Famiglia Giovani Anziani

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

VI. La "Donna" dell'apocalisse
di Alberto Valentini



 

L'Apocalisse, pur facendo parte - secondo l'opinione più comune degli studiosi - della tradizione giovannea, pone problemi particolari e si presenta con caratteristiche proprie, che non è qui il caso di analizzare.

Le peculiarità e le oscurità di questo libro - unica apocalisse del Nuovo Testamento - sono presenti ovviamente anche nel capitolo 12, uno dei brani più studiati della letteratura neotestamentaria.

Anche qui, come a Cana e presso la croce, si parla di una "donna" (il temine vi ricorre otto volte), ma in maniera diversa. Certamente con si possono ritrovare in Ap 12 i legami esistenti tra l'episodio di Cana (Gv 2,1-12) e quello della Croce (Gv 19,25-27). Possiamo dire, con diversi autori, che, mentre nelle due scene del quarto Vangelo si parla anzitutto di Maria, la madre di Gesù, e poi della Chiesa, in Ap 12 il discorso è direttamente e principalmente ecclesiale, ma contempla indirettamente la figura di Maria. Le due linee, tuttavia, non sono esclusive, ma complementari. Mentre la donna-Chiesa conferisce senso pieno alla figura di Maria dilatandone la maternità in dimensione universale, Maria dà concretezza e fondamento cristologico alla maternità della Chiesa. "Non si capisce adeguatamente la donna-chiesa, osserva Vanni, senza rapportarla a Maria".


 



Chi è la donna


Chi è dunque la "donna" di Ap 12? Se ne comprenderà il senso esaminando il racconto.

Essa appare anzitutto come "un grande segno nel cielo" (Ap 12,1). E' una creatura celeste, rivestita dello splendore di Dio, al di sopra del tempo e della storia (la luna sotto i pedi) e con il capo incoronato di dodici stelle. La donna è figura celeste, ma simbolo del popolo dell'antica alleanza, di cui sono espressione le dodici stelle indicanti le tribù d'Israele.

Che si tratti del popolo di Dio, appare anche dalla simbologia dell'Esodo: la donna, a causa del drago (rappresentazione del Faraone) fugge nel deserto, in un luogo preparato da Dio, dove provvidenzialmente è nutrita (cf. v. 6). Il motivo del deserto ritorna in parallelismo progressivo nei vv. 13ss, nei quali si afferma esplicitamente che la fuga nel deserto è dovuta alla persecuzione del drago. Ma là interviene direttamente il Signore che prende la "donna" sulle sue ali di aquila (cf Es 19,4) e la trasporta miracolosamente nel luogo preparato per lei, nel deserto, dove viene nutrita per tre anni e mezzo, finché dura il tempo della persecuzione.

Il "grande segno" è dunque un simbolo complesso: è una figura celeste e terrestre al tempo stesso, gloriosa e perseguitata. E', comunque, il segno di una comunità vittoriosa

In Ap 12 non ci sono soltanto reminiscenze e simboli dell'Esodo, ma anche richiami più o meno espliciti alla Genesi. Di fronte alla donna c'è un drago, che nel v. 9 viene smascherato: non è solo un simbolo delle potenze mondane che combattono il popolo di Dio, ma è il serpente antico, chiamato Diavolo e Satana, colui che inganna tutto il mondo.

Come in Genesi, dunque, ci sono la donna e il serpente. Mentre però nel racconto delle origini il tentatore appariva sotto false spoglie a lusingare Eva, qui si presenta subito in atteggiamento minaccioso e con propositi omicidi.

La nuova donna (la comunità dei salvati), però non si lascia sedurre, e dà alla luce un Figlio, il "discendente" che gli schiaccerà la testa (cf G, 3,15; Gal 3,16).
Sotto i simboli dell'Antico Testamento, tuttavia, sono presenti le realtà nuove, inaugurate dal Signore Gesù. l'Apocalisse di Giovanni, è scritta per coloro che sono stati purificati e redenti dal sangue dell'Agnello e vivono nella grande tribolazione che precede il ritorno del Signore. La donna è la comunità della nuova alleanza, presentata quale "madre" del Messia (v. 5) e di coloro che "custodiscono i precetti di Dio ed hanno la testimonianza di Gesù" (v. 17). Il parto della donna - che genera nel dolore - indica la morte-risurrezione di Gesù, compresa, nella rilettura pasquale del salmo 2,7, come una nuova nascita: "Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato" (cf At 2,24; 13,32-34).
Sempre secondo lo stesso salmo messianico 2,8.9, questo Figlio è destinato a governare le nazioni con scettro di ferro. Alla sua "nascita" (nel mistero pasquale) le potenze del male sono sconfitte: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori" (Gv 12,31). La nascita dolorosa di Gesù, secondo Ap 12, è il tempo della sconfitta del maligno.



 

Una comunità vittoriosa, ma ancora nella prova


La Chiesa, grazie alla passione-risurrezione di Gesù, ha vinto il drago, ma non è affrancata definitivamente dalle insidie contro i suoi figli. Tra la risurrezione di Gesù, rapito presso il trono di Dio (v. 5) e il suo ritorno alla fine dei tempi s'interpone il periodo di tre anni e mezzo (un tempo, due tempi, la metà d'un tempo = 42 mesi, 1260 giorni) (v. 7; cf Dn 7,25: la fase della prova e della testimonianza da rendere al Signore Gesù.
La comunità in questo periodo di persecuzione (l'Apocalisse sarebbe stato scritta sotto Domiziano, verso il 95 d.C.) sarà protetta, come l'antico Israele, da Dio stesso.
Il drago, allora, visto che i suoi assalti contro la donna sono vani, se ne andrà con rabbia a far guerra al resto della sua discendenza (v. 17).

