Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 10 Marzo 2006 00:53

L'umile cavalcatura (Giovanni Vannucci)

L'umile cavalcatura
di Giovanni Vannucci

Il linguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metaforico e quello razionale; il primo è il veicolo della religione, della poesia, il secondo della scienza, della morale, della filosofia, della statistica. Il primo è strettamente legato alla vita, e, sul piano religioso, alla Rivelazione intesa non come un insieme di nozioni astratte, ma come l’urgenza divina che spinge la coscienza umana a quelle trasformazioni, personali e collettive, che le permetteranno di raggiungere la sua perfetta fioritura.

I modi con cui la Rivelazione si esprime sono delle Immagini, concrete e palpabili, dense di significati e stimolatrici di mutazioni di coscienza. Per questo nella lettura dei libri che trasmettono la Rivelazione, nella sua forma scritta, è necessario notare le immagini e meditare su di esse, tenendo conto di tutto l’insieme culturale nel quale sono state formulate.

Nel Vangelo della domenica delle Palme si hanno queste immagini: Gesù sale a Gerusalemme cavalcando il puledro di un asino, i discepoli e la folla l’acclamano, i farisei, i custodi della tradizione vetero-testamentaria, sono scandalizzati, ed esortano il Maestro a far tacere l’entusiasmo del popolo; Gesù risponde: «Non potete fermare l’avanzamento della Rivelazione; se gli uomini tacessero, le pietre l’annuncerebbero» (cfr. Lc 19, 28-40).

L’immagine di Gesù che cavalca l’asino colpisce la nostra immaginazione e la fa riflettere. La prima spiegazione che ci soccorre è quella consueta, a tinte sentimentali: il Messia ha scelto l’umile cavalcatura per esprimere la mitezza, l’aspetto dimesso del Regno che avrebbe instaurato tra gli uomini. E questo il significato che dava la folla alla figura del Messia cavalcante l’asinello? O piuttosto aveva compreso qualcosa di più vasto e di più profondo nel gesto di Cristo?

I Greci presenti all’ingresso trionfale di Gesù avranno sicuramente pensato all’asino, animale sacro, che portava sul dorso la culla di Dioniso e che era collegato al culto della Grande Madre. Nel vangelo di Giovanni è riferito, nella circostanza dell’ingresso a Gerusalemme, il colloquio di Gesù con i Greci presenti, e i termini usati da Gesù alludono ai Misteri di Dioniso e Demetra: «Se il seme di grano non muore non da frutto» (Gv 12, 24).

Gesù che cavalca l’asinello si rivela ai Greci come il celeste Dioniso dei Misteri, agli Ebrei come il vero, spirituale non militare, Messia che introduce nella religiosità virile vetero-testamentaria della Giustizia e del Giudizio, le qualità femminili della divinità: la misericordia e l’amore appassionato per tutto ciò che vive.

La reazione dei farisei, in questa prospettiva, diventa più comprensibile; non sono mossi da gelosia ma da un’oscura intuizione che qualcosa di nuovo, di sconvolgente, di non ortodosso stava avvenendo in quello strano e rumoroso corteo.

L’ingresso di Gesù in Gerusalemme è l’ingresso nel grande, dolente utero della natura terrena; si può dire che Gesù, in questa sua giornata trionfale, nasce davvero, per davvero morire!

Gesù è il portatore dei Misteri divini, il portatore dello Spirito che distrugge e rinnova, rinnova distruggendo, è l’ebbrezza dionisiaca della creazione che avanza trionfale verso il suo compimento, perseguendo un percorso che è segnato da un’incessante pulsazione di morte e di risurrezione, aborrente ogni solidificazione e staticità. E in questo sta l’aspetto tragico, dionisiaco del Cristianesimo: l’uomo in Dio deve negare se stesso per vivere la vera vita.

L’opera misteriosa dello Spirito, anche se invocata dalla materia, è esiziale alle forme, che reagiscono, si difendono e offendono.

I farisei non erano certo dei criminali, dei malvagi; chiusi nella loro formale giustizia, difesi dal baluardo di una tradizione cristallizzata, non potevano vedere nella sconfinata novità di Cristo nulla di più di una ingiuria alla legge, di una aperta professione di anarchia.

La virtù del mondo si opporrà sempre alla virtù dello Spirito, l’onestà della forma rifiuterà sempre la verità dell’idea. La giustizia degli uomini, in netta opposizione a quella di Dio, errerà per non volere errare, peccherà per voler essere giusta.

