Dio mediante il suo Spirito interviene nell'intero processo di produzione di un testo biblico perché in esso si incarni la verità che egli vuole comunicare agli esseri umani per la loro salvezza.
La formazione dei libri che formano la Bibbia è avvenuta lungo il corso di un millennio prima dell'era cristiana per l'AT e nel primo secolo d.C. per il NT.
Babilonia,
figura del Male nell’apocalittica
di Michel Trimaille *
L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *
In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della "giustificazione secondo fede" o della "salvezza al di fuori delle opere della Legge"? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il "fondatore del cristianesimo". Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.
* Professore di Nuovo Testamento
Facoltà di Teologia, Università di Losanna
Tra Saulo di Tarso (il suo nome aramaico) e Gesù di Nazareth vi è ben poco in comune. Come spiegare allora che l'uno è stato preso per l’altro? Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo e amico di peccatori. Il suo messaggio si rivolge agli uomini e alle donne di Israele. Il suo ministero si è limitato alla Galilea, con un breve sprazzo finale a Gerusalemme. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nell'èlite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbi Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo, la sua formazione all'esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La pratica del gezera shava, consistente nell'accostare due citazioni per interpretare l'una grazie all'altra, non ha per lui segreti (esempio: Gal 3,l0 e 12). Anche sostenere una parola della Torà con una citazione dei profeti è altrettanto comune in lui come nei rabbini della miglior tradizione. D'altra parte, le più recenti ricerche sul suo modo di condurre l'argomentazione mostrano che l’apostolo delle Genti è esperto nella pratica della retorica greco-romana, alla pari di un Cicerone o di un Quintiliano. Nulla di sorprendente, se si sa che la città di Tarso ospitava un'apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto d'onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata.
Le sottigliezze di una doppia cultura
Queste due componenti della cultura di Paolo di Tarso spiegano la difficoltà di comprenderlo oggi; il suo stile, la sua logica, sono quelli di un uomo che suona costantemente su due tastiere: lo stile figurato, analogico del rabbi, e l'argomentazione lineare del retore romano (con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione). L'estrema difficoltà, per gli esegeti, consiste proprio nel tenere collegate le due modalità della sua riflessione, senza farle pendere completamente dal lato della sottigliezza rabbinica o dal lato del rigore dialettico. Ma il confronto con Gesù di Nazaret ripropone il problema: come capire che Paolo, l'intellettuale fariseo di alto livello, sia stato conquistato dal destino dell'uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la "conversione" di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all'anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana, Paolo non l'ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione. All'interno della sua pratica, all'interno della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne esca stordito, demolito, smarrito? L'uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che certo, è che, un giorno, le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi. Paolo inizia elencando il suo impressionante albero genealogico-religioso: "circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge (Fil 3,5-6). Non si potrebbe pretendere maggiore garanzia di appartenenza ebraica! L'eccellenza dell’uomo di Tarso in materia di pietà legale gli permetteva di definirsi, con fierezza, "irreprensibile". Questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto, con tutta la tradizione farisaica, a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualche cosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. "L'appeso è una maledizione di Dio": questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? È questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l'onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati "cristiani". (Gal 1,13).
Fallimento della religione
Damasco è la scoperta di un fallimento. Non lo scacco di un uomo che non sarebbe stato capace di adempiere ai precetti della Torà. Al contrario: "irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge" (Fil 3,6). È lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell'impegno per Dio, al culmine della pietà, l'uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Riflettendo su questo problema all'inizio della lettera ai Romani (1,18-3,20), Paolo giunge alla conclusione che "l'ebreo come il greco" falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio. Paolo segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita. Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell'uomo l'illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l'osservanza della Torà (l'indagine dell'ebreo) o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza (l'indagine del greco), l'errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo (I Cor 1,18-25). È il motivo per cui, dirà Paolo ai Corinzi, Dio ha scelto di salvare gli uomini attraverso il messaggio insensato, risibile, della croce: "E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1,22-23).
Alla sconfitta della religione che tenta di catturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia.
Dio di tutti e di ciascuno
Non si comprende nulla del pensiero di Paolo se non si coglie a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l'immagine del dio tirannico e si lasciano "giustificare", cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui.
Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell'umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l'aveva affermato con altrettanta forza. Che l'essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all'uomo "senza le opere della Legge" (Rm 3,21-28).
Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l'Occidente cristiano; il concetto di individuo. Sotto l'influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l'individuo, sono qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere degli stessi diritti.
Un problema di libertà
La doppia cultura di Saulo di Tarso (greco-romana ed ebraica) gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è una prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un'altra. Gli stoici (ad esempio Epitteto o Seneca) ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L'uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all'uomo di avvicinarsi alla libertà. Paolo riprende la questione, ma la sua constatazione è più radicale: non solo l'uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato - nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo - aliena l'uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d'uscita per l'essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.
Distruttore della Legge?