Le persecuzioni non solo non possono prevalere contro la donna, dato che i nemici sono stati precipitati dal cielo ed è giunta ormai "la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e il potere del suo Cristo" (v. 10), ma anche sono limitate nella durata: il diavolo è infuriato "sapendo che gli resta poco tempo" (v. 12). La persecuzione ha un limite, durerà "tre anni e mezzo", vale a dire la metà di sette, simbolo della totalità. E' un tempo imperfetto, già segnato da un termine e rinchiuso entro confini ben definiti, che non possono essere oltrepassati.

La donna di Ap 12 è la chiesa, già presente nel cielo e vittoriosa grazie al sangue dell'Agnello, ma sottoposta, sulla terra, anche per un po' di tempo alle persecuzioni e alle prove fino al ritorno del Signore Gesù.



 

La Chiesa e Maria


Il significato primo e diretto del grande segno è pertanto ecclesiale. Ma, si obietta, com'è possibile che la chiesa generi Gesù? essa non può svolgere un ruolo materno nei suoi confronti. E' vero il contrario: la chiesa è nata dal costato di Cristo. Normalmente si risponde che questa maternità va spiegata con quella della donna di Gv 16, 19-22. Là Gesù annuncia che la tristezza verrà sulla comunità dei discepoli, a causa della passione, come i dolori a una donna che deve partorire. La comunità sarà nel dolore per la passione di Cristo, ma sarà piena di gioia nella sua risurrezione, come la donna alla nascita del bambino.

E' una buona spiegazione, ma non esaustiva: è difficile infatti comprendere adeguatamente Ap 12 senza il ricorso, seppur indiretto a Maria. Del resto, proprio l'immagine di Gv 16, della donna prima nel dolore e poi nella gioia per la nascita di un uomo, viene chiamata in causa per illuminare la donna-Maria di Gv 19,26.
Secondo P. Grelot, l'Apocalisse non parla esplicitamente di Maria, "ma i grandi simboli del cap. 12 sono incomprensibili senza un riferimento al suo ruolo storico". Anzi, è proprio "nella persona di Maria che l'umanità antica si è trasformata in umanità nuova per dargli nascita. Maria entra dunque di diritto nella sfera del simbolo rappresentato dalla "donna"…; il simbolo possiede una duplice valenza: questo fatto sottolinea la relazione tra la chiesa e Maria".

Non pochi esegeti, specie negli ultimi, decenni, si pongono su questa linea: la donna di Ap 12 - come si è detto - indica innanzitutto la chiesa, ma indirettamente anche Maria. Dopo aver conosciuto la madre di Gesù e la "donna"-madre di Gv 19,26, non è pensabile si possa parlare di una "donna" che genera Cristo, senza un riferimento a lei. Staccare il simboli dalla realtà storica può rendere generico il simbolo stesso fino a farne dimenticare le origini e vanificarne la portata. Nella maternità di Maria non solo c'è la radice del simbolo della "donna"-Chiesa che genera Cristo, ma è proprio in lei che effettivamente la donna, la Chiesa, la stessa umanità hanno generato Cristo. Gv 19,25-27 infatti racconta che al momento della "nascita" pasquale di Gesù, presso la croce innanzitutto c'era sua madre. E proprio in quella circostanza, Maria - ella sola - viene chiamata "donna". Ella è la donna che prima d'ogni altra e a nome di tutti ha generato il Figlio nel dolore: e in quello stesso momento è divenuta madre di quella comunità dei discepoli (la Chiesa) che secondo Ap 12 - con simbologia rovesciata - "genererà" a sua volta il Messia.



 

Conclusione


In conclusione, ribadiamo che la prospettiva della "donna" di Ap 12 è diversa rispetto a quella della "donna" presso la Croce. In Apocalisse si indica anzitutto la Chiesa, nel quarto Vangelo in primo luogo Maria.

Se da un lato la presenza della Vergine sul Calvario fonda e giustifica la simbologia della "donna" di Ap 12, che genera nel dolore, questa, a sua volta, conferma ed esplicita la dimensione ecclesiale della figura di Maria presso la Croce. Tra le due scene non c'è contrasto, ma continuità e complementarietà.

Questa visione sottolinea e valorizza - secondo Vanni - la ricchezza multipla dei simboli, che solo di rado vengono pienamente sfruttati.

Il "grande segno" di Apocalisse non si esaurisce ella interpretazione ecclesiale. Anzi questa suppone la tradizione mariologica giovannea, senza la quale la "donna" perderebbe un punto di riferimento prezioso e una dimensione importante della sua valenza simbolica.


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Per tendere verso un approccio interculturale più positivo è importante prendere coscienza delle proprie zone sensibili e accostarsi delicatamente a quelle del proprio interlocutore.

Chiesa Ortodossa Greca
Il ripristino del diaconato femminile
di Phyllis Zagano


 



Il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa di Grecia ha votato ad Atene l'8 ottobre 2004 la restaurazione del diaconato femminile. Tutti i membri del Santo Sinodo – 125 metropoliti e vescovi e l'arcivescovo Christodoulos capo della Chiesa di Grecia - avevano riflettuto sul tema. La decisione non riguarda direttamente l'arcidiocesi greca ortodossa d'America, che è un'eparchia del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.  Le province ecclesiastiche greche del Patriarcato ecumenico hanno ottenuto la loro indipendenza da Costantinopoli nel 1850 e sono state proclamate Chiesa autocefala di Grecia.

Mentre le diaconesse erano virtualmente scomparse dal IX secolo, il fatto della loro esistenza era ben noto, e la discussione circa la restaurazione del diaconato femminile nell'ortodossia è iniziato nella seconda metà del XX secolo. Due libri sul tema di Evangelos Theodorou, Heroines of Love: Deaconesses Through the Ages (1949) e The “ordination” or “Appointment” of Deaconesses (1954), hanno documentato l'ordinazione sacramentale delle donne nella Chiesa delle origini. Il suo lavoro è stato completato nella Chiesa cattolica da un articolo pubblicato da Cipriano Vagaggini, un monaco camaldolese, in Orientalia Christiana Periodica nel 1974. Gli studi più significativi sul tema concordano sul fatto che le donne sono state ordinate al diaconato con un sacramento all'interno della iconostasis all'altare dai vescovi, nella Chiesa delle origini. Nel corso della loro ordinazione, le diaconesse ricevevano la stola diaconale e la comunione, condividendo la stessa qualità pentecostale delle ordinazioni episcopali, sacerdotali o diaconati maschili.

