Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Martedì, 04 Novembre 2008 23:18

Le donne tacciano (Lilia Sebastiani)

Le donne tacciano


di Lilia Sebastiani





…Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l'edificazione. (...) Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due o al massimo in tre a parlare, e per ordine, e uno poi faccia da interprete. Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia: tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati. Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.

Martedì, 04 Novembre 2008 23:00

Riposo eterno (Faustino Ferrari)

Quando si partecipa ai riti di un funerale religioso, una espressione che viene spesso ripetuta (nei canti, nelle omelie e nei testi delle varie preghiere) è quella del riposo eterno.

di Antonio Gentili

Compito vitale per la cultura dell’uomo occidentale è ritrovare il tesoro nascosto, il proprio cuore, la propria anima smarrita.

E’ sotto gli occhi di tutti l’errore grossolano e funesto di chi pensa che la coltivazione dell’anima autoemargini l’uomo dalla società e dalla storia, quando la sua vera vocazione è di offrirsi come grembo per la rigenerazione del mondo. I santi sono i maestri del “tanto dentro quanto fuori”, mentre i falsi profeti del tutto fuori si lasciano alle spalle organismi individuali e collettivi senz’anima, piagati da irresponsabilità, ipocrisia e diffidenza sul piano morale, e da miseria e sottosviluppo su quello materiale.

Martedì, 21 Ottobre 2008 01:59

Il sacramento dell'unzione degli infermi

La difficile situazione della malattia, che prostra il corpo e l’anima dell’uomo può essere qui presupposta come conosciuta. La malattia rende l’uomo cosciente del suo limite e della sua dipendenza, e ricorda energicamente la legge del dover morire, spesso dimenticata.

Martedì, 21 Ottobre 2008 01:50

Teresa d’Avila (1515-1582)

Teresa d’Avila (1515-1582)



LA VITA


La vita di Teresa de Ahumada appartiene al periodo più glorioso della storia della Spagna, al siglo de oro. Teresa nacque ad Avila, in Castiglia, il 28 marzo 1515. E’ il secolo dell’immensa estensione della potenza della Spagna, nell’America Centrale e Meridionale, dopo che Cristoforo Colombo, nel 1492, aveva scoperto il nuovo continente.

Martedì, 21 Ottobre 2008 01:31

La Chiesa, sposa di Cristo (Pierre Grelot)

La Chiesa, sposa di Cristo

di Pierre Grelot

 

 

Gli uomini, istintivamente, hanno sempre visto nel matrimonio qualche cosa di sacro. Il mutuo amore degli sposi, la trasmissione della vita, hanno origine da un ordine misterioso al quale Dio è intimamente legato. Già la rivelazione biblica, eliminando gli errori dei paganesimi antichi, ne indicava la ragione al popolo d’Israele. Creando l’umanità a sua immagine, Dio l’ha fatta uomo e donna e le ha concesso il dono della fecondità (Gen. 1, 27-28). Dio ha dato la donna all’uomo come un aiuto simile a lui; e questo è il motivo per cui, abbandonando la famiglia in cui è nato, l’uomo si unisce alla sua donna e in due diventano una sola carne (Gen. 2, 18-24). Di conseguenza, già sul piano della natura il matrimonio è sacro, perché costituisce una vocazione provvidenziale per l’uomo e la donna che lo realizzano. Ma sarebbe troppo poco fermarsi a questo. La rivelazione biblica ha pure trovato nel matrimonio uno dei principali simboli che ci permettono di capire l’amore di Dio verso di noi. Questo simbolo, fin dall’Antico Testamento, ha occupato un posto importante nel messaggio dei profeti. Nel Nuovo Testamento, esso serve ad esprimere la reciproca posizione tra Cristo e la Chiesa.

 

L’amore di Dio per Israele

Con il patto d’alleanza stabilito sul Sinai, Jahvè ha fatto di Israele il suo popolo. Da questo fatto fondamentale si sviluppa tutta la rivelazione dell’Antico Testamento. All’inizio, questo patto ha un’impronta giuridica: liberamente, Dio s’impegna con il suo popolo mediante una promessa; di riscontro, Israele si impegna con Dio mediante giuramento e accetta le clausole dell’Alleanza, cioè la Legge di Dio. I testi più antichi del Vecchio Testamento non si staccano da questa prospettiva che, alla sua maniera, manifesta già la benevolenza e l’amore di Dio verso gli uomini.