Questa lotta affiorerà sempre: fra Cristo, distruttore delle forme in nome della vita, e Satana, consolidatore delle forme, l’impegno e la lotta sono assoluti. Contro l’escatologia cristiana Satana susciterà il mondo; e quando la Chiesa si sarà affermata e vorrà riposare, offrendosi alle lusinghe del successo, Cristo susciterà gli entusiasmi degli eresiarchi e la costringerà a combattere contro se stessa per debellare il diavolo dell’ignavia, dell’acquiescenza, della tiepidezza, del pietismo.

(Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte BG ed. CENS, Milano 1985; Domenica delle Palme, Anno C: «L’Umile cavalcatura». Pag. 70-72).

Etty era donna di moltissime letture e svariati autori. L'autore preferito e congeniale, che molto l'ha nutrita, soprattutto sul piano religioso, è Rainer Maria Rilke. Come lui e con la sua guida, Etty trova il raggio divino, oltre che in sé e negli altri, nei fiori, negli alberi, nelle cose inanimate che si vengono ad animare in un'ottica poetica panpsichistica.

Il tema del deserto è vasto quanto la storia sacra. Non vi sono parole per esaurirlo. È una realtà che si lascia conoscere solo sperimentalmente. Chi poi la vive, sa di non avere parole per dirne il sapore e la misura.

Non è facile vivere il vuoto creato dalla superficialità della società moderna. Senza vita interiore, senza uno scopo e senza un significato, l'individuo è in balia di ogni genere di impressioni passeggere, è indifeso di fronte a ciò che può aggredirlo dal di fuori o dal di dentro.

La Chiesa cattolica in Georgia


È un “piccolo gregge” numericamente esiguo ma spiritualmente tenace e attivo, quello della Chiesa cattolica in Georgia. Venticinque le comunità presenti in questo lembo del Caucaso. E un parroco cattolico al servizio di alcune decine di fedeli nella città natale di Stalin, Gori, dove rimane in piedi - unica in tuttol'ex Urss - la statua dell'ex dittatore. Ma la Georgia vanta anche un altro unicum: la chiesa cattolica di San Pietro e Paolo, nella capitale Tbilisi, la sola, fuori dalla Russia, rimasta aperta durante i settant'anni di ateismo sovietico, grazie al coraggio di un sacerdote polacco, padre Adam Ochal. Entrare oggi in questa chiesa, dove grandi foto ricordano la storica visita del Papa nel 1999, permette di rendere omaggio a quella schiera anonima di testimoni che hanno professato il loro credo anche in tempi di ateismo di Stato.

I segni del passato sovietico si vedono ancora. Entrando in Georgia dalla vicina Turchia ci si imbatte in Bitumi: un tempo fiorente località turistica frequentata dai «papaveri» di Mosca, ora giace trascurata, tra le coltivazioni di tè che abbondano in questa zona dal clima subtropicale. Nelle vicinanze di Kutaisi, nel centro del Paese, la più grossa industria siderurgica del Caucaso sovietico è passata da 20mila a 500 dipendenti e oggi produce martelli. Gli anziani tirano avanti con pensioni da fame: 17 lari al mese (l'equivalente di 6 euro), quando un chilo di zucchero ne costa 2 e il pane 1. La corruzione resta una piaga endemica, nonostante il giro di vite del presidente Mikhail Saakashvili, in carica dal novembre 2003. Spesso del malaffare elevato a sistema ne fanno le spese gli stranieri: ai posto di blocco, lungo le strade, si viene tartassati da insistenti richieste di mazzette.

Ma non è solo l'eredità sovietica a preoccupare i cattolici di Georgia. Da qualche tempo i vertici della gerarchia ortodossa sono scossi da spinte fortemente conservatrici, con inevitabili riflessi sul piano dei rapporti con la Chiesa cattolica. Episodi singoli, fors’anche marginali, ma che se inseriti in un quadro più ampio danno l'amara sensazione che la Chiesa ortodossa georgiana rischi di diventare ostaggio di un'avversione contro i non ortodossi, fomentata da frange oltranziste. Tali sentimenti derivano - spiega l'amministratore apostolico dei latini del Caucaso, mons. Giuseppe Pasotto - «dalla mancanza di cultura e di conoscenze adeguate». Il fanatismo religioso di alcuni, in altre parole, si nutre di ignoranza e semina inimicizia.

