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Sabato, 26 Giugno 2004 12:03

1. Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas (a cura di Chiara Omassi)

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Il concetto di Dio
dopo Auschwitz
a cura di Chiara Omassi

 

Scheda introduttiva all'opera Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Hans Jonas (1).

 

Hans Jonas (1903-1993) ebreo tedesco, filosofo e storico delle religioni, studia filosofia e teologia seguendo i corsi di Husserl, Heidegger e Bultmann. Rifugiatosi in Inghilterra con l'avvento del nazismo, emigra nel 1935 in Palestina, insegnando in Israele, Canada, Stati Uniti.

 

Dopo le sue ricerche storiche in campo religioso, di recente Jonas si è imposto all'attenzione degli studiosi per la sua "etica della responsabilità", sviluppata per affrontare le sfide inquietanti dell'ecologia in una civiltà tecnologica minacciata dall'autodistruzione. Il suo originale concetto di "responsabilità" concepita come impegno morale e civile nei confronti degli esseri - ma anche delle cose, compreso il nostro pianeta - ha avuto grande risonanza nel dibattito etico e bioetico degli ultimi anni, in cui Jonas si è imposto come uno dei più acuti e ascoltati filosofi viventi.

 

Il testo "Il concetto di Dio dopo Auschwitz", scritto nel 1987, affronta il problema del male nel mondo che tocca l'innocente e del suo rapporto con la divinità rimettendo in discussione il concetto stesso di Dio che, dopo l'esperienza di Auschwitz, non può più essere compreso secondo ciò che la tradizione ci ha tramandato. Auschwitz non rappresenta infatti un episodio tra gli altri, sia pure il più tragico e spaventoso, della seconda guerra mondiale: esso per Jonas, non appartiene alla storia profana, ma alla storia sacra. Parlare di Auschwitz significa quindi collocarlo tra quegli eventi cosmico-storici che segnano lo spartiacque tra epoche in quanto ponendosi come "Evento" della storia del mondo, chiama in causa Dio rimettendone in questione il concetto stesso. Riflettere su Auschwitz significa dunque porre un "prima e un dopo" in quanto con esso si chiude un ciclo della storia dell'uomo e si apre una nuova fase della riflessione sul male decretando la fine dello stadio dialettico della teodicea.

 

L'urlo di dolore degli innocenti di Auschwitz chiama in causa infatti la problematica del male nel mondo inteso come sofferenza dell'innocente e pone in essere a partire dalla domanda posta da Giobbe la tragicità espressa dalle parole di Paul Ricoeur della sofferenza "in eccesso rispetto alla capacità di sopportazione dei semplici mortali": con questo evento il male ha raggiunto una sorta di indicibile perfezione risvegliando le coscienze e le memorie e facendo vibrare la domanda rievocata da Elie Wiesel ne "la Notte".

 

Quale Dio, dunque, ha potuto permettere ciò che accadde ad Auschwitz?

 

È la domanda dalla quale prende le mosse Jonas nella sua riflessione. Alla tentazione di negazione dell'uomo stesso e di una teologia negativa Jonas risponde con la necessità e possibilità di parlare di Dio se pur con la consapevolezza che la riflessione debba assumere la forma del "balbettio" utilizzando il linguaggio del mito che passa attraverso la nostra immaginazione. Il Dio rievocato da Wiesel è, di fronte alla sofferenza dell'innocente, un Dio muto.

 

Il testo si articola in tre parti fondamentali: nella prima adottando la forma del mito, Jonas offre una rilettura e reinterpretazione del racconto biblico della creazione. Nella seconda delinea, nei suoi tratti fondamentali, la figura della divinità che il mito suggerisce: un Dio sofferente, che diviene con il mondo e con l'uomo e che, coinvolto totalmente nel divenire, ha cura di sé e del proprio destino. Infine, nella parte conclusiva, pone a confronto questa nuova figura con il concetto di Dio ereditato dalla tradizione ebraica attraverso i suoi attributi fondamentali: bontà infinita, onnipotenza, comprensibilità da parte dell'uomo. Con argomenti prettamente filosofici Jonas dimostra come, alla luce di quanto è accaduto, il pensiero umano debba necessariamente rinunciare ad almeno uno di questi tre attributi: ad Auschwitz il Dio infinitamente buono ha rivelato, infatti, la sua radicale impotenza nei confronti del male. Dunque di fronte al male nel mondo - esemplificato da Auschwitz - non è più possibile sostenere la simultanea bontà, comprensibilità e onnipotenza di Dio: la sofferenza e il male quando non coincidono con la colpa e il peccato ci costringono a mettere in crisi il Dio della teodicea.

