Formazione Religiosa

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 62

Visualizza articoli per tag: Bibbia, Sacra Scrittura

Saulo di Tarso
La vita, gli scritti, il pensiero
di Filippo Morlacchi



 


Un gigante spesso frainteso

Nella storia del cristianesimo, forse nessun personaggio ha giocato un ruolo così fondamentale come Saulo di Tarso. Pur senza cedere alle esagerazioni di chi ha voluto vedere in lui un "secondo fondatore del cristianesimo" (1), magari stravolgendo il senso originario dell'insegnamento di Gesù, (2) la sua personalità e la sua visione teologica hanno plasmato in modo decisivo la storia del cristianesimo tanto in oriente quanto in occidente. Fu uomo dl formazione intellettuale raffinata e cosmopolita: educato a Gerusalemme presso la prestigiosa scuola rabbinica di Gamaliele, cresciuto a Tarso (città ellenistica imbevuta del pensiero della Stoà), e infine fiero cittadino romano, Šaul / Saul / Paulus appartenne consapevolmente a tre diverse culture, e tale apertura mentale fece di lui il primo e più grande teologo del cristianesimo: "Paolo ha assicurato per sempre al cristianesimo il diritto di pensare" (A. SCHWEITZER). Le lettere che scrisse alle comunità cristiane da lui fondate o visitate esprimono ad abundantiam il vigore del suo pensiero e la ricchezza anche umana della sua personalità. Tuttavia, essendo l'epistolario paolino formato da vere e proprie lettere, indirizzate a destinatari concreti, e non da epistole fittizie composte come esercitazione letteraria, è difficile ricostruire il nucleo centrale del suo pensiero teologico. Il loro carattere occasionale fa sì che ognuna di esse riporti solo un frammento, più meno parziale, del suo sistema. Solo un confronto dei diversi scritti, unitamente alle altre fonti che ci parlano della visione teologica di Paolo (in primo luogo gli Atti degli Apostoli) possono aiutarci a ricostruire l'insieme, in modo sempre precario e imperfetto.


Impossibile in questa sede addentrarsi nel ginepraio delle varie interpretazioni della teologia paolina, divergenti fino all'inverosimile. Perciò, dopo aver riassunto per sommi capi la sua vicenda biografica, e aver presentato brevemente l'insieme dell'epistolario, tenterò di offrire una panoramica del patrimonio concettuale teologico di Paolo spiegando alcuni termini chiave da lui ripetutamente utilizzati, senza la pretesa di enunciare "il nucleo centrale" del suo pensiero - nell'ipotesi che ve ne sia uno. Cercheremo solo di avere in mano gli strumenti di base che ci permetteranno una lettura spirituale, ma non ingenua, delle lettere ai Galati e agli Efesini, che ho scelto (3) per accostarci più direttamente al "Vangelo di Paolo", ossia all'annuncio di Gesù Cristo così come l'Apostolo delle Genti lo ha compreso e trasmesso.


 


(1) W. WREDE, Paulus, Tübingen 1904; piü recentemente A.N. WILSON, Paul. The Mind of the Apostel, London 1997; tr. it. Paolo. L'uomo che inventò il cristianesimo, Milano 1997.


(2) «Già la parola 'cristianesimo' è un equivoco - in realtà è esistito un solo cristiano, e quello èmorto sulla croce. Quello che da quel momento in poi si chiama "Vangelo" era già il contrario dl ciò che egli aveva vissuto: una "mala novella", un dysangelium. [...] Alla "buona novella" seguì da presto la peggiore di tutte: quella di Paolo. In Paolo si incarna il tipo opposto al "buon nunzio", il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell'odio! Che non ha sacrificato all'odio questo disangelista? Innanzitutto il redentore: egli lo inchiodò alla sua croce. La vita, l'esempio, la dottrina, la morte, il significato e il diritto dell'intero Vangelo - nulla esistette più, quando questo falsario per odio comprese che cosa poteva servirgli [cioè la dottrina della vita oltre la morte... ] Ciò che egli stesso non credeva, credettero gli idioti tra i quali aveva diffuso la sua dottrina... L'invenzione di Paolo, il suo espediente per la tirannide dei preti: la credenza nell'immortalità - vale a dire la dottrina del giudizio. [...] Ciò che Paolo condusse a termine più tardi, col cinismo freddo del rabbino, non fu tuttavia che un processo iniziato con la morte del redentore» (F. NIETZSCHE, L'anticristo, §§ 39.42.44). Ancora vedi H. MACCOBY, The Mythmaker. Paul and the Invention of Christianity, New York 1986.


(3) Giustificherò più avanti le ragioni di questa scelta.



Una vita intensa, segnata da un incontro


È difficile ricostruire nel dettaglio la cronologia paolina, anche se il quadro generale della sua vita ci è sostanzialmente chiaro. È possibile seguire due schemi cronologici: quello tradizionale, che si basa sul racconto degli Atti, e quello "critico" che privilegia i dati offerti dalle lettere. La contrapposizione frontale tra il Paolo degli Atti e quello delle lettere, sostenuta soprattutto dagli studiosi che seguono il metodo storico-critico, rivela però un approccio di fondo che non sarà il nostro: a noi interessa - pur con la dovuta attenzione ai dati documentabili della storia - la figura canonica, ispirata di Paolo, così come emerge dall'insieme della Sacra Scrittura, e non la figura smunta e ridotta al "minimo storicamente verificabile" dal metodo storico-critico. (4)


Il punto di riferimento più sicuro è l'iscrizione dl Delfi, da cui risulta che il proconsole romano Gallione, fratello del filosofo Seneca, risiedeva a Corinto nel 50/51 o - al più tardi - l'anno successivo. Secondo At 18, l2ss, Paolo incontrò Gallione, anche se non sappiamo se all'inizio o al termine del suo mandato; perciò di sicuro Paolo era a Corinto verso il 51. A partire da questa data si lavora per ordinare la cronologia paolina. Ecco i dati riconosciuti più o meno unanimemente. (5)


Saulo-Paolo nasce a Tarso, in Cilicia (Turchia meridionale) nei primi anni dell'era volgare, presumibilmente una decina d'anni dopo Gesù. Lascia Tarso per continuare i suoi studi a Gerusalemme tra il 25-30 d.C., e vive nella città Santa diversi anni formandosi alla scuola di Rabbì Gamaliel. Da buon fariseo, si accanisce contro la nascente setta dei Nazirei, seguaci di un certo Gesù che pretendeva di essere il Messia (Gal 1,13). La sua conversione sulla strada di Damasco deve essere avvenuta negli anni 34-35: è l'evento chiave che spezza in due la sua vita, l'incontro decisivo che determina tutta la sua missione. Gli Atti narrano ben tre volte il fatto: nel c. 9 il racconto è in terza persona, nei cc. 22 e 26 Paolo stesso ne riferisce in maniera autobiografica. Almeno tre passaggi delle lettere accennano a questo incontro: 1 Cor 15,8: "è apparso anche a me..."; Gal 1,15-16: "Dio si compiacque di rivelarmi suo Figlio..."; Fil 3,12: "sono stato catturato da Gesù Cristo". L'incontro con il risorto comportò "un ridimensionamento totale e un'autentica trasfigurazione di tutto il sistema mentale di Paolo". (6) Il suo immediato ritiro in Arabia (Gal 1, 15-17) ha luogo nei mesi seguenti la sua chiamata, per poi tornare a Damasco. Tra il 37 e il 39 Paolo sale una prima volta, da cristiano, a Gerusalemme; è una visita di 15 giorni per prendere contatto con Pietro /Kefas. Vi incontra anche Giacomo, fratello del Signore (Gal 1,18-21). ma non altre persone della comunità. Ecco perché rimane sconosciuto alle chiese della Giudea, che sentono solo parlare dell'antico persecutore divenuto ora apostolo (Gai 1,22-24). Subito dopo si trasferisce ad Antiochia di Siria, trattenendovisi diversi anni. In questo periodo va collocato il primo viaggio missionario (durato un paio di anni, tra il 44 e il 49), intrapreso da Paolo sotto la direzione di Barnaba e su incarico della chiesa antiochena (At 13,1-3). L'itinerario tocca Cipro, patria dl Barnaba, e numerose regioni della penisola Anatolica meridionale.