Rifiutando la Legge come via di salvezza, Paolo si è attirato l'incomprensione e la collera dei suoi antichi correligionari. Malgrado i suoi dinieghi ("la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento", Rm 7,12), l'apostolo delle Genti non si libererà mai dal sospetto di essere un trasgressore della Legge. All'intento del nascente cristianesimo, questo punto costituisce una grande divergenza tra Paolo e il giudeo-cristianesimo di Gerusalemme dominato dalla figura di Giacomo, fratello del Signore. In realtà, se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza (ormai conta solo la fede), Paolo non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti. Arriva anche a dire che "la giustizia della Legge si compie in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito" (Rm 8,4). In pratica, il credente, non più preoccupato per sé, può aprirsi all'amore dell'altro, cosa che costituisce - per Paolo come per Gesù - il centro della Legge.
Se il rimprovero di distruggere la Legge non è giustificato per quanto riguarda Paolo, il suo discorso sul fallimento della religione (compresa quella ebraica) poneva l'apostolo davanti ad una via senza uscita: Dio, dando già da millenni, la Legge ad Israele, avrebbe sbagliato?
Perché il giudaismo?
La storia del popolo eletto sarebbe stata una storia inutile? Nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani di Paolo, costretto ad affrontare la questione, propone una riflessione fondamentale sul destino di Israele. Essa rimane essenziale su quello che noi potremmo (e dovremmo) pensare oggi delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo. La formula della salvezza offerta a "chiunque crede" fonda in realtà l'universalità della grazia, ma, contemporaneamente, sottrae ogni consistenza alla particolarità di Israele. Se il cristianesimo è la religione del Dio universale, perché il giudaismo? Seguiamo da vicino le argomentazioni di Rm 9-11. Paolo comincia col constatare il rifiuto opposto da Israele al Messia: gli ebrei non vogliono il Cristo (Rm 9), La parola di Dio è sconfitta? No, Dio indurisce chi vuole, dice Paolo, ed apre il cuore a chi vuole. Questo non impedisce, continua Paolo (Rm 10), che la maggioranza degli ebrei si sia chiusa alla parola del Vangelo. Essi hanno sentito la notizia, ma non vi hanno creduto. Dio avrebbe dunque rifiutato il suo popolo? Il semplice enunciato della questione fa sobbalzare Paolo (Rm 11): assolutamente no! In realtà, la storia di questo popolo ha sempre conosciuto l’indurimento della maggioranza e la fedeltà di un piccolo resto. I cristiani non ebrei corrispondono oggi a questa logica del piccolo resto: essi credono, mentre la maggior parte di Israele rifiuta.
L'enunciato di un mistero
Giunto a questo punto, Paolo sfiora la contraddizione: da un lato Israele è colpevole di chiudersi al Vangelo; dall'altra, fede e indurimento del cuore sono opera di Dio. A quale conclusione arrivare? Da questa scomoda posizione, l'apostolo fa la professione di un mistero: "Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,25-26).
Conclusione sbalorditiva! Al pericolo di cadere in contraddizione, Paolo sfugge enunciando un mistero teologico, cioè di una verità che non è data come la conclusione di un ragionamento, ma come una rivelazione. Il suo contenuto è chiaro: alla fine dei tempi, Israele sarà salvato. In altri termini Paolo ammette Israele ai beneficio della giustificazione per fede (quello stesso messaggio che Israele rifiuta). Se è vero che Dio salva per grazia, e senza tenere una contabilità degli sforzi dell'uomo per soddisfarlo, allora non terrà conto del rifiuto che Israele oppone al Messia. La grazia vale anche per il popolo eletto. Attraverso questo mistero, Paolo perviene a rendere giustizia da un lato alla scelta della maggioranza degli ebrei, che rompe col Cristianesimo e non vuole questo Messia. Egli prende dall'altro in considerazione la fedeltà di Dio alle sue promesse: Dio non rinnega la sua parola, nè i suoi. L'apostolo lascia così aperto l'avvenire di Israele, come una storia che deve compiersi tra Dio e il suo popolo eletto, e non riguarda che loro due. Se i cristiani hanno ragione di considerarsi beneficiari della grazia, il destino del popolo ebraico non li riguarda. Questo destino appartiene, giustamente, ad un mistero che si è già avviato tra Abramo e Dio. A questa inviolabile tenerezza di Dio per Israele, nessuno potrebbe attentare. Ma questo dovuto annullamento davanti alla grazia sovrana di Dio non significa per Paolo essere ridotto al silenzio: nel corso della sua intera corrispondenza, egli non cesserà di testimoniare che un dialogo esigente e serrato con il giudaismo è indispensabile alla ricerca della propria identità da parte del cristianesimo.
(da Il mondo della Bibbia n. 53)
Verità della Bibbia
di Gaetano Castello
La prova e l'obbedienza
a cura di Mario Maritano
Ambrogio, discendente di una nobile famiglia romana, nato a Treviri (337/339) diede ottima prova di sé come consularis Liguriae et Aemiliae, cioè come governatore dell'ltalia settentrionale con sede a Milano. Così, pur essendo ancora catecumeno, fu acclamato vescovo di Milano dal popolo, quando egli intervenne per sedare i tumulti alla morte del suo predecessore nel 374. Iniziando il suo ministero episcopale, egli distribuì i suoi beni ai poveri, si dedicò ad una vita ascetica e si applicò agli studi teologici. Svolse un'intensa attività pastorale, sociale, a favore dei più poveri. Si rivelò abile e deciso soprattutto nel difendere la religione cattolica contro i pagani e gli eretici; affermò l'indipendenza della Chiesa di fronte allo Stato. Scrisse molte opere esegetiche, dogmatiche, morali-ascetiche, discorsi, lettere e inni.