 

Per giustificare questo eccesso di male che c'è nel mondo, afferma Jonas, i casi sono certamente due: o Dio è totalmente inconoscibile e quindi non possiamo dire come si concili Dio con l'esistenza del male nel mondo in quanto non conosciamo Dio e non sappiamo le ragioni dei suoi comportamenti o essendo conoscibile non è totalmente buono.

 

Il primo presupposto, afferma Jonas, va contro l'immagine di un Dio biblico rivelatosi come un Dio di misericordia di pietà, di tenerezza, di giustizia: dunque un Dio totalmente incomprensibile è qualcosa del quale non possiamo nemmeno discorrere. Il conflitto parola-silenzio che nasce sempre quando si voglia dire di Dio acquista un grado ulteriore di estensione e coinvolge anche la realtà antidivina in Auschwitz. Dal doppio silenzio di Dio e dell'uomo nasce a livello teoretico la domanda che si pone Jonas e che prima di lui già si era posta Epicuro: o Dio vedendo il male che c'è nel mondo può consolarlo, può evitarlo, etc. ma non lo fa, oppure vorrebbe ma non può.

 

Vista la conoscibilità di Dio e vista l'esistenza di un eccesso di male nel mondo, Jonas offre due strade: o Dio non è perfettamente onnipotente, per cui non può ovviare all'enorme male che accade; oppure Dio non è perfettamente buono e perfettamente misericordioso tollerando che il male accada. Ma un Dio privo di bontà cessa di essere Dio, così come un Dio incomprensibile è qualcosa del quale non si può nemmeno discorrere: non resta che abbandonare il problematico concetto di onnipotenza. L'unico modo che abbiamo per uscire dalla contraddizione fra Esistenza di Dio e male del mondo è quello di ammettere che in qualche modo Dio non sia perfettamente onnipotente e in questo la soluzione proposta da Jonas risulta molto convincente, anche perché è conforme ad un filone della tradizione ebraica: il male come sofferenza rimanda al mistero della fragilità.

 

Jonas, adottando la forma del mito in quanto non vi è linguaggio su Dio, neppure quello metafisico, che non sia mitico, offre dunque una suggestiva rilettura e reinterpretazione del racconto biblico della creazione narrato nell'antico mito cabalistico dello Tzimtzùm.

 

Jonas afferma come non sia possibile né accettabile dalla tradizione ebraica pensare a Dio come non-onnipotente per sua natura in quanto se ciò accadesse, dovremmo concepirlo come se ci fosse all'esterno di lui qualcosa che lo condiziona.

 

Dunque risulta necessario considerare originariamente Dio non delimitato da nulla, non impedito da nulla, dunque onnipotente. Proprio in quanto onnipotente, come affermato dallo stesso Schelling, Egli può anche abdicare alla propria onnipotenza: vi sarebbe dunque un atteggiamento di Dio il quale, anziché scegliere la potenza, la forza, il dominio e la vittoria, sceglie la debolezza, cioè annichilisce se stesso. Tzimtzùm significa per l'appunto "contrazione"e nella Qabbalà di Jizchaq Luria designa un drammatico processo intradivino che è premessa e condizione per l'esistenza del mondo. Il Tzimtzùm sarebbe la fase in cui, avendo scelto questa sottrazione di potenza, Dio crea, rendendo possibile la vita. Dunque inizialmente Dio è un Dio onnipotente e in questo senso ci si pone all'estremo opposto di quello che è la posizione per esempio di uno Schelling o di un Pareyson, in cui effettivamente Dio nel momento in cui pone se stesso, pone la pienezza della potenza, pone il Bene: con questo atto di libertà originaria Dio, ponendo se stesso e la propria fragilità, pone la possibilità del male, premessa indispensabile per la creazione del mondo… "ma si deve aggiungere che con la vita si affaccia nel mondo cooriginariamente la morte e che la mortalità è lo scotto che la nuova possibilità d'essere deve pagare". Da qui si evince che il rapporto Dio-mondo rimane in una condizione di permanenza infelice in quanto il mondo è così ricco di male da rendere totalmente problematica, anzi scandalosa, la sua coesistenza con Dio. Questo ritirarsi di Dio nel proprio essere viene progressivamente inteso in termini di esilio, di bando dalla sua totale onnipotenza nella più profonda solitudine, come un esilio nel fondo dell'Essere divino: ciò non accadrebbe se il male coincidesse con la colpa. O, meglio, accadrebbe con minore provocazione o evidenza, ma tale coincidenza non esiste se non altro in quanto la colpa produce vittime.