Ma nell’VIII secolo, il profeta Osea procede oltre: egli accosta il patto di alleanza che lega Israele a Jahvè al patto matrimoniale che lega una donna al suo sposo. Non ci dobbiamo immaginare una specie di effusione di pietà sentimentale. Il simbolo non ha nulla d’idillico, perché ha per scopo principale di mettere in evidenza l’infedeltà di Israele e di sottolinearne l’orrore. Osea, per ordine di Dio, ha sposato una donna di prostituzione, che gli ha dato figli di prostituzione (Os. 1). Attraverso questa esperienza umana, si intravede il dramma d’Israele. Sul Sinai, Jahvè ha sposato Israele, ora Israele è un popolo peccatore, una sposa adultera che gli ha dato figli di prostituzione.., Quindi il peccato d’Israele non è solo mancanza alla Legge, una trasgressione della parola data, ma una mancanza all’Amore, paragonabile alla violazione della fedeltà coniugale. Dio non è soltanto un sovrano abbandonato dai suoi vassalli, ma è uno Sposo tradito dalla sua sposa. Che cosa dunque farà egli al suo popolo? Lo tratterà come il diritto prevede vengano trattate le donne adultere: lo ripudierà e lo abbandonerà alla sua triste sorte (Os. 2, 4-15). Tutto qui, e la storia a questo punto si fermerà? Niente affatto, perché nella disgrazia Israele prenderà coscienza della sua condizione di peccatore: Allora dirà: andrò e ritornerò al mio marito di prima, perché mi trovavo meglio allora che adesso (2, 9). E Jahvè riprenderà la sua sposa pentita. Egli l’amerà di nuovo, la unirà a sé con nuove nozze:

Allora ti farò mia sposa per sempre;

ti farò mia sposa nella giustizia e nel giudizio,

nell’amore e nella compassione;

ti farò mia sposa fedele,

e tu riconoscerai Jahvè (2, 21-22).

Qui si esce dalle prospettive ordinarie della psicologia umana. Che uno sposo ingannato si vendichi, si capisce. Ma che perdoni? Ma che riprenda con sé l’infedele, che l’ami come prima, anzi meglio di prima (se così si può dire) poiché, questa volta, le nozze saranno al riparo da cadute? E’ in questo modo che Dio vuole comportarsi nei riguardi del suo popolo peccatore. Per rivelare l’amore di Dio verso i peccatori che egli chiama alla penitenza, Cristo racconterà la parabola del Figlio prodigo. Osea, partendo dalla sua esperienza coniugale, ha raccontato la storia della sposa adultera e perdonata. Da quale parte si trova il simbolo più sconvolgente e paradossale? E’ vero che annunciando queste nozze future, Osea superava i limiti dell’Antico Testamento. Ciò che egli prometteva era una nuova alleanza, più perfetta di quella del Sinai, in cui Dio avrebbe donato agli uomini, come una grazia, la fedeltà che attende da loro. Come meravigliarsi allora che il profeta, nel suo entusiasmo, descriva questa alleanza come un ritorno al paradiso perduto (Os. 2, 20, 23-24)? Non è questo l’indizio che la storia d’amore nella quale Dio si comporta come uno Sposo era incominciata ben prima del patto sinaitico? Nel momento in cui egli mise l’uomo sulla terra, stabilì di sposare la nostra razza. La razza intera ha sbagliato; l’umanità peccatrice si è abbandonata al vizio: ne facciamo tutti l’esperienza. Che importa? Questa razza di peccatori, Dio l’ama; e di essa vuol fare la sua sposa fedele. Questo è il significato del suo piano di redenzione.

Dopo Osea, il simbolo del matrimonio diviene un luogo comune della predicazione profetica, In Geremia esso serve essenzialmente a denunciare l’infedeltà d’Israele e ad annunciare il suo castigo (Ger. 2,2; 2, 19.20; 3, 1.10; 3, 20); anche a pungolarlo perché si converta, perché Dio è misericordioso (3, 11-13). In Ezechiele, le due immagini del figlio prodigo e della sposa adultera si mescolano in una allegoria vendicatrice che annunzia la prossima rovina di Gerusalemme (Ez. 16, 1-58; cfr. 23). I due profeti parlano della nuova alleanza, ma non utilizzano questo simbolo per descriverne anticipatamente gli effetti.