Incontrando i cattolici di Georgia, la sensazione è di preoccupazione diffusa. Famoso è rimasto l'incidente diplomatico dell'ottobre 2003, quando una serie di manifestazioni di piazza contro la Chiesa cattolica indussero l'ex presidente Eduard Shevardnadze a non concedere il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica. Proprio al momento della firma il governo georgiano comunicò al rappresentante vaticano, l'allora segretario per i rapporti con gli Stati, cardinal Jean-Louis Tauran che, causa l'esplicita opposizione della Chiesa ortodossa, l'accordo non sarebbe stato siglato. Alla guida delle proteste in strada un gruppo di monaci ortodossi e il vescovo Zenone di Dmanisi, autore di duri pronunciamenti contro Roma.

Ebbene: a leggere gli appelli di alcuni esponenti ortodossi - ad esempio il vescovo di Bitumi, Dimitri - colpiscono e amareggiano i toni delle accuse e i clamorosi errori storiografici con i quali si motiva l'avversione alla presenza cattolica in Georgia. «Purtroppo - commenta mons. Pasotto - in Europa l’immagine dell'ortodossia georgiana viene influenzata da questi fatti e dall'operato di persone non equilibrate. Un'ingiusta rappresentazione della realtà, che mi fa piangere il cuore per il tradimento verso questa terra i suoi cristiani che amo, da quando, più di dieci anni fa, ho messo piede qui».

L'episodio citato è sintomatico dell'involuzione che rischia di subire l'ortodossia. I segnali preoccupanti non mancano: di recente, due preti polacchi di Bale, sul confine con la Turchia, «rei» di essere andati a fare visita ad alcuni cattolici in un villaggio ortodosso, hanno ricevuto minacce di morte da parte di fanatici.

Ma il clima potrebbe, fortunatamente, cambiare: un gruppo di sacerdoti «riformisti», insoddisfatti della piega anti-moderna e anti-ecumenica assunta dall'ortodossia del Caucaso, pare stia per attuare una «rivoluzione delle rose» in seno alla Chiesa georgiana. Una sorta di replica in chiave ecclesiale del cambiamento politico avvenuto a novembre 2003, quando l'ex presidente Shevardnadze è stato spodestato da una sommossa denominata appunto «rivoluzione delle rose» (dal fiore che i rivoltosi portavano al momento dell'occupazione del Parlamento). Una rivoluzione ancora in itinere, come dimostra la vicenda del primo ministro Zurab Zhvania, trovato morto poche settimane fa in circostanze poco chiare.

Kutaisi è la seconda città del Paese, con i suoi 250 mila abitanti. Qui i cattolici hanno ricevuto dai fratelli ortodossi l'ultimo rifiuto - in ordine di tempo - di vedersi restituire le loro chiese confiscate dal passato regime comunista. Non potendo rientrare in possesso delle vecchie chiese, i cattolici georgiani, ne hanno costruite due ex novo: una, a Bitumi, inaugurata in occasione del Giubileo del 2000; l'altra, ad Akalsheni. piccolo villaggio a una ventina di chilometri da Kutaisi. Andandoci in automobile, in compagnia di padre Carlo De Stefatti, che cura questa comunità cattolica, si entra nel cuore della Georgia profonda, dove la povertà dei centri rurali testimonia la realtà di un Paese che resta in bilico fra progresso e sottosviluppo e che, pur desiderando l'Europa, è ancora attanagliato da sacche di disoccupazione e miseria.

La distanza fra ortodossi e cattolici nel Caucaso non si misura solo sugli edifici sacri, ma anche su una questione cruciale come il battesimo: «Non è facile vivere l'ecumenismo con una Chiesa che non riconosce la validità del tuo battesimo, come avviene con quella ortodossa georgiana oggi», afferma mons. Pasotto. Che, però, nutre una certezza: la strada del dialogo fraterno è la sola per attuare l'impegnativo motto episcopale («Ut unum sint») che si è scelto nel 2000. Pasotto si mostra ottimista: «È nel campo caritativo, della pace e della solidarietà che il dialogo diventa più facile. Dobbiamo insistere su questo e favorire incontri di base, tra fedeli e sacerdoti, ora che quelli ufficiali si sono un po' raffreddati».

Più roseo il futuro dei rapporti fra ortodossi e cattolici nel Caucaso appare dalle parole del nunzio apostolico, mons. Claudio Gugerotti: «Noi speriamo che il clima fra le due Chiese torni a essere sereno come era una decina di anni fa. Il dialogo e l'incontro, qui in Oriente, avvengono soprattutto fra persone, e non primariamente fra istituzioni», rimarca il nunzio. «La conoscenza e la stima fra individui possono essere decisive».