Quattordici anni dopo la prima salita a Gerusalemme, dunque tra il 49 e il 50, Paolo vi fa ritorno per trattare la grave questione dell'osservanza della legge ebraica da parte dei pagani convertiti alla fede; porta con sé Barnaba e Tito, un credente non circonciso. È il cosiddetto concilio di Gerusalemme (At 15), in cui la tesi paolina, secondo cui l’osservanza della legge e della circoncisione non è una propedeutica necessaria alla fede, sembra prevalere. Dopo il concilio, Paolo e Barnaba tornano ad Antiochia; qui Paolo si scontra con Pietro perché - sembra dl poter ricostruire così la vicenda - a Gerusalemme e anche ad Antiochia stessa stavano diffondendosi opinioni "tradizionaliste" che imponevano ai pagani convertiti condizioni più pesanti di quanto concordato al concilio. È il cosiddetto incidente di Antiochia (riportato da Gal 2,11-21 e omesso da At). Il carattere dì Paolo si rivela focoso quando, poco dopo, litiga con Barnaba: I due partono per un nuovo viaggio apostolico. ma separatamente. È il secondo viaggio missionario, databile tra il 50 e Il 52: Paolo torna a visitare le chiese da lui fondate in Asia minore; poi, dopo una sosta in Galazia per malattia, su invito del Signore intraprende l'evangelizzazione del continente europeo: arriva in Grecia, e visita Neapoli, Filippi, Tessalonica, Atene e infine Corinto, ove rimane un anno e mezzo, ospite del coniugi Aquila e Priscilla, giunti da Roma a causa dell'espulsione dei giudei per ordine di Claudio (49 d.C.). A Corinto Paolo viene accusato di sedizione dalla comunità ebraica locale, a causa dei successi che la sua predicazione riscuote; il proconsole Gallione lo assolve, ma prudentemente Paolo abbandona la città. Accompagnato da Timoteo e Sila (Silvano), si imbarca per Efeso, prosegue alla volta di Cesarea Marittima, da dove sale a fare un saluto alla comunità dl Gerusalemme, e poi torna ad Antiochia.


Verso il 53 Paolo intraprende il suo terzo viaggio missionario. Vuole tornare a Efeso, ma stavolta per via di terra, tornando a visitare le chiese dell'Asia minore. Paolo rimane ad Efeso circa tre anni (53-56), poi riparte alla volta della Grecia. Nuovo soggiorno a Corinto, poi a Filippi, dove raccoglie fondi destinati ad aiutare la chiesa madre di Gerusalemme. Via mare torna a salutare gli anziani della chiesa dl Efeso, pronunciando un memorabile discorso d'addio (il suo "testamento pastorale": At 20).


Consapevole dell'incertezza del suo futuro, portando il denaro della colletta in favore della comunità gerosolimitana, Paolo giunge alla Città Santa nella pentecoste del 57 o 58. Viene arrestato, condotto in carcere a Cesarea, sede dell'autorità romana. È in prigione quando avviene il cambio di procuratore da Felice a Festo, nel 59 o 60. Appellatosi a Cesare, viene imbarcato per essere giudicato a Roma; il fortunoso viaggio si svolge di autunno (periodo ritenuto già pericoloso per la navigazione) tra il 59 e Il 61. Dopo aver fatto naufragio a Malta, Paolo giunge a Roma probabilmente nella primavera del 61; vi rimane agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta in data imprecisabile tra il 64 e il 67.


 


(4) Cfr E. Rossi DE GASPERIS, Paolo di Tarso evangelo di Gesù, Lipa, Roma 1998, p. 15. Si tratta di un ottimo volumetto che sviluppa soprattutto il rapporto di Paolo con la sua matrice ebraica. Per la biografia di Paolo, anche se superata da studi più recenti, rimane vivacissima e sempre affascinante l'opera di G. RICCIOTTI, Paolo apostolo, Roma 1948. Una difesa intelligente, appassionata e ragionata del valore storico degli Atti si trova in M. HENGEL, La storiografia protocristiana, Paideia, Brescia 1985: "Sono le lettere autentiche di Paolo a rendere possibile una valutazione storico-critica degli Atti degli Apostoli; e, a loro volta, appaiono interamente comprensibili nel loro proprio contesto storico-cronologico solo grazie all'infomazione fornita da Luca. (...L'opera di Luca), pur non consentendoci dl scrivere senza lacune una "storia del protocristianesimo", ci dà tuttavia la possibilità di tracciare per sommi capi il processo che dalla prima comunità di Gerusalemme giunge alla missione universale di Paolo" (pp 61.98).


(5) Capire la vita di Paolo significa conoscere un po' anche la geografia del vicino e medio oriente: è utile trovare su una cartina le località citate, per dare concretezza a quanto descritto.


(6) F. ROSSI DE GASPERIS, cit, 32.



Gli scritti


La collezione dei testi tramandatici con il nome dl Paolo consta di 13 lettere, a cui si deve aggiungere la cosiddetta lettera agli ebrei, che pur non essendo scritta da lui, gli è stata attribuita. Delle tredici, sette sono ritenute da tutti autentiche (lTs; 1 e 2Cor; Gal; Rm; F'il; Fm): scritte tra gli anni 50 e 60, esse sono gli scritti più antichi del cristianesimo. Nelle altre lettere la maggioranza dei critici è incline a ravvisare la mano di qualche discepolo, se non addirittura la pesudoepigrafia (7) secondo una usanza in voga in quei secoli. Ecco uno schema del cosiddetto "corpus paolinum":





























Autenticità sicura Romani

protopaoline

 1-2 Corinzi
  Galati
  1 Tessalonicesi
  Filippesi
  Filemone


 

















Autenticità problematica Colossesi

deuteropaoline

 Efesini
  2 Tessalonicesi


 













Autenticità improbabile 1-2 Timoteo

tritopaoline

 Tito


 









Non paolina Ebrei




Per quanto riguarda la cronologia delle lettere, possiamo ritenere abbastanza sicuro quanto segue:




50 d.C. 1Ts (per chi ne ammette l’autenticità, 2Ts subito dopo)


54/56 d.C. 1 Cor


56 ca. d.C. Gal e 2Cor (che però racchiude almeno due lettere)


56/58 d.C. Rm


62 ca. d.C. Col e Fm


Il Paolo autentico va cercato in questi scritti; le lettere deutero e tritopaoline sono da considerarsi ovviamente ispirate e canoniche, dunque "parola di Dio", ma sono espressione di quello che è stato chiamato il paolinismo, ossia la corrente teologica influenzata dalla straordinaria personalità di Paolo. Per quanto riguarda la ricostruzione del pensiero paolino più originario, occorre ricordare che egli fu, si, teologo, ma non un sistematico: non ha prodotto una summa theologica, e la stessa lettera ai Romani, che è la sua opera più completa, rimane uno scritto di occasione. "Si è occupato invece dl concrete situazioni delle sue chiese e ha inteso risolvere, in maniera teologicamente fondata, problemi storici particolari che progressivamente si imponevano al suoi interlocutori e a lui stesso. In breve la sua potrebbe essere definita una teologia applicata". (8) Non dobbiamo dunque illuderci di poter ricostruire un sistema teologico organico e completo; e tuttavia la sfiducia di poter risalire a cosa pensava Paolo risulta ingiustificata.


 


(7) Uno scrittore poco noto poteva attribuire la paternità della sua composizione ad un autore famoso, e far circolare la sua opera sotto il patrocinio e l'autorità altri, assicurandole così una maggior diffusione.


(8) G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, 60s.



Perché Galati ed Efesini?