A cominciare dalla cattività di Babilonia, quando il popolo ebreo comprende alla luce della prova la gravità delle sue infedeltà passate, il simbolo ritorna sotto la penna dei profeti per evocare ciò che ora costituisce la speranza di Israele. Questa speranza è la futura redenzione, scopo di tutto il piano di Dio. Per metterla meglio in risalto si sviluppa l’immagine nuziale già utilizzata per stigmatizzare l’infedeltà di Gerusalemme e dei suoi figli. Ma non sarà più la Gerusalemme di prima quella che Jahvè farà sua sposa. Sarà una nuova Gerusalemme purificata e santificata, finalmente fedele alla vocazione soprannaturale che le viene rivelata nel patto di alleanza. La personificazione femminile della Città santa serve in questo al disegno dei profeti, perché permette loro di sovrapporre strettamente i diversi simboli che definiscono i rapporti tra Dio e il suo popolo nella alleanza futura: Jahvè è lo Sposo, Gerusalemme la Sposa:

Poiché tuo sposo è il tuo Creatore,

«Jahvè degli eserciti» è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele,

è chiamato Dio di tutta la terra ...

Per un breve istante ti ho abbandonato,

ma ti riprenderò con immenso amore.

Nell’eccesso della collera ho nascosto

per un poco la mia faccia da te;

ma con eterno affetto ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, Jahvè (Is. 54, 5-8).

La storia d’amore riprenderà quindi nella nuova alleanza. Creando questa nuova Gerusalemme che farà sua sposa, Dio le donerà stavolta per grazia ciò che invano aveva atteso dall’antica Gerusalemme, membro dell’umanità peccatrice allo stesso titolo di tutti i popoli della terra. Egli la fonderà sulla giustizia e renderà i suoi figli docili al suo Spirito (Is. 54, 13-14). Le darà per figli non solo i discendenti degli Israeliti, ma anche quelli delle nazioni straniere (Is. 54, 1-3): una umanità nuova risorgerà sotto la sua egida. Per sempre egli le darà assistenza e protezione (Is. 54, 11-17).

Qual è questa nuova Gerusalemme in cui Dio troverà la sua gioia, come un giovane che sposa una vergine (Is. 64, 4-5)? E’ la comunità redenta alla quale Cristo, un giorno, prometterà la vita eterna. Il profeta, anticipatamente, la evoca nella letizia delle sue nozze divine:

Io gioirò moltissimo in Jahvè,

la mia anima esulterà nel mio Dio;

perché mi ha rivestito di vesti di salvezza,

mi ha ricoperto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema

e come una sposa che si adorna dei suoi gioielli (Is. 61, 10).

Nella prospettiva aperta da questa visione profetica, comprendiamo perché i redattori ispirati del Cantico dei cantici abbiano applicato i poemi d’amore, che essi raccoglievano, all’Amore che è il modello di tutti gli amori umani: quello di Dio per il suo popolo. Perché di questo popolo di peccatori, l’amore redentore di Dio vuol fare una nuova umanità, trasformata dalla grazia. Questo sarà il mistero della Chiesa.

L’amore di Cristo per la Chiesa

L’immagine delle nozze non è assente dai Vangeli, ma non vi passa che occasionalmente, sia nelle parabole del Regno (Mt, 22, 2; 25, 1-13), sia in qualche sentenza in cui Gesù è senza dubbio designato come lo Sposo (Mt, 9, 15; Gv. 3, 29). Essa è soprattutto ripresa nella riflessione degli apostoli sul mistero di Cristo-Salvatore, per mostrare nella nuova alleanza la meravigliosa rivelazione dell’amore di Dio. Cristo ha suggellato questa alleanza versando il suo sangue per gli uomini (Mt. 26, 28). Insieme egli ha ottenuto da Dio la remissione dei loro peccati ed ha fondato nella sua persona una nuova umanità di cui egli è il capo, come il primo Adamo fu il capo dell’umanità peccatrice (Rom. 5, 12-19), Le promesse dei profeti si sono così adempiute, nella carne stessa di Cristo, della quale la umanità redenta è come il prolungamento vivente.