Proprio nell'ottica di un più efficace incontro con la tradizione locale, un attempato ma sagace religioso si è lanciato in un'avventura culturale di tutto rispetto. Padre Luigi Mantovani, stimmatino, per molti anni preside di una prestigiosa scuola di Verona, a metà anni Novanta - facendo la spola in estate fra Italia e Georgia - si è cimentato nella stesura della prima grammatica italo-georgiana, con tanto di audiocassetta e libro per gli esercizi. Ultimata la fatica, padre Mantovani nel 1998 si è trasferito in pianta stabile a Kutaisi per curare la monumentale opera di un vocabolario italo-georgiano (25 mila voci), ormai pronto per la stampa: «Ho impiegato quattro anni, ma finalmente l'ho terminato», dice soddisfatto mentre ci mostra alla fioca luce di una pila i fogli del dizionario che ingombrano il suo tavolo.

La presenza dei religiosi stimmatini (in buona parte provenienti da Verona) si colloca nel servizio alla Chiesa cattolica locale, in vista di una sua piena maturità dopo la rinascita della chiesa cattolica nel 1993, avvenuta con l’invio del primo nunzio, mons. Jean-Paul Gobel.

L’amministratore apostolico Pasotto ha aperto nel 2003 il seminario diocesano a Tzerovani, 20 chilometri da Tbilisi: «Per noi è il segno di un cammino fatto, di una crescita di Chiesa che non è numerica, ma di identità e consapevolezza». In formazione sono una mezza dozzina di seminaristi: nel miscuglio di lingue ed etnie, questi chierici danno già un’idea palpabile di quanto questo Paese sia cerniera tra Oriente e Occidente. C’è un ragazzo ebreo, profugo dell’Abkhazia (la regione nordoccidentale, ancor oggi nella morsa della guerra civile), due armeni, un russo. Tre soli i georgiani “puri”. «Questi ragazzi hanno tutti storie particolari. C’è chi è venuto alla fede in maniera personale, attraverso una vera e propria conversione; chi ha vissuto l’esperienza della guerra civile e dell’esilio della propria casa; chi ha alle spalle una famiglia cattolica», sottolinea don Mauro Bozzola, responsabile della formazione dei futuri preti. Dopo essere stato vicerettore del seminario della diocesi scaligera, don Bozzola è stato “prestato” alla chiesa georgiana per alcuni anni.

Nello stesso stabile del seminario, assediato da continui disagi e black out, si sta per ultimare la realizzazione di un centro di spiritualità che sarà uno spazio per l’approfondimento biblico e spirituale. La formazione dei futuri sacerdoti georgiani si tiene nello Studio teologico Saba, a Tbilisi, ed è diretta da un sacerdote francese, padre Pierre Dumoulin, con trascorsi in Russia (ha insegnato a S. Pietroburgo e Mosca – M.M., aprile 1995, pp. 61-63). Da poco è rientrato in patria, dopo gli studi in Polonia, l’unico prete cattolico georgiano, don Zurab Kakachishvili, parroco di Akalkizizhe, al confine con la Turchia.

Un’altra istituzione importante per la vita della Chiesa cattolica nel Caucaso, fortemente voluta da mons. Pasotto, è il Centro per la famiglia di Kutaisi. Oltre al supporto pastorale, qui vengono offerti i corsi di regolazione naturale della fertilità grazie all’Istituto internazionale per la conoscenza dei metodi naturali. La direttrice del centro, Lali Ciarkviani, ha studiato due anni in Italia e ora si divide tra Kutaisi e Tbilisi per tenere lezioni a una trentina di donne, che in futuro saranno anch’esse insegnanti dei metodi naturali. Un’urgenza sociale, quella di educare a una sessualità consapevole, spiega la Ciarkviani: «In Georgia l'aborto, anche se illegale, è molto diffuso. Basta scucire 17 lari (6 euro) a un medico compiacente».

La carità concreta è un altro tratto delta Chiesa cattolica in Georgia: la presenza di cinque suore di Madre Teresa e l'ospedale dei camilliani a Tbilisi, nonché l'importante presenza di Caritas Georgia sono gli esempi più eloquenti di una solidarietà pratica che si mette a servizio di tutti: la maggior parte dei dipendenti Caritas sono ortodossi; i poveri nelle mense, negli ambulatori o nelle case per bambini vengono aiutati senza alcuna distinzione di confessione religiosa. «Quando nel 1993 partii per Tbilisi il Papa mi disse: "Fate tutto affinché i cattolici diventino buoni cattolici, e gli ortodossi buoni ortodossi. Mettetevi al servizio della gente"», ricorda padre Witold Szulczynski, salesiano polacco, responsabile della Caritas locale. «Qualche tempo dopo venimmo ricevuti dal patriarca Ella II e gli riferimmo le parole del Papa: se ne compiacque. Lo stesso patriarca ha riconosciuto che noi aiutiamo i poveri senza guardare alla toro confessione religiosa».