Mi sembra che un primo approccio con la complessità della figura di Paolo possa essere svolto bene attraverso la lettura integrale e successiva di Gal ed Ef. Già il semplice confronto di queste due lettere - una autentica e l'altra deuteropaolina - potrà aiutarci a cogliere elementi preziosi. Galati affronta un problema concreto, quello della libertà dalla legge, che diede molto da fare alle primitive comunità cristiane, divise tra il desiderio dell'accoglienza del pagani e le istanze giudeocristiane più tradizionaliste e legate alla torah. Affrontando questo problema specifico, Paolo però ci offrirà uno spaccato interessante dl tutto il suo pensiero. Inoltre gli abbondanti tratti autobiografici presenti in Gal ci aiuteranno a gustare lo stile sanguigno e concreto dell'apostolo dei pagani.


La lettera agli Efesini presenta una visione teologica più ampia e pacata, che rivela una mano diversa. Si tratta dl uno degli scritti più rilevanti del paolinismo, e ci darà occasione di meditare sull'intera storia della salvezza e sul progetto di comunione universale che il Padre ha voluto realizzare con il dono del suo Unigenito.


Certo, scegliendo queste lettere non avremo occasione di leggere la complessa trattazione della giustificazione del giusto mediante la fede, presente in Rm, nè la presentazione della logica della croce di 1Cor, nè il sublime inno all'amore della medesima lettera, nè le infiammate parole sull'attesa imminente del ritorno glorioso del Risorto vergate da Paolo in lTs...: tutti temi paolini che meriterebbero un approfondimento. Ma Gal ed Ef, lettere di lunghezza contenuta e straordinaria ricchezza teologica, costituiscono una via di accesso interessante alla figura di Paolo e al suo pensiero.


Ovviamente, il modo di pregare su queste pagine sarà ben diverso da quello utilizzato finora! Le pericopi narrative dei vangeli ci hanno abituato a contemplare la scena, i personaggi, la figura di Gesù ecc. Ora si cambia registro; la meditazione dovrà concentrarsi su frasi, concetti, situazioni da approfondire con una lenta ruminatio. Dovremo imparare a riflettere pregando, ovvero cogliere il riflesso del Signore Risorto presente nell'esperienza personale di Paolo, nelle soluzioni da lui offerte ai problemi della vita comunitaria, nelle abbondanti sezioni parenetiche. Per fare questo saranno necessarie alcune chiavi interpretative, o concetti chiave, che ci apriranno il tesoro della spiritualità di Paolo.



Chiavi della teologia paolina


Paolo non ha conosciuto Gesù di persona, e temi centrali della predicazione gesuana - come l'annuncio del Regno di Dio - sembrano assenti nella sua teologia. Il suo pensiero si concentra sulla fede nel Kyrios, il Signore Gesù morto e risorto, e da qui sviluppa una riflessione sull'amore provvidente del Padre e sul dono dello Spirito che edifica la Chiesa fino al compimento del progetto di salvezza universale. Questo è quello che egli stesso ha chiamato "il suo vangelo" (cfr Rm 2,6; 2Tm 2,8).


In passato, molti studiosi hanno tentato dl fornire un quadro d'insieme della teologia di Paolo; ma - come già accennato - dobbiamo ammettere che probabilmente lui stesso non ha elaborato una simile teologia in modo compiuto. Per accostarci ai suoi scritti mi sembra dunque più saggio presentare alcune idee portanti, che ricorrono spesso nel corpus paolinum e che possono aiutarci. Un po' come abbiamo fatto con l'evangelista Giovanni - altro autore che può essere utilmente accostato a partire da alcuni termini chiave - avremo cosi a disposizione delle "griglie interpretative" per cogliere il senso delle espressioni - spesso oscure (9) - di Paolo. Il complesso del pensiero paolino emergerà più dalla costellazione di queste idee chiave che dall'identificazione di un nucleo essenziale - pur nella consapevolezza che questo nucleo esiste, ed è la persona di Gesù risorto, il risorto da lui incontrato sulla via di Damasco. Ma non si tratta più di un semplice nucleo teologico: è la persona viva di Cristo. Chi cerca altrove il cuore della riflessione paolina non lo troverà mai.


 


(9) La difficoltà nel seguire alcuni ragionamenti di Paolo è riconosciuta da sempre: "...il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data: così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta dl queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano..." (2Pt 3,15-16).



Ecco dunque le Intuizioni basilari del Paolo storico e del paolinismo.


1. Il disegno salvifico del Padre (pròthesis)


All'origine di tutto sta li disegno salvifico del padre ispirato da un amore eterno e comunicativo, il quale chiama tutti gli uomini - ebrei e pagani - e la creazione stessa alla grazia e alla gloria. E in conseguenza di questa elezione ab aeterno che Dio chiama nel tempo. Il termine pròthesis. "progetto" ricorre 6 volte nel corpus paolinum, soprattutto in Ef (1,9.11;3,11) e Rm (8,28; 9,11). Tutta l'iniziativa della salvezza è del Padre, il Dio trascendente e misterioso che ama le sue creature. È un progetto vagheggiato dall'eternità, più da artista che da ingegnere, più creativo che calcolatore. Tutta la disputa sulla predestinazione viene da un fraintendimento del senso di questo progetto: il pro- non indica un prima nel tempo, ma una trascendenza nell'essere. Il testo che esprime In modo più compiuto questa idea dominante è Rm 8,28-30:


Rm 8,28 Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. 29 Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli: 30 quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati: quelli che ha chiamati li ha anche giustificati: quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.



2. Il "vangelo" (euanghèlion)


Il termine vangelo (euanghélion) compare 76 volte nel Nuovo Testamento; 60 occorrenze (il 79%!) sono negli scritti paolini. Questo semplice dato statistico rivela quanto il concetto sia caratterizzante il nostro autore. Il termine stesso è probabilmente coniato da Paolo, anche se in qualche modo circolava nella comunità dl Antiochia (dove, tra l'altro, "per la prima volta i discepoli furono detti cristiani": At 11,26). Paolo padroneggiava perfettamente la lingua greca e la sua creatività linguistica è frequentemente attestata (10) nulla di più facile che sia stato lui a compendiare l'annuncio della fede nel termine sintetico ed icastico "buona notizia". Questo vangelo è un messaggio trascendente che l'apostolo ha ricevuto in dono, e dunque è "Vangelo di Dio" (Rm 1,1); ma poi egli lo ha fatto suo, lo ha "personalizzato", tanto da poter dire senza scrupolo "il mio vangelo" (Rm 2,6). L'euanghélion non è solo una "buona notizia", ma:



  • 1. annuncio di Cristo morto e risorto "per...": la pasqua è per la salvezza di ogni uomo;
  • 2. Interpella l'uomo raggiungendolo dove è: il vangelo non impone una trafila penitenziale, ma si offre ad ogni uomo così come egli si trova a vivere;
  • 3. l'uomo interpellato deve scegliere: sì o no. Dinanzi al vangelo è necessario prendere posizione.
  • 4. Da questa scelta dipende la salvezza o perdizione finale dell'uomo: chi si chiude al vangelo si perde, chi lo accoglie si realizza come persona.

 


(10) Basti pensare ai numerosi termini composti con la preposizione syn (con) da lui inventati per esprimere la comunione del credente con Cristo: con-morire, con-risuscitare, ecc. (Rm 6,8; Col2,12...).



3. Fede (pìstis)


Se nel IV vangelo il verbo credere ricorre con straordinaria frequenza, il corpus paolinum è invece caratterizzato dal sostantivo fede. Giovanni, il contemplativo, sembra più interessato a mettere in luce l'atto costante di abbandono fiducioso a Dio; Paolo, l'apostolo dal carattere di fuoco, mette al centro dell'attenzione la decisione dell'uomo davanti alla sorprendente proposta dell'annuncio. La fede e la risposta positiva dell'uomo interpellato dal vangelo, l'apertura totale al contenuto del vangelo. Si sviluppa in tappe progressive:



  • 1. Adesione iniziale: è il sì all'annuncio che sfocia nel sacramento del battesimo (cfr 1 Cor 15,11: "cosi abbiamo annunciato e così avete creduto").

