Gesù Cristo immagine di Dio in 2Cor
di Giovanni Giavini
Che Gesù si «immagine di Dio» è esplicitamente scritto in 2Cor 4,4. Ma che cosa intendeva precisamente Paolo con quell’affermazione? E, una volta compresa, quale attualità possiede ancora per noi, che quasi nemmeno la usiamo per parlare di Gesù? Lo vedremo alla fine: prima, da buoni esegeti benché non specialisti «doc», dobbiamo cercare di ascoltare il testo paolino nel suo contesto originario, precisamente quello della 2Cor.
Questa lettera è, per certi aspetti, molto interessante, assai ricca di tematiche preziose per la fede cristiana di sempre; basti pensare al «caritas Christi urget nos» (la carità di Cristo ci spinge) di 5,14. La lettera è anche uno spettacolo: in quanto molto autobiografica, essa presenta al lettore una vasta gamma di sentimenti e allude a diversi episodi di quel vulcano che era Paolo; ma non solo di lui: anche dei primi cristiani, in particolare dei suoi cari e deludenti corinzi. Tra l’apostolo e loro correvano sentimenti contrastanti, specialmente lui ne è quasi travolto a ondate successive e diverse: a volte è tenero come una madre, altre invece diventa polemico e sferzante, pronto ad addolcire espressioni, sfoghi, colpi severi. Soprattutto egli è preoccupato di difendere a spada tratta il suo «evangelo», ossia la sua tipica e appassionata proclamazione di Gesù crocifisso, risorto, Signore; e di difendere anche il suo ministero apostolico, compreso il suo stesso modo d’agire con la Chiesa di Corinto.
Tutto ciò imprime alla 2Cor un tono molto simile a Galati, altra lettera stupenda ma assai difficile: per la forte carica emotiva e polemica. Si sa: quando scrivi sotto la pressione dei sentimenti e volendo anche polemizzare con gli interlocutori diretti, si battono e ribattono errori, esagerazioni, approssimazioni, accuse; si sfrutta il loro linguaggio per arrivare dritti allo scopo, senza troppe attenzioni alla precisione e alla logica concatenazione del discorso: le idee escono a fiotti, per contrasti, lasciando da parte o da ricostruire una sintesi organica. Tanto più quando si scrive o parla è un semita, come lo era Paolo, e non un greco abituato alla chiarezza e alla logica dell’analisi e della sintesi.
È appunto in un contesto vivace e polemico, appassionato e forte, che è inserita anche l’affermazione di Cristo «immagine di Dio». Altrove Paolo aveva scritto, e proprio ai corinzi, che l’uomo è «immagine e gloria di Dio», anzi il maschio (1Cor 10,7: altro testo polemico, contro un esagerato femminismo, dove le idee si rincorrono e si correggono l’un l’altra); in 1Cor 13,49 aveva già messo accanto all’idea del vecchio Adamo come «immagine di Dio», che noi condivideremo quaggiù, quella di Cristo risorto come «immagine» che condivideremo in giorno (cf. anche Rm 8,29); in 2Cor 4,4 invece l’apostolo sembra ignorare del tutto che anche Adamo era immagine del Creatore. Perché? Per una specifica polemica, che ora dobbiamo considerare da vicino.
Vecchia e nuova alleanzaLa polemica immediata riguarda un tema paolino classico (Fil 3, Gal, Rm, Ef): quello del rapporto tra Toràh e Gesù Cristo, tra Antico Testamento, tra opere della legge e fede, tra lettera e Spirito. Questo tema è assai spinoso, anche per le difficoltà già a tradurre e poi a comprendere il senso esatto dei termini e delle questioni. Anche qui esistono problemi di traduzione e di comprensione, come annotano i commentatori citati in bibliografia; vi sorvoliamo, limitandoci ai punti più importanti.
Il nostro brano abbraccia tutto il c. 3 e va almeno fino a 4,6. Esso contrappone polemicamente le figure di Mosè e di Gesù Cristo, il ministero o diaconia del primo e quello del secondo: uno è diaconia della «lettera che uccide», ossia della legge incisa su tavole di pietra, l’altro è ministero dello «Spirito che dà vita». Ovviamente l’esaltazione dell’opera di Cristo comprende e produce anche quella del ministero apostolico di Paolo, in quanto dipende e prolunga quello di Gesù.
Il contrasto tra le due diaconie, quella di Mosè e quella di Gesù e del suo apostolo, si sviluppa in un modo molto originale e sorprendente, ma molto illuminante per il nostro tema. Paolo sfrutta (vv. 7-11) la famosa pagina di Es 34, che parla dello splendore irraggiante dal volto di Mosè dopo i suoi incontri con Dio e con la luce della sua parola. Pur polemizzando, l’apostolo non nega, anzi afferma che quello splendore era vero e significativo; ma, scovando un senso possibile e implicito in Es 34,33-35, egli dice che esso era anche «effimero», passeggero; anzi Mosè apposta si metteva un velo sul volto per nascondere il carattere passeggero di tale splendore!
