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Martedì, 08 Agosto 2006 00:55

Il dramma della religione (Vladimir Zelinskij)

Il dramma della religione
di Vladimir Zelinskij


Il Padre Alexander Schmemann, (1921-1983) (1) che con i suoi libri scritti in russo ed in inglese ha fatto crescere un’intera generazione di teologi in Russia (fra cui anche il Patriarca Alessio II, secondo le sue stesse parole), dopo la sua morte ha lasciato un “Diario”, pubblicato per la prima volta l’anno scorso. Questo libro è diventato una vera e propria scoperta non solo per le sue qualità spirituali e letterarie, ma prima di tutto per il suo “messaggio”, per il pensiero che ha tormentato l’autore durante tutta la vita: l’ambiguità della religione. Grande conoscitore della storia e della tradizione della sua Chiesa, innamorato dell’Ortodossia fin dalla prima infanzia, convintissimo della sua verità, egli usa nel suo “Diario” due “O”: una è maiuscola - quando si tratta della bellezza delle celebrazioni, della fedeltà alle radici apostoliche - e l’altra “o” è minuscola - quando parla dell’ambiente umano, della realtà parrocchiale, degli alterchi giurisdizionali, ecc. P. Schmemann ha vissuto la sua vita con questo contrasto nel cuore che egli rivelava, piuttosto con cautela, nei suoi scritti pubblicati. Una sorta di tensione fra fede e religione, percepita da ortodosso nella vita quotidiana della Chiesa come sacramento del Regno di Dio sulla terra, ma anche come confessione che vuole essere umanamente più pura, migliore delle altre.

Dall’inizio di quest’anno quasi tutta la Russia credente e pensante è diventata lettrice appassionata di questo libro. Perché? Perché tanti ortodossi, spesso senza accorgersene, vivono lo stesso conflitto interiore, per cui ciò che è di Dio e ciò che è dalla carne e dal sangue, nascostamente si contestano reciprocamente. Perché nella nostra esistenza religiosa l’eredità degli Apostoli e dei Padri può essere mescolata con l’orgoglio confessionale, la grazia della vita secondo lo Spirito con la pesantezza storica ed etnica (che chiede anche i suoi “diritti mistici”), il senso della verità col gusto del potere - almeno sulle anime. E perché in un modo o nell’altro tutti sentono o percepiscono: “la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio” (1 Cor 15,50).


(1) Teologo e liturgista ortodosso, primo decano al St. Vladimir Seminary di New-York.
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L’uomo davanti al volto della Sindone
di Vladimir Zelinskij



IL VOLTO E IL VERBO

Oltre ad essere un oggetto della ricerca scientifica, la Sindone è anche un avvenimento spirituale che ci tocca come persone, ci coinvolge come avvenimento spirituale in un modo o in un altro. Non sono uno studioso della Sindone, perciò il tema della mia riflessione sarà proprio questo incontro con il Volto espostoci davanti, ma, in un certo senso, rivelatoci anche dentro di noi. Da quest’incontro usciamo sempre diversi, cambiati, segnati dal contatto col mistero che ci attira e ci supera. Il Volto della Sindone già nel momento del primo contatto rappresenta un appello che ci chiama alla contemplazione ed anche alla riscoperta di ciò che si trova nel fondamento di noi stessi. Noi ci riscopriamo come cristiani, ma anche come esseri umani, quando entriamo nella contemplazione di quel mistero con il Volto umano. Proviamo a fermarci davanti a questo Volto e ad accoglierlo come un appello, un messaggio personale.

La prima cosa che ci colpisce nel Volto della Sindone è il suo linguaggio espressivo e comunicativo. Sembra che il Volto entri in contatto con la parte nascosta e più profonda del nostro essere. Cosa ci dice? Cerchiamo di leggere questo messaggio, anche se in modo incompleto, parziale, troppo libero e poco scientifico. Cominciamo con una breve riflessione di san Gregorio di Nissa (dal suo trattato “La creazione dell’uomo”) che può servire come chiave della nostra lettura.

«Dice san Paolo : ‘Chi mai ha conosciuto lo Spirito del Signore?’ (Rm 11, 34). Io aggiungo: e chi mai ha conosciuto il proprio spirito? Quelli che si ritengono capaci di comprendere Dio, farebbero bene a guardare dentro se stessi: hanno forse compreso lo spirito che è in loro?

A mio parere, bisogna tenere presente la parola di Dio: “facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”.

La natura divina ha come caratteristica l'incomprensibilità: la sua immagine deve somigliare anche in questo…

Di fatto, noi non arriviamo a comprendere la natura del nostro spirito. Perché esso è ad immagine del suo Creatore ed ha uguaglianza col suo Signore, reca l'impronta della natura incomprensibile, custodisce il mistero».

Il nucleo del messaggio: che lo spirito umano custodisce in sé il mistero dell’immagine. Ma quel mistero è illuminato dall’impronta del Verbo. L’immagine riflette in sé la rivelazione del Verbo, perché il Verbo che si fa carne diventa icona. E l’icona porta il messaggio del mistero dell’immagine. La prima cosa che vediamo con uno sguardo non fuggente sulla Sindone è che il suo Volto rappresenta un prototipo delle icone, con la sua espressività specifica della tradizione orientale. L’icona, però, prima di nascere come opera d’arte, è concepita nella contemplazione, nell’esperienza spirituale. Dio creò l’uomo a sua immagine, cioè secondo un modello preesistito - e questo modello fu il Verbo che era presso di Lui. L’immagine uscita dal Verbo diventa una realtà fisica, visibile e questa realtà si mantiene, dura, rimane con noi. Il compito dell’icona è di rendere visibile il perenne mistero del Verbo, il miracolo dell’Incarnazione. Proviamo, però, a rischiare nel porre una domanda: è davvero possibile trovare qualche legame comune fra il Volto ed il Verbo, fra l’immagine di Dio e la raffigurazione della Sindone? Sotto un’altra forma, la stessa domanda se la ponevano anche i Padri della Chiesa. Alcuni di loro rispondevano in modo affermativo: sì, l’uomo fu creato su “modello” del Cristo, nella previsione dell’Incarnazione. L’atto di fede nel Verbo che si è fatto carne suggerisce anche che il Verbo si sia fatto Volto. E non un qualsiasi volto umano, ma in un certo senso il Volto modello, il Volto archetipo.

Cosa vuol dire archetipo in questo contesto? Per i cristiani l’incontro con il Volto come Verbo prima di tutto è un avvenimento di riconoscenza. La riconoscenza è uno degli atti costitutivi della nostra fede. Crediamo in ciò che riconosciamo. Riconosciamo ciò che troviamo adatto alla nostra visione, simile al nostro pensiero. Non conosciamo e non conosceremo mai l’essenza di Dio, ma possiamo conoscere la Sua manifestazione nella Vita e nel Volto dell’Uomo. E quell’Uomo esprime l’incomprensibile essenza del Padre. Ma anche il Volto - questo è la nostra ipotesi o, piuttosto, intuizione - parla dell’essenza del Padre, perché anche il Volto del Figlio esprime ciò che il Padre ci dice.

Ricordiamo quel brano famoso del Vangelo di San Giovanni: “Se conoscete Me, conoscete anche il Padre; fin da ora Lo conoscete e Lo avete veduto. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”: Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto Me ha visto il Padre” (Gv. 14,9).

Cosa dice il Padre con il Volto del Figlio ucciso? Il Padre parla con il silenzio, con il tormento del Figlio Unico, con le tracce della morte sulla croce, con la morte che promette la vita. Il Volto non è sfigurato, anzi, è ancora bello, stupendo. Il Volto che tace è anche il Verbo che continua a parlare con noi, anche con la lingua del suo silenzio e della sua bellezza. La bellezza del Volto porta anche un suo messaggio, quello della bontà della santità umana. Così il Padre parla di noi stessi.

Se facessimo un bilancio dell’antropologia ortodossa in una riga, essa consisterebbe nel ritorno a questa bellezza iniziale, persa dopo la caduta. La bellezza vuol dire la santità dell’uomo appena creato con il Verbo di Dio e per il Verbo. La santità è il ritorno all’autentica natura umana creata per Cristo, in Cristo e con Cristo. Questo punto è importante; per l’Ortodossia, non è l’uomo com’è nella sua condizione empirica, macchiata dal peccato, un vero uomo, ma solo colui che è stato concepito e plasmato nell’amore di Dio. In altre parole, la vera natura umana è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio, che va ricercata, restituita e manifestata. Perciò l’antropologia cristiana porta in sé anche la soteriologia.

Prima di tutto l’uomo riconosce nel Volto il suo modello perduto, il nucleo del suo proprio “io”, come lui riconosce il Verbo nella sua fede. Il Verbo con il Volto di Dio martirizzato si trova alla radice della nostra vera personalità. Il Verbo si è fatto Volto di Colui che si è sacrificato per noi e questo Volto rimane l’espressione della rivelazione del Padre, la rivelazione che continua e che si manifesta anche come opera d’arte. Anche l’arte - nel senso primordiale - è il ritorno al mondo buono (in senso biblico), vale a dire, bello e santo, creato e voluto da Dio. L’arte ecclesiale è quella che non soltanto porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”, ma anche ha la coscienza chiara della sua nostalgia.

Perciò il messaggio della contemplazione del Volto è quello della nostalgia e della similitudine. Similia similibus cognoscuntur. Tutta la famiglia umana partecipa all’Incarnazione perché ogni uomo ha una particella del Verbo, il raggio del Logos, nella sua umanità. Troviamo questa intuizione, dopo il suo sviluppo nella teologia patristica, soprattutto nella “liturgia cosmica” di San Massimo il Confessore che parla dei logoi delle cose nel loro insieme che celebrano il Logos di Dio che si è fatto Uomo.

Concludiamo questa prima parte con il kondakion della domenica dell’Ortodossia:

“L’indescrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da Te, Madre di Dio, è stato circoscritto e riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Noi dunque, proclamando la salvezza a fatti e a parole vogliamo descriverla”.

IL VOLTO COME ICONA

1. Tre principi dell’arte ecclesiale

Cominciamo dall’inizio.

(Gn 1,31) – così finisce ogni giorno nella storia della creazione del cielo e della terra, della luce e delle acque, degli alberi e degli animali. La patria dell’uomo e della donna, creati nell’ultimo giorno, fu il giardino dell’Eden, con tutta la sua bontà iniziale - di cui la famiglia umana non perse completamente la memoria, anche quando le porte del giardino vennero chiuse dietro di loro. Il primo principio dell’arte ecclesiale è il ritorno al mondo appena creato, perché essa porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”. dentro di sé. Ma anche un riflesso del Volto. Troviamo quest’intuizione nella teologia patristica che parla dei logoi delle cose che celebrano tutte insieme il Logos divino, il quale tramite l’uomo ha dato il volto a tutta la creazione. Così si può definire il secondo principio dell’arte ecclesiale: la celebrazione del mondo in Cristo o piuttosto la riscoperta del Volto di Cristo nel mondo creato da Lui.