    2. Assimilazione progressiva: la fede ricevuta si estende e gradualmente investe tutta la vita del credente. Ciò che non si lascia trasformare dalla fede "va in necrosi", diventa errore e peccato.


    3. Espressione comunitaria: la fede della chiesa si fonda sulla fede dei singoli; ma "quando siamo insieme scatta qualcosa di nuovo e diverso. Questo "di più" è la chiesa. Il linguaggio proprio della fede ecclesiale è la confessione di fede e la celebrazione liturgica.


    4. Spinta missionaria. L'annuncio ricevuto, che ha trasformato la vita del singolo e della comunità, chiede di essere condiviso con tutti.


  • La trasformazione dell'uomo (o giustificazione, come ora vedremo) avviene grazie alla fede nella persona di Gesù risorto e Signore, e non grazie alla realizzazione delle opere prescritte dalla legge. Anzi, solo l'uomo interiormente trasformato dalla fede può avere la forza di compiere le opere della legge; e tuttavia la fede "opera mediante la carità" (Gal 5,6), cioè si manifesta necessariamente nelle opere dell'amore. È importante però rispettare l'ordine delle cose: è il cuore nuovo, rinnovato tramite la fede, che - solo - può compiere le opere dell'amore.



    4. Giustificazione (dikàiosis) e giustizia


    Si tratta di un tema di importanza assolutamente centrale nel pensiero paolino, ma che spesso è stato male interpretato (basti pensare alla controversia con i protestanti!). Il senso del termine giustificazione e di tutta l'area semantica legata al verbo greco dikaiòo (giustificare) viene del tutto frainteso se lo si assume a partire dal significato forense e legale; Paolo infatti deriva il termine non dalla matrice greca, ma da quella giudaica. Il termine di riferimento è l'ebraico s daqah, giustizia. L'immagine che soggiace a tale idea è quella del "pareggio del bilancio", del portare una realtà alla sua misura: da sempre la bilancia a due bracci è simbolo della giustizia. Dio ha un progetto - come sappiamo - per l'uomo e per l'intero creato; questo ideale possiamo chiamarlo "il peso forma" della creatura, la "formula uomo". Quando questa misura pensata da Dio viene attuata nella realtà, si compie la giustizia: il "pareggio tra la formula ideale e la realtà storica". La giustizia divina è il pareggio tra ciò che Dio ha liberamente promesso e ciò che egli attua nella storia. Autore della giustificazione dell'uomo è perciò necessariamente solo Dio, "giusto è giustificante" (Rm 3,26). Non si tratta perciò di una "giustificazione forense", estrinseca, come se Dio volesse trovare delle attenuanti al fatto che l'uomo è peccatore e non conforme al suo progetto originario; è una trasformazione oggettiva e reale dell'uomo, che - grazie alla fede nella risurrezione di Cristo - riceve l'adozione a figlio e il dono dello Spirito, diventando capace di amare come Gesù e dunque raggiungendo la "piena statura di Cristo" (cfr Ef 4,13), la vera "formula uomo".



    5. Chiesa (ekklesìa)


    Nella fede dl Israele, la comunità riunita da Dio (l'assemblea, la qahal JHWH) trova la sua piena realizzazione neLla liturgia del tempio: nell'attività cultuale Dio si accosta al suo popolo, l'uomo abbandona le attività quotidiane per purificarsi e accostarsi al suo Dio: questo contatto con la realtà di Dio rivitalizza il popolo e lo rinnova. Per Paolo, la funzione del tempio è ora svolta da Cristo risorto, presente nel suo nuovo popolo: chi si riunisce nel nome di Cristo ne riceve l'influsso vitalizzante e rinnovatore. È il dono dello Spirito che rende i credenti un solo corpo, pur nell'articolazione dei diversi carismi (cioè dei "doni" che lo Spirito elargisce ai singoli per il bene di tutti). Il corpo non è affatto disprezzato da Paolo (11): il corpo è la concretezza relazionale, ciò che rende possibile entrare in comunione, ed è dunque realtà preziosissima. La Chiesa è dunque l'insieme di coloro che partecipano già ora della risurrezione di Cristo: la chiesa è il corpo di Cristo, nel senso che coloro che partecipano della vitalità del Risorto sono il suo corpo. In fondo non esiste che una sola resurrezione: quella di Cristo, che viene partecipata a tutti i credenti. Quando questo procedimento, già incoativamente in atto nella storia, sarà compiuto, allora Dio sarà tutto in tutti, il Regno sarà perfettamente realizzato, la Chiesa sarà giunta alla sua pienezza.


     


    (11) Ciò va fermamente ribadito contro tutti coloro che hanno voluto vedere nel cristianesimo una religione del disprezzo del corpo in favore della superiorità dell'anima: in realtà è l'influsso di certo platonismo che ha portato alcuni padri della Chiesa a sviluppare una opposizione anima-corpo che è invece del tutto assente negli scritti del Nuovo Testamento.



    6. Dimensione escatologica


    La redenzione che si acquisisce in Cristo è per Paolo una salvezza attuale e presente, ma il suo compimento rimane ancora nell'attesa. Non si avrà che con la resurrezione completa dei nostri corpi mortali, quando ci sarà la manifestazione gloriosa di Cristo che, vinta ogni resistenza del male e della morte, consegnerà il Regno al Padre (cfr 1Cor 15,25). È diventato usuale nel gergo cristiano esprimere questa situazione paradossale e stimolante con le espressioni "già" e "non ancora". Qui si innesta il dinamismo della speranza, fondamentale nell'esistenza cristiana secondo San Paolo: "nella speranza siamo stati salvati" (Rm 8,24).


    È possibile leggere in concatenazione i 6 punti sopra esposti, a mo' di schema della teologia di Paolo: tutto prende le mosse dal progetto di Dio, da lui concepito fin dall'eternità, che vuole la salvezza e la pienezza di vita per ogni uomo. Tale progetto, data la condizione reale dell'uomo, segnato dalla debolezza e dal peccato, si può realizzare soltanto grazie al dono del Figlio: il vangelo è l'annuncio che Gesù è il Figlio di Dio morto e risorto per l'uomo, l'annuncio della possibilità dl realizzare il progetto di Dio. La fede è l'accoglienza incondizionata del contenuto del vangelo, l'accoglienza di Cristo nascostamente operante nel cuore dell'uomo. Si realizza cosi la giustificazione del peccatore: Cristo libera l'uomo dal male e trasforma in figlio di Dio e tempio dello Spirito. L'uomo inizia così finalmente ad essere proporzionato alla sua "formula originaria", realizzando il "pareggio" tra il reale e l'ideale. Si forma cosi la chiesa, l'insieme degli uomini vitalizzati dal contatto con la resurrezione di Gesù. La chiesa però non è statica nè perfetta: cammina nel tempo verso il compimento definitivo, quando tutto il creato sarà permeato della forza della risurrezione, quando tutto sarà "spiritualizzato" e Dio "sarà tutto in tutti".



    7. Antropologia paolina


    Da tutto ciò risulta una visione della realtà umana eccezionalmente dinamica. Il dinamismo contraddistingue l'esperienza umana. Si trova in Paolo un conflitto di realtà nel cuore dell'uomo; ma tale conflitto non avviene tra anima e corpo, tra realtà materiale e realtà immateriale. Esso si gioca tra lo spirito (pnèuma) di Dio (o di Cristo), ossia la realtà divina già presente nell'uomo che crede, e la carne, ossia la realtà umana (corpo e psiche, sentimenti e pensieri) che si ostina a non lasciarsi permeare dalla vita nuova del Risorto:


    1Cor 2,14 L'uomo naturale (psychikòs ànthropos) però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. 15 L’uomo spirituale (pneumatikòs) invece giudica ogni cosa.