(da Mondo e Missione, marzo, 2005)

Come dire oggi il Risorto

di Giampietro Brunet

«Poco più della metà degli italiani (54%) crede nella risurrezione di ogni uomo alla fine dei tempi»; «credenze specifiche della tradizione cristiana (come l’esistenza di un’anima immortale in ogni uomo o la risurrezione alla fine dei tempi) non risultano condivise da quote consistenti dei soggetti che pur hanno fede nel Dio del cristianesimo e credono in Gesù Cristo». Sono due flash tratti da “La religiosità in Italia” (Milano 1995, p.32s). in tale contesto, come ripresentare, dunque, l’annuncio della pasqua?

«Se Cristo non è risuscitato – scriveva S. Paolo – allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (1Cor 15,14). Partendo da questa frase paolina, il vescovo di Piacenza, Luciano Monari, ha affrontato il fulcro del kerygma pasquale: «È risorto come aveva predetto...», commentando all’incirca: il testo parla chiaramente di inutilità («è vana...», cioè senza contenuto). Se Cristo non fosse risorto saremmo nel vuoto ed egli si porrebbe solo come uno tra i tanti personaggi della storia.

L’insieme della predicazione cristiana, insomma, se non fa i conti e non si fonda saldamente sulla risurrezione di Cristo, per quanto ampia e articolata essa sia (Dio-Trinità, creatore e redentore, amore di Dio per noi e comandamento dell’amore per il prossimo, compresi i nemici), sarebbe senza un proprio fondamento e, sostanzialmente, privo di consistenza.

Nella stessa lettera paolina si parla di risurrezione «il terzo giorno, secondo le Scritture». Il riferimento – ha ricordato il vescovo Monari, sulla scorta di tanti studi esegetici in merito – è un testo di Osea dove, nel contesto di una celebrazione della conversione, il popolo viene spronato al rinnovamento. Vi si legge: «Il Signore dopo due giorni ci darà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,2). Ma questo è troppo poco per riuscire a spiegare l’importanza fondamentale che la risurrezione riveste come nucleo centrale della nostra fede.

Nel cuore dell’annuncio cristologico

Senza entrare in questioni dettagliate, su cui i teologi e gli esegeti hanno ampiamente dibattuto, il relatore si è soffermato soprattutto su una domanda: perché Mosè, Abramo e altri personaggi biblici che appaiono in tutta la loro grandezza di «campioni della fede nel Dio vivente» hanno potuto esserlo e noi, al contrario, senza la risurrezione, avremmo una fede vuota? Certo, senza la risurrezione rimarrebbero invariati l'insegnamento etico, le beatitudini, il comandamento dell'amore e gli stessi gesti di potenza che manifestano la venuta del regno di Dio; resterebbe pure significativo l'atteggiamento di Gesù verso i nemici e davanti alla morte stessa. Ma, conclude il vescovo, in tal modo la vita di Gesù e il suo insegnamento si ridurrebbero a un capitolo della storia del pensiero etico-religioso, accanto a Buddha, Socrate Maometto.

Ma, per completezza, accanto al comportamento esemplare di Gesù, occorrerebbe ricordare anche il negativo: il tradimento di Giuda, l'ambiguità di Pilato, il defilarsi dei dodici ecc. Esito di tale modo di procedere - oggi peraltro abbastanza diffuso – sarebbe che «la storia risulterebbe un intrecciarsi di gesti buoni e cattivi, dove forse i buoni sarebbero superiori al loro contrario, ma si tratterebbe solo di una pura superiorità statistica». Cos'è, dunque, a fare la differenza? La risurrezione, appunto.

Se la prima prospettiva fa cogliere la storia umana come un intreccio di bene e di male con oscillazioni ora a favore del bene, ora a favore del negativo, «con la risurrezione di Gesù, abbiamo invece un giudizio definitivo sulla vita di Gesù e, di conseguenza, sull’intera storia dell’uomo». Ecco il crinale storico decisivo dell’annuncio: «Gesù Cristo è risorto», è il «Vivente in eterno».

Se apparentemente la morte in croce di Gesù era percepibile come fallimento, o come la fine di un brutto sogno (così traspare dal discutere tra loro dei due discepoli di Emmaus), in realtà – dice con forza il vescovo biblista - «con la risurrezione di Gesù, Dio ha dato ragione a Gesù, perchè ha firmato col sigillo della sua potenza la vita e la morte di lui».