Questa celebrazione, però, ha un suo scopo, una sua indicazione, non solo verso il passato (quasi che esso non fosse degno di una memoria sempre viva), ma anche verso l’incontro imminente con Dio nel “mondo che verrà”. “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, dice Gesù (Mt 4,17) e questo annuncio può risuonare al nostro udito come terzo principio dell’arte ecclesiale: la testimonianza della conversione, vale a dire, del profondo cambiamento del nostro essere sulla soglia del Regno, per vedere Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13,12).

Con questi tre princìpi (esposti qui in modo per forza schematico): la memoria sacra e personalizzata della creazione, la ricapitolazione del creato nel Verbo e la trasfigurazione del creato nella luce del suo Volto che porta la promessa del mondo che verrà, abbiamo un primo approccio all'arte dell’icona. Ma questi tre princìpi possono essere ridotti ad uno solo: alla visione e alla raffigurazione artistica della santità nascosta del mondo e della sua creazione prediletta: l’uomo.

Scoprire e far vedere nell’uomo la propria icona è compito dell’arte della pittura, come anche dell’arte della santità.

2. L’arte come comunione

La vera natura umana, come abbiamo detto, è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio che va ricercata, restituita, manifestata.

Alle soglie del Regno ci conducono tre accompagnatori o testimoni principali di Dio: la Santa Scrittura, l’immagine e il sacramento - che hanno una profonda e reciproca affinità. Credo che nella propria essenza ognuna di queste realtà sia convertibile all’altra, poiché la Scrittura veramente accolta e vissuta diventa un sacramento della comprensione che si compie nella mente e nel cuore dell’uomo, e dal sacramento nasce la contemplazione delle immagini come opere di Dio. L’icona è il frutto della contemplazione, ma la contemplazione cresce e si sviluppa nell’esperienza spirituale che è la manifestazione della presenza reale di Dio in senso eucaristico, sacramentale. Lo scopo dell’icona è quello di esprimere il mistero della presenza di Dio che ci guarda in faccia mediante il segreto del Suo Volto - ch’è infatti il sacramento della luce nascosta.

Tutto quello che si manifesta è luce”, - afferma san Paolo (Ef 5,13) e la vocazione dell’uomo è di scoprirla e di manifestarla nella propria vita, nella propria fede, come anche nella propria creatività artistica. L'icona è il mezzo della comunione con la luce nascosta, e rivelata nel nostro mondo creato nella materia. La materia, la creta della creazione, contiene in sé ciò che va manifestato nello spirito. Sotto l’influenza della filosofia neoplatonica anche nel cristianesimo dei primi secoli è emerso un certo disprezzo per il mondo materiale, aspetto che era all’origine dell’eresia degli iconoclasti (VII-VIII sec.). La fede cristiana, però, che confessa la sua speranza nella risurrezione dei morti e nella trasfigurazione del mondo attuale (che non sarà sostituito completamente con il “mondo che verrà”, ma svelerà la sua bellezza nascosta) si ricorda sempre della sacralità della materia che è servita nell’atto della creazione del mondo, ma anche dell’incarnazione del Figlio di Dio.

3. L’icona come teofania

La materia è venerata non per se stessa, ma come portatrice delle immagini, dei messaggi della salvezza. Nel miracolo dell’incarnazione il Signore ha nuovamente consacrato tutto ciò che Egli aveva creato. La Sua parola, la Sua morte e resurrezione hanno lasciato le immagini della Sua presenza e la Chiesa manifesta questa presenza attraverso l’immagine, il volto trasfigurato dell’uomo. L’arte in Chiesa è il nostro saper organizzare a modo nostro la materia “personalizzata” che ci circonda o trasferirla nelle immagini, che scopriamo in noi stessi. Nell’arte che chiamiamo laica siamo padroni della nostra ricchezza interiore e possiamo giocare con le immagini come vogliamo.

L’arte ecclesiale è diversa. Il suo messaggio è già conosciuto dall’inizio, i segni che essa utilizza sono contenuti nella nostra fede. L’uomo non deve scegliere fra le immagini accumulate e mescolate nel proprio “io”, ma deve manifestare ciò che esiste già, nella profondità o nel “principio” del suo essere. L’arte ecclesiale esprime ciò che è dato fin da principio, messo in noi, manifestato a noi: il Volto del Verbo. Di questo dono, della profondità umana che si svela solo nell’esperienza del santo, ne parla San Giovanni nella sua prima lettera:

Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…” (1 Gv 1,1-2).

L’icona, se la guardiamo alla luce di queste parole, è la testimonianza di ciò che noi, uomini, abbiamo veduto, anche se “in maniera confusa”, toccato, anche se solo nello spirito, contemplato, anche se in momenti rarissimi, di ciò che portiamo dentro noi stessi, anche se non lo sappiamo - e di ciò che dobbiamo far vedere agli altri, il Verbo della vita, ed anche il Volto della vita, la vita avvolta nella morte. Ma l’icona è la testimonianza della vita che continua a vivere nel popolo di Dio e nel Suo corpo che è Chiesa. Osiamo dire che la Chiesa stessa è anche l’icona della testimonianza, del vedere ciò che è invisibile, del comprendere ciò che è incomprensibile, del vivere ciò che appartiene a Dio. L’icona del Volto del Figlio morto porta in sé la caparra della Risurrezione e la vittoria della vita in Dio e con Dio.

4. L’icona e lo spazio liturgico

Secondo la fede ortodossa, le immagini, quelle vere, presentano i propri prototipi. L’icona ha vita propria solo all’interno dell’attività spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nell’album, nel museo, nella collezione privata essa perde il suo senso sacramentale. Ciò che il Vangelo dice con la parola, il Volto lo dice con il suo messaggio.

Le icone, in un certo senso, “raccontano” il loro prototipo, portano una buona notizia della loro presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclastia del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e l’incomprensibile non potessero essere raffigurati, che il mistero divino non si lasciasse svelare. Ma in verità l’icona non vuole riportarci “l’immagine dell’inesprimibile”, come afferma san Gregorio Palamas, ma soltanto il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile.

è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura”, afferma San Paolo (Col. 1,15) e ciò vuole dire che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. “Io sono la luce del mondo”, afferma Cristo (Gv 8,12) e la Chiesa canta: “La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi”. L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità - così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempie il Santo Volto e che santifica anche noi.

IL MESSAGGIO DELLA SINDONE

Ma la Sindone non è un’icona fatta dall’uomo. Questo è vero, e vero è anche ciò che il Volto della Sindone porta in sé nell’arte, ma con la pienezza e la profondità che deriva dall’originale del Volto umano. Questo Volto ci riporta all’immagine, al Modello inciso nello spirito umano, all’arte come immagine dello spirito. La sindone è come un’icona del Verbo, che ci parla e si trova in comunione con lo spirito che ci fu dato.

Sì, possiamo parlare del Volto della Sindone come dell’avvenimento della comunione spirituale al Corpo di Cristo, poiché il Volto diventa Verbo che si offre nei santi misteri celebrati dalla Chiesa.

L’atto della comunione a questa icona include un messaggio l i t u r g i c o, come glorificazione del Verbo che si è fatto Volto.

Questo avvenimento contiene anche un messaggio p e n i t e n z i a l e, cioè la purificazione del cuore davanti al Dio crocefisso.

La Sindone ci parla anche della "k e n o s i s", nella quale ricordiamo che Cristo ha rinunciato alla natura divina (vd. Fil 2,6). La kénosis fa l’uomo partecipe della natura di Cristo, nel suo sacrificio fino al rifiuto della vita stessa nel martirio.

Un altro messaggio della Sindone è il ricordo e u c a r i s t i c o, perché la contemplazione del Volto contiene in sé l'unione del nostro spirito con Cristo. Da qui si chiarisce il senso della santità perfetta come sacramento dell'unione, che trasfigura il nostro corpo, riempito dal fuoco nascosto dell'Eucaristia.

Leggiamo qui anche un messaggio a p o f a t i c o, perché il Volto parla del mistero che non potremo mai decifrare.

Nonché un messaggio e s c a t o l o g i c o: il Volto morto promette la vita in abbondanza.

Un altro messaggio del Volto è quello della t e s t i m o n i a n z a; tutto ciò che è santo è testimone di un altro Regno davanti agli uomini.

Ma la Sindone porta anche un messaggio e t i c o: nella luce del Volto possiamo vedere anche il volto di un altro uomo.

"Tu hai visto il volto del tuo prossimo, disse un santo antico, tu hai visto il volto del tuo Dio". E questo amore si esprime sempre come servizio, come libero sacrificio per lui. La libertà senza amore porta alla schiavitù, all'ideologia che impone il suo giogo. La libertà penetrata dall'amore è sempre personale, essa è destinata a scoprire il mistero e l’unicità di un'altra persona, a scoprire l'amore di Dio riversato su di lei. Attraverso questo amore da persona a persona noi scopriamo anche la "personalità" della creazione del mondo in Dio.

Ma ogni personalità è dotata di un volto.

IL VOLTO COME LUCE

Alla Tua luce vediamo la Luce”, esclama Davide (Ps. 35, 10) e la gioia e la nostalgia di questo grido fa la grandezza e il dramma del Primo Testamento. Dio entra nel mondo da Lui creato e nello stesso tempo rifiuta la sua rivelazione, “perché il Signore ha deciso di abitare sulla nube” (1 Re, 8, 12). Manifestandosi nel roveto ardente, negli Angeli, nella legge, e sotto tante altre immagini, Egli rimane tuttavia al di là di questi e del mondo umano.

Nel momento in cui il Signore ha deciso di rivelare il Suo volto nel volto umano, l’aurora è spuntata e “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce” (Mt. 4, 12). Questa luce che Cristo ha portato ha la stessa “sostanza” della luce che illumina le genti ed ogni uomo. Dio entra nel nostro mondo oscuro, rivela il Suo nome, non nasconde più il Suo volto. La storia di questa rivelazione, raccontata nel Vangelo come con una linea tratteggiata, raggiunge la piena chiarezza in quel brano profetico che parla della trasfigurazione. Qui traspare una delle tracce che mostrano la strada al mistero della similitudine del volto divino ed umano. Proviamo a rileggere quest’episodio e a meditarlo nello spirito della fedeltà alla tradizione cristiana orientale.

“...Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” – dice san Matteo (17, 1-2). Il tropario bizantino cantato durante la celebrazione liturgica nel giorno della festa della Trasfigurazione dà la sua interpretazione di questo racconto: “Ti trasfigurasti sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la tua gloria, per come potevano. Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna, per l'intercessione della Deìpara, o datore di luce: gloria a te!”. Il contenuto è lo stesso, ma la storia della Trasfigurazione si trasforma nella preghiera e nella speranza. “Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna”, perché questa luce ci porterà alla vera conoscenza di Dio nella sua manifestazione accessibile agli uomini o nella Sua “energia”, come dice Gregorio Palamas.