    La lettera ai Romani presenta ai capitoli 7 e 8 lo scontro tra l'uomo succube della propria carne e l'uomo giustificato che vive la libertà dello Spirito.



    Il testamento pastorale di Paolo (At 20, 16-38)


    Per introdurci alla spiritualità di Paolo ho pensato di iniziare con un testo - paradossalmente - non di Paolo ma di Luca. È il discorso di addio agli anziani di Efeso, ambientato da Luca nella città di Mileto. Paolo ha vissuto a lungo ad Efeso, ed ora va a Gerusalemme con il triste presentimento di dover affrontare pericoli gravissimi e forse, come il Maestro, la morte. Al termine del suo terzo viaggio apostolico vuole passare a salutare i suoi amici e "cedere il testimone". Egli è stato padre e pastore in quella comunità; altri ora devono assumere il suo compito, raccogliere la sua eredità, trasmettere alle generazioni future il messaggio del Risorto. È un congedo doloroso che ci presenta il cuore dell'Apostolo e del pastore, ma anche dell'uomo e dell'amico.


    Dobbiamo chiederci: è un discorso di Paolo o di Luca? Indubbiamente, anche se a pronunciano è Paolo, le parole sono di Luca: "è possibile trovare in esso anche Paolo, ma solo a livello dei materiali impiegati". (12) Tuttavia il nostro approccio, lo abbiamo già detto, è quello spirituale, che considera tutta la bibbia nel suo insieme come testo ispirato che ci comunica la Parola di Dio. Ricordiamo certamente dagli scorsi anni che, se Marco è "il vangelo di Pietro", Luca è "il vangelo di Paolo". Ebbene, stasera è San Luca, l'evangelista che fu più legato all'apostolo delle genti, a presentarci un suo ritratto. Un ritratto che ce lo presenta al culmine del suo zelo pastorale e consapevole di dover seguire fino in fondo il Signore sulla via della croce. (13) Accogliamo stasera questo prima immagine, cercando nel prossimi incontri di ricostruire i tratti più autentici ed autobiografici dell'apostolo nella lettura della lettera ai Galati.


    Il Paolo che emerge da At 20 è molto simile a quello delle lettere pastorali (l-2Tm e Tt): un uomo che vuole "portare a termine la sua corsa", che si sente responsabile delle persone della comunità, che vuole annunziare loro "tutta la volontà di Dio" (ossia il Vangelo nella sua integralità e con le sue esigenze), ma soprattutto consapevole del primato della grazia e fiducioso nell'affidare i suoi cari alla "potenza della Parola": anch'essi sanno ormai che solo l'amore e il dono di sé può riempire di gioia il cuore dell'uomo.


     


     


    (12) J. DUPONT, Il testamento pastorale di Paolo, Ed. Paoline, Roma 1980, 24. Il volume è un eccellente e massiccio (500 pp.) commento al discorso.


    (13) Paolo è tratteggiato da Luca in tutto il libro degli Atti come "il discepolo che segue in tutto il Signore". Sappiamo bene infatti come tutto il Vangelo di Luca sia costruito sulla base del "viaggio di Gesù verso Gerusalemme"; non a caso il Paolo di Luca conclude il suo terzo viaggio con una "salita a Gerusalemme": per portare il denaro alla comunità madre giudeocristiana, certo, ma - è questo l'intento di Luca - anche e soprattutto per compiere anche lui il suo "viaggio verso Gerusalemme" seguendo fino alla fine le orme del Maestro.

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:55

    L'uomo e la terra nella Bibbia (Jean Casanave)

    L’uomo e la terra
    nella Bibbia
    di Jean Casanave



     


    Il mondo rurale combattuto tra timore e speranza. Nei dintorni delle città la società rurale "periferica" è soddisfatta dell’attrazione esercitata su una popolazione cittadina che apprezza la sua calma e il suo fascino. Ma questa "schiarita" sotto il punto demografico, comporta dei rischi. L’identità propria degli abitanti tradizionali della campagna, ormai in minoranza, sta forse per soccombere sotto la pressione di nuove culture. D’altra parte questo mondo oscilla tra contrazioni e rancori: colpite dal decremento di una demografia in fase di invecchiamento, le regioni che fanno parte di questo mondo, si avviano ad essere considerate, nel territorio nazionale, puramente un eco-museo. Non è la loro identità che rischia di sparire, ma la loro stessa esistenza, esse soffrono della mancanza del riconoscimento della loro utilità sociale.


    Dalla terra conquistata alla terra acquisita


    Quando gli Ebrei, dopo aver errato nel deserto, hanno raggiunto con Giosuè il paese di Canaan, l’attrattiva di una terra più ospitale, ha dato loro il coraggio di affrontare guerrieri più numerosi e meglio armati (Gios.1) la stessa sete di conquista, ha poi spinto Debora e i Giudici a stabilirsi nelle contrade del nord (Giu 4-5).


    È il tempo della terra conquistata che ha permesso al popolo della Bibbia di fare l’esperienza inedita di un dio, conosciuto come Altro, che non entrava nel novero degli idoli della fecondità domestica, legati ai culti agricoli dei nemici. Un Dio che combatteva con i poveri e che abbatteva le potenze costituite, si distingueva nel paesaggio religioso dell’epoca. Questo Dio li avrebbe colmati di una terra "ove scorrono latte e miele" (Es 3,8; Lev 20,24; Nr 13,27) che avrebbe presto assunto i colori del paradiso.


    Il periodo dell’Esodo e della conquista è stato lungo e indeciso, frequenti i ritorni all’indietro. Gli Ebrei si stancavano di essere sempre sul chi vive, avendo come sola garanzia una fede fragile in un Dio spesso imprevedibile e sempre invisibile. Si sono dati un re che ha sollevato un esercito, ha costruito un palazzo, poi un Tempio, e ha dotato le tribù riunite di un’amministrazione. Cominciava a questo punto, il tempo della terra conquistata.


    Una terra bramata, sottomessa e lacerata


    La dominazione militare e la prosperità materiale, non sono sopravvissute ai fasti di Salomone. Le guerre civili e la cupidigia degli altri popoli, hanno diviso l’impero del grande re e il paese è diventato una terra bramata. Ci fu allora un regno del nord e un altro del Sud. Per sopravvivere i loro re conclusero delle alleanze infedeli al loro Dio: la difesa del suolo li spinse ad adottare culti idolatri.


    Ed è allora che è sorto un profeta di fuoco, il grande Elia. Ha eliminato i sacerdoti di Baal, dio della fecondità, e ha fatto riconoscere al suo posto il Dio di Israele, signore delle stagioni, del vento e della pioggia benefica. Da quel momento in poi la natura, avrebbe obbedito ai comandi di Dio. Fu il tempo della terra sottomessa.


    I segni straordinari compiuti da Elia, non convinsero i suoi contemporanei. Il nemico approfittò così delle divisioni del popolo e i profeti, custodi della santità nella storia, non poterono far nulla contro una prima invasione che provocò la deportazione di una grande parte dei notabili e dei quadri dirigenti. La terra fu allora lacerata.


    La promessa di una terra


    Messo in guardia dai profeti del nord, Amos e Osea, Giosuè, il pio e grande re riformatore, tentò di centralizzare il culto proibendo il ritorno ai culti antichi. Fu il promotore di una nuova concezione del rapporto tra Dio e gli uomini, che prese nome di "Alleanza". Essa fu oggetto di una seconda Legge, consegnata, in particolare nel Deuteronomio.


    Dio, la terra e l’uomo, entrarono così in un rapporto di scambio e di responsabilità reciproca. Ecco il tempo della terra responsabile. Essa doveva nutrire tutti i suoi figli: affinché la vedova e l’orfano potessero venire a spigolare, non si mietevano gli ultimi filari del campo; ogni cinquant’anni, in occasione del giubileo veniva restituita la terra ai suoi antichi proprietari. Ogni tre anni si metteva la terra a maggese, e a riposo ogni sette anni. Tutti i sabati il bue e l’asino venivano messi a riposo. La terra non era più oggetto di idolatria, né il fratello era più sfruttato impudentemente.