Qui Paolo ricorre al metodo rabbinico di cavare dalle Scritture sensi impliciti, possibili e pur discutibili. Probabilmente quel metodo risultava molto adatto (come gli argomenti ad hominem ed altri simili) per dare a intendere ai suoi cristiani di Corinto, giudei o giudaizzanti, ciò che veramente gli premeva: Cristo comunica al suo apostolo una forte audacia e franchezza, per la quale questi non si pone alcun velo sul viso, perché in lui risplende una luce non effimera, non passeggera, non limitata!
Ma proprio qui il testo s’ingarbuglia e risulta un po’ difficile seguirlo (vv. 12-15). Paolo infatti sembra innanzitutto pensare che, come lui, anche i cristiani autentici non si pongono un velo sugli occhi quando leggono la parola delle Scritture: ne sono illuminati un modo diverso da Mosè e soprattutto dai giudei legati ancora a lui e alla sua legge. Su questo limite, su questa lettura dell'antica alleanza velata come da un velo sugli occhi, Paolo ora insiste. I giudei, ma gli stessi cristiani di Corinto a loro troppo legati, non riescono a leggere bene le antiche Scritture, a scoprirne, con lo splendore, anche i limiti. Per leggerle bene occorrono occhi e cuore liberi dal velo, occorrono occhi e cuore di Cristo. Perché?
In modo rabbinico i vv. 16-17 offrono una risposta, un po’ oscura per noi (c’è qualche velo anche su noi, o Paolo non si è espresso in modo felice?). Interpretando un po’ liberamente Es 34,34 e giocando sul doppio senso del termine greco «Kurios - Signore» e su quello di «rivolgersi - conventirsi», egli fa capire che: come Mosè quando rivolgeva/convertiva al Signore Dio si toglieva il velo dal viso per esserne illuminato (sia pur in modo effimero), così anche il giudeo sarà illuminato veramente e raggiungerà la forza vitale delle Spirito e la vera libertà a patto che non si limiti alla lettera scritta su tavole di pietra o nelle Scritture antiche, ma si rivolga/converta al Signore Dio e al Signore Gesù: ora infatti conosciamo il Signore Dio e il suo Cristo assai di più del pur irraggiato Mosè.
Il v. 18 torna «noi tutti» credenti nel Dio di Mosè e in Gesù: la fede ci permette un nuovo e decisivo contatto (sia pure come mediante uno specchio) con la luce della vera gloria di Dio; ma questo contatto non è solo una conoscenza intellettuale: ci trasforma sempre più «in quella medesima immagine […] per l’azione del Signore [Dio e Gesù], cioè del suo Spirito». Qual è quell’ «immagine»? Il contesto non lascia dubbi: è proprio Gesù, in quanto rispecchia e riecheggia la luce e la gloria di Dio assai di più di Adamo (e quindi di ogni uomo) e soprattutto di Mosè e della sua legge pur splendida! Conviene ricordare che un certo giudaismo aveva divinizzato la legge, assimilandola alla Sapienza, alla Parola, alla vita e alla luce di Dio stesso (cf. Sir 24; Baruc 3,9-4,4 e tradizioni giudaiche connesse).
Gesù, immagine di DioIn 4,1-2 Paolo riafferma l’autenticità del contenuto e del metodo del suo apostolato. Nei vv. 3-4 dà un’amara e polemica (quindi parziale) spiegazione del fatto che molti (tra i giudei e i pagani?) non credono ancora al vangelo: «Si perdono, perché il Dio di questo mondo ha accecato la loro mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio».
È qui che troviamo esplicitamente il nostro tema, ormai ben illuminato dal contesto precedente e completato dal v. 6: «Sul volto di Cristo rifulge la gloria di Dio», la sua presenza illuminante e salvifica, più che nella divina legge, nel tempio e soprattutto più che nel vecchio Adamo e in altre realtà pur belle e buone.
Paolo, per grazia, rispecchia quello splendore e lo irradia, così che anche i suoi cristiani di Corinto ne sono illuminati e divengono a loro volta illuminanti nel loro mondo (cf. 2Cor 3,1-3: la Chiesa di Corinto – pur con tutti i suoi difetti! – è «lettera di Cristo» inviata al mondo).
Come le Chiese degli autentici credenti effettivamente riflettono e irradiano lo splendore che rifulge sul volto di Cristo? In 2Cor Paolo risponde: specialmente con la testimonianza della speranza anche di fronte alla morte (4,7-5,10) e con la carità tra genti diverse, di cui la colletta per i poveri di Gerusalemme era segno preclaro (cc. 8-9). Facile viene il richiamo a 1Cor: anche là (c. 15) il tema di Cristo-immagine era connesso con la speranza e alla speranza non poteva mancare la «via della carità» (c. 13).