 

L'idea di Tzimtzùm espressa nella mistica lurianica ed alcuni suoi contenuti quali l'assenza, la non-onnipotenza, l'esilio, il dolore di Dio sono stati dunque richiamati dalla teologia post-Auschwitz, primo tra tutti da Jonas, che riprende quindi il concetto di Tzimtzùm accogliendone lo sforzo di spiegare in maniera non punitiva, non di onnipotenza il silenzio di Dio di fronte alla sofferenza dell'innocente.

 

Dunque dov'era Dio?

 

Dio di fronte all'urlo di dolore degli innocenti di Auschwitz è muto "... Ma Dio tacque...". Ma se vogliamo continuare a parlare di lui, dobbiamo ammettere che Egli non è intervenuto ad impedire Auschwitz non "perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo": concedendo all'uomo la libertà, Dio ha infatti rinunciato alla sua potenza, "la rinuncia avvenne infatti acciocchè noi potessimo essere". Il problema del male rievocato dalla domanda di Giobbe trova dunque una possibile risposta: "il fatto che in lui Dio stesso soffra" e diviene con il mondo e con l'uomo, essendo coinvolto totalmente nel divenire e avendo cura di sé e del proprio destino.

 

Dunque si può affermare che ad Auschwitz, nella parola dell'uomo, Dio ha rivelato se stesso, ha manifestato un aspetto della propria essenza che l'uomo non aveva ancora colto e al quale la filosofia è chiamata a conferire lo statuto di verità universale: la sua radicale impotenza nei confronti del male, verità amara per l'umanità in quanto assegna all'uomo e solo all'uomo in ogni tempo e in ogni luogo la responsabilità. L'immortalità umana, afferma Jonas, consiste nella possibilità inaudita che l'uomo ha di incidere nel destino stesso di Dio, cioè nella sua capacità di agire efficacemente sulla condizione globale dell'Essere eterno permeato di fragilità. Se dopo lo Tzimtzùm la trascendenza diviene consapevole di se stessa con la comparsa dell'uomo, da quel momento, afferma Jonas essa ne segue l'agire "trattenedo il respiro, sperando e corteggiandolo, con gioia e con tristezza, con soddisfazione e disinganno" e rifugiandosi nel silenzio, luogo del dolore partecipato di Dio.

 

In un certo senso l'uomo è dunque di fronte all'ineffabile che ci rimanda all'ineffabilità di Dio di cui noi siamo costretti ad occuparci credendo e tentando di credere, litigando con Lui o compatendolo. Jonas si rende conto che qualsiasi discorso umano su Dio sia dunque necessariamente un "balbettio", perché su Dio sono state dette troppe cose con voce forte, con sicurezza di linguaggio. Tale "balbettio" apre però la strada alla responsabilità umana nei confronti del male: solo infatti se saprà "fare se stesso a immagine e somiglianza della infinita bontà di Dio - e non della sua presunta onnipotenza - l'umanità potrà salvarsi dalla soluzione finale del problema umano".

 

 

 

(1) Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova, 1991.

 

 

Letto 16135 volte Ultima modifica il Sabato, 26 Gennaio 2013 20:19

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