    Il re che rendeva giustizia ai poveri del paese, morì nel distretto di Meggido e il regno del sud subì a sua volta la deportazione. Non più terra, né re né Tempio.Giorni di lutto e di lamentazioni. Ecco tornata, ancora una volta, la prova della mancanza e dell’assenza: l’esperienza della terra straniera, terra di lacrime e di sangue.


    E fu paradossalmente nel profondo di questo abbandono, che la fede del popolo divenne più profonda, facendo un passo in avanti. Malgrado le apparenze che gridavano l’assenza di Dio, un profeta, chiamato "secondo Isaia", comprese che, se Dio è Dio, egli è l’unico. E questa l’affermazione del monoteismo e dell’inizio dell’universalismo della fede di Israele. Dio era il solo Dio di tutta la terra e del cielo.


    Durante l’esilio, questo popolo senza avvenire, si ripiegò sul suo passato, ritrovando la storia degli antichi Patriarchi e risalendo fino al padre dei credenti, Abramo. Costui aveva lasciato le terre fertili della Mesopotamia e il culto della Luna, dea della fecondità, per penetrare nelle terre aride alla ricerca del suo Dio. Uomo di fede senza terra e senza figli, ricevette la duplice promessa della paternità e della proprietà. Nasceva così il concetto della Terra promessa che avrebbe segnato per sempre la memoria dei credenti.


    Dal padre della fede si arrivava così a concepire un padre di tutti gli uomini e una origine del mondo. Due tradizioni erano riunite e si immaginò la terra originale come un giardino. L’Eden non è un luogo di delizie inventato per compensare le frustrazioni degli uomini, ma una terra messa da Dio a disposizione dell’uomo, affinché "la conservi e la coltivi" (Gen 1,28-29) avendo cura della parte dovuta al Creatore: "Non mangerai tutto, salvaguarderai così l’avvenire della creazione".


    Dio fa nuove tutte le cose


    Dopo la grande prova, ecco che si è dovuto tornare al paese. Ma il ritrovarsi, non fu certo dei più calorosi: gli assenti hanno sempre il torto di voler recuperare i loro beni. Aiutati dai Persiani, gli Ebrei vollero restaurare la grandezza passata del loro paese. Il governatore Neemia innalzò nuovamente le mura e lo scriba Esdra ripubblicò la Legge. In mancanza di profeti, furono il Tempio e la Legge a prevalere. La stretta osservanza del puro e dell’impuro permisero di sostenere la coabitazione con gli empi occupanti. "I saggi esercitavano il compromesso" secondo l’espressione dell’esegeta Jacques Bernard: bisognava aprirsi alle nuove correnti culturali, continuando però a salvaguardare l’essenziale della fede. Insozzata, la terra era impura; purificata, essa diveniva una terra santificata.


    Una corrente spirituale, scampata all’Esilio e chiamata più tardi "apocalittica" rifiutava di dimenticare che l’unico Dio aveva tratto gli Ebrei dal nulla e che avrebbe potuto non rimettere in sesto questo popolo, ma ricrearlo: "Ecco, faccio nuovo l’Universo" (Ap 21,5). L’idea di cieli nuovi e di una terra nuova, confortava la speranza dei poveri. Un inviato da Dio, a immagine di Elia, sarebbe venuto alla fine dei tempi a far ascoltare una voce nuova , venuta dai cieli.


    E' a questa categoria di credenti che appartenevano sicuramente Giovanni il Battista, Gesù di Nazareth e i loro amici. L’uno preconizzava la fine imminente dei tempi, l’altro veniva ad inaugurare il Regno, questi cieli nuovi e questa terra nuova. Con Gesù, Dio era in mezzo a noi, non era il signore del regno, non aveva luogo ove "posare il capo" (Mt 8,20). La "terra nuova" e i "cieli nuovi" erano offerti in eredità a coloro che sapevano leggere i segni del cielo, ma erano inaccessibili a coloro che non pensavano altro che ingrandire i loro granai.


    (da Fêtes et Saisons n. 562)

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:15

    La Pasqua di Cristo e della Chiesa

    APPENDICE II
    La chiesa delle origini

    Pasqua ebraica
    e Pasqua Cristiana
    di Don Filippo Morlacchi


     


    La Pasqua di Cristo e della Chiesa


    Tutto ciò che fu prefigurato nell’AT, trovò il suo compimento nel NT. Le diverse sfumature di significato a proposito della pasqua si ritrovano anche qui: la stessa etimologia (pasqua = "pàscho" "patire": è una etimologia sbagliata, ma ricorrente nei padri greci) farebbe pensare che la pasqua è la "passione" del Signore. Ma pasqua significa anche passaggio, e dunque passaggio dalla morte alla vita nuova à pasqua è la "risurrezione" del Signore. Inoltre si crea ben presto il legame fortissimo tra pasqua e battesimo.


    Inoltre la pasqua di Cristo diventa l’inizio della nuova creazione e apre il futuro definitivo dell’uomo, nell’attesa del ritorno glorioso del Signore: legame fortissimo con la teologia della notte pasquale rabbinica (prima e quarta notte).


    Il legame è poi inscindibile con la celebrazione eucaristica, in cui si riassumono la liturgia sinagogale (soprattutto nella liturgia della parola) e la liturgia pasquale, nella duplice dimensione di immolazione (presso il tempio à eucaristia come sacrificio) e di comunione (in famiglia: eucaristia come banchetto).


    (Questa appendice è una rapidissima sintesi di: R. Cantalamessa, La pasqua della nostra salvezza, Marietti 20005).

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:15

    Pasqua dei giudei

    APPENDICE II
    La chiesa delle origini

    Pasqua ebraica
    e Pasqua Cristiana
    di Don Filippo Morlacchi


     


    Pasqua dei giudei


    Col passar del tempo la Pasqua inizia significare non tanto il passaggio di Yhwh, quanto quello del popolo attraverso il Mar Rosso: "Dio ci ha condotti fuori dall’Egitto…" (Dt 26,8). La Pasqua è il passaggio di Dio che salva o del popolo che è salvato? Questa ambivalenza accompagnerà sempre la pasqua.


    Questa è la situazione della pasqua quando Gesù pratica questi riti. Si era stabilito un compromesso tra pasqua primitiva (incentrata sulla famiglia) e pasqua deuteronomica (che faceva perno sul culto al tempio: questa dimensione verrà meno solo con la distruzione del tempio, avvenuta proprio durante le festività pasquali del 70 d.C., portando la celebrazione della pasqua al rituale oggi in uso, in cui si celebra ovunque la "pasqua senza tempio"). L’immolazione della vittima avveniva nel tempio sotto la supervisione dei sacerdoti: ogni israelita andava al tempio nel pomeriggio del 14 nisan (mese lunare ebraico corrispondente a marzo-aprile), uccideva il proprio agnello, e i sacerdoti aspergevano con il sangue l’altare del tempio. Poi aveva luogo la liturgia familiare, in cui il capofamiglia recuperava alcune prerogative sacerdotali che si erano perse con l’istituzione del sacerdozio levitico. La cena rituale era scandita in quattro sezioni da quattro coppe diverse. Le preghiere di benedizione (berakah, pl. berakôt) sono quasi identiche a quelle della Messa: "Benedetto sei tu Signore, Dio nostro, Re dell’universo, che hai creato questo frutto della vite. Tu ci hai eletto tra tutti i popoli…".