È ciò che si trova di frequente proprio nei discorsi degli Atti degli apostoli, in particolare, quando Pietro, presso Cornelio, prende la parola e conclude: «Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse...a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» (At 10,40-42).

La struttura della riflessione di Pietro contiene il bene e il male: il potere e l’amore si sono affrontati nel dramma della vita e della morte di Gesù. «La risposta della storia è stata a favore del potere politico e religioso ,contro la debolezza dell’amore. Ma Dio ha capovolto e ha affermato la sua volontà di salvezza dando ragione a Gesù. Insomma, il giudizio della storia è stato cassato e, concretamente, proprio all’interno della storia». La risurrezione – aggiunge il vescovo Monari, sulla scorta dell’intera testimonianza del NT – tocca la storia, e come! Qui è coinvolta la vicenda di Gesù di Nazaret, ma con un giudizio che viene da oltre la storia, sanzionandola però irreversibilmente. Certamente questo “giudizio dall’alto”W sottrae qualcosa alla storia: siamo di fronte ad un evento, tocca la storia e le cambia il corso. Anzi, con la risurrezione di Cristo Gesù, si potrebbe quasi dire che un pezzo di umanità, abita ormai stabilmente presso Dio.

Se con Qohelet si guarda la storia che “sta dai tetti in giù” si è portati a concludere che «non vi è nulla di nuovo sotto il sole»; ma se la si guarda dalla parte di questa “potenza dall’alto” che risuscita Gesù di Nazaret, allora si deve concludere che qui siamo davvero di fronte alla più grande, radicale novità mai vista.

Dal punto di vista di Dio

La risurrezione di Gesù Cristo segna dunque questo crinale definitivamente che dà al tempo la dimensione e il sapore del compimento. Non aveva, del resto, Gesù stesso – come riferimento il Vangelo di Marco – inaugurato la sua predicazione con: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo»? a segnare irrevocabilmente questo “compimento” è proprio l’evento della risurrezione: «prima di Cristo...poi di quelli che sono di Cristo», fino a che «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,23).

Quel ricorrente «ma Dio l’ha risuscitato» obbliga ad assumere il punto di vista di Dio. Se, umanamente parlando, la morte in croce del figlio unigenito che Dio dona al mondo (Gv 3,16), appare tragico fallimento, se la debolezza dell’amore sembra sconfitta in modo totale, dal punto di vista di Dio no: Dio dichiara “giusta” la vita e la morte di Gesù di Nazaret e la potenza di Dio che lo risuscita sancisce per sempre la sconfitta della morte e del male.

Questo è il gioioso annuncio della pasqua che ancora oggi deve risuonare, uscendo da qualsiasi logica di “autosalvezza”, che è sempre e irrimediabilmente fuori luogo, per assumere al contrario il punto di vista stesso di Dio che dichiara con potenza giusta e vittoriosa, davanti a sè, la vita e la morte di Gesù. «È dunque tutta l’esistenza di Gesù che la risurrezione viene a confermare, mettendovi sopra il sigillo della giustificazione di Dio».

Se prima si diceva che comunque, ad es. le beatitudini, hanno e conservano un loro fascino e una loro validità, ora bisogna dire più integralmente che quello stesso insegnamento ricava dall’evento della risurrezione di Cristo una sua pregnanza ulteriore: è molto diverso – spiega ancora il vescovo Monari – leggere le beatitudini come «il bel sogno di un maestro religioso», o come «un cambiamento della storia che dipende dall’intervento diretto di Dio». Insomma, quelle stesse parole, accolte alla luce della risurrezione, ora recano il sigillo dell’intervento potente di Dio e non sono più solo culturalmente o eticamente affascinanti, ma suggellate dal suo intervento potente nella storia, che le fa uscire dalla logica del desiderio umano e accogliere come «rivelazione del volto di Dio».

Se Cristo è risorto, ciò significa che «lui povero nella storia è il Signore nel regno di Dio» (“beati i poveri”...); «lui afflitto nella storia è stato consolato»; lui «mite, non prepotente nella storia, ha conquistato la terra». E allora le beatitudini non sono più un sogno o un messaggio che auspica un cambiamento, ma esprimono e dicono la radicalità di un cambiamento avvenuto che ha mutato per sempre il volto della storia dell’umanità salvata; sono parole nelle quali Cristo ha messo se stesso e la sua vita e che ora sono rafforzate con potenza dall’alto. Inoltre, quel Gesù che ha messo se stesso in quelle parole e in quegli insegnamenti è un «Vivente». È questo che le rende parole «contemporanee a noi»: rimangono in tutto il loro significato, ma soprattutto in esse il loro autore è presente e attivo ancora oggi (cf. anche DV, SC).