Cristo mostra la Sua gloria, ma non avviene in lui alcun cambiamento perché - dice - è: “quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv. 17, 5); ciò che cambia è la percezione umana. La Trasfigurazione, secondo l’interpretazione ortodossa, prima di tutto apre le occhi agli apostoli, trasforma la loro anima e la loro vista, rivelando anche l’autentica natura umana.

Ma il messaggio di Giovanni, come quello di Pietro, di Paolo e degli altri apostoli è non soltanto già un frutto della vera visione, della perfetta conoscenza di Dio “come Egli è” (1 Gv. 3,2), ma anche la testimonianza discreta degli uomini come essi sono. Vedere Dio “come è” significa raggiungere la somiglianza con Dio e vedere nello spirito ciò che non può essere visto, toccare nel pensiero ciò che non può essere toccato. L’Invisibile apre il suo volto, perché, come dice Sant’Ireneo di Lione, “Cristo è il visibile di Dio”, ma lo stesso Cristo - Verbo, Vita e Volto - è anche l’invisibile dell’uomo. E lo Spirito Santo quando l’uomo Lo cerca, fa nascere, apparire, manifestare l’invisibile nel cuore umano.

Tutta la Scrittura ci porta alla rivelazione della luce nella quale si chiarisce anche tutto ciò “che c’è in ogni uomo” (Gv. 2,25). Perché in Cristo ogni uomo, anche se immerso nelle tenebre, si avvolge della luce che non perde il suo carattere ineffabile. Dal momento della sua creazione ad immagine di Dio, dal suo concepimento per l’amore del Signore, ogni uomo è cristico, penetrato dallo splendore del Verbo. Ma il mistero dello splendore, nell’uomo “naturale”, è quasi introvabile, brucia appena e ha bisogno di essere acceso dalla fede, dalla scelta umana, da quella scintilla che illumina il Volto con la luce di cui ogni uomo è dotato. L’uomo lo riceve come dono e lo rivela in sé con lo sforzo, e così la vita della sua fede può diventare un avvenimento permanente della teofania interiore.

All’inizio di questa teofania si trova un’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale in senso ontologico: nell’”anima mia” (Ps. 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è “nei cieli” - ma sono “cieli” aperti nel cuore umano. La rivelazione porta in sè la presenza reale e vivificante del Volto del Figlio di Dio, “ricordato” e manifestato dallo Spirito Santo, e il Figlio di Dio e lo Spirito Santo rivelano il Padre come unica fonte del mistero trinitario. Così il mistero si rivolge a noi, si apre a noi e si rivela dentro di noi e noi assistiamo alla sua teofania, in cui Dio mostra nell’anima dell’uomo la gloria del Suo volto trasfigurato. Il luogo della teofania è la fede stessa, la conoscenza di Dio, la celebrazione, l’icona, la santità, il martirio, la bellezza, tutta la creazione.

“Dio è Luce, - dice San Simeone il Teologo, - e coloro che Egli rende degni lo vedono come Luce; quelli che lo hanno ricevuto lo hanno ricevuto come luce. La luce della sua gloria anticipa infatti il suo volto ed è impossibile che Egli appaia altrimenti che nella luce.”

Da questa luce nasce anche la santità umana che è, in un certo senso, la “processione” dal Regno promesso (che si trova dentro di noi) a quello che si apre fuori di noi, dalla luce invisibile al visibile. L’irradiazione del Regno, che si può vedere a volte negli occhi del cittadino del Regno, in modo impercettibile penetra e avvolge tutto ciò che lo circonda: il suo deserto o il suo bosco, la sua famiglia o la sua comunità, le sue parole o il suo silenzio, la sua missione o il suo eremitaggio, anche il suo corpo mortale o la memoria che lui lascia dopo la morte. La memoria di lui si cristallizza nella sua immagine dipinta che esprime l’idea o il mistero del volto umano che è sempre quello di Cristo, incarnato, crocefisso, risorto...

Perché “è Dio che disse, - scrive san Paolo, - Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,6).

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Lo scisma nella Chiesa Russa
fra il passato e il futuro
di Vladimir Zelinskij


Oltre alla Russia che occupa la settima parte del pianeta, da quasi 90 anni ne esiste un’altra, dispersa su tutta la terra. Queste due Russie non sono separate da confini territoriali, ma piuttosto da quelli ideologici; ciò che fu imposto come verità indiscutibile all’interno del paese non aveva nessun fascino per i suoi figli che si trovavano fuori. L’opposizione tra la “Russia rossa” e la ”Russia bianca” (se ammettiamo tale divisione schematica) ha trovato il proprio riflesso anche nel mondo ecclesiale, presentandosi come divisione netta e secca tra il Patriarcato di Mosca e la Chiesa Ortodossa Russa all’estero.

“All’estero” non è un termine geografico e nemmeno politico. E’ la denominazione ecclesiale creata nel 1921 in Serbia dai quei vescovi e sacerdoti della Chiesa Russa che insieme a due milioni di profughi hanno lasciato la Russia dopo la Rivoluzione del 1917. Ma a differenza dei greci che, cacciati nello stesso periodo dall’Asia Minore, avevano il proprio capo ecclesiale nel Patriarcato di Costantinopoli, i russi non potevano rivolgersi al patriarca di Mosca poiché si trovava sotto la mortale pressione esercitata da parte del regime – che per gli emigrati era il male assoluto, sanguinario. Così, in una situazione inaspettata per l’Ortodossia, che da millenni si appoggiava all’ecclesiologia della Chiesa locale sul territorio di una nazione, è nata una Chiesa con il suo gregge oltre le frontiere e che voleva salvaguardare a qualsiasi prezzo il suo carattere nazionale, non confluendo in altre Chiese locali. (1) Un altro punto del proprio programma era (ed in modo implicito rimane anche oggi) il restauro della monarchia con la famiglia imperiale Romanov nel momento in cui finalmente fosse finito il giogo bolscevico.

Il Patriarcato di Mosca che viveva sotto questo giogo fu costretto a reagire, tagliando con la Chiesa all’estero. Ma per quest’ultima un atto simile non aveva nessun valore; lo scisma era già iniziato. Nel 1931, la partecipazione di una diocesi russa - che rimaneva ancora sotto la giurisdizione del Patriarcato - alle preghiere interconfessionali celebrate a Londra in difesa della Chiesa perseguitata in Russia, portò il metropolita Serghij, capo della Chiesa di Mosca, a sospenderla a divinis. Per rimanere nella canonicità questa diocesi chiese l’omoforo (la protezione ecclesiale) di Costantinopoli. Così, oltre delle frontiere dell’URSS, si sono formate tre “Chiese-sorelle” russe in contrasto tra di loro - quella di Mosca, quella di Costantinopoli e quella all’estero, diffusa soprattutto in America, in Germania ed in Australia.

Per lunghi anni la Chiesa all’estero è rimasta fuori della comunione con la famiglia delle Chiese ortodosse canoniche, considerando se stessa come l’unica autentica Chiesa Russa: a differenza di quella a Parigi, che era scappata “sotto i greci” e, soprattuto, contro quella di Mosca che era diventata schiava di un regime ateo e blasfemo. Questo spirito, non privo dell’orgoglio di essere gli ultimi depositari della “Santa Rus”, ha creato una certa immagine di Chiesa vera, “pulita e ideale”. I suoi vescovi portano i titoli di Shiangai, di New-York, di Berlino, di Sidney, di Cannes, ma la loro bandiera è sempre russa-russa, non macchiata dal collaborazionismo con il nemico di Dio. Quando nel 1974, subito dopo il suo esilio forzato dall’URSS, il grande scrittore Soljenitsyn si è rivolto al III Concilio della Chiesa Russa all’estero con un suo appello all’unità ecclesiale in ambito russo, il metropolita Filaret, all’epoca suo capo, nella sua risposta ha ricordato una santa di San Pietroburgo del XVIII secolo, Xenia, una “pazza in Cristo”. Una volta venne al mercato e trovò una grande botte di miele; improvvisamente lei la rovesciò, tra lo stupore del popolo. Ma sul fondo di quella botte c’era un topo morto. Così, ha detto Filarete, è anche la Chiesa di Mosca; i dogmi, i riti, i sacramenti mandano profumi come miele, ma sotto c’è un topo morto: la sottomissione al regime dell’anticristo.

E quando la sottomissione non c’è più? Quando al posto dell’anticristo rosso ne è venuto un altro, “democratico” e variopinto, con il quale la Chiesa almeno non è più costretta a collaborare? Dopo il crollo del comunismo, per 15 anni questa domanda si è posta nella coscienza del clero e dei fedeli della Chiesa “bianca”. Finalmente, nel maggio scorso, il suo IV Concilio, riunito a San Francisco, ha proclamato solennemente la fine dello scisma. Più precisamente: del suo intento di ristabilire la comunione eucaristica con la Chiesa-Madre. Non si tratta di “tornare all’ovile” nel senso amministrativo, perché materialmente e giuridicamente la Chiesa all’estero vuole rimanere indipendente, ma piuttosto della riconciliazione canonica e spirituale. Questa decisione ha portato tanta gioia in alcuni ortodossi della Russia e dell’estero e ha provocato una certa amarezza in altri. Perché? La sfiducia nei confronti della Chiesa di Mosca è diventata parte dell’ideologia dei “zarubezniki” (seguaci della Chiesa al’estero), la propria ragione d’essere. La Chiesa di Mosca, affermano costoro, non ha ancora espresso un pentimento pubblico per il proprio “serghianesimo”. (2) Un peccato non rigettato si nasconde e può essere ripetuto. Già con i primi segni di avvicinamento fra Mosca e “l’estero”, quest’ultimo si è diviso in due, fra i partigiani e gli oppositori dell’unione. Ma il “serghianesimo” è comunque del passato e “i vitalibani” (3) - che vanno ripetendo che da Mosca “può mai venire qualche cosa di buono?” - sono una misera minoranza. Invece il problema che divide davvero le due parti della Chiesa Russa porta il nome ecumenismo. Nell’ottica della Chiesa all’estero il Patriarcato di Mosca non solo fa, ma anche confessa l’ecumenismo, cioè partecipa alla paneresia. L’ecumenismo è stato ufficialmente scomunicato negli anni ‘70 dal già citato metropolita Filarete. Questo anatema non solo rimane in vigore, ma anche rivela il tenore dell’anima di una Chiesa che da decenni ha vissuto con la coscienza di essere l’unica guardiana della verità in un mondo immerso nelle proprie colpe, nelle corruzioni e nelle cadute. Il documento finale del Concilio di San Francisco finisce con un concitato appello a Mosca (“col dolore nel cuore” davanti allo spettacolo del peccato della Madre) di uscire dal Concilio Ecumenico delle Chiese. In pratica, di rompere con l’ecumenismo.

L’appello non è ancora condizione sine qua non. Ma può diventarlo.