    Il racconto (haggadàh) della pasqua spiega cosa rende "speciale" quella notte: "noi fummo schiavi in Egitto e di là ci fece uscire il Signore Dio nostro, con mano potente e braccio teso". "NOI", non "i nostri padri", secondo un detto di rabbi Gamaliele (il maestro di S. Paolo): "in ogni generazione ciascuno è tenuto a considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, perché il Santo – benedetto Egli sia – non liberò solo i nostri padri, ma noi pure liberò con loro". La liturgia rende contemporanei agli eventi celebrati. Di evidente importanza l’applicazione alla Pasqua cristiana…


    Tutta questa teologia è riassunta in un famoso testo rabbinico detto Poema delle quattro notti, in cui si riassume:



  • La prima notte fu quella in cui Yhwh si manifestò al mondo per crearlo: la parola di Dio era luce. La seconda notte fu quando Yhwh si manifestò ad Abramo all’età di cento anni e a Sara sua moglie, promettendogli un figlio. La terza notte fu quando Yhwh si manifestò contro gli egiziani nel mezzo della notte: la sua mano uccideva i primogeniti egli egiziani e proteggeva i figli di Israele. La quarta notte sarà quando il mondo, giunto alla sua fine sarà dissolto.

  • In sintesi: Dio salva rivelandosi (si manifestò…). Si accostano pasqua e creazione, pasqua e salvezza, pasqua e consumazione del mondo.

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:15

    Pasqua di Jhwh e Pasqua dei Giudei

    APPENDICE II
    La chiesa delle origini

    Pasqua ebraica
    e Pasqua Cristiana
    di Don Filippo Morlacchi


     


    Pasqua di Jhwh e Pasqua dei Giudei


    Due testi ne parlano. Es 12,1-14 e Dt 16,1-8. Non mancano le differenze. Ad es., in Es si può celebrare in ogni luogo, mentre secondo Dt è possibile solo da parte dei sacerdoti nel tempio di Gerusalemme; la vittima è un agnello in Es, anche bovini e altre bestie in Dt; infine secondo Es la Pasqua è una festa a sé stante, mentre Dt la lega a quella degli Azzimi (di origine agricola). Il motivo è evidente: il testo di Dt fa riferimento alla situazione del popolo ormai insediatosi in Canaan. Le origini della festa vanno dunque trovate nel testo dell’Esodo, anche se pare che la sua redazione finale sua successiva a quella del testo del Dt..


    Ne emerge una festa non agricola, ma di pastori: si immola una primizia del gregge prima della transumanza primaverile (vedi il modo di cuocere la vittima, gli ingredienti di contorno, la posizione in piedi e con le vesti tirate su…). Il sangue sulle porte sembra un’aggiunta successiva (porte = ingresso della tenda?). Ciò che più conta è la consumazione del pasto sacro in comune, prima della separazione del clan (solidarietà, comunione di sangue).


    Ma poi, tra il 1250 e il 1230 a.C. (pare) a questo rito si aggiunge un nuovo significato: il popolo voleva andare nel deserto a compiere questa cena rituale (cfr Es 5,1); di fronte al ripetuto diniego del Faraone, Dio agisce. Nella notte dell’attesa il popolo compie in anticipo il rito, ma misteriosamente il Signore passa e compie un giudizio, colpendo gli egiziani e risparmiando gli ebrei. Di questo evento, la pasqua diventa memoriale: la pasqua non è più una festa legata al ciclo cosmico, ma alla storia della salvezza.

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:14

    Le quattro stagioni della Pasqua

    APPENDICE II
    La chiesa delle origini

    Pasqua ebraica
    e Pasqua Cristiana
    di Don Filippo Morlacchi


     


    Le quattro stagioni della Pasqua


    Non poche trattazioni distinguono tre Pasque: quella dell’AT, quella di Cristo e quella della Chiesa. Mi in realtà occorre distinguere 4 pasque diverse, due reali e due simbolico-sacramentali:



    1. la Pasqua di Yhwh: cioè il passaggio salvifico di Yhwh nella notte dell’uscita dall’Egitto;


    2. la Pasqua dei Giudei: cioè la celebrazione liturgica annuale di questa pasqua, attraverso la rievocazione di tutti gli eventi della storia della salvezza, culminata in quella notte;


    3. la Pasqua di Cristo: cioè la sua immolazione come vittima di salvezza, il suo "passaggio da questo mondo al Padre" (Gv 13,1);


    4. la Pasqua della Chiesa: la celebrazione annuale (ma anche settimanale e quotidiana) della Pasqua di Cristo fino al giorno del suo ritorno nella gloria.

    Questa suddivisione non deve far perdere di vista l’unità del mistero pasquale: unica è la pasqua dell’Antico e del Nuovo Testamento, nella sua dimensione storica (pasqua 1 e 3) e in quella liturgico-simbolica (pasqua 2 e 4). La Pasqua è infatti stesso Cristo (1Cor 5,7), presente in modo diverso in tutta la storia della salvezza e in tutta l’economia sacramentale.


    Ne deriva una continuità essenziale e vitale tra pasqua ebraica e pasqua cristiana, secondo una logica di inveramento e non di sostituzione. Dunque è assolutamente impossibile comprendere il valore della Pasqua cristiana se la si espunge dal suo alveo nativo.


    Ecco allora uno schema sintetico:



















     

    Antico Testamento


    Nuovo Testamento

     

    Prefigurazione simbolica: la cena


    Prefigurazione liturgica: l’ultima cena


    Storia

    la Pasqua di Yhwh

    La Pasqua di Cristo


    Liturgia

    la Pasqua dei Giudei

    la Pasqua della Chiesa

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:14

    La bibbia ebraica

    APPENDICE
    La chiesa delle origini


    Lettura ebraica e cristiana
    dell’Antico Testamento
    di Don Filippo Morlacchi


    La bibbia ebraica












    Torah scritta (TaNaK)


    Torah orale


    Torah


    Neviîm


    Ketuvîm


    Mishnàh [II sec.] + Ghemaràh = Talmud ("studio")


    I midrashîm (midrash da darash = ricercare) sono commenti alla scrittura (il NT è "un midrash dell’AT").

    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:13

    Interpretazione tipologica

    APPENDICE
    La chiesa delle origini


    Lettura ebraica e cristiana
    dell’Antico Testamento
    di Don Filippo Morlacchi


    Interpretazione tipologica


    La maggiore discrepanza è l’uso della tipologia. Se l’AT acquista il suo pieno significato come "prefigurazione" del NT, come valutare questa esegesi tipologica, tanto importante nei padri? Ecco le indicazioni della Commissione per i rapporti religiosi con l'Ebraismo, che il 24 giugno 1986 ha pubblicato i Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica. (Il documento è reperibile integralmente su internet all’indirizzo: http://www.nostreradici.it/sussidi.htm, purtroppo con alcuni errori tipografici).



    1. …nell'uso della tipologia, il cui insegnamento e la cui pratica ci derivano dalla Liturgia e dai Padri della Chiesa, occorre evitare ogni passaggio tra Antico e Nuovo Testamento che fosse esclusivamente considerato come una rottura. La Chiesa, nella spontaneità dello Spirito che la anima, ha vigorosamente condannato l'atteggiamento di Marcione e si è sempre opposta al suo dualismo.
    2. È importante anche sottolineare che l'interpretazione tipologica consiste nel leggere l'Antico Testamento come presentazione e, sotto certi aspetto, come il primo delinearsi e come l'annuncio del Nuovo (cf. per es. Eb5,5-10, ecc.). Cristo è ormai il riferimento chiave delle Scritture: "quella roccia era il Cristo" (1Cor 10,4).
    3. È dunque vero ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani leggono l'Antico Testamento alla luce dell'avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo titolo, esiste una lettura cristiana dell'Antico Testamento che non coincide necessariamente con la lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica devono pertanto essere accuratamente distinte nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò che, tuttavia, nulla sottrae al valore dell'Antico Testamento nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano a loro volta utilizzare con discernimento le tradizioni di lettura ebraica.
    4. La lettura tipologica non fa altro che manifestare le insondabili ricchezze dell'Antico Testamento, il suo contenuto inesauribile, il mistero che lo pervade, ed essa non deve far dimenticare che l'Antico Testamento mantiene il proprio valore di Rivelazione, che spesso il Nuovo Testamento non farà che riprendere (cf. Mc 12,29-31). Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell'Antico. La catechesi cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cf. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1-11)
    5. La tipologia significa inoltre proiezione verso il compimento del piano divino, quando "Dio sarà tutto in tutti" (1Cor 15,28). Questo fatto vale anche per la Chiesa che, già realizzata in Cristo, non di meno attende la sua perfezione definitiva come Corpo di Cristo. Il fatto che il Corpo di Cristo tenda ancora verso la sua statura perfetta (cf. Ef 4,12-13), nulla sottrae al valore dell'essere cristiano. Così la vocazione dei Patriarchi e l'esodo dall'Egitto non perdono la loro importanza e il loro valore proprio nel piano di Dio per il fatto che esse sono al tempo stesso delle tappe intermedie ( cf, per es., Nostra Aetate n. 4).