Nel suo libro De Abraham, Ambrogio presenta la figura del patriarca come un modello di vita cristiana (ricordo che il vescovo di Milano in quest'opera si rivolge ad adulti che dovranno ricevere il battesimo). Abramo, nel suo peregrinare e nel suo agire in piena fiducia e obbedienza a Dio, diviene il modello del cristiano che progredisce spiritualmente, abbandonando una vita frivola e peccaminosa, e nelle prove e nelle tentazioni si mantiene fedele a Dio.
La prova e l'obbedienza
1,2,4. Abramo è messo alla prova come un uomo forte, è incoraggiato come un uomo fedele, stimolato come un uomo giusto e quindi "partì, secondo la parola del Signore e con lui partì Lot" (Gen 12,4). È ciò che si proclama tra le sentenze dei sette sapienti: "épou Theô", cioè "segui Dio".
Abramo con i fatti anticipò le sentenze dei sapienti, e, seguendo il Signore, uscì dalla sua terra. Ma poiché la sua terra precedentemente era un'altra, cioè la regione dei Caldei, dalla quale uscì Terach, padre di Abramo, che migrò a Carran, e poiché Abramo condusse
via con se suo nipote, mentre gli era stato detto: "Esci dalla tua parentela", (Gen, 12,1) consideriamo se per caso "uscire dalla sua terra" non significhi uscire da questa terra, cioè dalla dimora del nostro corpo, da cui uscì Paolo, che disse: "La nostra patria è nei cieli" (FiI 3,20), e dalle attrattive e dai piaceri del corpo, che - disse - sono come congiunti della nostra anima, la quale necessariamente soffre insieme al corpo, finché rimane ad esso strettamente vincolata. Perciò dobbiamo uscire dal modo di vivere terreno, dai piaceri mondani, dalle abitudini e dalle azioni della vita passata, in modo che cambiamo non solo i luoghi, ma anche noi stessi. Se desideriamo unirci a Cristo, abbandoniamo le cose corruttibili (1,2,4).
1,8,66. Dio mise alla prova Abramo quando gli ordinò di uscire da Carran e lo trovò obbediente. Lo mise alla prova quando Abramo liberò il nipote confidando nella forza della fede, quando non prese nulla del bottino (di guerra), quando Dio promise a lui, ormai vecchio, un figlio - infatti avendo egli cento anni, sebbene considerasse ormai inariditi gli organi di riproduzione di Sara, tuttavia credette e non ebbe esitazioni grazie alla fede, sebbene potesse averne a causa della sterilità e della vecchiaia (della moglie) -, lo mise alla prova sollecitando la sua ospitalità. Dopo averlo così provato, Dio reputò Abramo più forte nel sopportare ordini più impegnativi e più pesanti.
Da questo esempio impariamo che una persona è messa alla prova da difficoltà reali, è tentata invece da difficoltà create appositamente e fittizie. Dio infatti non voleva che il padre immolasse il figlio, ne che facesse questa offerta, dato che procurò una pecora da sacrificare invece del figlio, ma tentava Abramo nel suo affetto di padre (cf Gn 22,1-18), per vedere se anteponesse i comandi di Dio al figlio e diminuisse la forza della sua devozione, in considerazione del suo affetto paterno.
Ambrogio, Abramo 1,2,4 e 1,8,66
Immagini di Abramo
nel Nuovo Testamento
Citato 73 volte nel Nuovo Testamento contro le 80 di Mosè e le 59 di Davide, Abramo è una delle più importanti figure cristiane. Lo era già negli scritti ebraici della stessa epoca. Alcune tradizioni neotestamentarie non fanno che riprendere tratti del personaggio già chiari nel giudaismo antico, trasformandoli solo in parte. Tuttavia un autore come Paolo fa del patriarca una figura originale, poco compatibile con le letture ebraiche: Abramo è per lui il giusto per fede, quindi la persona che crede in Gesù Cristo.
Le tradizioni antiche che soggiacciono al Nuovo Testamento sono difficili da individuare, perché esse sono state rimaneggiate dai redattori. Indipendentemente dall’apporto dei redattori finali e delle loro accentuazioni teologiche, tuttavia possiamo ricostruirne alcune, le cui radici affondano nel giudaismo e senza troppi rischi farle risalire a Gesù. Per un ebreo, come per un cristiano del I secolo, Abramo è l’antenato, il padre del popolo di Israele, e la paternità è inoltre una qualità che egli condivide con Dio. Egli è citato per primo nella linea dei patriarchi, perché Dio si dichiara il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", formula recepita da Mosè nel roveto ardente e spessissimo ripresa in seguito (Es 3,16, citato in Mt 22,32 e paralleli; At 3,13; 7,32). Se ha lasciato il suo paese di origine, è stato per fondare un popolo e radicarlo in una terra (Gn 12,1 citato in At 7,2; Eb 11,8); i figli di Abramo formano in realtà il popolo destinatario delle promesse divine. I due cantici del vangelo dell’infanzia secondo Luca, quello di Maria e quello di Zaccaria, immersi in un’atmosfera anticotestamentaria, ricordano l’impegno che Dio si assunse di fronte ad Abramo con il popolo che doveva nascere da lui (Lc 1,55.73).