La storia dell’attività ecumenica del Patriarcato di Mosca è abbastanza breve, ma a modo suo drammatica. L’ecumenismo non era neanche pensabile nel periodo della persecuzione aperta e sanguinaria (1918-1943). E nemmeno al tempo della “protezione” staliniana. Nel 1948, quando Stalin volle fare dell’Ortodossia il proprio baluardo contro il Vaticano, l’ecumenismo fu risolutamente rigettato. Ma nel 1961, al culmine della persecuzione krusceviana, il Patriarcato entrò nel Consiglio Ecumenico delle Chiese - naturalmente con il permesso dello Stato (4) che trovava utile per sé continuare la propria politica anche con le mani e con le voci ecclesiali. La Chiesa da parte sua voleva semplicemente sopravvivere e mostrare la sua presenza sull’arena internazionale. Così il rapporto con le altre Chiese (le trattative teologiche con i luterani, i cattolici e gli anglicani) andava di pari passo con il servizio reso allo Stato in modo pubblico (“la lotta per la pace”, nella sua versione sovietica) ed anche in segreto (attraverso l’infiltrazione del KGB nell’ambito ecclesiale). Dopo il crollo dell’URSS questo ecumenismo è andato in crisi, crisi che è diventata poi più acuta con il problema del proselitismo cattolico, l’invasione delle sette, ecc. La Chiesa di Mosca, però, in nessun caso vuole irrigidirsi nella posizione “via, lontano da me” (Mt 25,41) nei confronti di tutto il mondo etero-ortodosso.

Ma ci sono anche altri punti caldi di discussione. Chi sarà il rappresentante degli ortodossi russi fuori Russia? Il vescovo di New-York, per esempio, sarà designato da Mosca o dalla Chiesa all’estero? Oppure le strutture parallele rimarranno come prima (oltre alla Chiesa ortodossa Americana, anche quella di origine russa)? A chi deve appartenere la proprietà della Chiesa all’estero in Terra Santa e che Mosca considera come sua? Ma il problema più aspro è quello delle decine di parrocchie della Chiesa all’estero create dopo il crollo dell’URSS, che si trovano all’interno della Russia (e anche dell’Ucraina). La loro identità stessa si trova in un’opposizione accanita a Mosca. Loro si sono già pronunciati contro qualsiasi unione col Patriarcato.

Ma è proprio l’ecumenismo che rimane il punto più cruciale del disaccordo. Certo, la Russia può arrabbiarsi contro tutti i proselitismi, congelare il dialogo, poi aprirsi di nuovo, rimproverare o abbracciare l’Occidente, ma il rapporto con esso, spesso difficile, è imprescrittibile alla cultura russa. Solo in Russia, però. Perché l’Europa, anche da nemica, fa parte della sua anima. Ma tanti russi all’estero (come molti convertiti all’ortodossia in Occidente) sono cresciuti con una nostalgia per l’”Eden dove voi non siete mai stati” (5) e con le spalle rivolte a quel deserto spirituale che li circonda in Occidente. “Per me la Francia è così estranea - mi disse in russo con un forte accento francese un vescovo della Chiesa all’estero - come qualsiasi altro paese del mondo”. Se questi atteggiamenti persistono nei prossimi anni, è più probabile che l’ecumenismo della Chiesa Russa faccia un passo indietro. Sì, ma fino al momento in cui la coscienza della cattolicità fraterna - che la luce di Cristo illumina - deve prevalere sull’ossesione di ricercare ovunque eresie. La storia, anche se oggi si discosta da quella luce, deve riscoprirla di nuovo nell’unità.

Note

1) Formalmente, la base ecclesiale della formazione della Chiesa all’estero è stato un decreto del 1920 del patrirca Tichon che ha concesso alle diocesi separate dall’autorità centrale durante la guerra civile il permesso di autogestirsi da soli.

2) Dal nome del metropolita Serghij (Stragorodsky) che nel 1927, sotto la pressione del regime e dello scisma interiore, dopo gli arresti di molti vescovi, intervenne con una sua famosa Dichiarazione nella quale proclamava non solo la lealtà della Chiesa ad un sistema nemico di Dio, ma in pratica anche la sua sottomissione morale.3) Dal nome del vecchio metropolita Vitalij che presiede la parte più “dura” della Chiesa all’estero.

4) A quell’epoca non si poteva neanche riparare una vecchia cinta intorno ad una chiesetta di campagna; immaginarsi l’entrata di tutta la Chiesa Russa nel CEC!

5) Dalla poesia di M.Tsvetaeva, poetessa russa.
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Il battesimo della conoscenza
di Vladimir Zelinskij

Il rapporto tra la sfera umana e il resto del creato è diventato «il problema» da quando l'uomo ha capito di poter essere il peggior nemico del proprio habitat. La strada che ha preso la nostra civiltà – ne sono già visibili i tratti futuri - va verso la ri-creazione o la sostituzione del vecchio ambiente umano. La vegetazione e l'alimentazione, il clima e il tempo, gli organi del corpo, la riproduzione della nostra specie, e perfino il modo di pensare, di percepire, di conoscere il mondo, vivono un processo di cambiamento. Questa mutazione sembra svolgersi secondo un progetto nascosto, la cui realizzazione è sempre più a portata di mano grazie al miglioramento delle tecnologie. Lo scopo di questo progetto, una sorta di proiezione del nostro "io" collettivo sulla realtà, è la graduale «soggettivizzazione» del mondo, della sua trasformazione nella provincia dell’uomo conquistatore. L'inizio di questo processo si trova nella nostra stessa sete di conoscenza, che analizza il cosmo come c'è dato e impone ad esso la sua razionalità che «può andare molto spesso contro la razionalità inerente alla natura» (Ioannis Ziziulas).

Alcuni, anzi molti di questi progetti portano grandi benefici all'umanità. «I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano» (Mt 11,3). Oggi tanti cuori battono grazie alle vittorie della scienza umana; la terra, i mari, i fiumi ci nutrono oggi meglio rispetto a secoli fa. Sulle tracce di questi benefici, però, si fa strada - ancora clandestina - l'ideologia della sostituzione, dell'imposizione (a volte violenta) della propria legge alla struttura nascosta del creato. Il computer, con cui la famiglia umana fa tutti i giorni un numero incalcolabile d'operazioni indispensabili, ha la tendenza ad imporsi come rivale del nostro cervello; i geni, che biologicamente costruiscono l'enigma della personalità, sono già un libro aperto che possiamo domani riscrivere nel modo scelto da noi, e così via. Questa razionalità crea un suo universo denso e chiuso, come coagulo di energia intenzionale. Il mondo appena trasformato è più accessibile, meno misterioso, più sottomesso al potere dell'uomo che vuole perpetuarsi facendo del creato la continuazione di se stesso.

La conoscenza non è mai neutra perché nulla di ciò che l’uomo sceglie non è predeterminato dal suo orientamento interiore. Quando l'uomo conosce se stesso, il suo desiderio di conoscenza è già scelto da lui. La risposta alla domanda «Perché conoscersi?», esiste ancor prima che la domanda si ponga. Ovvio: per essere padrone di se stesso, per aumentare le proprie capacità mentali, per una volontà di potere… Oppure per capire il pensiero di Dio sull’uomo, per sentire la voce del mistero dentro la propria anima. Ogni conoscenza può diventare un avvenimento spirituale capace di portarci all'origine della nostra umanità, alla scoperta di essere stato voluto, concepito, amato... «Sei Tu che hai creato le mie viscere/ e mi hai tessuto nel seno di mia madre./ Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;/ sono stupende le Tue opere». (Sal 138,14).

Così la conoscenza può diventare ascolto, dialogo con Dio. Il Suo nome non è evocato solo per contrastare il concetto della «sostituzione», con qualcosa di più religioso, ma per ricordare che esiste anche un altro tipo di conoscenza, quello «accordato» dall'ascolto e dallo stupore. Il sentire del creato è la radice della sapienza che può favorire la nascita ad un pensiero diverso. Il pensiero che nasce dallo stupore si muove verso la saggezza della memoria della creazione, del risveglio della nostra vera personalità, dell'incontro con il miracolo che il mondo è. L'uomo che si conosce, ricordandosi in Dio, si risveglia, comincia a vedere – con uno sguardo non sentimentale, ma piuttosto spirituale - la sua casa nell'universo come meraviglia. E cambia se stesso. Il suo «io» smette di fare il piccolo signore del mondo e il creato non è più il luogo del «non-io» da conquistare, da eliminare o da sostituire. Le opere di Dio non costituiscono più una provincia dell'ego umano. Invece dell'utopia dell'«egoismo universale» si fa strada il realismo biblico del riconoscimento. L'uomo si riconosce nel pensiero e nell'amore di Dio per riconoscere poi anche le Sue opere.

La riflessone che ci offre il cristianesimo orientale non è un'altra buona ideologia della salvaguardia del creato, ma un atteggiamento più sottile e certamente più difficile da attuare: il cambiamento del nostro sguardo sulle opere di Dio, la trasfigurazione del pensiero che scaturisce dal cuore umano. La conoscenza umana può nascere non solo dal «volere umano» di possedere l’altro (o le cose, o il creato), ma anche dalla scelta d’un amore da scoprire, d'un compito da svolgere. «I cieli narrano la gloria di Dio e l'opera delle Sue mani annunzia il firmamento, il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la notizia» (Sal 18,2).

Davvero si può trasformare quella «notizia» nella conoscenza del mondo? Crediamo di sì, se la conoscenza di tutto ciò che può essere visto, toccato, pensato proviene dalla comunione con Colui che non può essere né visto, né toccato e neanche pensato.

Come si può entrare in comunione con l'opera di Dio? Non esiste una risposta semplice. Ma ciò che non si può spiegare, si può a volte mostrare, invitando la nostra intelligenza a soffermarsi nel luogo privilegiato dell'incontro con Dio: la preghiera. La preghiera è una forma di conoscenza nella quale confessiamo che tutto ciò che è chiamato ad essere, viene dalle mani del Signore. «Tu, Signore, hai voluto trarre dal nulla/ all'esistenza tutte le cose,/ e con la Tua provvidenza costruisci il mondo./ Dinanzi a Te trepidano le potenze dei cieli,/ a Te inneggia il sole,/ Te glorifica la luna./ Le stelle sono tornate a Te, / luce Ti ascolta./ Al Tuo cospetto tremano gli abissi/ e per Te le sorgenti lavorano./ Hai steso il cielo come una tenda/ e reso stabile la terra sulle acque./ Tu infatti, Dio indescrivibile,/ senza principio e inesprimibile,/ sei venuto sulla terra,/ hai assunto la forma di un servo/ e sei diventato simile all'uomo./ Nella tua infinita misericordia, Signore,/ non hai sopportato di vedere il genere umano/ tormentato dal demonio,/ ma sei venuto e ci hai salvati».

