Il volto sfigurato e alienato
di Luciano Manicardi
Forse a volte ci è accaduto di vedere una persona con il volto sfigurato, deturpato da un incidente o devastato dalle manifestazioni di una grave malattia o reso distante e assente dall'alienazione mentale. E può esserci avvenuto di aver istintivamente rivolto altrove il nostro sguardo, di esserci sottratti all'incontro con lo sguardo di quel volto sofferente.
Sì, dobbiamo riconoscere che ci è difficile sostenere la visione di un volto martoriato, segnato dalla sofferenza, deturpato. In effetti, il volto è luogo essenziale di cristallizzazione dell'identità. Il volto è epifania dell'umanità dell'uomo, della sua unicità irriducibile. Ma questa preziosità del volto è simultanea alla sua vulnerabilità: «La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c’è una povertà essenziale... Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere» (Emmanuel Lévinas). La sofferenza che sfigura il volto può dunque cancellare, annichilire, o almeno offuscare, con la sua brutale violenza, l'umanità della persona, e forse è questo che noi sentiamo intollerabile, insostenibile nella visione di un volto sofferente.
Sappiamo che gli internati nei campi di sterminio nazisti si vedevano annientare umanamente venendo spogliati del nome e ridotti a numero, quindi privati del proprio volto: si doveva eliminare dal volto del detenuto ogni residuo di individualità. Testimonia Primo Levi: «Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l'un l'altro». La fatica, la paura, il terrore, la fame, gli orrori quotidiani, tolgono carne alla pelle che resta fragile involucro di ossa: «Prima della morte fisica, regna nei campi la liquidazione dell'individualità attraverso lo smantellamento del volto, la cancellazione dei tratti sotto la durezza delle ossa che ricopre una pelle privata di carne.
La stessa magrezza... che conforta l'aguzzino nel sentimento di non avere a che fare con uomini, ma con un residuo che bisogna eliminare ponendosi solo problemi amministrativi e tecnici», scrive l'antropologo David Le Breton. Ed Elie Wiesel testimonia: «Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un'intossicazione. Fui trasferito all'ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte. Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più».
E tuttavia, se è vero che il volto sfigurato della vittima denuncia la disumanizzazione dell'aguzzino, dobbiamo riconoscere che la sofferenza può anche, paradossalmente, restituire umanità e dignità al volto del violento, di colui che la violenza l'aveva usata fino al giorno prima. Con toccante lucidità Barbara Spinelli commenta così le ormai (tristemente) celebri immagini del volto di Saddam Hussein violato dalle mani del soldato che fruga nei suoi capelli arruffati e dall'ispezione dei suoi denti, come fosse una bestia da soma cui, al mercato, si spalanca la bocca per guardare lo stato e l'età dei suoi denti e si controlla se nel suo pelo non s'annidino pidocchi: «Ecco un dittatore feroce..., il despota che ha gasato gli iraniani e i curdi, che ha massacrato gli sciiti e ogni sorta di oppositore, e tuttavia d'un tratto non sembrava più l'orrore che era stato. Sembrava aver acquisito una dignità che poco prima non possedeva, uno sguardo di cui in passato non era stato capace. Era ridotto alla sua umanità e precisamente questa umanità è stata imbestialita dai modi dell'arresto e della successiva spettacolarizzazione... Quel viso di Saddam trasformato in poster pubblicitario... è un'incalcolabile sconfitta morale».
Lo sguardo che noi portiamo sul volto sofferente (pensiamo in particolare al volto sfigurato, deforme, devastato da cicatrici, ustionato), sguardo che oscilla tra la ripugnanza e la curiosità morbosa, è chiamato a percorrere il cammino che giunga a riconoscere l'umanità, per quanto ferita o umiliata, di quel volto. Un racconto della scrittrice finlandese Tove Jansson (Racconti dalla valle dei Mumin) ci pone di fronte a quello sguardo d'amore che sa restituire umanità a chi ha visto mutato il proprio aspetto in irriconoscibili sembianze mostruose. Lo scrittore David Grossman sintetizza così la narrazione: «Mumintroll, una delle creature del libro, gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto.
Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e ora è terrificante, quasi mostruoso. Mumintroll, tuttavia, non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, è sempre lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l'anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: "Ma tu sei il mio Mumintroll". E in quel momento accade un piccolo miracolo: il mostro, l'estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima».
Di fronte al volto alienato, che sembra abbandonato da ogni parvenza di umanità, davanti al volto che suscita istintivo ribrezzo, ogni uomo e il cristiano in particolare, è chiamato a fuggire la tentazione di coprirsi gli occhi e la faccia come davanti al volto sfigurato del Servo sofferente («uno davanti al quale ci si copre la faccia»: Is 53,3) e a vedere e ascoltare, a lasciarsi interpellare perché chi ha davanti lo riguarda. Chissà se la paura di guardare il volto sfigurato non celi la nostra paura di essere visti nello sfiguramento che ci abita pur non essendo visibile nel corpo? E se il volto deturpato dell'altro denunciasse ciò che in noi è nascosto? Accettare di vedere, ascoltare e incontrare "quel" volto significa, significa anche lasciarsi vedere da esso.
Ma significa anche farsi presente al sofferente riconoscendogli la dignità che nessun sfiguramento può eliminare e permettendogli di accogliersi nella sua sofferenza, nella sua menomazione spesso sentita come vergognosa.
Accettando di guardarlo di sorridergli, di guardarlo in volto e di parlargli, io gli rivelo il suo valore, la sua importanza, la sua dignità. Occorre liberarci dall'atteggiamento mondano e intriso di pregiudizi che spesso è il nostro e assumere lo sguardo di Dio su ogni suo figlio e ogni sua creatura. Questa la competenza propria del cristiano circa ogni uomo e ogni volto sofferente: saper vedere in lui e accogliere in lui un uomo, una donna a immagine e somiglianza di Dio, un fratello, una sorella in cui risplende il volto di Cristo, uno per cui Cristo è morto.
Del resto, nella passione Cristo è apparso il Servo sofferente «che non ha apparenza nè bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» (Is 53,3) e, morendo sulla croce, ha subito la condanna riservata agli schiavi, a coloro che nell'antichità erano chiamati apròsopoi, "senza volto", cioè senza dignità.
Dietro ogni volto dunque si staglia la presenza del Dio compassionevole e misericordioso, si staglia il volto di Gesù Cristo.
Il cambiamento di sguardo richiesto al credente è allora cambiamento del cuore, è conversione. Del resto, tutti sappiamo la verità delle parole: «si vede solo con il cuore» (Antoine de Saint-Exupery).
(da L’Ancora n. 4, 2005)