Ne consegue che ogni ebreo è figlio di Abramo, e che ogni ebrea ne è la figlia, come la donna curva che Gesù guarisce in giorno di sabato (Lc 13,16). Nelle due genealogie di Gesù, pur diverse l’una dall’altra, Abramo è citato come antenato del bambino (Mt 1,1-17; Lc 3,34). Se Matteo sfrutta l’informazione per insistere sull’appartenenza di Gesù al mondo ebraico, Luca, che la utilizza poco in questa direzione, tuttavia la fornisce;. essa fa parte del dato tradizionale cristiano. Non bisognerebbe tuttavia pensare che la filiazione da Abramo si riduca ad una situazione di fatto. Un ebreo del I secolo sa che essa è anche un divenire, e che non ci si può dichiarare figli di Abramo se non si vive della Torâ. L’alleanza stipulata con i patriarchi produce i suoi effetti soltanto se l’ebreo accetta questi padri come modelli. In vari momenti della sua crescita, l’albero dell’alleanza che ha le sue radici in Abramo ha avuto rami secchi, tra cui quelli che sono nati da Ismaele e da Esaù (At 3,25; Rm 9,7). Il primo libro dei Maccabei può scrivere: "Ricordate le gesta compiute dai nostri padri ai loro tempi e ne trarrete gloria insigne e nome eterno. Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?" (1 Mac 2,51-52).
I vangeli testimoniano le polemiche innescate a questo proposito con alcuni ebrei, sia da parte di Giovanni Battista che di Gesù (Mt 3,9 e parallelo; Gv 8,33-40). Non basta rivendicare per padre Abramo, bisogna vivere di conseguenza. Certi paria, come Zaccheo, si rivelano veramente "figli di Abramo", mentre questo titolo era loro negato da altri che, a torto, si consideravano più qualificati di lui a portarlo (Lc 19,9).
Antenato, origine, il padre Abramo è anche naturalmente colui che accoglie i suoi figli al termine del loro cammino. Con Isacco e Giacobbe egli presiederà al banchetto escatologico cui non dà diritto la nascita (Mt 8,11; Lc 13,28). E il seno di Abramo è il luogo in cui si ritrova il povero Lazzaro della parabola (Lc 16,22-30) mentre il ricco indifferente alla sua povertà ne è escluso. Questi luoghi escatologici del vangelo legati ad Abramo sono attestati nel giudaismo rabbinico (Esodo Rabba 25; Pesiqta Gabbati 43, 108b; b. Qiddušîn 72ab). Essi corrispondono ad immagini forse comuni nel giudaismo del I secolo, benché nessun altro testo ebraico, al di fuori dei vangeli, le riecheggi direttamente.
La rivoluzione paolina:
Abramo senza Mosè
Se la figura paterna di Abramo presentata dagli evangelisti e dagli Atti degli Apostoli si inserisce, nel suo complesso, in continuità con le tradizioni ebraiche dell’epoca, non si può dire lo stesso del modo in cui Paolo tratta il patriarca. Il testo del primo libro dei Maccabei, citato prima, presenta in realtà Abramo come un modello di giustizia, ma questa giustizia gli è valsa perché è stato fedele nella prova. La prova di cui si parla è quella del sacrificio, detto anche l’Aqeda (la legatura) di Isacco riferita al capitolo 22 della Genesi. È accettando di offrire in sacrificio l’unico figlio che Abramo, nelle tradizioni ebraiche più attestate, si è rivelato giusto e fedele. Anche il Nuovo Testamento è un’eco di questo nella lettera di Giacomo e nella lettera agli Ebrei (Eb 11,17): se Abramo fu considerato giusto, non fu per la sua sola fede, ma anche per le sue opere. La lettera di Giacomo scrive: "Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?" (Gc 2,21). Per questo meritò il bel titolo di "amico di Dio" (Gc 2,23; Co-rano 4,125).
Quando scrive questo, Giacomo testimonia una consolidata tradizione ebraica. Il suo testo è tuttavia segnato dalla polemica che conduce contro Paolo, che aveva della giustizia di Abramo una visione del tutto diversa. Per l’apostolo delle genti, il versetto biblico su cui si fonda principalmente la giustizia di Abramo è al capitolo 15 della Genesi: "Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gn 15,6), ben prima nel racconto della scena dell’Aqeda.
L’apostolo dedica ad Abramo due lunghi sviluppi, uno nell’epistola ai Galati (3,6-29), dove, rivolgendosi ad un pubblico tentato di sommare i comandamenti della Tora alle esigenze della vita in Cristo, Paolo insiste sul fatto che Abramo è colui che riceve le promesse divine, che queste promesse riguardano "la sua discendenza", e che il termine "discendenza" designa direttamente Cristo. Il termine "discendenza" è in realtà al singolare nel testo ebraico di Gn 12,7, come nella Settanta (Ga13,16). Cristo è dunque l’erede delle promesse fatte ad Abramo. La legge di Mosè, venuta "quattrocentotrenta anni" dopo il patriarca (Gal 3,18), non può annullare queste promesse. Di conseguenza, i comandamenti della legge ebraica non hanno peso nel processo di giustificazione del credente.