Meditando su questa realtà profonda alla quale si può accedere solo con la fede, san Paolo vi vede la realizzazione delle nozze escatologiche annunciate dall’Antico Testamento, ed è questa la ragione per cui vi scopre un modello per ogni amore coniugale:

Mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la sua Chiesa: egli ha dato se stesso per lei; per santificarla purificandola col lavacro dell’acqua unito alla parola, volendo presentarla a se stesso, questa Chiesa, tutta splendente, che non avesse macchia o ruga o altra cosa del genere, ma fosse santa e senza alcun difetto. Così debbono anche i mariti amare le proprie mogli come i loro stessi corpi. Chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno, certo, odiò mai la propria carne; al contrario, ognuno la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa; giacché noi siamo membra del suo corpo.

Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla propria moglie, e saranno i due una carne sola. Questo mistero è grande: io lo dico in rapporto a Cristo e alla Chiesa (Ef. 5, 25-32).

Così, dunque, nella carne di Gesù Cristo si è consumato lo sposalizio tra Dio e l’umanità. Prendendo una natura umana, il Figlio di Dio l’ha per ciò stesso santificata e unita strettamente alla sua persona divina. Anzi, egli ha contemporaneamente deposto nella nostra razza il germe di una realtà che deve espandersi socialmente: la Chiesa santa e immacolata, che è la sua Sposa e il suo Corpo. Quando Dio, alle origini, chiamava all’esistenza la coppia umana, come una comunità di persone chiamate ad amarsi e a far sbocciare nuove vite, egli la creava anticipatamente ad immagine di questo mistero. Ecco perché il matrimonio è una cosa sacra. E’ vero che, assieme a tutte le cose umane, il peccato l’ha ferito e profanato. Ma con la sua redenzione, Cristo lo restaura nella sua primitiva dignità. E se è vero che l’amore fecondo e fedele resta una cosa fragile, ormai la grazia Io santificherà; perché essendo il simbolo del mistero di Cristo e della Chiesa, il matrimonio è ora un sacramento.

 Fermiamoci un momento a questa immagine della Chiesa-Sposa. Essa ci permette di penetrare nell’intimo della realtà soprannaturale alla quale apparteniamo con il battesimo. Al di là degli aspetti umani che talvolta possono sembrare scoraggianti (perché la Chiesa è affidata a uomini peccatori), essa c’invita a cogliere una santità permanente la cui sorgente è Gesù Cristo stesso. Ciascuno di noi, con il battesimo, è introdotto in questo mistero di santità. Ciascuno di noi, di fronte al Cristo-Sposo, partecipa al mistero nuziale della Chiesa. Come diceva san Paolo ai Corinti: Io vi ho fidanzati ad un solo sposo, per presentarvi a Cristo quale vergine pura (2 Cor. 11, 2). Questa è la nostra situazione; questa è pure l’esigenza di fedeltà che ormai ci verrà continuamente ricordata. Perché i nostri cuori divisi tra l’attrattiva della carne e quella dello Spirito Santo oscilleranno sempre tra due atteggiamenti: quello della nostra prima madre, sedotta dal serpente infernale, e quello della nostra Madre la Chiesa, sottomessa a Cristo, come una buona sposa lo è al suo sposo.

I profeti, in passato, legavano strettamente il tema delle nozze escatologiche a quello della nuova Gerusalemme. Noi sappiamo ora chi è questa nuova Gerusalemme: è la Chiesa stessa. Infatti, le promesse profetiche le assicuravano una fecondità innumerevole. La Chiesa, questa Gerusalemme celeste, santa e immacolata, possiede attualmente questa fecondità soprannaturale promessa nella Scrittura; perciò la possiamo chiamare nostra Madre (Gai. 4, 26-27). Essa è quella Donna contro la quale Satana l’antico serpente, non può nulla (Apoc. 12, 13-16). Qui raggiungiamo le immagini dell’Apocalisse. Il simbolo della nuova Gerusalemme - cioè la Chiesa nella sua perfezione trascendente - vi è effettivamente ripreso in una prospettiva nuziale che non ci meraviglierà. Alla fine della sua profezia, per dipingere il trionfo finale di Cristo al di là del tempo, il veggente scrive:

E vidi un cielo nuovo e una terra nuova.