Nella tradizione della Chiesa ortodossa questo inno è letto per la benedizione dell'acqua che precede il battesimo. Il rito della benedizione si svolge non soltanto nel tempio, ma anche all'aria aperta. L'acqua è da sempre simbolo della vita, una materia «animata» del mondo: «Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque», dice il secondo versetto della Bibbia. L'uomo prende l'acqua come materia, e la fa «simbolo», cioè legame fra il mondo visibile ed invisibile. Ormai lui è il sacerdote dell'acqua, dell'elemento cosmico, che ci porta agli elementi principali della rivelazione di Dio nel cosmo. La memoria sacra della creazione, del peccato originale, della redenzione, della morte e della risurrezione del Cristo sono sintetizzati nella benedizione dell'acqua che è "corpo materiale" del sacramento. Ogni sacramento è la manifestazione di una realtà dello «spirito di Dio». Perciò la preghiera che noi abbiamo citato fa parte della liturgia della festa d'Epifania nella Chiesa Ortodossa.

La manifestazione di Dio avviene costantemente in questo mondo. La prima risposta dell'uomo è lo stupore e poi la «simbolizzazione» del creato. Il compito dell'uomo è sacerdotale: sentire il Verbo che era «in principio» in ogni cosa ed esprimerlo nel messaggio, nell'immagine, nel sacramento. Tutto può essere sacramento, il luogo dell’epifania di Dio: acqua, sole, stelle, luna, sorgenti, abissi... Anche se non dobbiamo dimenticare che il mondo è colpito dal peccato, che getta la sua ombra non solo sull'uomo, ma tramite l'uomo anche su tutta la materia.

L’inno che abbiamo proposto ci ricorda la «storia» vissuta da Dio, la storia della salvezza, l'anamnesis in senso liturgico. Non si tratta solo del ricordo di un avvenimento lontano, ma la memoria di un fatto presente fin dal momento costitutivo della nostra esistenza. Nell’inno vengono descritti gli atteggiamenti del creato, faccia a faccia con il suo Creatore, il cui volto è invisibile. In questo modo di essere davanti al Creatore ogni creatura esprime il suo modo di essere per Lui e con Lui. Così entriamo in quella liturgia cosmica che anche la nostra conoscenza può celebrare. In altre parole, abbiamo la possibilità di vivere e confessare il dono che è costituito dal nostro essere davanti al Mistero che ci attira, ci chiama, ci trasfigura. Quando seguiamo le tracce delle creature, come «stelle tornate a Te», come «luce che Ti ascolta», percepiamo il modo più appropriato di conoscenza del mondo: la sapienza. La sapienza è una modalità di pensiero che «non nasconde i benefici» di Dio, ma piuttosto li scopre, li confessa. La sapienza è la conoscenza «battezzata», rivestita in Cristo, che apre i nostri occhi alla luce della creazione, e le orecchi alla prima benedizione, quando «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31).

La sapienza è la ricerca di questa «bontà», celata e rivelata; la ricerca di tutto ciò che Dio vide e benedisse. Essa illumina lo sguardo e ci insegna a vedere l'inizio della creazione nel dialogo con quel «Tu» che ci ama. La conoscenza battezzata ci porta al nostro «io» autentico, chiamato alla vita da Dio e con Dio. Dalla «polvere del suolo» da cui l'uomo era stato creato, l’ego umano si converte al segreto, all'inconcepibile personalità della creazione. Nella memoria che osiamo chiamare eucaristica - perché si tratta della comunione vera e propria - l'uomo entra in colloquio con l'amore che Dio ha manifestato ancora prima della creazione. Questa memoria è un modo di vedere chiaro e di rispondere al Creatore. Dalla trasparenza della fede, dallo stupore della gioia proviene un altro tipo di conoscenza che non cerca il potere, ma piuttosto il segreto di saper dire grazie.

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Mercoledì, 12 Aprile 2006 23:09

Il nome della gioia (Vladimir Zelinskij)

Il nome della gioia
di Vladimir Zelinskij



Il simbolo della fede dei primi cristiani era brevissimo, di una densità incomparabile. San Paolo lo rende così: “…se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rm.10, 9). Sembra che il nucleo di questo credo: il Signore è in Gesù abbia nascosto in sè un’energia nucleare che esplodeva nell’effusione dello Spirito Santo una generazione dopo l’altra, parlava nelle conversioni, si rivestiva dalle preghiere, si riempiva delle visioni, si versava col sangue dei testimoni, mandava i predicatori su tutta la terra, cantava nelle liturgie delle catacombe. Come se il potere del nome si sia incarnato nella straordinaria avventura umana che, nonostante le nostre crisi, continua anche oggi, facendo il suo lavoro visibile ed invisibile. Il nome del Signore proclamato una volta non è diventato un deposito chiuso fino all’Ultimo Guidizio, ma rimane una sorgente della rivelazione che nessun spettro dell’aldilà freddo può congelare.

ΚΥΡΙΟΣ ΙΗΣΟΥΣ, Signore Gesù: un Vangelo che con due parole annunzia l’umanità storica del Verbo che venne ad abitare in mezzo a noi, presta la lingua ad esprimere il mistero di Dio che nessuno ha visto e che è venuto sulla terra, e afferma anche che il tempo della loro unione può essere la tua esistenza stessa che santifichi il Verbo nel nome umano. Il Verbo che si è fatta carne si è sottomessa al ritmo della vita umana con la nascita, sofferenza, morte. Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre Dio con noi. La Sua età include l’abbisso del passato, ma anche l’immensità dell’avvenire che se perde all’orizonte, ma Egli anche è il “bambino avvolto nelle fasce” (Lc. 2,12) che la Sua Madre ha portato sulle bracce, un condannato che muore sulla croce. L’inizio e la fine, Betlemme e Golgotha sono iscritti in quel presente eterno che è messo nella nostra fede.

Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana ha tanto fatica di unire, ma il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in quell’avventura del credere? La risposta è già nell’invito di Gesù: “prendi parte nella gioia del tuo Signore” (cf. Mt. 25,21). Il ponte è proprio la gioia, anche se può portare le lacrime del vivere con la croce, quella che unisce il nome di un ebreo vissuto 2000 anni al Signore incomprensibile, il suo breve soggiorno fra gli uomini alla speranza di tutti popoli, il nostro presente che ci fuggi alla luce dell’eternità, l’intimità di un’anima alla comunità planetaria dei cristiani. Quel ponte di gioia si chiama Risurrezione.

E se entri davvero nel dolore e nella gioia ch’è nel nome del Morto e del Risorto, se scopri che il nome della gioia è amore,

«…sarai salvo».

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La vita, la sofferenza, la morte
nella visione ortodossa

di Vladimir Zelinskij




Condividere il patimento con Cristo

Cominciamo con la premessa: l’ortodossia è tutt’altro che una confessione eudemonica. Non crede che la felicità terrena, il successo di qualsiasi tipo, la vita tranquilla e non turbata risulti dalla fede cristiana e dall’amore per Cristo. Anzi, la sofferenza, inseparabile da questa vita, viene considerata come partecipazione alla croce. “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”, dice san Paolo (Col. 1, 24). Non direi, certo, che tutti gli ortodossi - compresi i ministri del culto - vivano così, ma il bene spirituale della sofferenza subita e sopportata da noi, sia fisicamente che moralmente, è come se fosse inscritta nel nucleo della fede ortodossa.

Basta ricordare gli innumerevoli eremiti, i padri del deserto, le Tebaide dell’Egitto e della Russia del Nord, ma anche l’ascetismo quotidiano dei semplici credenti che rispettano più o meno fedelmente i lunghi e assai pesanti digiuni, come, ad esempio, l’attuale Quaresima (uno di quattro digiuni dell’anno liturgico, più tutti i mercoledì ed i venerdì). Nella Chiesa ortodossa non c’è una differenza fra la spiritualità dei monaci e quella dei laici; tutti sono chiamati al sacrificio che si esprime nella rinuncia a certi desideri del corpo, ma anche dell’anima. (Il digiuno riguarda non solo il cibo senza proteine, cibo di cui non è raccomandabile mangiarne a sazietà, ma tutta la parte corporale, vita coniugale compresa, al pari di qualsiasi divertimento, le visite, gli spettacoli, i programmi televisivi - tranne le notizie -, ecc. Tutto questo per partecipare – anche in modo simbolico - al cammino di Cristo che va verso la Sua crocifissione e Risurrezione). Il digiuno è lo scopo in sé; ma anche il modo di alleggerire il corpo affinché lo spirito possa spiegare le ali. È chiaro che la mentalità formata dallo spirito ascetico accoglie anche la sofferenza. Si ricorda spesso le parole della Lettera agli Ebrei :

Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore, e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da Lui; perché‚ il Signore corregge colui che Egli ama e sferza chiunque riconoscere come figlio (12, 5).

La correzione del Signore, cioè la sofferenza che cade su di noi, è un segno di benedizione, essa compie il lavoro della purificazione che ci prepara all’incontro col Dio crocefisso e, forse, ci salva dalle prove nell’aldilà. Questo pensiero o consiglio si può trovare in tantissimi scritti dei padri della Chiesa, nei padri spirituali recenti e contemporanei, i quali rimangono sempre attuali. Anche nella percezione ortodossa dell’inesauribile immagine di Cristo troviamo i due tratti più sottolineati e più importanti per la devozione popolare: Cristo Risorto nella Sua gloria celeste e Cristo che si umilia, si spoglia della sua gloria, il quale “disprezzato dagli uomini... si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”, come dice Isaia (53). La fede ortodossa chiama a imitare Cristo non tanto dall’esterno quanto a vivere in Cristo nel proprio intimo, nel proprio cuore, fosse anche nella propria sofferenza. Condividere i patimenti con Cristo è un modo di vivere la comunione spirituale, quasi un sacramento dell’anima.

La fiducia nella Provvidenza

Un altro componente importante per la fede ortodossa - quando essa è veramente creduta e seguita - è la fiducia totale nell’azione di Dio, nella Sua Provvidenza. Non ci sono le circostanze sfavorevoli che non vanno d’accordo con i nostri piani, ma c’è sempre la mano del Signore che ci guida, che ci corregge, che ci porta alla salvezza, spesso attraverso dure prove. Anche quando si tratta di sofferenze insopportabili, secondo la fede nella stessa Provvidenza, a nessuno Dio manda la croce che non sarebbe capace di prendere sulle proprie spalle. Se il dolore fisico o morale è così forte, allora anche tu sei ancora più forte per affrontarlo. La cosa più importante è di non perdere mai la fiducia. In qualsiasi caso non sono io, ma è il Signore della vita e della morte, della gioia e della sofferenza, che decide e il cristiano è chiamato ad ubbidire.