Nonostante il declino delle ordinazioni di diaconesse all'inizio del Medio Evo, l'Ortodossia non l'ha mai proibita. Nel 1907 una commissione della Chiesa ortodossa russa ha registrato la presenza di diaconesse in ogni parrocchia della Georgia; il popolare santo ortodosso del XX secolo, Nektario (1846-1920) aveva ordinato due diaconesse nel 1911; e fino agli anni 50 alcune monache greche ortodosse divennero diaconesse nei monasteri. Nel 1986 Christodoulos, allora metropolita di Demetrias e ora arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, ha ordinato una diaconessa secondo il rituale di s. Nektarios, l’antico testo bizantino che s. Nektario usava.

Numerose conferenze inter-ortodosse hanno richiesto la restaurazione dell’ordine, tra cui il Simposio interortodosso di Rodi, nel 1988, che affermò esplicitamente "l'ordine apostolico delle diaconesse dev'essere fatto rivivere". Il simposio notò che "la restaurazione di questo antico ordine dev'essere presa in considerazione a partire dagli antichi prototipi testimoniati in molte fonti e con le preghiere rinvenute nelle Costituzioni Apostoliche e negli antichi testi liturgici bizantini”.

Al Santo Sinodo di Atene del 2004 il metropolita Chriysostomos di Calcedonia ha avviato la discussione sul tema del ruolo delle donne nella Chiesa di Grecia e sul recupero dell'ordine del diaconato femminile. Nella discussione che ne èseguita, alcuni vescovi più anziani apparentemente hanno dissentito dalla completa restaurazione dell'ordine. Anthimos, vescovo di Tessalonica, ha poi riferito al Kathimerini English Daily "per quanto ne so, l'inserimento delle donne nella polizia e nell'esercito è stato un fallimento, e noi vogliamo tornare su questo vecchio argomento?".

Mentre l'aspetto di servizio sociale del diaconato femminile è ben noto, il Santo Sinodo ha deciso che le donne potessero essere promosse al diaconato solo in remoti monasteri e a discrezione dei singoli vescovi. La decisione limitativa di restaurare solo il diaconato femminile monastico non è piaciuta ad alcuni membri del sinodo. La Athens News Agency ha riportato che Chrysostomos, vescovo di Peristeri, ha detto che "il ruolo delle diaconesse deve svolgersi nella società e non nei monasteri". Altri membri del Santo Sinodo si sono detti d'accordo e hanno sottolineato il fatto che il ruolo delle diaconesse dev'essere sociale, per esempio l'amministrazione dell'estrema unzione ai malati.

Il voto del Santo Sinodo per restaurare il diaconato femminile in determinate circostanze potrebbe essere l'idea più progressista che la Chiesa ortodossa può offrire al mondo. Il documento non usa la parola ordinazione, ma permette specificamente ai vescovi di consacrare (kathosiosi) monache anziane nei monasteri delle loro eparchie. Ma i vescovi che scelgono di pro-muovere le donne al diaconato hanno solo la liturgia bizantina antica, che prevede la stessa cheirotonia, imposizione delle mani, per le diaconesse e per gli ordini maggiori: vescovo, prete e diacono. Alcuni studiosi (per lo più occidentali) hanno affermato che l’ordinazione storica delle diaconesse non era una cheirotonia, o ordinazione agli ordini maggiori, ma una cheirotesia, una benedizione che significa insediamento in un ordine minore. La confusione è comprensibile, dal momento che i due termini sono stati talvolta usati in modo indiscriminato, ma altri studiosi sono ugualmente convinti che le donne sono state ordinate all’ordine maggiore del diaconato. La prova sarebbe nella liturgia che i vescovi utilizzano. Al momento vi è una sola liturgia e una sola tradizione con la quale creare una diaconessa nel rito bizantino, ed è con ogni evidenza un rituale di ordinazione per il “servo che dev’essere ordinato all’ufficio di diaconessa”.

Anche il documento sul diaconato pubblicato dalla Commissione teologica internazionale del vaticano del 2002 ammette che “il canone 15 del Concilio di Calcedonia (451) sembra confermare il fatto che le diaconesse erano veramente ‘ordinate’ dall’imposizione delle mani (cheirotonia)”. Nonostante l’uso peggiorativo delle virgolette qui e altrove nel documento quando vengono menzionate le ordinazioni storiche di donne al diaconato, la commissione vaticana non sembra intenzionata a negare la storia alla quale ora la Chiesa di Grecia è nuovamente tornata. Inoltre, il documento vaticano indica che la pratica dell’ordinazione delle diaconesse secondo la liturgia bizantina è durata almeno fino all’VIII secolo. Non esamina la prassi ortodossa dopo il 1054.

La ripresa dell’ordine del diaconato femminile nella Chiesa di Grecia dovrebbe partire nell’inverno 2004-2005. l’ordinazione odierna (cheirotonia) delle donne fornisce una prova e un sostegno per la restaurazione del diaconato femminile nella Chiesa cattolica, che ha riconosciuto la validità dei sacramenti e degli ordini ortodossi. Nonostante la distinzione nel canone 1024 (“Solo un maschio battezzato riceve validamente l’ordinazione sacra”) si può presumere la possibilità di una deroga dalla legge, come suggerito dalla Canon Law Society of America nel 1995, per consentire l’ordinazione diaconale delle donne (la storia del canone 1024 è chiaramente uno dei tentativi di escludere la donna dal sacerdozio, non dal diaconato).

