La necessità dell’unico padre
«Il nostro padre è Abramo» (Giovanni 8,39)..
Chi non conosce, nel Nuovo Testamento, la sfida lanciata a Gesù dai suoi interlocutori di cui denunciava le azioni? O ancora, l’invettiva di Giovanni Battista alle folle che venivano ad ascoltarlo nel deserto: «Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre!» (Lc 3,8-9).
Così, alle soglie dell’era cristiana, la figura di Abramo appare nel mondo giudaico come una figura non solo di primo piano, ma unica, il padre per antonomasia di tutti coloro che si richiamano alla fede ebraica.
«Noi siamo discendenza di Abramo», dicevano gli Ebrei, «e non siamo mai stati schiavi di nessuno!» (Gv 8,33). Se, secondo il retroscena di questa affermazione, non ci si poneva la questione se Abramo fosse o no un personaggio storico, un’altra domanda si poneva, domanda che ci fornisce una via per comprendere tradizioni conservate in particolare nel libro della Genesi: in nome di chi si poteva reclamare Abramo come padre? In questo modo, affrontare il personaggio di Abramo come figura emblematica del padre unico costringe ad un’altra linea di lettura che la Bibbia nel suo stato attuale ci impone: quella secondo un ordine cronologico che, discendendo dall’unica figura paterna, ordina il seguito della storia. Bisogna dunque ripartire non più dalla figura di Abramo «all’origine», ma da un momento tardivo della storia ebraica e partendo di qui risalire sino alla figura di Abramo.
In ognuno di questi casi, il gioco è particolare. Il primo, quello della lettura cronologica che parte dall’inizio (Gn 11,27ss), impone un personaggio, degli eventi, dei luoghi, che possono essere passati al setaccio della critica storica, cosa di cui Thomas Romer (vedi pp. 4-9) ricorda gli esiti. Il secondo, quello che risale a partire da uno o più precisi momenti posteriori, s’interroga in primo luogo su ciò che ha indotto i redattori e i teologi biblici a scegliere questo o quell’evento, ad accentuare questa o quella affermazione, in una parola, ad elaborare così, e non diversamente, a partire da questi momenti tardivi della storia di Israele, il personaggio e la sua storia così come la scopriamo nella Genesi e in talune allusioni dei libri profetici, dei salmi, delle lettere di Paolo e dei vangeli.
Questo procedimento coinvolge certo la comprensione del personaggio di Abramo stesso, ma privilegia soprattutto la comprensione che Israele ha voluto farsi e dare di lui, rivelando allo stesso tempo un certo processo di composizione dell’Antico Testamento.
Valorizzazione della storia di Abramo
All’inizio del processo, bisogna ricordare questo dato di fatto, che Abramo compare nella storia di Israele molto prima che questo popolo esista con una propria autocoscienza, dal momento che a lui per primo fu detto: «Fa un grande popolo» (Gn 12,2). La sua realtà di «padre», di «antenato» dipende dunque dalla realtà di un Israele ancora da venire. E la lunga durata che, secondo lo stato attuale del testo biblico, lo separa dai primi momenti in cui si può riconoscere Israele come popolo sulla sua terra (nei libri di Giosuè e dei Giudici), non fa che acuire la domanda: perché la storia di Abramo è stata sviluppata, e dunque valorizzata, in questo momento?
Per dare una risposta, non si tratta più di legge-re questa storia come se si trattasse di scoprirla alla maniera di una serie di episodi sconosciuti e sorprendenti; si tratta di leggerla come portatrice di elementi che giustificano che sia riportata così e soprattutto collocata «all’inizio» della storia di Israele.
Tre elementi si impongono allo spirito del lettore che ha concluso la storia dell’Antico Testamento ed è giunto, nel Nuovo Testamento, alle dichiarazioni sia degli ebrei sia di Giovanni Battista: il personaggio di Abramo, i suoi movi-menti migratori e il suo insediamento in una terra che accoglierà le sue spoglie.