Nell’epistola ai Romani (4,1-16), gli accenti sono leggermente diversi, benché il messaggio sia complessivamente lo stesso. Paolo ricorda che Abramo fu dichiarato giusto dalla Scrittura subito dopo che Dio gli ebbe annunciato una discendenza numerosa come le stelle del cielo, nel capitolo 15 della Genesi (Gn 15,5-6). La circoncisione, figura della legge che sarebbe venuta attraverso Mosè, fu imposta da Dio soltanto più tardi, nel capitolo 17 dello stesso libro (Gn 17,10-14); ed egli superò la prova di essere stato pronto a sacrificare il figlio ancora più tardi, in Genesi 22. In altre parole: Dio dichiarò che Abramo era giusto indipendentemente dalla legge e indipendentemente dalla sua obbedienza. Non circonciso, Abramo era ancora in un certo senso pagano quando Dio lo dichiarò giusto. Questi eventi sono il fondamento della convinzione paolina che la giustizia di Dio è destinata a tutti – ebrei e pagani – grazie alla loro fede, indipendentemente dalla legge ebraica.
Il lettore moderno può essere fuorviato da questo modo di ragionare che gioca su dei particolari del testo biblico; esso è tuttavia perfettamente in linea con i criteri esegetici ebraici applicati nel I secolo. Un rabbi contemporaneo di Paolo avrebbe potuto discutere con lui di questi risultati, ma non contestare questo metodo di lettura. In un certo senso, il modo di ragionare paolino è anche straordinariamente moderno perché, nella lettera ai Romani come in quella ai Galati, Paolo tiene conto della relazione cronologica tra gli eventi: la legge è venuta dopo la promessa (mentre varie correnti del giudaismo del I secolo ritenevano che già Abramo e perfino Adamo praticassero la Tora); la giustizia del patriarca fu dichiarata dal testo sacro prima che fosse prescritta la circoncisione e prima che si fosse verificata l’Aqeda di Isacco. Prime da un punto di vista cronologico, la promessa e la giustizia nate dalla fede hanno la precedenza sugli altri eventi della storia della salvezza.
Si comprenderà così come molti ebrei non possano seguire Paolo sul suo stesso terreno, perché questo li condurrebbe a svalutare l’osservanza della Torâ, tesoro donato da Dio al popolo d’Israele. In questo, Paolo è uno dei maggiori artefici della futura frattura fra giudaismo e cristianesimo.
Una figura complementare:
Abramo, l'ebreo, sottomesso a Gesù
Non si potrebbe chiudere questa carrellata senza presentare due altri lunghi passaggi del Nuovo Testamento che mettono in scena Abramo, entrambi successivi alle lettere di Paolo: uno si trova nella lettera agli Ebrei, l’altro nel vangelo di Giovanni. Oltre alla sezione sulla fede di Abramo in cui l’autore considera due momenti importanti della vita del patriarca, e cioè la sua partenza dalla terra d’origine e il suo sacrificio (Eb 11,8-19), la lettera agli Ebrei ne ricorda un altro: l’incontro con il re sacerdote Melchisedek (Eb 7,1-9). L’autore utilizza qui la tipologia. Melchisedek è typos di Cristo; il suo sacerdozio prefigura il sacerdozio della nuova alleanza. Quanto ad Abramo, egli è l’antenato di Levi, portatore lui stesso del sacerdozio ebraico. Ora il testo afferma che Abramo attribuì a Melchisedek "la decima di tutto", lo considerò cioè suo superiore e si sottomise a lui (Gn 14, 17-20). Trasferendo questo al rapporto tra Gesù e i sacerdoti ebrei, l’autore della lettera ne deduce la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio levitico, benché Gesù non fosse appartenuto, secondo la legge ebraica, ad una famiglia sacerdotale. Gesù corrisponde a Melchisedek, Abramo a Levi.
Di redazione ancora più tardiva, il vangelo di Giovanni dedica un lungo passaggio ad una polemica tra Gesù e coloro che l’evangelista chiama "i Giudei", nella quale interviene la figura di Abramo (Gv 8,33-58). Questi ultimi affermano all’inizio della discussione: "Il nostro padre è Abramo" (v. 39). Sino a questo punto, non è che una discussione diffusa, già richiamata, sul diritto di qualcuno di rivendicare Abramo per padre. La sfumatura propriamente giovannea si precisa tuttavia lungo lo svolgimento del racconto. Alcuni versetti più avanti, Gesù dichiara: "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò" (v. 56); poi: "In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono" (v. 58). Dichiarazione che i suoi interlocutori considerano blasfema e a conclusione della quale raccolgono pietre per scagliarle contro l’empio. Come appare da questo complesso sviluppo, il personaggio di Abramo cambia statuto: dalla figura paterna che è all’inizio della discussione, diventa una figura profetica la cui funzione è testimoniare la preesistenza del Figlio e di rallegrarsi della sua venuta.
Queste due ultime figure, presentate rispettivamente dalla lettera agli Ebrei e dal vangelo di Giovanni, hanno in comune che Abramo è sottoposto a Cristo: sottoposto attraverso la sua riverenza verso Melchisedek (Eb), sottoposto grazie alla gioia che egli prova nel "vedere" colui il cui nome è "Io sono" (Gv).
