Portare il malato, portare il fratello
di Luciano Manicardi
E’ frequente, nei vangeli, l'annotazione che dei malati "vengono portati" a Gesù. Se essi hanno una certa autonomia di movimento, se riescono a camminare dovendo tutt'al più essere sostenuti, essi sono semplicemente «accompagnati», «condotti», «guidati» fino a Gesù. È così che gli vengono presentati «malati oppressi da varie malattie e sofferenze» (Mt 4,24) e «molti indemoniati» (Mt 8,16). In alcuni casi si può esitare circa il significato esatto del verbo utilizzato, potendo questo designare sia l'atto di "condurre", "accompagnare", sia quello di "portare": dipende dal livello di autonomia del malato in questione. Questo vale per il verbo phérein (letteralmente "portare") usato in Mc 1,32 (“tutti i malati e gli indemoniati”), in 7,32 «<una persona sorda e muta»), in 8,22 (<<un cieco»), in 9,17.19.20 (un giovane «che ha uno spirito muto»). Ma in alcuni casi è assolutamente certo che il malato viene portato, essendo egli steso su un giaciglio, su una barella. In Mc 6,55 si annota che, giunto Gesù a Genezaret, gli abitanti della zona «cominciarono a portargli malati sulle barelle». Interessante è soprattutto il brano di Mc 2,1-12 (con i paralleli in Mt 9,1-8 e Lc 5,17-26). Dice il testo di Marco: «Essendo entrato di nuovo a Cafarnao, alcuni giorni dopo, si seppe che era in casa. E si radunarono molti, così che non c'era più posto neppure davanti alla porta; ed egli annunziava loro la parola. E vennero, portando a lui un paralitico, sorretto da quattro persone. E non potendolo presentare a lui a causa della folla, scoperchiarono la terrazza dalla parte dove era (Gesù) e, fatta un'apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico. E Gesù vedendo la loro fede, disse al paralitico: "figlio ti sono rimessi i tuoi peccati"» (Mc 2,1-5). Segue la discussione con gli scribi e la guarigione del paralitico a cui Gesù si rivolgerà con queste parole: «"Dico a te, alzati, prendi la tua barella e va' a casa tua". E quello si alzò e subito, presa la barella, uscì dinanzi a tutti» (Mc 2,11-12). Colpisce la figura dei quattro uomini che portano il malato sorreggendo la pesante barella (forse il pagliericcio, il lettuccio su cui giaceva il malato a casa sua), persone anonime, forse dei famigliari o degli amici o semplicemente dei conoscenti del malato che si sono offerti per realizzare quello che possiamo supporre fosse un desiderio profondo del malato stesso: incontrare Gesù. I quattro sono anonimi, definiti solamente da quell'atto di "portare il malato". E si indovina il legame profondo tra il malato e i suoi portatori: c'è un'intesa, una inseparabilità, una complicità buona che si instaura tra essi.
Questo gesto di portare il malato che è impotente a muoversi, che non ha l'autonomia di camminare è oggi conosciuto da molti, sia che sostengano una barella, sia che spingano una carrozzella, ed è un gesto che chiede di combinare forza e delicatezza, decisione e amore, intelligenza e carità. È un gesto che esprime la carità in cui si manifesta la fede. Una carità già conosciuta da Giobbe che dice di sé: «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» (Gb 29,15), dove il farsi pietoso accompagnatore del cieco e sostegno dello zoppo viene visto come un divenire parte del corpo del malato, tale è il rapporto intimo che si stabilisce fra i due. Il portatore dona un po' della sua forza all'invalido, il malato condivide un po' della sua debolezza con il portatore. Questa condivisione, questa relazione, questa partecipazione è talmente intima e profonda che diviene corporea: uno sceglie di portare il peso che il malato è, mentre il malato accetta di lasciarsi portare.
Ed è proprio questa condivisione che rende non umiliante per il malato l'esperienza di sapersi peso che viene portato: occorre al malato l'umiltà di accogliere la propria dipendenza, la propria non-autonomia, e al portatore la delicatezza e l'intelligenza di compiere una cosa assolutamente naturale e normale, in nome dell' affetto, dell'amicizia o almeno dell'umanità. Il gesto non appare così tanto di "assistenza", quanto l'espressione naturale della relazione vitale, umana, che unisce i due. C'è fin da chiedersi se in quella esperienza non vi sia una sorta di realizzazione molto concreta di quell' esperienza ecclesiale di sentirsi membra di uno stesso corpo, un corpo In cUI un membro non può dire all'altro «io non ho bisogno di te» (cfr. 1Cor 12,21).