In effetti, la Chiesa cattolica ha già indirettamente riconosciute come valide le ordinazioni di donne effettuate dalla Chiesa apostolica armena, una delle Chiese orientali che ordina diaconesse. Vi sono due recenti dichiarazioni di unità – accordo di reciproco riconoscimento di sacramenti ed ordini – tra Roma e la Chiesa armena, una firmata da Paolo VI e Catholicos Vasken I nel 1970, l’altra tra Giovanni Paolo II e Catholicos Karekein I nel 1996.

Questi accordi sono significativi, perchè la Chiesa apostolica armena ha conservato il diaconato femminile fin nei tempi moderni. Il catholicossato armeno di Cilicia ha almeno quattro donne ordinate. Una, sorella Hrip’sime, che vive ad Istanbul, compare nel calendario ufficiale della Chiesa pubblicato dal patriarcato armeno di Turchia come segue: “Madre Hrip’sime protodiaconessa nel 1984; madre superiora nel 1998. membro dell’oridine kalfayano”. Madre Hrip’sime ha lavorato per restaurare il diaconato femminile come ministero sociale attivo, e per molti anni è stata direttore generale del Bird’Nest, un orfanotrofio che era anche scuola e centro sociale vicino a Beirut, in Libano. Il suo diaconato e quello di altre tre donne, non è certo monastico.

La risposta futura della Chiesa al passato documentato e al presente in cambiamento promette di essere interessante. Il tono del documento della Commissione teologica internazionale rivela un tentativo di escludere le diaconesse, ma la questione è significativamente lasciata aperta: “Spetta al ministero del discernimento che il Signore ha stabilito nella sua Chiesa pronunciarsi con autorità su questa questione”.
È sempre più chiaro che nonostante la non volontà della Chiesa cattolica di dire sì alla restaurazione del diaconato femminile come ministero ordinato dalla Chiesa cattolica, non può nemmeno dire di no.


(da Adista n. 16, febbraio 2005)

L'annuncio morale cristiano si presenta come universale, e non potrebbe fare altrimenti, essendo l'espressione umana di una Revelata Veritas. Proprio per questo non può e non deve identificarsi con alcuna cultura.

A 40 anni dall’Unitatis Redintegratio
Un cammino tra ombre e luci
di Brunetto Salvarani

  

Quale sarà il futuro del movimento ecumenico? Il card. Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, nel tracciare un bilancio del cammino ecumenico a 40 anni dal decreto conciliare Unitatis Redintegratio (= UR) promulgato da Paolo VI il 21 Novembre 1964 dalla quasi unanimità dei padri conciliari, ha mostrato una grande fiducia nel futuro. L’occasione per la valutazione è stata costituita da una Conferenza internazionale tenuta a Rocca di Papa (Roma) dall’organismo vaticano non solo per celebrare adeguatamente l’anniversario, ma anche per interrogarsi sulle nuove prospettive del dialogo tra le confessioni cristiane, oggi. Durante quell’incontro è stato confermato il carattere di caso serio da assegnare all’ecumenismo, nella consapevolezza – come ha rilevato Kasper – "che la divisione dei cristiani è uno degli ostacoli più gravi per l’evangelizzazione alla quale siamo chiamati".

A dire la propria, a Rocca di Papa, c’erano anche, opportunamente, le voci degli altri, dal metropolita di Pergamo, Johannis Zizioulas, del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, al professor Geoffrey Wainwryght, del Consiglio Metodista Mondiale, per le Chiese della Riforma. Il pastore e teologo Paolo Ricca nel confermare una valutazione largamente positiva ha posto alcuni interrogativi a partire da esso: "L’UR ha avuto la grande intuizione di proporre la Trinità come modello dell’unità, fornendo di quest’ultima un’immagine dinamica e non uniformante. Le diversità delle chiese possono essere definite il segno della ricchezza dello Spirito, carismi affidati a ciascuna di esse? Molto si è parlato dei peccati contro l’unità, ma allo stesso modo andrebbero esaminati quelli contro la diversità".

Significato di ecumenismo

Qual è il significato della parola ecumenismo? Per i geografi greci dell’antichità ecumeneoichumène = abitata, sottinteso ghè = terra). Dietro ad esso c’è in ogni caso il riferimento all’oikos, nel senso di casa, abitazione. Nel medesimo ambito semantico si colloca la parola "ecumenismo", che il Vaticani II descrive così: "Per movimento ecumenico si intendono le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della chiesa e l’opportunità dei tempi sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani…" (UR 4). Giuseppe Chiaretti, arcivescovo di Perugina e, all’epoca, Presidente del Segretariato per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI, evidenziava che "la parola ecumenismo vuol dire ricerca insieme della casa comune". designava la parte abitata della terra (dal participio

Ma non dobbiamo stancarci a domandarci in quale direzione si sta movendo, oggi, l’ecumenismo, anche se rispondere è davvero difficile. Contro coloro che affermano che l’ecumenismo è paralizzato, Kasper dice che preferisce parlare di uno stadio di maturazione e di un necessario chiarimento.

L’ecumenismo, oggi, lo si potrebbe paragonare al movimento del pendolo il cui moto ondulatorio rimanda ad un percorso permeato di ombre, ma anche di luci. Un clima inasprito, negli ultimi anni, del cupo risorgere di piccole patrie ed etnocentrismi, chiusure identitarie che rilanciano sul presunto scontro di civiltà, conflitti interreligiosi,fondamentalismi e integralismi di ogni risma oscurano il dialogo. È, però, innegabile come il secolo appena concluso ha fatto registrare indubbi passi avanti.