Modello per il credente di ogni origine (ebreo o pagano) secondo Paolo, Abramo avrebbe potuto diventare nel pensiero cristiano una pura figura di universalismo. Testi posteriori alle lettere paoline, e in particolare i vangeli di Matteo e di Giovanni come pure la lettera agli Ebrei, lo reinseriscono tuttavia nel giudaismo, col rischio di ridurne in parte la statura. Questa diversità ristabilisce un felice equilibrio. Paolo sceglie Abramo piuttosto che Mosè, Matteo al contrario valorizza Mosè e la sua legge. Giovanni tratta il patriarca come un profeta.
Gli autori del Nuovo Testamento si impadroniscono delle figure dell’Antico con grande libertà, contribuendo tutte a delineare i tratti di colui in cui essi trovano la loro pienezza, cioè Gesù Cristo.
L'espressione italiana: “La Bibbia”, viene da un plurale greco tà Biblía, “i libri”, passando attraverso il latino medievale Bíblia.
La necessità dell’unico padre
Valorizzazione della storia di Abramo
Immagini di un antenato
di Sophie Laurant
Abramo occupa, tra i personaggi della Bibbia ebraica, un ruolo privilegiato. Insieme a Mosè è, in un certo senso, il "fondatore" del giudaismo, ma al contrario di Mosè, Abramo è diventato l'antenato comune delle tre religioni monoteiste: giudaismo, cristianesimo, islam. Questo patriarca sembra godere di un'incontestabile forza di integrazione, dato che possono riconoscersi in lui correnti teologiche diverse. Esistono dunque più letture possibili della figura di questo antenato. ll fondamento di tutte queste letture, cioè il ciclo di Abramo, che si trova nel libro della Genesi (Gn 11,27-25,18), contiene già una diversità di vedute e di rappresentazioni del patriarca.
L'avventura di Abramo, che all’inizio si chiama Abram (fino a Genesi 17), inizia con il racconto della migrazione della famiglia del patriarca che si sposta dalla Mesopotamia alla Siria (Carran). Al momento della menzione di Sara (Gn 11,30), moglie del patriarca, è citata la sua sterilità. Ogni avvenire sembra già allora compromesso per la coppia. Tuttavia in Genesi 12,1-9, Dio promette ad Abramo una numerosa discendenza. Egli appare dall’inizio come il credente esemplare. Non pone alcuna domanda quando Dio gli ordina di lasciare il suo paese: obbedisce, e si mette in cammino verso una terra sconosciuta. Appena arrivato in Canaan, il patriarca ci è presentato come un’altra persona (12,10-20). A seguito di una carestia, egli si affretta a lasciare la terra promessa per l’Egitto. Là non esita a far passare Sara, la moglie, per sua sorella e si arricchisce grazie a lei. Gli interventi di Dio e del faraone ristabiliscono l’ordine turbato dalle azioni di Abramo. Dopo l’immagine di un patriarca ingannatore, si ritrova in Genesi 13 un Abramo conciliatore e uomo di pace. Il conflitto territoriale che lo oppone a Lot, il nipote, è regolato con una divisione in zone di occupazione. Al contrario, il racconto seguente (Gn 14) ci pone di fronte, in modo inatteso, un Abramo guerriero che interviene in un conflitto internazionale dalle dimensioni apocalittiche. L’Abramo di Genesi 15 esprime, eccome, i suoi dubbi circa la promessa divina; in seguito è informato da Dio sugli eventi futuri, finisce col credere ed entra nell'alleanza. In compenso, in Genesi 16, il patriarca gioca un ruolo passivo e si trova un po’ superato dagli eventi. Accetta la proposta di Sara che, a causa della sua sterilità, vuole farsi sostituire dalla schiava Agar. Quando la schiava è incinta, Abramo è incapace di governare il conflitto che sorge tra le due donne. Agar fugge, ed è un messaggero divino che interviene in favore di lei e di suo figlio Ismaele. In Genesi 17 il patriarca beneficia di nuovo di un’alleanza divina. Al contrario di quella di Genesi 15, questa comporta un segno, cioè la circoncisione. Il racconto della visita dei tre uomini misteriosi (Gn 18) mostra l’esemplare ospitalità di Abramo. Dopo questo episodio, che si conclude con l’annuncio della nascita di Isacco, Abramo assume il ruolo di mediatore per convincere Dio a non distruggere la città di Sodoma. La città tuttavia viene distrutta, mentre Lot, che vi si era insediato e che si è mostrato ospitale come suo zio Abramo, è salvato insieme con le figlie e diventa, in maniera poco ortodossa, l’antenato dei Moabiti e degli Ammoniti (Gn 19). In seguito troviamo di nuovo il patriarca fraudolento che, soggiornando presso il re di Gerar, fa nuovamente passare Sara per sua sorella (Gn 20). Malgrado ciò, in questo stesso racconto, egli è chiamato "profeta" ed è incaricato, come più tardi Giona, di intercedere per i pagani. Alla fine, subito dopo il soggiorno di Sara nell’harem di Abimelek, nasce Isacco, il figlio della promessa (Gn 21); ma Dio presto domanda ad Abramo di sacrificare questo figlio. Nel racconto di Genesi 22, che è certo il più sconvolgente dell’intero ciclo, Abramo si comporta esattamente come in occasione della sua vocazione (12,1-9). Di nuovo, egli obbedisce senza fare domande. In Genesi 12 Dio gli aveva domandato di rinunciare al suo passato, adesso egli è pronto a rinunciare al suo avvenire. La conclusione di questa prova (sostituzione di Isacco con un ariete, riaffermazione della promessa) segna in qualche modo la fine delle gesta di Abramo.