Oltre al richiamo a testi paolini precedenti si potrebbe anche procedere verso altri testi successivi, nei quali ritorna il tema di Cristo-immagine di Dio: Col 1,15 è chiaro; più vaghi Col 3,10 ed Eb 10,1, ma anche qui incontriamo gli stessi aspetti di 2Cor 4. Interessantissimo il confronto con il prologo di Giovanni: Gesù non vi compare come immagine di Dio, ma come sua «Parola»; il messaggio però è identico: «La Parola s’è fatta carne […] e noi vedemmo la sua gloria di unigenito dal Padre, pieno di grazia e verità […]. La legge fu data [fu quindi anch’essa un dono] per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità [ossia la grazia quella vera, quella piena e definitiva] avvenne per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,14-17; cf. anche 1Gv 1,1-4). Le analogie tra Giovanni e il paolo di 2Cor 4 sono davvero molto forti, al di là del linguaggio leggermente diverso.
Dalla 2 Corinzi a noiDopo aver ascoltato il testo paolino nel suo contesto originale e quindi colto il suo messaggio alla Chiesa di Corinto, ora avviamo qualche rilettura attualizzante per il nostro tempo.
Come sempre, anche qui Paolo ci trasfonde la forza e il calore della sua fede in Gesù Cristo e nel suo Dio. Non era facile allora credere che sul volto di quel crocifisso risplendesse la gloria di Dio, quando tutto induceva a pensare che su di lui pesassero una «maledizione», quella della Toràh sugli appesi a un patibolo (Dt 21,23; Gal 3,13) e l’ombra di una «scandalosa follia» (1Cor 1,18-23). Non era facile allora, certo, ma nemmeno adesso, quando tanti fatti mettono in crisi la nostra fede nel Signore Gesù e nel suo Dio. Ben altri infatti sembrano i veri «signori» e i veri «dèi». Di qui la crisi forse più profonda che stiamo attraversando. Paolo ha forza da venderci al riguardo.
La fede in Cristo non era pura «gnosi», semplice conoscenza intellettuale di qualche messaggio astratto, generico, semplicemente rivestito di una storia apparente (come quella della New Age e di altri movimenti religiosi antichi e recenti). Certo, la fede era anche gnosi, comprendeva cioè anche una conoscenza e precisamente di una storia vera, recente, bella ma anche drammatica (la croce!), ma diventava poi dinamica: produceva speranza e carità, quelle che derivano dalla convinzione che Cristo crocifisso e glorioso (risorto), lui e lui solo, era la vera «immagine» di Dio e quindi anche il vero Adamo, l’autentico uomo: un uomo capace di vincere anche la morte e di costruire nuovi ponti tra popoli, razze, religioni diverse, superando anche i limiti e le barriere della vecchia legge mosaica.
Qui tocchiamo un altro problema attualissimo: il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, tra Israele e Chiesa, tra legge mosaica e morale cristiana. Lo sappiamo: è un problema assai delicato e arduo, anche perché siamo stimolati e pressati da tendenze diverse: da quella che tende a svalutare del tutto o quasi l’Antico Testamento, l’antica alleanza e la sua legge, oppure a leggerlo allogoricamente, solo come premessa, anticipo, profezia di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti, ecc. (tendenza molto diffusa in passato e non defunta nemmeno tra la nostra gente); e da quella che invece cerca di mantenere all’Antico (o «primo») Testamento un autentico, originale, perenne valore salvifico almeno per gli ebrei, se non addirittura per la Chiesa stessa. Il testo di 2Cor 3-4 suggerisce un corretto equilibrio: l’Antico Testamento, con le sue realtà, era e rimane «splendido», ma di uno splendore non pieno, incompleto, relativo rispetto a quello del volto di Cristo.
È questa la linea che ci permette, da una parte, di valorizzare i tesori della tradizione ebraica (pensiamo, per esempio, alla straordinaria ricchezza e attualità dei profeti, di Giobbe, dei Salmi, della Genesi, che una volta si studiavano quasi solo per cercare le scarse profezie sul Messia); dall’altra, di coglierne anche i limiti, la temporalità, i legami con culture precristiane e con le varie fasi della «pedagogia» di Dio nel condurre il suo popolo verso la pienezza della grazia e della verità (pensiamo, per esempio, alle pagine sulle guerre e su altri aspetti della vita morale o a quelle in cui appare ammessa l’esistenza di altri dei). Tutto ciò, ovviamente, a prescindere da qualsiasi giudizio sul cammino personale o di coscienza dei singoli «fratelli maggiori». La posizione di Paolo e di Giovanni, vista sopra, si può leggere nella Dei Verbum del Vaticano II (nn. 14-16) e in modo più ampio e mirabile nel recente documento: Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana.
Da ultimo 2Cor 3-4 è pure un esempio (pienamente riuscito?) di inculturazione della fede cristiana: è evidente, infatti, lo sforzo, purtroppo anche polemico, di paolo di trasmettere ai suoi lettori immediati quella fede tradizionale con vari linguaggi adatti a loro, specialmente con quello giudaico-rabbinico e i rispettivi metodi usati allora (e non solo allora). Anche per questo aspetto, pur meno importante dei precedenti, il brano paolino si dimostra attuale. Ci è costata un po’ di fatica la sua esegesi, ma , a conti fatti, n’è valsa la pena…o no?
(da Parole di vita, 5, 2002)