Lo stesso si può dire dei miracoli-segni compiuti da Gesù: «se egli non è risorto, rimangono come splendidi segni di una primavera trascorsa o come mirabili prodigi di una guaritore...ma se egli è risorto, le sue azioni non possono essere ristrette solo al passato. Si veda la conclusione del vangelo di Matteo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque...fate mie discepole tutte le genti”. Si veda anche la guarigione di cui si racconta negli Atti, con la spiegazione di Pietro: “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo”, il che indica come l’opera e l’azione di Gesù sia ancora efficace» (At. 4). E l’azione di Gesù è efficace perchè la persona di Gesù è viva.


Trasformati dalla potenza del Risorto

«Chi crede in me opererà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perchè io vado al Padre» (cf. Gv 14,12). Anche un testo simile parla della potenza divina del Risorto-Vivente. Gesù insomma, lungi dallo smettere di operare, continuerà a farlo attraverso i suoi; cambia solo il modo del suo operare, così come cambia il modo della sua presenza nella storia.

Tutto questo presuppone – cosa che tutto il NT si premura di esplicitare – che il Risorto è proprio lo stesso Gesù di Nazaret. La risurrezione di Gesù non è il ritorno allo stato di vita precedente, ma passaggio (pasqua) a uno stato di vita nuovo. Anzi, si può dire del Risorto ciò che Paolo dice della risurrezione in genere: Ciò che semini non prende vita se prima non muore. «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile...si semina debole e risorge pieno di forza...si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale». E allora è comprensibile anche il dubbio dei testimoni di fronte alle apparizione del Risorto. Essi sono davanti a lui nella pienezza della sua potenza. La difficoltà sta appunto nel riconoscerlo come lo stesso Gesù della debolezza e della piccolezza. Ecco dunque lo stupore religioso dei discepoli sulle rive del lago di Galilea quando dicono: «É il Signore»; o di Maria di Magdala quando esclama: «Rabbunì»... è proprio lui!

«Al momento della trasfigurazione – sintetizza mons. Monari – alcuni discepoli hanno potuto vedere la gloria di Dio nell’umanità di Gesù; nelle apparizioni pasquali i discepoli devono imparare a vedere l’umanità di Gesù nella sua gloria di Vivente». È per questo che Gesù mostra ripetutamente i segni della passione («con i segni della passione vive immortale» recita la liturgia). Ed è il motivo per cui condivide i pasti con i suoi: mangiare insieme aiuta soprattutto i discepoli a sperimentare la gioia della comunione con lui come l’avevano sperimentata prima della vita trascorsa insieme.

Ecco dunque l’importanza di sottolineare la continuità tra il Risorto e il Crocefisso, imparando a leggere l’unità inscindibile del mistero pasquale. Solo così la croce cessa di apparire come un momento di oscurità o di latenza provvisoria di quella divinità che si era manifestata con i miracoli e si manifesterà appieno con la luce della pasqua di risurrezione. Significativo per cogliere questa inscindibile unità il testo dell’Apocalisse dov’è scritto: «Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e gli inferi». Andando un po’ oltre si potrebbe addirittura dire: «Proprio perchè ho fatto l’esperienza della morte, vivo della vita di Dio; perchè ho subìto la morte come uomo, ma trasformandola nell’obbedienza a Dio nell’amore per “i molti”, sono il Vivente in eterno». Da questo punto di vista la morte non è più un punto nero da dimenticare, ma l’unica condizione per vivere e per cogliere in tutta la sua ricchezza l’evento della risurrezione.

«Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo – scrive Gv 13,1 – sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, li amò sino alla fine». Ecco la Pasqua, questo passaggio che per la Mishnà è «passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita». Sono tonalità da far risuonare nell’annuncio gioioso della pasqua. Giovanni evangelista però non ha più il riferimento allo scampato pericolo del libro dell’Esodo, ma innesta un tema nuovo: pasqua come passaggio «da questo mondo al Padre». Gesù, Verbo del Padre, ha assunto una carne umana, è entrato dentro le fibre di questo mondo, assumendone le realtà di limite e debolezza. Ma ora con la sua umanità passa da questo mondo al Padre: è il mistero della divinizzazione di tutta l’umanità portando a compimento l’incarnazione del Figlio di Dio.