Da questi orientamenti assai generali proviene anche la visione ortodossa della “spiritualità bioetica”. Il problema, come anche il termine stesso, è nuovo per l’ortodossia e praticamente importato dall’estero, cioè dalle confessioni occidentali, dalle cosiddette Chiese sorelle. Sappiamo che tra queste Chiese sorelle negli ultimi anni sono venuti fuori tanti problemi nuovi e si sono aggravati i vecchi, ma se esiste un unico spazio dove non c’è discussione, non c’è opposizione, almeno con la Chiesa cattolica, è per l’atteggiamento nei confronti della vita e della morte. La differenza è nei dettagli. Se, per esempio, la difesa della vita fin dal concepimento nella Chiesa cattolica cerca di appoggiarsi sul ragionamento scientifico, che, come si crede, debba essere normativa per tutti, per la sensibilità ortodossa è più importante sottolineare la partecipazione immediata di Dio nella creazione della vita nuova. L’amore manifestato nella creazione dell’essere umano prevale sulla logica del programma dello sviluppo dell’embrione. Dal punto di vista razionale s’impone sempre la domanda: perché dobbiamo dare la preferenza ad un mucchio di cellule davanti ad una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare malattie finora incurabili? L’ortodossia potrebbe rispondere così: colui che in qualsiasi caso è più forte - poiché ha avuto la sua vita, anche se non piena (e, come diceva uno dei personaggi di Dostoevsky, “ha già mangiato la mela”) - è chiamato a non impedire a un essere umano infinitamente più debole (che non ha vissuto, ch’è ancora innocente), di entrare nella vita,. La venerazione della vita nascente fa parte della fede ortodossa la quale crede che ognuno di noi sceglie da solo il peccato di Adamo, ma Dio ci crea senza peccato.

Prima di tutto, la vita, la morte, la sofferenza non sono "problemi" per i quali dobbiamo trovare una buona soluzione ortodossa accanto alle soluzioni cattoliche, protestanti o laiche, ma appartengono piuttosto al mistero del rapporto umano col Creatore. Il termine "bioetica", però, ci costringe già a una certa scelta, ad un primato semi-nascosto della razionalità morale dell'uomo e della sua certezza di rispondere al mistero della vita. Per questo motivo il modo di vedere rivolto al mistero della creazione, che è proprio dell'ortodossia, si perde davanti alla necessità di risolvere questi "problemi" che in verità non sono niente altro che un'espressione tecnica e razionale della volontà di dominare ciò che Dio aveva creato.

Questa lunga introduzione al nostro tema serve a preparare il terreno per capire o per sentire prima la posizione spirituale al cui interno si pongono e si risolvono le sfide dell’etica della vita nella prospettiva ortodossa. L'attività della mente umana è profondamente segnata dalle cose che sono, secondo San Giovanni, "nel cuore di ogni uomo". Ogni conoscenza ottenuta nel lavoro intellettuale riflette in sé il Verbo che "era al principio con Dio", ma nello stesso tempo l'uomo cerca di fare della sua conoscenza uno strumento di dominazione su tutto ciò che è stato creato e messo a sua disposizione.

Questo confronto nascosto nello spirito umano e nella sua conoscenza si manifesta così fortemente in nessun altro luogo come in quelle scienze che assumono l'uomo stesso e tutto ciò che lo riguarda come oggetto. Prima di fare un atto iniziale della conoscenza scientifica l'uomo, nel suo spirito, fa la scelta per lo scopo della sua ricerca. Ogni volta bisogna fare la scelta fra due chiamate: l’amore di Dio che ci interpella - con il silenzio nello spirito - e la tentazione di essere come Dio, di imitare il Suo potere sulla creazione - che si fa vivo con il rumore del mondo. Cosa può scegliere il pensiero dello studioso: l’ascolto della Parola o la rivalità con la Parola? La fede, infatti, è una risposta alla Parola immessa nella vita di una persona - dunque anche nella vita degli altri - ma la Parola, in questo caso, significa azione di Dio nella vita umana.

Per esempio, per quanto riguarda lo statuto dell’embrione, il pensiero laico insiste nell’affermare che il concepito non è ancora un io e non può essere trattato come tale; diventerebbe un io alla fine della gravidanza. “Il bambino concepito oggi non è lo stesso che sarebbe concepito fra un mese, - dice un genetista, - quindi nessuno di noi può pensare l'aborto come soppressione del proprio io e di un io in genere... La difficoltà ad accettare l’aborto è commisurata con la nostra difficoltà ad accettare il carattere casuale della nostra esistenza, l'assoluta contingenza del nostro io”.

Il cuore del problema è qui. Se noi siamo "gettati" in un pasticcio di contingenze dal nostro concepimento fino alla nostra morte, che, giustamente, dovrebbe essere chiamato "assurdo" - assurdo totale e senza speranza, che ci può portare solo alla morte - o se noi entriamo nel mistero altrettanto assoluto che si trova al fondo della nostra esistenza. Questo mistero è aperto, rivelato; esso ci apre alla presenza di Dio, non come una certa idea della Trascendenza, ma come Provvidenza, come Persona che rimane con noi ogni istante della nostra vita. Soprattutto nel momento della creazione della vita nuova e nella sofferenza. Non credo che la bioetica sia capace di oltrepassare questa scelta iniziale. Nessuna norma morale può costringerci a scegliere la vita in qualsiasi circostanza se questa vita non è riempita dalla stessa Presenza che noi portiamo in noi stessi, dalla stessa Presenza in cui crediamo e che ci si dà come vita eterna...

Dio e il concepimento: il primo incontro

Il fondamento della venerazione della vita nell'ortodossia è strettamente biblico. L'uomo scopre Dio nell'atto della sua propria creazione: prima della propria nascita l'uomo incontra lo sguardo dell'amore. La fede, tra l'altro, significa memoria accesa del mio inizio, quando io non avevo ancora alcuna memoria umana. Così dice il famoso Salmo 139(138) :

Sei Tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le Tue opere, Tu mi conosci fin nel profondo... non Ti erano nascoste le mia ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i Tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro.

La creazione dell'uomo è un atto d'amore che continua, che ha inizio ma non ha fine. Nella scoperta di questo amore l'uomo trova se stesso, il proprio "io" prima dell'"io", il nucleo della sua personalità come figlio che Dio ha creato per sé. Ma per chi è "figlio di Dio", il significato più profondo e originario dello statuto di figlio è di essere creato, amato, chiamato alla vita. La figliolanza divina, dunque, è la caratteristica più importante dell'essere umano, e la persona già esiste nell'amore, nel pensiero, nella memoria di Dio ancor prima della nascita della sua coscienza. Ma anche dopo il suo tramonto, anche nella sofferenza davanti a Dio. In più: quando la nostra personalità non ha trovato ancora il suo proprio "io" (o l'ha già perso), cioè finché questo "io" dell’essere nascente, appena creato, non ha costruito il suo modo di essere per sé - chiuso, in parte separato da Dio a causa del suo peccato - la presenza dell'amore si manifesta nel modo più visibile e più misterioso.

Dove si trova questo “io” autentico? Non crediamo che si tratti dell’“io” del cogito cartesiano, ma dell’“io” che proviene dal sum di Dio. Dio è il Creatore che s’intrattiene con le Sue creature. L’uomo esiste perché esiste Dio che ha messo la goccia della Sua presenza, della Sua luce a fondamento della nostra esistenza. “Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv. 1,9). Se crediamo davvero in queste parole, non possiamo prenderle come metafora. La luce che entra nella nostra esistenza produce il vero deposito della nostra personalità. Quell’”io” creato da Dio è qui. Con la creazione di ogni essere umano (ed in un altro senso: di tutto ciò che “respira”) l’“io” vero (che non conosce il suo destino, non conosce ancora niente, tranne l’amore di Dio che l’ha chiamato dal nulla e costruisce il suo futuro corpo), si sviluppa secondo il suo piano, secondo il “programma” messo in noi insieme con la luce, nel Suo atto creatore. Dopo la nascita, dopo l’infanzia, con la perdita della nostra innocenza quando entriamo nel mondo diviso fra l’“io” e gli altri oggetti, nel mondo in cui ogni “io” vuol diventare il padrone di tutto ciò che si presenta davanti ai propri occhi, l’“io” del Verbo, l’“io” iniziale della luce che ci illumina si ritira nell’ombra. Diciamo che esso si addormenta, ma che può essere risvegliato al momento della sofferenza, a volte estrema, nell’ora dell’agonia e della morte. In quel momento osiamo dire: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi" (1 Gv.4, 16) e se tale è la nostra fede, come possiamo non vedere in ogni atto di concepimento un sacramento della creazione del microcosmo che nasce dal nulla e dall'amore ed in ogni sofferenza la partecipazione alla croce? Dio e la morte: l'ultimo incontro Se la vita è sacra come opera prediletta da Dio fin dall'inizio, essa non perde alcuna parte del proprio valore neanche alla fine. Al contrario, il nostro "tempo finale" è il momento più significativo nel nostro cammino, il cui senso nascosto o rivelato è il nostro dialogo con Dio. La morte ci offre l'ultima possibilità di dire la nostra parola definitiva a Dio, ma anche Lui può cogliere il momento dell'estenuazione fisica per la sua ultima entrata nella nostra anima non ancora separata dal corpo. L'ortodossia ha un atteggiamento speciale verso la morte o piuttosto verso il modo in cui l'uomo va incontro alla propria fine. "I giorni sono fissati", ma la testimonianza più sicura ed autentica della fede è l'umiltà e la gratitudine con cui l'uomo accetta la propria morte, nel modo in cui non gli risulta difficile e pesante. Per l’anima ortodossa la morte troppo facile, troppo breve (o "dolce" come diciamo oggi), è sempre esposta al sospetto, perché questa "dolcezza" ruba all'uomo - ma anche a Dio - il mistero del loro ultimo incontro sulla terra. Il senso di questo mistero è l'annuncio dell'amore divino attraverso la penitenza umana. Questo annuncio, tranne per il suo contenuto sconosciuto, aperto solo all'anima morente, è portato dai due sacramenti che la Chiesa propone: l'estrema unzione e la comunione (ed in caso della necessità anche il battesimo). È con l'annuncio, che significa anche perdono, che l'uomo va all’incontro con Dio nella "vita del secolo futuro".

Ma la morte non è solo la fine della nostra vita. La morte fa anche parte della nostra esistenza quotidiana, anzitutto come avvenimento spirituale della p r e p a r a z i o n e e la memoria della morte non è separabile dalla vita della fede. Ogni liturgia ortodossa ripete almeno tre volte la supplica per una morte "senza vergogna" e "pacifica". "Senza vergogna" vuol dire che l'uomo non deve essere lasciato con il disonore della sua vita spiritualmente perduta. "Senza vergogna" e, se possibile, anche senza sofferenza in senso fisico, “però non, come voglio io, ma come vuoi Tu” (Mt. 26,39). Come ha detto Paul Claudel, esprimendo un pensiero veramente patristico: Il Cristo è venuto non per liberarci dalla sofferenza ma per riempirla di se stesso. Questo riempimento,per la fede, significa la Croce. L'uomo non deve scappare dalla sua croce che è un altro momento della comunione che porta alla salvezza. E come può egli rinunciare alla croce nel minuto più solenne, più "cristico" della sua vita? Quale posto possiamo trovare per l'eutanasia in questa visione della morte? Senza parlare della "morte dolce" del povero corpo umano che ha perso già tutto (la coscienza, la possibilità di muoversi, di parlare, di rispondere almeno con i propri occhi), l'ortodossia confessa la sua fede nell'anima che continua a vivere in modo molto fermo e semplice; come abbiamo detto, la Chiesa dà i sacramenti a questo corpo. Sappiamo poco della vita dell’anima morente, ma crediamo alla vita di questa anima. Il sacramento è un vincolo con le "cose... che non si vedono" (Ebr. 11,1). Perché queste cose nascono già qui, sulla nostra terra, nella nostra anima e fino all'ultimo momento non sappiamo dell’esito della propria vita. Sappiamo che il corpo è ancora animato, che lo spirito dell'uomo non ha ancora finito il suo cammino e, dunque, anch'esso ha il diritto, il dovere, la sete di unirsi con il suo Signore nel sacramento del Suo Corpo e del Suo Sangue. E il Signore può risvegliare quest'anima, portarla alla vita; fino all'ultimo instante il miracolo della guarigione è possibile.