Infatti il primo cielo e la prima terra passarono, e il mare non era più.

E vidi la città santa, Gerusalemme nuova,

che scendeva dal cielo, da presso Dio,

preparata come una sposa che è ornata per il marito.

E udii una voce grande proveniente dal trono che diceva:

Ecco la dimora di Dio con gli uomini;

e dimorerà con essi, ed essi saranno i suoi popoli, e Dio stesso sarà con essi,

e tergerà ogni lacrima dai loro occhi,

e la morte non sarà più,

né lutto né grido né dolore saranno più;

ché le cose di prima passarono) (Apoc. 21, 1-4).

Qual è dunque lo Sposo al quale è destinata questa fidanzata meravigliosa? Un altro passo lo precisa: Rallegriamoci ed esultiamo, e diamogli la gloria, ché son giunte le nozze dell’agnello, e la moglie sua si è preparata (Apoc. 19, 7). Lo Sposo è dunque Cristo, questo Agnello immolato sulla Croce in sacrificio di redenzione. Riprendendo il tema di una parabola evangelica, il veggente può concludere: Beati i chiamati al banchetto delle nozze dell’agnello! (Apoc. 19, 9). Costoro sono tutti gli uomini che non si sono volontariamente resi sordi all’invito divino. Siamo noi, i figli della nuova Gerusalemme, chiamati a partecipare al mistero delle sue nozze. Il cielo non sarà altro che questa partecipazione. Fin d’ora, quaggiù, la stessa vita cristiana non è altra cosa.

Ve ne sono che vivranno questo mistero nello stato matrimoniale, santificato dal sacramento dell’amore umano. Ve ne sono altri ai quali Cristo farà intendere un altro appello, i quali, per una grazia dello Spirito Santo, consacreranno al Cristo-Sposo tutte le facoltà del loro essere, compresa la loro affettività umana che dovrà espandersi esclusivamente in carità. Costoro vivranno con maggiore pienezza il mistero nuziale di Cristo e della Chiesa. Ad ogni modo, gli uni e gli altri troveranno davanti a loro un’esigenza di fedeltà, a cui non potranno far fronte se non con la grazia. In tal modo si edificherà la nuova Gerusalemme, si accrescerà il Corpo di Cristo, la Chiesa sua Sposa moltiplicherà la sua posterità.

Al termine della rivelazione, i grandi simboli elaborati dal linguaggio biblico per evocare il popolo di Dio si sovrappongono così per illuminare la nostra vita cristiana. A questa luce, noi possiamo scoprire il mistero della Chiesa già nei vecchi testi dell’Antico Testamento, in Osea e nel deutero-lsaia. Ma nel ritrovarli, faremo attenzione a non dimenticare lo sfondo sul quale si spiega il simbolo delle nozze: riscattando la sua sposa infedele e adultera Jahvè ha potuto farne questa Sposa immacolata che è la santa Chiesa; Dio ha amato i membri peccatori di una razza decaduta fino a offrire suo Figlio per essi, al fine di trasferirli nella nuova umanità e di farne i figli della Chiesa. La rivelazione sconvolgente del profeta Osea trova così il suo compimento nel mistero di Cristo.

 

Martedì, 21 Ottobre 2008 01:23

Leggere la Bibbia?

Leggere la Bibbia?




La Bibbia ha Dio come vero autore, a motivo del messaggio salvifico, ed è nata da una esperienza di fede di un popolo. Essa attesta un susseguirsi di avvenimenti che raggiungono il vertice nel mistero pasquale di Cristo.


Chi oggi vuole penetrare nel modo più vero e adeguato il senso della Bibbia, cioè il messaggio di salvezza, deve sapere quello che vuole quando si mette a leggere il libro sacro. Ora la Bibbia non è solo termine di riferimento e di confronto, ma è un libro di fede, è il luogo di un appuntamento e di un incontro con Gesù Cristo.

Questo Dio che domanda l'amoreUna lettura d’Osea 6, 1-6di Soeur Claude-Pierre o.p.