    • Ma allora riconoscere la legittima diversità di interpretazione significa dire che cristiani ed ebrei, pur leggendo la stessa Bibbia, non leggiamo lo stesso libro? No, perché "la chiesa delle origini, la quale compose il NT, pretese che questo, lungi dal proporsi come un’interpretazione aliena dalle Scritture di Israele, ne rappresenti l’ultima e definitiva rilettura, dunque indubitabilmente ebraica (At 26,22-23: "Null'altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani": discorso di Paolo davanti ad Agrippa)" (F. Rossi de Gasperis, Cominciando da Gerusalemme, Piemme 1997, p. 384).


    • L’esegesi tipologica è infatti nota già all’interno dello stesso AT. Come ricorda il n. 9 dei citati Sussidi, l’esodo egiziano è stato riletto dai profeti come paradigma per descrivere il ritorno dagli esili e la liberazione escatologica stessa: basti pensare al Seder di Pesah (la liturgia pasquale). Ma c’è una tipologia cristiana che si distacca da questa modalità: è quella che "si interessa agli eventi e alle persone del Primo Testamento unicamente come "figure" e "tipi" da attraversale in fretta per giungere alle "realtà" (= antitipi) della Nuova Alleanza" (ivi, p. 390). È la tipologia della "frattura tra i due testamenti", secondo la quale il Figlio con la sua incarnazione non avrebbe portato a compimento la rivelazione veterotestamentaria, ma la avrebbe totalmente rinnovata.

    • Occorre invece una lettura di pacificante continuità tra i due testamenti. La novità cristiana non indica frattura con l’antico, ma definitività della rivelazione in Cristo. "Per quanto concerne il Testamentum (= l’economia, distinta dall’Instrumentum, = gli scritti), mentre il NT può essere definito come l’ultima rilettura dell’Antico, esso stesso non può andare soggetto a una ulteriore allegoria, senza che venga distrutta la realtà della stessa fede cristiana" (ivi p. 403). Il NT è l’"ultima allegoria" dell’AT, rimanendo aperto solo all’anagogia escatologica (il compimento finale, quando "Dio sarà tutto in tutti": 1Cor 15,28). D’altro canto la novità cristiana può essere rinvenuta nel fatto che nessun ebreo è giunto alla fede in Cristo solo per aver letto le scritture: è necessario l’incontro con l’evento irripetibile della risurrezione (dunque il cristianesimo non è solo lo "sviluppo organico e naturale" dell’ebraismo).


    • "La lettura ebraica delle scritture, di per sé, rimane aperta a un futuro e a un’attesa escatologica indeterminata. […] La lettura cristiana crede di conoscere il nome preciso di questa incognita: Gesù di Nazaret" (ivi p. 422). L’evento di Cristo rimane la discrepanza di fondo nell’interpretazione di quello che noi chiamiamo AT: la prima venuta di Gesù non è riconosciuta dagli ebrei come chiave interpretativa della storia e della scrittura, mentre l’attesa escatologica della sua seconda venuta (la parusìa, quello che gli ebrei chiamano "il giorno di Yhwh") è ciò che ci accomuna.


    • "Leggendo l’AT, il cristiano […] è come il lettore di un libro giallo, che ne vada leggendo progressivamente il testo dopo essere stato preventivamente informato dello svelamento finale. […È così] molto più in grado di soppesare proporzionatamente l’importanza e il significato di quei particolari che, letti prima di conoscere la fine, possono apparire irrilevanti e casuali. […] Di per sé, però, l’ultima chiave della lettura cristiana della Bibbia non deve mortificare in nulla la consistenza dei capitoli precedenti, l’importanza di conoscere ogni loro pagina in se stessa e di soppesarne i contenuti e la struttura"" (ivi p. 423-425).
    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:11

    Antico Testamento?

    APPENDICE
    La chiesa delle origini


    Lettura ebraica e cristiana
    dell’Antico Testamento
    di Don Filippo Morlacchi


    Antico Testamento?



    • Come denominare quella parte della Bibbia che precede il "Nuovo Testamento"? Escludiamo l’espressione "Vecchio Testamento" (come se fosse una cosa obsoleta e da buttare); accettiamo "Antico testamento", cogliendo un sfumatura di venerazione per la sua anzianità, in quanto è l’espressione più diffusa; preferiamo "Primo Testamento" o "Prima Alleanza", perché esprime al meglio la continuità dell’unica storia della salvezza. Ma per tanti studiosi oggi è solo la "Bibbia Ebraica". (A dire il vero, non è del tutto corretto, perché nel canone cattolico sono inseriti dei libri che non sono inseriti nel Canone Ebraico: sono i 7 libri di Tb, Gdt, 1 e 2Mac Sap, Sir, Bar, nonché alcune sezioni di Est e Dan. Alcuni di questi scritti inoltre ci sono pervenuti solo in greco o aramaico).


    • "La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2Tm 3,16)" [Dei Verbum 11]. Contro l’eresia di Marcione (II sec.), l’AT è essenziale alla vita della Chiesa: "I cristiani venerano l’Antico Testamento come vera Parola di Dio. La Chiesa ha sempre energicamente respinto l’idea di rifiutare l’Antico Testamento con il pretesto che il Nuovo l’avrebbe reso sorpassato (Marcionismo)" (CCC 123).


    • "L’AT è il fondamento comune, la radice teologia e storica del giudaismo e del cristianesimo. […] La problematica della teologia cristiana dell’ebraismo si acuisce poi, allorché si comincia a intuire che il giudaismo prolunga e vive realmente – benché in maniera diversa dal cristianesimo – l’AT e il modo in cui lo fa. Israele non è riconducibile a un’entità biblica passata" (C. Thoma, Teologia cristiana del giudaismo, Marietti 1983, p. 17). Dunque c’è un valore permanente non solo dell’AT, ma anche dell’interpretazione che ne danno gli ebrei.


    • L’AT è parola di Dio; rivela dunque il mistero di Cristo; è "antico" in relazione al "nuovo". Ma ha anche una sua consistenza in sé: gli ebrei infatti considerano sacre ed ispirate le loro scritture, indipendentemente da qualunque riferimento alla persona di Gesù di Nazareth. L’ermeneutica [cioè "arte dell’interpretazione"] cristiana dell’AT/Bibbia ebraica è dunque diversa o addirittura incompatibile con quella ebraica?
    Pubblicato in Bibbia
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:10

    A Roma Paolo annuncia il Vangelo (28,16-30)

    Da Gerusalemme a Roma
    di Don Filippo Morlacchi


    A Roma Paolo annuncia il Vangelo (28,16-30)


    Gli Atti si concludono con l’annuncio del vangelo a Roma. Paolo è in custodia militaris molto mite, e annuncia il Vangelo con grande libertà. Ma prima vuol chiarire la faccenda con la comunità giudaica (in fondo è per accuse giudaiche che lui è a Roma): anche a loro annuncia il vangelo. La conclusione è che alcuno credono e altri no: questa è LA scissione nell’ebraismo, tra coloro che credono in Gesù Messia e coloro che non ci credono, e la conseguente apertura ai pagani.

    Pubblicato in Bibbia

    Search