Situazioni apertamente critiche

Rinunciando a stilare un elenco di situazioni apertamente critiche ci limitiamo a riandare ad un caso emblematico quanto spinoso: le relazioni cattolico-ortodosse in Russia. Nel febbraio dell’anno scorso il cardinal Kasper si è recato a Mosca, dopo un periodo di fortissime tensioni, culminato con l’elevazione, da parte cattolica dello status di diocesi delle quattro amministrazioni apostoliche già erette in quel paese. [Le accuse di parte ortodossa sono di tenere un atteggiamento uniatista in Ucraina e quella di svolgere un’azione di proselitismo nel territorio canonico dell’Ortodossia]. Secondo il resoconto del cardinale l’esito della visita è stato positivo ed effettivamente ha segnato la ripresa del dialogo. Al Patriarca Alessio II egli ha comunicato la volontà di voltare pagine perché: "… l’Europa, il mondo non hanno bisogno delle nostre divisioni, ma della nostra unità". Di ritorno, Kasper ha ammesso che "vi è certamente una responsabilità preminente della chiesa cattolica in campo ecumenico. Non solo perché siamo la chiesa più grande (…), ma per la concezione ecclesiologica che abbiamo maturato".

Unità nella diversità

Per una valutazione equilibrata della situazione va ribadito che il cammino ecumenico non consiste in un viaggio verso l’ignoto, non vuol causare né un assorbimento reciproco, né una fusione; non dovrebbe produrre uniformità, ma unità nella diversità e diversità nell’unità.La via dell’incontro ecumenico è giovane e non deve essere frettolosa. Solo con l’UR al n. 7 nella Chiesa cattolica si delineano i tratti primari di un atteggiamento autenticamente ecumenico: "conversione interiore, rinnovamento nello Spirito, rinuncia a se stessi, sincera abnegazione, umiltà di servizio, generosità fraterna".

Accanto all’UR una serie di altri eventi hanno caratterizzato il cammino:

  1. 1962: nascita del Segretariato dell’unità dei cristiani;
  2. 1964: l’enciclica del dialogo di Paolo VI, Ecclesiam Suam;
  3. 1965: cancellazione della reciproca scomunica con la Tòmos Agàpis;
  4. 2000: dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione stilata fra cattolici e luterani;
  5. 2001: sottoscrizione della Charta Oecumenica da parte della Conferenza delle Chiese Europee (KEK) e del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE).

Un ecumenismo di stile

Fra gli indizi che lasciano ben sperare c’è la novità delle chiese locali, centri studi e comunità a ribadire che le parole d’ordine dell’incontro tra le fedi cristiane saranno meno squisitamente teologiche e più spirituali.

Un autentico specialista, don Piero Coda, così si esprime in merito: "non vorrei venissero moltiplicate le commissioni, le strutture. Prima di tutto penso a uno stile. Lo stile tocca la sostanza: uno stile ecclesiale di ascolto, di partecipazione, di corresponsabilità, diventa di per sé unvito allo scambio, all’apertura, e produce luoghi do formazione adeguata".

Lo evidenziava lo stesso Giovanni Paolo II nella Ut Unum sint:"Il movimento a favore dell’unità dei cristiani non è soltanto una qualche appendice, che si aggiunge alla tradizionale attività della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione" (n. 20).

B. Salvarani, Un cammino tra ombre e luci. A quarant’anni dall’Unitatis Redintegratio, in "Testimoni", 1 (2005), pp. 7-10. Riduzione di Cesare Filippini.

Domenica, 10 Aprile 2005 15:16

Sensi di colpa (Felice Di Giandomenico)

Tra negazione di responsabilità e fragilità emotiva. Nel senso di colpa troviamo l’eterna battaglia tra il bene e il male, tra ciò che non lo è, tra istinto di conservazione e immolazione di sé per una giusta causa.

Sabato, 09 Aprile 2005 19:12

Speranza di comunione (Giuseppe Goisis)

Il dialogo interreligioso
Speranza di comunione
di Giuseppe Goisis


Pur non essendoci antitesi tra dialogo ed evangelizzazione, possono manifestarsi in questo ambito situazioni assai delicate. Il dialogo interreligioso, per essere fecondo, implica non la svendita della propria identità religiosa, bensì il suo approfondimento critico. L’atteggiamento dialogante non è mai rancoroso, ma al contrario improntato da reciproca, autentica misericordia. Si dialoga infatti tra persone, uomini e donne in ricerca, non tra istituzioni. Uno sforzo che va accompagnato da uno spirito di invocazione e di preghiera.

Già Paolo VI, con l’enciclica Ecclesiam suam(1964), aveva indicato nel dialogo la via maestra della Chiesa; negli anni più recenti, si viene comprendendo – con sempre maggior nitidezza – come il dialogo interreligioso non contraddica la missione evangelizzatrice della Chiesa; tale dialogo può, al contrario, recare ad una conoscenza reciproca più approfondita, può condurre anche ad un arricchimento vicendevole.

Nella Redemptoris missio(1990), si ricorda come "Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo", e tale chiamata riguarda sia le singole persone come i popoli (§ 55).

Al cuore di ogni tradizione religiosa – pur tra le lacune, insufficienze ed errori – si manifesterebbero quei "germi di verità" già individuati da Giustino: come i raggi, come i riflessi di quella Verità che coincide col Verbo stesso di Dio, illuminando tutti gli uomini senza distinzione.

Dialogo ed evangelizzazione

Affrontando la questione con spirito realistico, se non c’è antitesi tra il dialogo e l’evangelizzazione (che ritiene fermo che la salvezza procede da Cristo "tanquam per ianuam", è pur vero che possono manifestarsi tensione, e situazioni difficili e delicate; il legame tra dialogo ed evangelizzazione può essere profondo ed armonico, ma suppone una distinzione, non una confusione o una reciproca strumentalizzazione, quasi che dialogo ed evangelizzazione siano intercambiabili...

Per tale possibile confusione, il dialogo interreligioso può degradare a tecnica di assimilazione, o addirittura di dominio; e l’evangelizzazione perdere di slancio, imponendosi una prospettiva di universale equivalenza fra tutte le religioni (l’antica narrazione dei tre anelli, che esprime in maniera analogica l’unità trascendentale fra le tre grandi religioni monoteistiche, si convertirebbe nel racconto dei tre impostori, ognuno dei quali presenta una parziale verità, ma anche, simultaneamente, una parziale menzogna!).

