Il decimo gradino
Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce". (RB 7, 59)
Potrebbe sembrare dunque che san Benedetto, quando proibisce di ridere, voglia vedere i suoi monaci seri, imbronciati o forse malinconici, o addirittura abitati dalla rabbia o dalla tristezza. Possibile? Eppure tutta la tradizione monastica si affanna a predicare che sia l'ira, sia la tristezza sono passioni funeste per la vita spirituale.
Ascoltiamo Evagrio Pontico: “L'ira è una passione furibonda, che con facilità fa uscire di mente quelli che afferra, inferocisce l'anima e fa evitare ogni compagnia”. E sulla tristezza: “Il monaco afflitto dalla tristezza non conosce la gioia spirituale, come uno che ha molta febbre non gusta il miele. Il monaco rattristato non muove la mente alla contemplazione, né fa salire al cielo una preghiera pura; la tristezza è ostacolo a ogni bene”.
D'altra parte sappiamo che san Benedetto stesso ci parla di gioia e proprio nel capitolo della sua Regola che tratta dell'osservanza della Quaresima, dunque in un testo che di per sé dovrebbe parlare di penitenza e di austerità. Eppure ci esorta ad aspettare la Pasqua del Signore offrendo qualche cosa a Dio con la gioia dello Spirito Santo… nella santa gioia di spirituale desiderio (RB cap.49). E nella sua saggezza raccomanda più e più volte che nessuno debba essere triste nella casa di Dio e che non si dia in nessuna occasione motivo di giusta tristezza ai fratelli.
Quale è allora il senso esatto di questa enunciazione del decimo gradino dell'umiltà? Il Santo non intende certamente condannare il dolce sorriso, né la giusta allegria di un momento di fraternità e di distensione. Quello che non conviene a un uomo spirituale è la sguaiatezza, il vizio di mettere tutto in ridicolo, di trovare da ridere su tutto, di mascherare sotto un'allegria smodata e rumorosa il vuoto del suo cuore e la superficialità della sua mente.
Del resto l'uomo, se è consapevole della presenza del Dio che inabita nel suo cuore e se insieme è conscio della sua povertà creaturale, se non della sua colpevolezza nei confronti della legge dell'Amore, non può essere totalmente spensierato e tanto smemorato da abbandonarsi all'ilarità più completa: la memoria Dei, il ricordo di Dio, lo ricolma di serietà e di pace e di un gaudio profondo che si traduce in un comportamento modesto e sereno, aperto a cogliere ogni segno della presenza dell'Amato e a danzare di gioia nell'armonia e nella bellezza.
Così ci dice il Salmo 34: esulterò nel Signore per la gioia della sua salvezza, e ancora il Salmo 30: Esulterò di gioia per la tua grazia: exultabo et laetabor in misericordia tua, che qualcuno traduce così: il tuo amore mi fa danzare di gioia.
sr. Francesca osb