I capitoli seguenti preparano la morte del patriarca. In Genesi 23, è detto che egli compra una tomba presso Ebron; e in Genesi 24, che egli fa cercare una sposa per Isacco in Mesopotamia, rifiutando i matrimoni con le "figlie dei Cananei". Nel capitolo seguente (Gn 25) Abramo, dopo la morte di Sara, prenderà un’altra donna del paese diventando, grazie a lei, l’antenato di un certo numero di tribù. Il narratore ci informa a questo punto della morte del patriarca, la cui sepoltura dà occasione a Isacco e Ismaele di ritrovarsi.
Il racconto della Genesi mostra dunque una varietà di ritratti del patriarca. Questa diversità si spiega con l’intervento di più autori e redattori nell’elaborazione del ciclo di Abramo.
La costruzione delle gesta di Abramo
Nell’attuale situazione delle ricerche sul Pentateuco, è impossibile proporre una teoria condivisa sulla formazione di Genesi 12-25. Tuttavia si può affermare che l’epoca dell’esilio babilonese (597-539 a.C.) è un momento decisivo per la redazione scritta delle tradizioni su Abramo. Il libro di Ezechiele contiene, in 33,24, la citazione di una rivendicazione della popolazione non deportata: "Abramo era uno solo ed ebbe in possesso il paese e noi siamo molti: a noi dunque è stato dato in possesso il paese". Con questo argomento, la gente rimasta in Palestina (contadini e popolino) giustificano il loro diritto al possesso del paese contro gli esiliati che, invece, si considerano il "vero Israele". Ez 33,24 fornisce indicazioni preziose per comprendere la formazione del ciclo di Abramo. Si vede in primo luogo che il patriarca è un personaggio conosciuto. Questo significa che non può essere stato inventato soltanto all’epoca dell’esilio. In apparenza, egli rappresenta l’antenato e la figura di riferimento della popolazione non esiliata. La prima storia di Abramo è stata, probabilmente, redatta nel VI secolo a.C. per legittimare le rivendicazioni riportate in Ez 33,24, ma racconti orali (e forse anche scritti) su Abramo e Sara esistevano certamente all’epoca della monarchia ebraica, in particolare presso il santuario di Ebron, dato che il patriarca si insedia in questa città e vi compera la tomba di famiglia.
La prima edizione del ciclo di Abramo (contenente grosso modo 12,10-20; 13; 16; 21,1-7) dà speranza alla popolazione rurale della Giudea, esortandola, attraverso l’esempio del suo antenato, a intrattenere buone relazioni con i popoli vicini (Gn 13 e 16), a non abbandonare il paese (12,10-20), promettendole un avvenire più sere-no a dispetto della situazione precaria che sta vivendo. Quando una parte degli esiliati ritorna in Giudea, a partire dal 530, costoro, attraverso talune aggiunte redazionali, rivisitano e adattano la figura di Abramo alle esigenze dei rimpatriati. Nella nuova introduzione che contiene il racconto della vocazione (12,1-9), Abramo prefigura il destino degli antichi esiliati che, come il patriarca, sono chiamati a lasciare Babilonia per la terra promessa. Gli stessi redattori inseriscono il racconto della legatura di Isacco in Genesi 22. La prova che Abramo subisce riflette il problema teologico, caratteristico dell’epoca persiana, di un Dio divenuto incomprensibile (lo stesso problema è trattato nel libro di Giobbe). Tuttavia questo racconto invita alla fiducia in Dio malgrado le apparenze; la discendenza di Abramo non sarà sacrificata, al contrario: essa è promessa ad un avvenire glorioso.
Redattori provenienti dall’ambiente sacerdotale procedono in seguito a varie riletture, in particolare aggiungendo il cap. 17, nel quale il riferimento ad Abramo serve a fondare il rito della circoncisione che diventa, a partire dall’epoca dell’esilio, il simbolo dell’alleanza tra Dio e la discendenza di Abramo.
Il racconto di Genesi 15 è probabilmente concepito dall’ultimo redattore della storia di Abramo, allo scopo di legarla alla storia dell’Esodo (15,13-16). In questo testo, Abramo diventa il precursore di Mosè, e Dio gli si presenta con queste parole: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei" (v. 7), espressione che richiama l’incipit del Decalogo: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto". Le diverse figure di Abramo che risultano dal processo di formazione della sua storia spiegano in certo modo perché diverse correnti religiose possano riconoscersi in lui. Taluni si trovano tuttavia disorientati di fronte ad una tale diversità e si mettono a cercare il "vero" Abramo.
Il problema della storicità di Abramo
Abramo condivide il destino di molti antenati storici: quello di essere difficilmente afferrabile dallo storico. Se si interpreta la cronologia dei primi libri della Bibbia come una successione di periodi storici, si arriva spesso alla conclusione che bisogna collocare l’Abramo storico nella prima metà del II millennio a.C. Si è pensato di poter provare la storicità di Abramo invocando ondate migratorie aramaiche in quest’epoca. Sono stati anche utilizzati gli archivi della città di Nuzi, ad est del Tigri, per fondare la storicità dei racconti su Abramo; dato che, in certe tavolette, si trova l’appellativo "sorella" per designare la sposa, si pensava di aver trovato una situazione storica similare per il racconto di Gn 12,10-20. Inoltre il nome Abramo è largamente attestato nel II millennio. L'idea di un Abramo vissuto attorno al 1700 a.C. è stata oggi abbandonata dalla maggior parte degli specialisti.