La convergenza universale delle religioni, non la loro assimilazione

Nonostante un certo diffuso spirito riduttivo, il dialogo interreligioso non significa svendita della propria identità al supermercato delle religioni dominanti, ma, viceversa, approfondimento e problematizzazione della propria identità religiosa, affrontando una sfida positiva che si oppone all’intolleranza, al fondamentalismo e allo spirito di guerra.

C’è una religione "guscio", che rischia di confliggere con la presenza dell’"altra" religione, assimilandola e riducendola in troppo angusti confini: c’è una religione "ispirazione", nella quale l’Assoluto si manifesta, sia pure attraverso gli erramenti e le espressioni condizionate dagli schemi storico-culturali di partenza.

Ecco, il dialogo ha bisogno di studio e di approfondimento: non ci si approssima all’alterità religiosa con improvvisazione o dilettantismo, ma con fatica, rispetto e prove infinite di comprensione.

La presenza dell’alterità religiosa m’interpella, non possiede alcunché di ovvio e scontato, mantenendo qualcosa di inedito e, in questo incontro, dovrei trovarmi nella disposizione d’essere sorpreso; non si tratta, a guardar meglio, di un’alterità totale, ma di un cammino di convergenza, nel quale somiglianze e differenze vengono, progressivamente, in luce. Se si trattasse di un’alterità totale, nonostante ogni sforzo, io non potrei comprendere nulla della differente religione a cui m’approssimo. Quel che è in gioco è la convergenza universale delle religioni, non tanto la loro omologazione o il loro livellamento; e non c’è chi non capisca come tale movimento di convergenza potrebbe avere una formidabile efficacia per l’affermarsi dei diritti dell’uomo e per il diffondersi di un’autentica pace nella giustizia.

Un dialogo tra persone non tra istituzioni

C’è un dialogo vitale, che non si nutre solo delle riflessioni degli esperti e degli incontri dei rappresentanti delle varie religioni, al vertice; c’è un movimento impetuoso "dalla base", che spesso pare spiazzare i vertici medesimi; tale dialogo di vita si nutre di comunione e condivisione, di convergenza verso obiettivi concreti, come le opere di pace e giustizia, con un’attenzione straordinaria a quei cammini formativi che si protendono ad una ricerca – personale e sociale – dell’armonia, aprendo alla pluralità di verità. Studiosi cristiani come J. Dupuis e R. Panikkar, pur evidenziando certe contraddizioni e mettendo in guardia contro le resistenze del fondamentalismo, reclamano la maturazione di una coscienza aperta; non si tratta di abbandonarsi all’illusorio richiamo del sincretismo, cercando – spesso con frettolose giustapposizioni – di poter fare sintesi dove una lunga storia ha diviso e contrapposto; si tratta, invece, del difficile compito di risalire all’originario, nel punto in cui le varie tradizioni religiose si sono compartite e distinte; abbandonare le proprie sicurezze, scoprendo l’alterità nel proprio cuore, per potersi aprire più liberamente, nutrendosi di quell’Amore che vive nel segreto, nascosto nella profondità delle origini.

Ostacola il dialogo interreligioso un passato a volte punteggiato da torti e rancori reciproci; è un atteggiamento nuovo, di conversione, quello che dovrebbe imporsi, delineandosi il cammino della difficile misericordia, una misericordia capace di purificare la memoria e di immetterci in una prospettiva nuova. È una scommessa sulla speranza, e su un tempo recuperato e riscattato: senza tale speranza, ogni dialogo interreligioso non pare avere autentiche opportunità!

Come ogni dialogo, il dialogo interreligioso può comportare incomprensioni e difficoltà, anche grandi; si tratta di una ricerca che può essere facilmente fraintesa, o gravata da insincerità e chiusure, più o meno improvvise; come accennavo, tale dialogo deve essere accompagnato da studio, approfondimento, senza nessuna superficiale abdicazione, ma anche senza arroganti pregiudizi, più o meno consapevoli. Un Dio più grande, un Cristo più grande possono polarizzare davvero il movimento di convergenza fra le religioni, a vantaggio dello spirito di fraternità, che potrebbe far lievitare tutta la terra (andrebbero, su questa linea, recuperate alcune intuizioni di due grandi cristiani: Teilhard de Chardin e Mc Luhan).

Un dialogo che si nutre di preghiera

Gli incontri interreligiosi di Assisi, promossi da Giovanni Paolo II, possono farci riflettere sull’importanza della preghiera in comune, una preghiera umile, insistita e piena di fervore, preparata dal previo riconoscimento dei malintesi e dei torti reciproci; un tale spirito sembra permeare gli incontri più recenti anche dei gruppi ecumenici, persuasi ormai della necessità di un ampliamento della prospettiva, che comprenda anche, con le debite mediazioni, il dialogo interreligioso.

Ciò che è chiaro è che occorrono cammini formativi ben scanditi e persuasivi ed anche, in ambito cristiano, una spiritualità coerente ed aperta.

Tali cammini formativi dovrebbero condurre al superamento di stereotipi, pregiudizi e chiusure aprioristiche, favorendo una purificazione ed apertura del cuore. Se entriamo nella prospettiva di questo dialogo di vita la questione riguarda pienamente anche le famiglie, trasformandosi nella semplice e profonda testimonianza dei valori, umani e spirituali, per cui si vive; solo la semplice e diretta testimonianza dei valori per cui si vive può aiutare gli altri, e soprattutto i più giovani, a vivere...

La spiritualità che si può intravedere sullo sfondo è una spiritualità laicale, di laici che "con l’esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni" (richiamato in Redemptoris missio, §57).

In sintesi, l’autentico e genuino dialogo esige non meno che una sincera purificazione del cuore, una vera e propria conversione interiore; sotto il profilo educativo, occorre una preghierad’unità, capace di volgerci al Cuore dell’umanità e del mondo, liberandoci dai nostri schemi più angusti e dall’orologio dell’"io" e del "mio", orgoglio "umano, troppo umano".