Il primogenito dai morti vive per sempre in un corpo glorioso e sarà quello stesso corpo trasfigurato che ogni credente in Cristo abiterà per sempre nel momento del pieno svelamento del mistero di Dio. Mistero per molti versi incomprensibile e ineffabile. Ma realizzato e reale, per il Risorto e per tutti i credenti in lui.

(da Settimana, n. 11-12, marzo, 1997)

Giovedì, 09 Marzo 2006 00:29

Ricordando Zumbi (Marcelo Barros)

Ricordando Zumbi

di Marcelo Barros

In Brasile, novembre è il mese di una memoria tragica e attraente allo stesso tempo. Nel secolo 17°, la tratta degli schiavi era in auge: interi villaggi d'Africa venivano svuotati di uomini, donne e bambini, dapprima razziati come bestie e quindi stipati su navi negriere che li trasportavano nelle Americhe. Nel frattempo, nel nord-est brasiliano, schiavi neri fuggiti dalle piantagioni di canna da zucchero, indios perseguitati e alcuni bianchi contrari al sistema coloniale fondavano un territorio libero – “senza padroni né schiavi” – in cui tutti potevano vivere in maniera più democratica e giusta.

Questo territorio era il Quilombo dos Palmares, una delle molte esperienze di comunità in costante lotta per la libertà. La sua gente riuscì a respingere ripetuti attacchi dell'esercito coloniale. Parve la realizzazione di un sogno: quello di un mondo più giusto e libero.

Ma le forze di repressione potevano contare su finanziamenti e armi sofisticate. Nel 1695, in seguito al tradimento di alcuni membri della comunità, i soldati riuscirono a invadere Palmares. Per evitare un bagno di sangue il leader del Quilombo, conosciuto come Zumbi dos Palmares, si consegnò spontaneamente ai soldati. Il 20 novembre, fu decapitato: la sua testa venne esposta al pubblico nella piazza centrale di Recife, mentre il suo corpo fu fatto a pezzi, poi disseminati per le strade della città. Palrnares fu vinta.

Solo duecento anni dopo, alla fine del 19° secolo, il popolo nero riuscì a liberarsi della schiavitù. Fu una liberazione soltanto legale. Anche oggi, infatti, la concentrazione delle finanze nelle mani di pochi, la scandalosa disuguaglianza sociale e la politica neoliberale perpetuano una realtà di autentica schiavitù, che obbliga i bambini a lavorare e le donne a prostituirsi e a far sì che, nel Brasile d'inizio secolo 21°, pur impiegati nello stesso lavoro, i neri guadagnino il 25% di meno dei bianchi. Nel corso dei secoli, la storia dei quilombos e della resistenza nera non è stata studiata nelle scuole. Fino a poco tempo fa, pochi brasiliani sapevano cosa fosse un quilombo e quale importanza abbiano avute queste isole di libertà nello sviluppo del proprio paese. Negli ultimi anni, però, la grande maggioranza dei discendenti degli schiavi africani hanno preso coscienza delle loro vere radici. E si è anche scoperto che in molte regioni del Brasile esistono comunità che discendono direttamente dai quilombos, mantenendone cultura e dignità.

La costituzione del 1998 riconosce a queste comunità il diritto di possedere la terra dei loro antenati e di vivere secondo la propria cultura. In tutto il paese, il 20 novembre è ricordato come la "giornata nazionale della coscienza nera". In molte città è giorno festivo... liberi dal lavoro, tutti hanno la possibilità di celebrare la multiculturalità del paese.

Senza alcun dubbio, la riscoperta della dignità della persona nera è la più grande eredità che Zumbi ha lasciato al Brasile. In un mondo che tende sempre più a escludere tutto ciò che è "diverso", tale eredità rappresenta un tesoro da non perdere e un trampolino di lancio da cui spiccare il salto verso un mondo migliore, in cui tutti sono accettati per ciò che sono.

(da Nigrizia, novembre, 2005, p. 77)

La fermata a metà strada è frequente. Basta raggiungere un punto di vista un po' più alto per esser presi dalla voglia irresistibile di interrompere il cammino.

Martedì, 07 Marzo 2006 01:34

La liturgia delle ore

La liturgia come azione comune di Cristo e della chiesa si realizza anche nel quotidiano servizio di preghiera della Chiesa, la liturgia delle ore.

Dio prende l'iniziativa di far uscire - esodo - Abramo dal suo passato - terra, patria, casa - gli promette un nuovo futuro: terra, discendenza e benedizione estesa a tutti i popoli.

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