Non si tratta di un'impostazione puramente teologica ma dell'esperienza reale, attestata da moltissimi testimonianze di santi e di gente comune. Persino uno scrittore così lontano dall'ortodossia come Lev Tolstoi, nella sue descrizioni veramente geniali della morte (la morte del principe Andrei in "Guerra e Pace", il racconto "La morte d'Ivan Il'ic" ed altri testi ancora) ha saputo vedere, indovinare nei minuti terminali della vita un'ultima illuminazione (che noi chiameremmo "la grazia") e che si mostra infinitamente più importante di tutta la vita precedente. L'eternità entra in questa fessura che la morte che si avvicina apre in quella corazza attraverso cui passa la nostra esistenza quotidiana mentre il nostro "io" autentico ed eterno (che non è quello cartesiano!) appare nudo davanti al suo Dio - finora, forse, ancora sconosciuto. Mi ricordo una testimonianza straordinaria di Padre Serghij Bulgakov (1871-1944, grande teologo, filosofo, pubblicista). Egli è riuscito a descrivere la propria agonia, dalla quale era sopravissuto. Nel suo saggio “La sofiologia della morte” P. Bulgakov parla con incredibile realismo spirituale della presenza di Cristo nella sua sofferenza. “Io stavo per morire e Cristo stava per morire in me. Con lo stesso grido al Padre: “Perché mi hai abbandonato?” Era un autentico momento della comunione con Cristo nella Sua morte sulla croce. Ma questa sofferenza con Cristo è anche il messaggio della salvezza”.

“Sulla mia fine decido “io!”

Togliersi la propria vita, con il suicidio - anche il suicidio come semplice fuga dalle sofferenze - è stato considerato dall'ortodossia come il fallimento umano più grave, il peccato senza possibilità di penitenza. Fino ai nostri giorni la Chiesa non poteva neanche fare il funerale religioso per colui che deliberatamente si era tolto la vita. La pratica ecclesiale dei nostri giorni è in realtà meno severa, ma la norma che riflette i principi ed è fissata negli antichi canoni rimane la più ferma ed inflessibile.
Finora abbiamo parlato solo della dimensione verticale, "mistica", ma esiste anche un'altra dimensione, quella dell'etica della persona che uccide e della società che se ne prende la responsabilità. Abbiamo già parlato della possibilità della globale strumentalizzazione dell'uso della morte. La morte imposta da un altra persona, per quanto sia dolce il modo in cui venga confezionato rimane sempre un'uccisione e l'uccisione significa l’uso di un potere che non può appartenere all'uomo. Un medico, un amico, un parente del malato - chiunque sia la persona chi prende la decisione finale - diventa per forza un ladro del potere divino. E questo ladro, in qualsiasi momento, può essere sostituito da un altro ladro, molto più pericoloso, come, ad esempio, un gruppo potente della politica, del mondo finanziario o come lo Stato con un suo progetto di dominazione totale, aperta o nascosta.

Ma, forse, lo stesso malato, il condannato a morte, ha il diritto di decidere la propria fine? La comunità umana, però, non deve mai essere sua complice. Per la fede ortodossa Dio agisce anche nella morte della persona umana, e noi non abbiamo nessun diritto per cacciarlo via, poiché "la potenza di Dio infatti si manifesta pienamente nella debolezza" ("Cor. 12, 9).

C'è un altro aspetto spirituale non meno importante. La malattia e la morte, nella visione cristiana, sono visti come castigo a causa del peccato. L'uomo deve combattere la malattia, ma egli non è capace e non sarà mai capace di abolire la morte con i suoi sforzi. La sua unica possibilità cristiana è la morte con Cristo e in Cristo e, a volte, come Cristo, nell'agonia e con terribili sofferenze. "Soffro molto, ma con amore", disse il morente Papa Giovanni XXIII. Una tale morte "con amore" ed in Cristo è vista dall'ortodossia come una morte santa. Il concepimento e la morte sono due figure dell'incontro con Dio che dona la vita terrena e quella nell'eternità. E se l'uomo non può evitare la prima, per lui non deve mancare neanche la seconda. Anche con tutte le sofferenze imposte alla fine. In più: lui è chiamato a questo ultimo incontro con la Croce di Cristo. La vita umana ha due confini: il sacramento della creazione ed il mistero della Croce. Lo spazio entro questi confini appartiene alla sua libertà, rispettata anche da Dio, ma in questi confini sacri comincia già la libertà di Dio e l'uomo deve rispettarla a sua volta.

L’ideologia della morte che sta diffondendo nella società odierna si può esprimere con uno slogan: “Sulla mia fine decido “io!”. No, l’uomo può decidere solo sul suo suicidio, la fine della vita appartiene a Colui che l’ha creata. “Decido io”; con il mio “io” piccolo ed orgoglioso è la traduzione nuova della vecchia promessa “sarete come Dio”. Unica “dolcezza” che ci è consentita nella morte è il rispetto della libertà di Dio e la totale fiducia nella Sua sapienza.

Non si tratta di condannare la scienza che cerca di proteggere l’uomo dalle sofferenze; anzi, nonostante tutte le tentazioni, a volte anche diaboliche, la conoscenza umana porta in sé una luce, costituisce un riflesso della saggezza iniziale del mondo, di quella saggezza posta in tutta la creazione fin dalla sua origine. Si tratta di quella concezione della saggezza che il pensiero ortodosso ha sempre valorizzato e caratterizzato il trascendente ed inaccessibile ed il mondo creato. Nella saggezza Dio si dona alla Sua creazione, la riempie con le Sue energie, la investe della Sua presenza. Nella saggezza Dio continua sempre il Suo atto creatore, continua la Sua fecondazione con i suoi "pensieri", continua la Sua opera di formazione delle creature con il Suo amore. "Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con l'intelligenza" (Pr. 3,19). E lo spirito umano vede, percepisce questa saggezza della creazione, che non è altro che la manifestazione dell'amore stesso di Dio nella bellezza della Sua opera. Quando la conoscenza umana si rivolge alla saggezza, l'ascolta, la riceve e l'apre in sé, tale conoscenza diventa santa. Ma quando la conoscenza contesta la saggezza di Dio, la caccia via o la deride, essa diventa una serva del diavolo.

In questo senso ogni scienza ha una vocazione inerente all’essere un insegnamento per l'uso della saggezza o per il dialogo umano con "l'amor che move il sole e l'altre stelle". La scienza può diventare una visione "dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose", come dice S. Isacco, il Siriano. Certo, più spesso essa preferisce violarli e utilizzarli come fa il quartier generale di un esercito che utilizza i segreti militari del nemico. Ma tutti questi segreti, che vengono anche strappati e decifrati, non sono nient'altro che piccolissimi pezzi dell’inesauribile mistero dell'amore - che è un'altro nome della saggezza. E se noi possiamo parlare di saggezza della bioetica, essa comincia dove inizia il cristianesimo: la Parola si è fatta carne. Con l'atto dell'Incarnazione non soltanto il grembo della Santa Madre di Dio - che era stata santificata - ma anche tutta la carne del mondo riceve la sua benedizione, la sua Parola nascosta in ogni creatura. La Parola è dappertutto, nei semi delle piante come nell'embrione umano. Questa Parola non tace, Ella cerca di parlare con noi, ci chiama, vuole entrare in dialogo con noi. "Il mistero dell'Incarnazione della Parola - dice S. Massimo, il Confessore - contiene in sé tutti i significati delle creature..."

L'Incarnazione però è il passo decisivo nella storia della salvezza, storia che non si ferma qui. Questa storia prosegue con la vita, sulla terra, della Parola incarnata, della sua trasfigurazione, della sua morte sulla Croce, della Sua Risurrezione...: "Chi conosce il mistero della Croce e della Tomba” - continua S. Massimo - conosce anche la "ragione delle cose" che nell'ambito della bioetica si apre nell'Incarnazione, cioè nell'adozione di tutto il genero umano nella persona di Cristo. E tutto ciò di cui abbiamo parlato prima: l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica, nella storia di Cristo acquista un senso nuovo...

Possiamo esprimere la risposta ortodossa ai problemi vita, della morte e della sofferenza con l'esortazione di S. Paolo: "in ogni cosa rendete grazia" o nella traduzione letterale: "Fate eucarestia in tutte le cose" (1Tes. 5,18). Questa impostazione eucaristica di fronte alla sfida della conoscenza che sta crescendo senza sosta si fa nell'unione della lode, dell'ammirazione, del mistero. "Fare eucarestia": nella vita di un essere umano significa non soltanto il rispetto della vita, ma la sua venerazione e la sua santificazione, come un miracolo intelligente, fatto da Dio, come l'espressione della Sua saggezza. Accettare la saggezza (che è un altro volto dell'amore) in qualsiasi persona umana (anche nell'andicappato, nel vecchio morente, senza parlare dell'embrione creato dalla saggezza stessa nel grembo della madre) come noi la accettiamo e la riceviamo nei doni consacrati è la sola risposta cristiana alle sfide della sofferenza e della morte, ma anche per la festa della vita.

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Viene celebrata nei Patriarcati di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia e nelle Chiese di: Cipro, Grecia, Polonia, Albania, Repubblica Ceca, Slovacchia, America, Monte Sinai, Finlandia, Giappone.

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“Voi chi dite che io sia?”.
Cristo nella confessione di Pietro
di Vladimir Zelinskij


Cominciamo con le parole che conosciamo tutti:

Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente che dice che sia il Figlio dell’uomo?” Risposero: Alcuni Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti” Disse loro. “Voi chi dite che Io sia?” Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del DioVivente”. E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre Mio che sta in cieli. E Io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevaranno su di essa” (Mt. 16,13-18).

Simone, figlio di Giona, in quel momento era ancora coetaneo di Gesù, un semplice pescatore, uomo di carne e di sangue. Lui che era stato già chiamato Pietro, nella stessa conversazione verrà trattato da Gesù in modo tutt’altro che gentile: “Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt.16, 23). Lo stesso Pietro fra poco per tre volte rinuncerà al Figlio del Dio Vivente e piangerà, come dice il Vangelo, “amaramente” (Mt. 26,75). Ma lo stesso Pietro tanti anni dopo, forse con i capelli bianchi, come vediamo nelle sue rappresentazioni, scriverà nella sua Prima lettera:

Piuttosto riconoscete nel vostro cuore che Cristo è il Signore. Siate sempre pronti a rispondere a quelli che vi chiedono spiegazioni della speranza che avete in voi, ma rispondete con gentilezza e rispetto, con una coscienza pulita” (1 Pt. 3, 15).