Occorre, inoltre, una formazione all’assimilazione ed alla pratica delle virtù; la virtù della sincerità, che non è solo la "virtù crudele" che si pretende, l’educazione all’ umiltà e alla lealtà, che incrementa la consistenza della propria ricerca ed illumina le difficoltà e le incomprensioni che scandiscono il dialogo intrapreso; capire, e far capire, che pace non è irenismo, che dialogo non è strategia dissimulatoria, ed infine che la propria fede si configura, necessariamente, come una Sorgente da custodire con tenerissimo amore.

Il dialogo interreligioso non è brumosa ricerca dell’armonia, come in un certo stile New Age/Next Age, ma sofferto sforzo di comunione e condivisione, via controversa e tortuosa, che può comportare il dolore di venir deformati ed incompresi; ma il dialogo, come ricorda Giovanni Paolo II, è una via verso il Regno, una via che darà i suoi frutti, anche se le occasioni opportune di tali frutti le sa solo il Padre comune, che tutto dispone ed ama.

La fede nell'incarnazione del Verbo non si ferma all'avvenimento storico puntuale della nascita di Gesù a Betlemme, ma è fede nella sua presenza in noi tuttora attraverso il dono dello Spirito ed i suoi frutti.

Lo straniero nell’Antico Testamento

di Paolo De Benedetti




Fra tutti gli insegnamenti biblici, quello sullo straniero è forse il più disatteso. Oggi si «crea» lo straniero quando l’altro non è assimilabile a noi. E lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo, non per accoglierlo, come ci insegnano le Scritture, ma per scacciarlo, per spingerlo oltre le frontiere.


«Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete la vita dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 23,9). Il pensiero e la normativa biblica riguardo al forestiero e allo straniero (chiariremo più avanti la differenza semantica) si compendiano in questo versetto, uno degli innumerevoli che toccano il tema. Ma, prima di illustrarne alcuni, poniamoci una domanda: perché lo straniero? Come nasce lo straniero?



L’incomunicabilità linguistica

La risposta ci porta molto indietro, a un gesto di Dio. Creando un solo uomo, Dio aveva posto una barriera alla possibilità dello straniero e alla delegittimazione del diverso: «Fu creato un solo uomo... perché nessuno dica al suo compagno: Mio padre era più grande di tuo padre» (Mishnà, Sanhedrin 4.5). Ma poi, fu Dio stesso che da questa ideale identità fece emergere il diverso, lo straniero. «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11,1). Sono gli uomini della torre di Babele che così motivano il loro progetto: «Facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (ivi, 4). Ma Dio non volle che rimanessero un solo popolo con una lingua sola, confuse la loro lingua, e «li disperse di là su tutta la terra» (ivi, 8). Proprio l’incomunicabilità linguistica è il più importante elemento dell’essere straniero (si pensi all’origine del vocabolo greco bàrbaros, cioè balbuziente, in quanto incomprensibile). Ma il mito biblico contiene un insegnamento fondamentale: non pone un centro rispetto a cui essere straniero, tutti sono reciprocamente stranieri, al centro non rimane nessuno: «Essi cessarono di costruire la città» (ivi, 8). Così come l’altro da me è un io di cui io sono l’altro, allo stesso modo lo straniero è uno (individuo, gruppo, popolo) di cui io sono straniero. Si tratta di una reciprocità che, a ben pensarci, fonda l’identità e la responsabilità dell’uomo.

Tutto questo è messo alla prova non solo a livello individuale, ma ancor più a livello sociale, quando una comunità vive sulla propria terra, e quando perciò lo straniero è – proprio etimologicamente – un extracomunitario. La preoccupazione di tutelare lo status dello straniero ha spinto i legislatori biblici a moltiplicare le norme in proposito, tanto che si potrebbe indicare in questo tema una delle linee tecnologiche fondamentali della Bibbia ebraica.



Lo straniero nella tradizione ebraica

Innanzitutto, occorre un’attenzione alla terminologia: in ebraico la nozione di straniero si «incarna» in vari vocaboli, che contengono sfumature diverse o addirittura opposte. Abbiamo così i vocaboli zar, gher, nokrì o nekhar: approssimativamente, potremmo tradurre il primo con «estraneo», il secondo con «straniero residente», il terzo con «forestiero». Zar designa la cosa o la persona con cui non esiste reciprocità di diritti e doveri, per esempio un culto «estraneo», cioè idolatrico, o una persona estranea, come il laico rispetto al sacerdote. Nokhrì o nekhar è sì lo straniero, ma non residente, di passaggio, come il mercante: non è inserito nella società, e quindi non ha i diritti e i doveri relativi; per esempio non vale verso di lui il divieto del prestito ad interesse (cf Dt 23,21), ma anch’egli può prestare ad interesse. Il vocabolo fondamentale è dunque gher, lo straniero residente (solo in tempi più vicini a noi ha assunto il significato di convertito nell’ebraismo). Secondo 2 Cron 2,16, i gherim – plurale di gher – contati nel censimento di Salomone sarebbero stati 153.600 (si veda il fondamentale articolo di Amos Luzzatto, Lo straniero nella tradizione ebraica, «Studi, Fatti, Ricerche», n. 46, 1989).

I rapporti con lo straniero residente non sono regolati da esortazioni morali, non sono affidati al buon cuore, ma fanno parte della halakhà, ossia della «via» prescritta da Dio sul Sinai a Israele come base dell’alleanza. Si tratta di diritti e doveri che costituiscono una sorta di «contratto sociale», di cui potrebbe essere considerato proemio questo testo del Levitico: «Quando un gher dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io non il Signore, vostro Dio» (Lev 19,33-34). È importante sottolineare la conclusione «Io sono il Signore, vostro Dio», perché è il suggello di tutti i grandi precetti sinaitici, vincolanti perché ispirati non da una coscienza etica umana, ma dalla immediata volontà divina.