Antenato di tutti gli ebrei, Abramo ha vissuto una storia che lo ha condotto dapprima dall’oriente mesopotamico (Gn 11,31) all’Occidente egizio (12,10), prima di stabilirsi sulla terra del futuro Giuda. Nel passaggio, alcuni luoghi sono destinati a ricevere una sorta di istituzione sacrale della sua presenza, dell’intervento divino e dunque delle promesse ricevute e delle gesta del patriarca. Santuari celebri (Sichem, More, Mamre, Bersabea...) riceveranno così la loro autenticazione e allo stesso tempo la garanzia della loro antichità.
Una buona memoria biblica vi riconosce una geografia e una toponimia che permettono, sin dal libro della Genesi, di leggere in filigrana di volta in volta la geografia e la storia di Israele nel corso di parecchi secoli. Tra l’esilio in Babilonia, come punto d’arrivo, e il ritorno dall’Egitto, come punto di partenza, con i luoghi di culto e di pellegrinaggio sulla terra di Canaan, è proprio l’itinerario di Abramo che traccia il modello di quello che Israele ha percorso nello spazio di alcuni secoli, e secondo gli stessi luoghi di riferimento in cui egli ha professato la sua fede. Come l’itinerario di Israele fu dunque quello del suo antenato, così i luoghi in cui egli fece culto e professò la sua fede in JHWH sono i medesimi fondati da Abramo con un senso di pietà segnato da esperienze divine effettivamente fondanti. Ma questa lettura ascendente che, partendo dalla storia tardiva di Israele, stabilisce una concordanza tra le esperienze religiose e gli eventi vissuti dall’uno, Israele, e le pratiche religiose e gli episodi della storia dell’altro, Abramo, permette di andare oltre nella comprensione dell’elaborazione dell’una e dell’altra storia e del loro organico legame.
Che il popolo di Israele abbia vagato, come Abramo, nel deserto, che abbia abbandonato la Mesopotamia, che sia ritornato, come lui, dall’Egitto, che abbia dunque ricevuto, proprio come lui, la terra in eredità secondo una promessa divina, non dice che una parte di questa storia nazionale. C’è anche, infatti, nel flusso stesso di questa storia, una serie di tensioni che rivela, trattandole o tacendole, lo sviluppo della storia dell’antenato unico. La storia di Abramo non appartiene così soltanto all’ordine della riproduzione in microcosmo, o della negazione, della lunga storia successiva di Israele; essa appartiene anche all’ordine di una soluzione delle tensioni che quest’ultima ha prodotto, rivelando allo stesso tempo una delle spinte del processo di composizione della storia nell’Antico Testamento.
Per limitarci per il momento al ritorno dall’esilio, ci sono ad esempio le tensioni tra i sostenitori di un rigore morale che arrivava sino al rifiuto delle spose straniere (Esd 9), e quelli che predicavano l’apertura e la tolleranza. Questo ritorno, così fortemente desiderato dagli ebrei più zelanti, rivelava tuttavia che era fortemente intaccata un’antica unità che forse era stata solo un sogno. Tra coloro che ritornavano da Babilonia, e gli altri che si erano trovati in Egitto o erano rimasti in Palestina durante l’esilio, non cessava di emergere una grande varietà nel modo di intendere la religione, la Legge e la storia, di cui lo scisma dei Samaritani, per non parlare degli ebrei sedotti dall’ellenismo, è un chiaro sintomo.
Parallele e correlate con quelle del ritorno dall’esilio, queste tensioni si manifestano nella storia anteriore come si troverà più o meno tardi unificata nei libri dell’Esodo e dei Re. A questa storia le cui tradizioni vedono nell’Egitto e nel deserto i grandi luoghi della nascita del popolo in attesa di ricevere la sua terra e di penetrarvi a partire dal libro di Giosuè, sembrano opporsi tradizioni più «indigene» che, nelle storie in particolare dei libri dei Giudici, lasciano intendere che Israele fu sempre là, sulla sua terra, una terra che dovette difendere contro i vari nomadi venuti dal deserto. Anche nella storia di Saul e di Davide si nota la tensione tra le ricche terre del nord, la Galilea e la Samaria, e le terre povere del sud, la Giudea, di cui Davide deve accontentarsi in un primo tempo. I problemi si risolveranno momentanea-mente alla morte di Saul, ma non saranno dimenticati, cosa che sarà, in gran parte, fondamento del tentativo di colpo di stato di Assalonne contro Davide, suo padre...