«Venite, ritorniamo al Signore:egli ci ha straziato ed egli ci guarirà.Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà.Dopo due giorni ci ridarà la vitae il terzo ci farà rialzaree noi vivremo alla sua presenza.
Affrettiamoci a conoscere il Signore,la sua venuta è sicura come l'aurora.Verrà a noi come la pioggia di autunno,
come la pioggia di primavera, che feconda la terra».

Buddhismo e impegno sociale, oltre gli stereotipi. Grazie ai monaci birmani, l’Occidente ha scoperto la dimensione pubblica di una religione spesso identificata con la «fuga mundi».

Per un islam pacifico, aperto e costruttivo

di Andrea Pacini








E’ su questa frontiera culturale impegnativa che si gioca il futuro dell’islam in Europa.

Nello scorso mese di aprile un servizio di giornalismo televisivo, condotto in alcune moschee di Torino, ha portato all’evidenza pubblica il fatto che la predicazione degli imam di tali moschee aveva contenuti decisamente violenti in merito a questioni di carattere internazionale e conflittuali in rapporto alle relazioni dei musulmani con la società europea e italiana. Si aggiunga che nel corso del medesimo reportage giornalistico è anche emerso che nelle medesime moschee o in locali ad esse collegati e adiacenti circolavano volantini che esortavano al jihad e al sostegno attivo alle attività jihadiste (ovvero terroristiche), attuate da cellule riconducibili a movimenti dell’islam radicale. Ne è emerso un rinnovato dibattito sull’islam in Italia, sugli elementi di pericolosità presenti al suo interno e su come promuovere un efficace percorso di integrazione dei musulmani nella società italiana.

Dal momento che quanto accaduto a Torino è la spia di un atteggiamento culturale e religioso che percorre una parte delle moschee italiane, si impongono alcune riflessioni in merito. In primo luogo, il fatto che in molte moschee prevalga una predicazione di tipo antioccidentale e non di rado anticristiano, che tende a promuovere l’affermazione di un’identità islamica forte di tipo politico-religioso dispensata spesso con toni e contenuti violenti, non è una novità per chi segue più da vicino questo mondo. In questo senso le occasionali inchieste giornalistiche e i discorsi meno controllati di alcuni imam - quali il noto imam Bouchta di Torino, espulso in Marocco, o un precedente imam della moschea di Roma, poi richiamato in patria - che in alcune occasioni hanno espresso con maggiore visibilità il proprio sostegno al jihad internazionale, non sono altro che delle occasioni in cui all’opinione pubblica è dato di cogliere un fenomeno più diffuso e frequente nell’ambito di una parte del mondo delle moschee italiane ed europee. Questo non significa che tutte le moschee siano riconducibili a correnti di ispirazione fondamentalista o radicale, ma certamente all’interno di questo mondo sempre più in crescita e frammentato tali posizioni non sono rare.

Esse rispecchiano in effetti prospettive dottrinali e culturali prevalenti all’interno dell’islam contemporaneo anche di tipo ufficiale, che continua a essere egemonizzato da letture della realtà che ripropongono un’identità musulmana forte, sostenuta da un atteggiamento rigido e non aperto verso la differenza culturale e religiosa. In questo senso nelle moschee italiane non fanno che riprodursi toni e modalità di lettura che risuonano in generale nel mondo islamico, sia nell’ambito delle moschee - a maggior ragione in quelle di ispirazione fondamentalista - sia nell’ambito delle istituzioni islamiche di insegnamento universitario, in cui, se non si legittimano le letture fondamentaliste, si stenta però a proporre visioni decisamente alternative a quelle tradizionali. Le letture religiose islamiche di tipo moderno, che avvalorano l’istanza critica, che propongono il superamento dell’interdipendenza tra sfera religiosa e politica nell’islam, che fondano l’esigenza del dialogo con, l’alterità culturale e religiosa, sono infatti ben rappresentate nel mondo musulmano contemporaneo, ma non trovano. ancora spazio all’interno delle istituzioni ufficiali di insegnamento teologico e quindi non penetrano, se non occasionalmente, nel mondo delle moschee che a tali istituzioni è collegato.