Diversità e uguaglianza, lontananza e prossimità

Il primo e più importante diritto del gher è l’uguaglianza giuridica: «Ci sarà per voi una sola legge per il gher e per il cittadino del paese» (Lev 24,22). Perciò il gher condivide con l’orfano e la vedova da un lato, con il sacerdote dall’altra – ossia con coloro che non hanno proprietà terriere – alcuni diritti: come la straniera Rut può spigolare e cogliere ciò che cresce all’ «angolo» del campo, e ha parte alle primizie, alle decime e ai frutti dell’anno sabbatico. Può offrire un olocausto allo stesso titolo di un figlio d’Israele (cf Lev 17,8), e ha il diritto-dovere di osservare il sabato e le feste. E qui si apre la tavola dei suoi doveri: come l’ebreo, non deve cibarsi di cibi lievitati a Pasqua, di sangue, forse (ma la cosa è incerta) di animali non uccisi ritualmente. In sostanza, i divieti imposti al gher mirano a includerlo senza discriminazione alcuna nella società: lasciando però a lui la scelta di farsi pienamente ebreo mediante la circoncisione, e potendo così partecipare alla pienezza del culto, compresa la cena pasquale con l’agnello, oppure rimanere un «timorato di Dio», come si dirà molto più tardi, o, in greco, sebòmenos ton theòn. Tra i proseliti più famosi sono da ricordare la dinastia idumea di Erode e quella, sotto Claudio, del re di Adiabene.

Tutto questo mostra come il popolo ebraico abbia sempre rifiutato una concezione etnico-razziale della propria comunità: è simbolico il caso di Davide, genealogicamente discendente dalla moabita Rut (secondo il diritto rabbinico l’ebraicità si trasmette per via matrilineare, e Rut «entra» nell’ebraismo, non «nasce» nell’ebraismo).ma è altrettanto simbolico che i diritti dello straniero siano indipendenti dalla conversione. In fondo, quando il Levitico comanda: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19,18), non pone condizioni di scelta religiosa; e il gher è prossimo, reá, cioè vicino. Si potrebbe dire perciò dello straniero quello che i maestri dicono di Dio: egli è lontano e vicino, viene da lontano ed è vicino. Questo rapporto con la lontananza che diventa vicina, con lo straniero che diventa prossimo, in realtà è un elemento essenziale della mia identità. Il versetto sopra citato «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella esegesi rabbinica offre anche un’altra lettura, alternativa: «Ama il prossimo tuo perché è te stesso».

Del resto, l’identità di straniero è iscritta fin da principio, ben prima della permanenza in Egitto, nell’ebreo. Il primo a essere chiamato «ebreo», Abramo, incontrò Dio diventando straniero: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”» (Gen 12,1).

Abramo, o Abram come allora si chiamava, era così straniero da non sapere neppure dove Dio lo avrebbe condotto. E di suo nipote Giacobbe, così si recita nella formula di offerta delle primizie, il cosiddetto «piccolo credo storico»: «Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto, vi sette come un gher con poca gente...» (Dt 26,5). E alcuni popoli stranieri escono proprio dalla famiglia patriarcale: gli ismaeliti da Ismaele, gli edomiti da Esaù, gli ammoniti e i moabiti da Lot. Sono genealogie leggendarie, ma che suggeriscono come la diversità, l’alterità non è mai assoluta. E tuttavia – ricordiamo ancora una volta la torre di Babele – è un aspetto del genere umano disegnato da Dio. Scrive il rabbino Riccardo Di Segni: «La strada ebraica della convivenza dei popoli passa attraverso questa coscienza della diversità, dell’impossibilità dell’imposizione e della coercizione, nella presunzione comunque che vi sia uno spirito che parli e chiami tutti, ciascuno nella sua strada...La particolarità non è ostacolo all’universalità» (L’ebreo: straniero e residente, «Rocca», 15 ottobre – 1° novembre 1986).



Un insegnamento alto e disatteso

Forse, tra tutti gli insegnamenti della Bibbia, questo sullo straniero è oggi il più disatteso: non solo, ma oggi si crea lo straniero appena l’altro non è assimilabile a me, a noi, e lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo e se è possibile per scacciarlo. Come accade a Dio, a cui un grande maestro chassidico, rabbi Parukh, riferiva le parole del salmo 119,19: «io sono straniero sulla terra».

Diceva rabbi Parukh: «Chi è sbattuto lontano in terre straniere e finisce in un paese sconosciuto, costui non ha commercio con alcun uomo e non può intrattenersi con alcuno. Ma se allora appare un altro forestiero, anche se la sua patria è un’altra, i due possono diventare amici... E se non fossero stati ambedue stranieri non sarebbero diventati così intimi. Questo intende il salmista: “Tu sei come straniero sulla terra e non hai dove posarti: dunque non sottrarti a me, ma svelami i tuoi comandamenti, perché io possa diventare il tuo amico”» (M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma 1992, p.57).

E, aggiungiamo noi, perché io possa riconoscere lo straniero che è in me.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti





Trentesima parte

Un ulteriore passo in avanti possiamo farlo vedendo ancora altri brani di “Parole di un fondatore” che sono in relazione a Maria e che cito brevemente:

I maristi appartengono a Maria…74/3;  143/3;  156/7

…sono chiamati e scelti da Maria…78/7;  107;  172/26;  176/3

…debbono imitare Maria in generale…79/7;  1/2

…nella piccolezza e nella vita nascosta… 116/8;  119/8;  120/2

…avendo il suo spirito ed i suoi sentimenti… 112/6;  188/13

…avendo anche le virtù di mari: modestia, povertà, piccolezza… 146/4;  119/8;  120/2

In sintesi dunque sono chiamati ad essere “Icone viventi di Maria”.

(Il visitatore o la visitatrice stupiti e forse seccati dalle citazioni troppo sintetiche possono richiedere all’autore, P. Franco, coordinatore del sito i testi completi. Grazie).


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