figlio sperperatore (Lc 15,11-32). La vicenda raccontata nasce da una situazione di crisi che poteva investire il mondo contadino delle fattorie a conduzione familiare: c'è la divisione della famiglia e il concreto rischio di impoverimento di coloro che, attratti dai modelli di vita cittadini, abbandonano un nucleo domestico florido. Il figlio del proprietario terriero vorrebbe entrare in ambienti che immagina più gratificanti, ma la vita cittadina esercita su di lui uno sbandamento con effetti disastrosi: la città non solo opera un traviamento morale del giovane, ma alla fine non è neppure in grado di dargli possibilità di sostegno economico quando viene colpita da una carestia. La salvezza del giovane si realizza con il ritorno alla fattoria del padre, dove c'è un gruppo domestico che garantisce da vivere anche ai dipendenti.

Ma anche il nucleo domestico rurale è soggetto a tensioni e difficoltà: a scappare in città è il figlio minore, probabilmente perché si sente schiacciato dal confronto con il padre e con il fratello maggiore. Ma anche quest'ultimo sembra scontento della subordinazione cui la vita familiare lo costringe. Insomma, la vita rurale tradizionale, che Gesù giudica più positivamente di quella urbana (le città non sono luoghi sicuri neppure sul piano economico), non è esente da conflitti interni, che Gesù coglie, pur nella consapevolezza della forza coesiva dell'ambiente di campagna, quando può poggiare su buone risorse e su gerarchie positive, e sulla sua capacità di risolvere situazioni critiche. 

 



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Letto 14040 volte Ultima modifica il Lunedì, 07 Febbraio 2022 19:16

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