Così, nonostante laboriose limature e puliture per unificarla in una continuità cronologica senza fratture, la storia di Israele, dai Giudici all’esilio e nei secoli seguenti, non poté cancellare completamente queste tensioni che talora sfociarono nel fratricidio. Per rispondere ad esigenze di coerenza allo stesso tempo storica e teologica, era necessario andare oltre questa tappa delle limature e puliture tra tradizioni diverse, o anche contrapposte, per risalire ad un principio di unità che avrebbe ridotto definitivamente tensioni, disaccordi e antagonismi tanto regionali quanto religiosi.
La storiografia biblica nella sua ultima sintesi rivela qui un processo particolare fondato non solo sulla necessità di raccontare degli eventi, ma di individuare da una parte e dall’altra un principio di unità, che si rivelava provvisorio sino ad un termine ultimo, un principio definitivo. Fu così necessario passare, risalendo sempre più indietro, al di là della Legge riconosciuta e letta al ritorno dall’esilio, al di là della divisione dei due regni, al di là delle contrapposizioni tra Saul e Davide come al di là dei sostenitori di un’origine straniera o esterna, dell’Egitto e del deserto fortemente simboleggiati nel libro di Giosuè, e quelli di un’origine puramente indigena come riecheggiano alcuni episodi dei libri dei Giudici o del primo libro di Samuele. In questa incessante risalita ad un’origine pura e definitivamente «unificante», si doveva superare anche la rivelazione a Mosè sul Sinai, e superare persino l’antenato eponimo, Giacobbe, colui che diede il suo nome a Israele. Si risalirebbe così a quell’Abramo la cui storia doveva necessariamente integrare, per riconciliarli e conciliarli, le diverse componenti di una storia plurisecolare, componenti vissute o sentite all’inizio come diverse, opposte, inconciliabili e talora fratricide.
Percepire in questo modo il processo di una storiografia alla ricerca di origini pressoché assolute, cioè incontestabili ed «unificanti», significa percepire un progetto che non è solo di ordine storico, ma molto di più, di ordine nazionale e politico, e in modo ancora più definitivo di ordine religioso e spirituale, tanto che, nel contesto della scrittura biblica, non si possono separare e nemmeno distinguere i due ordini. In sé, sarebbe stato abbastanza insignificante che un uomo di Ur avesse deciso un bel giorno di lasciare la patria per dirigersi verso nord; e l’invito divino rivolto ad Abramo di compiere il suo periplo dal lato di Beerseba o di Ebron non avrebbe avuto maggiore significato di qualunque altra storia edificante.
Ma che questo itinerario evochi «in un’eco interiore» l’itinerario del popolo di cui quest’uomo era detto l’antenato, che i luoghi santi fondati da lui sotto la diretta ispirazione divina fossero quelli a cui questo popolo si recava in pellegrinaggio, questo conferiva a questa storia che, per quanto religiosa, era personale, un significato esclusivo, ultimo e definitivo.
Non si trattava più soltanto di una storia, nel senso dello storico; non si trattava più soltanto di pie leggende, per quanto fondanti un particolare santuario; non si trattava nemmeno più soltanto dell’itinerario mistico di un personaggio di alta levatura spirituale. Si trattava di far vivere un popolo indicandone il padre, colui in cui poteva non solo riconoscersi, ma riconciliarsi, assumendo tutta la sua storia nelle sue tensioni. Che si tratti di terra e di deserto, di nomadismo e di sedentarietà, d’alleanza e di legge (della circoncisione), Abramo, dall’oriente all’occidente, assicurava per finire e per cominciare l’unità di Israele.
Così sognarono e scrissero i redattori della storia di Abramo. Così sognarono e lessero le generazioni ebraiche e cristiane, correndo il rischio del giudizio che uomini ebrei non esitarono a pronunciare, a partire da Giovanni Battista e Gesù stesso.