Se si leggono con attenzione i racconti su Abramo, si constata subito che essi non menzionano alcun evento del II millennio; essi hanno piuttosto qualche cosa di atemporale. Così, in Genesi 12, il Faraone non ha un nome proprio, ma simboleggia semplicemente la potenza egizia con la quale Israele ha dovuto confrontarsi per tutto il corso della sua storia. E se i racconti su Abramo risalgono veramente al II millennio, bisognerebbe spiegare attraverso quale canale le sue imprese sarebbero state veicolate per oltre mille anni prima di essere messe per iscritto. Neppure lo studio dei nomi propri ci aiuta, perché il nome del patriarca è altrettanto popolare sia nel II che nel I millennio a.C.; e la teoria di una grande migrazione nel II millennio appare oggi poco probabile. I rari nomi propri in Gn 11,27-25 e 18 evocano piuttosto il contesto dei secoli VII e VI a.C., come ad esempio il nome proprio "Ur Casdim" che non è attestato al di fuori della Bibbia prima del VII secolo; il nome Ismaele è da associare alla confederazione "Sumu’il", attestata nei testi assiri della stessa epoca. Bisogna anche notare che la proposta di Sara in Gn 16 corrisponde chiaramente alle pratiche previste nel contratto di matrimonio neoassiro.
È dunque pressoché impossibile ricostruire un Abramo storico che sarebbe vissuto nel II millennio. Non si può però escludere la possibilità di un personaggio storico che sarebbe:all’origine delle tradizioni su Abramo. Su una stele di vittoria del faraone Sesonq, datata circa 926, si trova forse (ma la lettura resta difficile) la menzione di un"campo di Abramo" localizzato nel Neghev, non lontano da Ebron. Si potrebbe dunque stabilire un legame con l’Abramo della Genesi. Non dimentichiamo però la frequenza del nome Abramo in quest’epoca.
L’importanza della figura di Abramo non dipende affatto dalla questione della sua storicità. Le storie che lo riguardano hanno fornito a generazioni di credenti delle tre religioni monoteiste modelli di identificazione, e anche messaggi di speranza e di avvenire nonostante le prove.
Dietro le immagini si delinea il monoteismo
Le rappresentazioni di divinità dell'antico Israele, rivelate dall'archeologia, permettono di scrivere la storia della formazione del monoteismo. Othmar Keel e Christopher Uehlinger (1), professori presso l’Istituto biblico dell’Università di Friburgo (Svizzera), hanno ripreso trent’anni di ricerche archeologiche ed epigrafiche per tracciare un "paesaggio" religioso della Terra santa, dal 2000 a.C, (età del Bronzo medio) sino all‘epoca persiana (IV secolo a.C.). Il loro esauriente recupero di iscrizioni, sigilli, statue, luoghi di culto, fa emergere un universo politeista complesso e variegato, nel quale gli influssi egizi e mesopotamici si sovrappongono, ponendosi in relazione su tempi lunghi che coincidono solo parzialmente con i periodi di occupazione straniera della Palestina. Una prova in più dell’importanza degli scambi e dei reciproci influssi culturali, movimenti di fondo che lo storico non può ricondurre a coincidere con eventi politici. In un lento contesto storico emerge dunque poco a poco JHWH, l’aniconico, attestato come Dio unico degli Ebrei soltanto intorno ai VI secolo a.C. Per 1unghi secoli sono rimasti arcanto a lui dee, "signori degli animali", figure maschili guerriere (sorta di dei secondari). Essi erano espressioni in subordine della benedizione divina, simboli cultuali. Al ritorno dall’esilio si impone tuttavia un rigoroso monoteismo. Non c’è più spazio in Giuda "per una dea accanto a JHWH". Gli autori forniscono così una coerente conclusione della polemica suscitata nei 1975 dalla scoperta di un’iscrizione che evocava JHWH e "la sua Aserah". Il che non ha impedito la continua esistenza di templi consacrati ad una dea dominante nelle regioni vicine. L‘opera di Othmar Keel e di Christopher Uehlinger, profonda e rigorosa, è importante e, sotto molti aspetti, fondamentale. Il sottotitolo, Le fonti iconografiche della storia della religione di Israele, è più esplicito dello stesso titolo Dei, dee e figure divine. Per quanto riguarda le sintesi precedenti, i due autori rivendicano un aspetto troppo spesso trascurato: quello che consiste nel far parlare le immagini. "Molti biblisti, essi scrivono nelle conclusioni, si muovono nella Palestina antica come ciechi che abbiano a stento appreso l’idioma di questo universo. [...] Purtroppo, gli aniconici sono in genere meno consapevoli della loro ignoranza di quanto non lo siano gli analfabeti, perché, sulla base del loro carattere meno arbitrario e artificiale, le immagini rararnente provocano, corne invece fanno la scrittura e la lingua, un'impressione di totale estraneità". Agli specialisti di testi biblici Othmar Keel e Christopher Uehlinger propongono di aprire gli occhi.
(1) O.Keel - C. Uelingher, Dieux, déesses et figures divines, Cerf, Parigi 2001.