Nel brano di Marco la determinazione dei portatori emerge di fronte alle difficoltà e agli ostacoli che trovano sul loro cammino. Non riuscendo a portare il paralitico davanti a Gesù perché la folla e la calca lo impediva, non esitano a salire sul tetto della casa in cui si trova Gesù e «fatta un'apertura, calarono la barella dove giaceva il paralitico» (Mc 2,4). È un tipo di casa costituita dal solo pianterreno e il cui "tetto" è una terrazza fatta di fango e paglia e sostenuta da traversine di legno.
Era pertanto abbastanza facile salire sulla terrazza, attraverso una scala esterna, togliere lo strato di fango e paglia secchi, e fare un buco attraverso la travatura di legno. Quel gesto diviene per Gesù visibilizzazione della fede dei portatori: Gesù, infatti, «vista la loro fede» (v. 5), perdona e guarisce il paralitico. L'atto di portare il malato all'incontro con Cristo diviene dunque una vera e propria intercessione.
Etimologicamente inter-cedere significa «fare un passo tra», «interporsi» fra due parti, indicando così una compromissione attiva, un prender sul serio tanto la relazione con Dio, quanto quella con gli altri uomini. In particolare, è fare un passo presso qualcuno a favore di qualcun altro. L'intercessione è la preghiera in cui con più evidenza si manifesta la pienezza del nostro essere, come relazione con Dio e con gli uomini. E l'intercessione mostra anche l'unità profonda fra responsabilità, impegno storico, carità, giustizia, solidarietà da un lato, e preghiera dall'altro.
Abbiamo qui, inoltre, una bella immagine della solidarietà che si dovrebbe vivere nelle comunità cristiane: vi è l'esperienza di essere portati dagli altri nelle proprie miserie e malattie, nei propri peccati e nelle proprie debolezze. È l'esperienza di essere portati perché si è incapaci di camminare da soli. Qui, il gesto di portare il malato assume un connotato di sacramentalità e di esemplarità: è segno di ciò che il Padre fa con il credente e il modello di ciò che dovrebbe avvenire nella chiesa tra i fratelli. In questo gesto vi è il sacramento di una verità spirituale che riguarda ogni cristiano: ognuno è bisognoso di essere portato dall'altro. Scrive Dietrich Bonhoeffer: «"Portare i pesi gli uni degli altri" (GaI 6,2). La legge di Cristo è una legge del "portare". Portare vuoI dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano.
Solo se è un peso, l'altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che Egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Nel portare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. È la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce.
Ed i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo. La Scrittura parla spesso di "portare". Essa esprime con queste parole tutta l'opera di Cristo: "Erano le nostre malattie che Egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato" (Is 53,4)”.
Un gesto così semplice, che tanti uomini e donne compiono quotidianamente, si rivela dunque così ricco di implicazioni spirituali e teologiche: portare il malato, portare il fratello, portare la croce. Il tutto reso possibile dal Cristo che ha preso su di sé e portato i nostri peccati e le nostre malattie (Mt 8,17). N ella fede, infatti, Cristo ci porta, e nella fede i credenti possono ascoltare le parole di Cristo che dice: “Venite a me voi tutti... imparate da me che sono mite e umile di cuore... Il mio giogo è dolce e il mio carico legger” (cfr. Mt 11,28-30).
Una storiella che si narra nella vita di abba Bishoi, un monaco copto del IV-V secolo (morì nel 417 d.C.), dice che, poiché egli fruiva di frequenti visioni di Cristo, alcuni monaci gli chiesero di guidarli a incontrare Cristo. Avendo egli ricevuto un messaggio dal Signore, disse ai monaci di recarsi in un certo posto nel deserto, dove avrebbero trovato Cristo ad attenderli. Lungo il cammino essi videro, ai lati della strada, un uomo anziano, malato e sfinito, che chiedeva loro di portarlo perché non ce la faceva più a camminare. Ma essi, desiderosi di incontrare Cristo, ignorarono le suppliche dell'anziano. In coda alloro gruppo giunse Bishoi che, quando vide l'anziano malato, se lo caricò sulle spalle portandolo lungo la strada. Giunto là dove i monaci attendevano Cristo sentì il peso dell'uomo farsi più leggero, potè rialzare la schiena e constatare che l'anziano era scomparso. Allora rivelò: Cristo era seduto lungo la strada, e aspettava qualcuno che lo aiutasse. Nella loro fretta di vedere Cristo, gli altri monaci si erano dimenticati di essere cristiani. Lui, portando di peso l'anziano malato, aveva portato Cristo stesso.
(da L’Ancora, maggio 2004)