In Italia e in Europa si avvertono però almeno tre importanti differenze. La prima è relativa agli imam, che si sono sempre autoproclamati, e che dal punto di vista della formazione culturale sono riconducibili a tre principali profili: una prima tipologia, oggi meno numerosa che nel passato, è costituita da persone con istruzione generale assai bassa e privi di una formazione religiosa formale; una seconda tipologia è costituita da persone con istruzione superiore, talora anche universitaria, ma di tipo civile, cui non corrisponde una formazione teologica formale: questa tipologia è oggi in crescita; infine una piccolissima minoranza di imam con formazione teologica islamica superiore. L’elemento che emerge è la generale mancanza di una formazione teologica specifica: questo del resto non è di per sé un elemento che da solo abiliti a una sensibilità verso il dialogo e l’integrazione in Europa, vista la resistenza che le facoltà teologiche oppongono alle letture liberali dell’islam. La crescita di imam con istruzione superiore di tipo non religioso può però abilitare i medesimi a una maggiore capacità di lettura della situazione europea, anche se essa può poi comparire in atteggiamenti diversificati. Gli esponenti del fondamentalismo non sono certo persone prive di formazione culturale, al contrario.

La seconda differenza è che in generale i musulmani in Europa prendono atto del fatto che vivono in un contesto che culturalmente e politicamente non è musulmano, con cui devono entrare in rapporto. Questa situazione può essere letta nei minimi di consapevolezza di essere una “minoranza” - lettura diffusa nel mondo delle moschee, in base alla quale vengono elaborati sia insegnamenti in chiave di rivendicazione identitaria forte, sia rapporti con le istituzioni civili finalizzati a ottenere riconoscimenti formali all’islam come minoranza - ma dà anche origine a letture diversificate e a strategie di inserimento più individuali da parte dei singoli. E’ quanto emerge dal basso tasso di frequentazione delle moschee in Italia e in Europa da parte della popolazione musulmana. Ma in ogni caso, anche se il rapporto viene interpretato nei termini di minoranza, si apre necessariamente uno spazio per l’interazione e il dialogo che va coltivato con fermezza da parte delle istituzioni statali e delle diverse espressioni della società civile tra cui le Chiese.

La terza differenza, conseguente alle due precedenti, è che l’insieme della popolazione musulmana in Europa e in Italia appare progressivamente più pluralista anche nelle sue prese di posizione pubbliche. È interessante che gli eventi di Torino abbiano fatto emergere all’interno del mondo musulmano locale voci autorevoli di dissenso e di condanna verso gli imam colti nella loro predicazione discutibile. Tale fenomeno è un indicatore importante che sta emergendo un pluralismo non solo de facto, ma che sta cercando di trovare espressione in un incipiente discorso pubblico formale e in organizzazioni specifiche in grado di esprimere “voci” diverse in seno all’islam. Che l’insieme della popolazione musulmana in Italia non si riconosca nell’islam fondamentalista e radicale è provato dalla scarsa frequentazione delle moschee esistenti e dal generale grado di buon inserimento. È’ però importante per il futuro dell’islam in Italia che all’interno della popolazione musulmana la corrente dell’islam liberale o moderato trovi espressione.

Le prese di posizioni ufficiali di dissenso espresse a Torino da taluni esponenti musulmani sono un primo segno di tale evoluzione, che richiede però di essere rafforzata, culturalmente e dottrinalmente elaborata e diffusa. Bisogna infatti passare dalla condanna e dal dissenso a un’aperta e costruttiva proposta dottrinale di un islam pacifico, dialogico, in piena sintonia con i valori fondamentali delle società europee. È su questa frontiera culturale impegnativa che si gioca il futuro dell’islam in Europa. E’ questa una responsabilità che chiama in causa come attori in primo luogo i musulmani stessi, ma insieme ad essi anche le istituzioni italiane e le diverse espressioni della società civile, in particolare la Chiesa, che come partner nelle relazioni sono chiamate a delegittimare gli esponenti fondamentalisti e a offrire invece supporto a quanti sono impegnati per la formazione di un islam europeo, convergente con i valori fondamentali dell’ordinamento civile delle nostre società, aperte al dialogo interreligioso e interculturale, fermo nel condannare e sconfessare ogni legittimazione religiosa della violenza e di atti e visioni lesivi della dignità dell’uomo, che trova espressione giuridica nelle Carte internazionali delle Nazioni Unite recepite nelle Costituzioni dei Paesi europei.




(da Vita Pastorale, 6, 2007)