L’orgoglio e l'umiltà
di Claudio Stercal
Nella storia della spiritualità la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14) costituisce uno dei riferimenti più classici per invitare a seguire la via dell'umiltà, abbandonando quella dell'orgoglio. Anche san Gregorio Magno (540-604) si inserisce, con equilibrio e intelligenza, in questa tradizione. Il testo al quale facciamo riferimento è il capitolo diciassettesimo del terzo libro della Regola pastorale. Un'opera scritta da Gregorio agli inizi del suo pontificato (3 settembre 590), ufficialmente per giustificare la propria titubanza nell'accettare un incarico così impegnativo, ma più probabilmente per esortare tutti i pastori – non solo il papa - a svolgere con dignità, competenza, coerenza, amore e umiltà il proprio ministero. Il terzo libro, in particolare, costituisce un vero capolavoro di analisi psicologica, di intelligenza teologica e di discernimento pastorale. Prende in esame molte situazioni della vita per mostrarne pregi e difetti e per aiutare, facendo ricorso alla ricca esperienza umana dell'autore e alle immense ricchezze dell'insegnamento biblico, a vivere con saggezza ed equilibrio. Tra le "situazioni" prese in esame vi è anche quella degli "umili" e degli "orgogliosi". Il primo "ammonimento" biblico loro rivolto è proprio il versetto conclusivo della parabola del fariseo e del pubblicano: "Ascoltino gli umili, dalla voce maestra della Verità: "Chi si umilia sarà esaltato"; ascoltino gli orgogliosi: "Chi si esalta sarà umiliato"" (Regola Pastorale, III, 17).
Nulla, paradossalmente, è più basso dell'orgoglio e più elevato d'umiltà: "Cosa c'è di più basso dell'orgoglio che, nel tendersi al di sopra di sé, si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa è più sublime dell'umiltà che, nell'abbassarsi fino al fondo, si unisce al suo Creatore che rimane al di sopra dell'altezza più eccelsa?" (ibid.).
Però - e questo è un elemento caratteristico del discernimento di Gregorio - bisogna riflettere con attenzione per non essere ingannati dalla "parvenza di umiltà" o dall'"ignoranza dell'orgoglio". Vi sono, infatti, alcuni che si reputano umili, ma in realtà sono timorosi, e altri che giustificano il loro orgoglio confondendolo con la libertà di parola: "La paura, sotto la parvenza dell'umiltà, trattiene i primi dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto la parvenza di uno spirito libero, la sfrenatezza dell'orgoglio spinge i secondi a muovere rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non sentirsi liberi più di quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è opportuno; affinché i primi non confondano con la difesa della giustizia la loro superbia, e i secondi, quando si sforzano di sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi" (ibid.).
Con saggezza Gregorio insegna ancora che, per correggere gli orgogliosi, è utile unire alla correzione l'incoraggiamento della lode: "Nell'accusa rivolta agli orgogliosi l'inizio deve essere temperato con la lode, affinché accogliendo gli elogi che amano, essi accettino anche le correzioni che odiano" (ibid.). Anzi, insiste Gregorio, possiamo "persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi se facciamo passare il loro progresso come più vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per loro" (ibid.). E cita Nm10,29-32 interpretando con libertà, ma con intelligenza, la richiesta di aiuto che Mosè rivolse a Obab per giungere alla terra promessa. Mosè - dice Gregorio - non aveva bisogno di aiuto, ma voleva portare con se 0bab per sottrarlo alle consuetudini pagane e sottometterlo alla Signoria di Dio: "Da uomo avveduto, che stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, chiese un aiuto per poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida nella vita. Agì in modo che l'ascoltatore superbo tanto più si offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva considerato necessario; ma proprio pensando di precedere chi lo esortava, di fatto obbediva alle sue parole" (ibid.).