In ubbidienza a queste parole, rispondendo alle autorità romane, lo stesso Pietro sarà crocefisso, confessando così con tutto il suo cuore, ma anche con il suo corpo, che “Cristo è il Signore”. Sembra che si tratti di due uomini assai diversi: il primo è un uomo del popolo, forse illetterato, impulsivo, con il sangue caldo, portato dall’amore verso il suo maestro, ma anche, come tutti, vulnerabile per la paura, non libero dal dubbio; l’altro è un vecchio saggio, riscaldato dal calore celeste, con la mente chiara, con la volontà ferma, con l’anima trasparente e di più: un mistico, un teologo-visionario che ha potuto scrivere (nella sua seconda lettera) queste parole stupende che troviamo spesso nei testi ortodossi. Egli dice di Cristo:

“La sua potenza divina ci ha fato dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con questi ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina...” (2-4).

“Partecipi alla natura divina....” Nessun profeta dell’Antico Testamento ha osato usare parole simili. Come ci si può avvicinare a questa natura? Come, infatti, si possono dire cose del genere? Ricordiamo, Pietro era ancora un uomo della Legge mosaica per cui anche il nome di Dio non andava pronunciato invano. Chi gli ha dato il coraggio di parlare della partecipazione, della comunione all’inaccessibile natura divina? La risposta è breve: non la sua propria saggezza umana - che gli mancò tante volte nel primo periodo della sua vita - ma lo Spirito Santo, cioè Dio stesso. Il Padre celeste per primo gli ha rivelato la natura divina di Cristo e questo avvenimento fu come un’illuminazione, un dono incredibile, forse, all’inizio ancora troppo grande, per quel pescatore, Simone figlio di Giona. Ma questo dono fu soltanto un pegno della Rivelazione futura che si è completata con la discesa dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste. Lo Spirito ha rivelato agli apostoli, alla Chiesa di Cristo e a tutti i suoi discepoli il mistero della santissima Trinità nel seno del quale troviamo un uomo, Gesù di Nazaret.

Ormai la vera conoscenza di Cristo è possibile per noi solo nella luce, nella profondità della Rivelazione trinitaria, cioè nel mistero del Padre, assolutamente incomprensibile ed irragiungibile per il nostro pensiero, che agisce con le sue due mani: il Figlio e lo Spirito - come dice Sant’Ireneo di Lione. E questa azione del Padre ci rivela il Suo Figlio prediletto nel Volto di un predicatore itinerante che ha vissuto in tempi lontanissimi, in mezzo al popolo d’Israele, nel paese che oggi chiamiamo la Terra Santa poiché essa è stata santificata dalla Sua presenza, dalla Sua Parola, dalla Sua morte, dalla Sua Risurrezione. Quel predicatore, nato nella famiglia di un modesto falegname ebreo è nello stesso tempo la Seconda Persona della Santisima Trinità. Ormai non si può dividere il Gesù storico e il Cristo glorificato, il Figlio di Maria e il Figlio del Dio Vivente, perché la realtà di Gesù Cristo per noi proviene non soltanto dalla nostra stima, dalla nostra memoria, dalle nostre conoscenze storiche, ma dall’azione dello Spirito che ci tocca e vive in noi. “Nessuno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto azione dello Spirito Santo”; dice San Paolo (1 Cor 12,3). Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio” – dice la stessa cosa l’apostolo Giovanni (1 Gv 4, 15).

La “dimora di Dio” è lo spazio della Parola e dello Spirito, è la realtà della fede a cui partecipiamo anche noi. Questa partecipazione è la comunione alla natura Divina, perché la Parola e lo Spirito fanno parte di questa natura. La fede riempita dalla Parola, portata dallo Spirito Santo ci fa partecipi dell’irraggiungibile natura divina e l’Ortodossia prende sul serio questa confessione apostolica. La partecipazione inizia con il riconoscimento di Cristo nel cuore umano, come dice San Pietro, ma anche attraverso i sacramenti della Chiesa e, prima di tutto, nel mistero eucaristico.

Cristo nel cuore umano

Ortodossia vuol dire glorificazione e l'uomo deve avere l'organo adatto per portare la sua gloria a Dio. La Santa Scrittura stessa a partire dai Profeti, afferma tante volte che questo organo è il cuore umano. Qui si svolge la rivelazione o “l'avvenimento” di Dio che porta la testimonianza della sua presenza. Tanti, tanti grandi credenti, da San Pietro, a San Paolo, a San Giovanni, al seguito di Cristo stesso, parlavano del mistero che l'uomo porta in sé. L'ortodossia è non soltanto il credo, la fede nei dogma e nei concili, "le convinzioni religiose", ma anzitutto è la manifestazione di questo mistero nel nostro essere. Il cuore è come un altare, un luogo della presenza reale di Dio che noi dobbiamo scoprire e trasformarlo nello spazio della celebrazione. All’inizio sembra essere una cosa facile. In realtà questa scoperta è l’avventura umana più difficile e più coinvolgente di tutte le altre.

Il cuore, nel suo concetto biblico, è il centro spirituale ed il centro vitale dell'uomo, ed è più profondo dell'uomo stesso. L'intelletto, la mente non è l’ultimo fondamento della vita umana, ma secondo le stupende parole di san Pietro "l'uomo nascosto nel cuore" (1 Pt. 3,4). E l'uomo che noi siamo, l'uomo empirico, peccatore si trova nella fatica della ricerca permanente di questo uomo nascosto, che anche Dio cerca da parte Sua. Il santo russo del secolo diciannovesimo, Serafino di Sarov, disse: "Il Signore cerca il cuore, pieno di amore verso Dio e verso il prossimo, il cuore è il trono della Sua gloria. Figlio mio, dammi il tuo cuore e tutto il resto ti darò in più, perché nel cuore umano è tutto il Regno di Dio".

Quando diciamo con San Giovanni che Dio è amore, intendiamo dire che Dio è presente anche nel nostro amore umano, che la presenza di Dio è "scritta nel nostro cuore" e grazie al miracolo di questa presenza possiamo partecipare alla "natura divina". A dire la verità, l'uomo è incapace, non è mai pronto per questa intimità insopportabile. Il suo amore è come rubato da qualcun'altro che si oppone alla sua vita con Dio. Questa presenza del male, del peccato, del nemico nel suo cuore - nello stesso luogo della abitazione di Dio - è come una sfida permanente alla libertà dell'uomo che deve sempre – in ogni momento della sua vita - scegliere fra l'appello dell'amore e le tentazione di questo ladro che vive in noi e che "viene soltanto per rubare, uccidere o distruggere" (Gv. 10,10). E l'uomo, se fa la scelta giusta, cerca di liberarsi di questo nemico che lo deruba dell'amore con la preghiera zelante ed insistente, cioè con il pentimento. Perché anche Dio cerca il nostro cuore, anche Lui deve trovarvi il Suo luogo, il Suo "spazio vitale".

Il cuore puro è un cammino verso la conoscenza di Dio e di noi stessi. L'ortodossia nella sua visione dell'uomo ha fatto quasi la stessa scoperta della psicoanalisi all'inizio del secolo scorso: essa ha trovato - con il suo lavoro spirituale - il continente del subconscio, il continente sconfinato dove l'uomo non è il padrone unico. La conoscenza freudiana - geniale nel suo senso - dal punto di vista della vera vita spirituale è niente altro che la parodia della conoscenza cristiana, senza parlare che la prima è stata scoperta circa 18 secoli dopo la seconda.

Cristo e la conoscenza

Il cuore è il luogo dell'abitazione invisibile di Dio, ma anche l'organo della sua conoscenza. "Portare intelletto nel cuore", vuol dire inserire la preghiera della nostra mente nel centro della nostra esistenza, unire la preghiera con i palpiti del cuore e con il respiro stesso; era questa una pratica dei santi ortodossi. E da questa pratica nasce la Sapienza, la visione che dà origine anche alla conoscenza dogmatica. L'ortodossia non accetta i dogmi inventati dalla "ragione pura", ma soltanto quelli che sono nati dall'amore verso Dio. Le parole di Cristo: "dove sono le vostre ricchezze là c'è anche il vostro cuore" (Lc. 12, 34) possono gettare luce anche sulle ricchezze della sapienza ecclesiale.

La conoscenza di Cristo inizia con la preghiera. Anzi, la preghiera vera è la conoscenza autentica. Non cominciamo con l'affermazione: "Dio è...", ma con l'invocazione: "Sei Tu...". Ma sei qui Tu? La liturgia ci offre prima di tutto l'insegnamento primordiale. Nell'anafora della liturgia di San Giovanni Crisostomo preghiamo con il sacerdote:

“È degno e giusto celebrare Te, benedirTi, lodarTi, ringraziarTi in ogni luogo del Tuo dominio...” Prima di essere il modo della conoscenza, la liturgia definisce le sue condizioni umane, esistenziali. Prima di conoscere il suo Dio l'uomo deve trovare se stesso d a v a n t i a Dio. La liturgia guida l'uomo proprio in questo posto; il suo compito iniziale è quello di indicare all'uomo il cammino a se stesso. Questo cammino si compie fra due estremi: la benedizione e il pentimento. Così egli nella sua preghiera trova la sua "dignità" e la sua "giustizia": è degno e giusto non solo per Dio ma innanzitutto per me, per la mia "condizione umana" degno e giusto celebrare Te... "In ogni luogo del Tuo dominio", cioè ovunque dove sono io. L’“Io” umano non è capace di toccare Dio, ma Dio può toccare l’uomo, Dio gli dà la dignità, Dio entra nel suo cuore aperto ed indifeso. Così comincia la vera conoscenza: l’uomo apre il suo intimo alla presenza di Dio, alla comunione con Dio nella rivelazione del Suo Figlio.

Per esprimere le verità rivelate, portate da Cristo, la Chiesa ha "battezzato" l'apparato intellettuale, elaborato dalla filosofia greca. Ma solo la conoscenza - che è passata attraverso "la densità della nube" (Es.19, 9) dell’inconoscenza pia e timorosa -, ci porta e ci apre alla verità. Sotto la dottrina è sempre nascosta "la sapienza delll'inconoscenza", vissuta non soltanto nell'anima di pochi "mistici", ma nell'unità della Chiesa.

Per lasciare lo spazio a questo mistero l'ortodossia non cerca di mettere tutto in formule precise e rigide. Per esempio, essa ha salvaguardato la fede della Chiesa antica nella presenza reale del Cristo sotto le specie del pane e del vino dopo la consacrazione liturgica. Ma essa non ha mai avuto bisogno di spiegare "come", "in quale modo", e neanche "quando", "in quale momento preciso". Essa rimane con evangelico realismo - indifeso, direi - davanti all'Incomprensibile, soltanto con le semplici, incredibili parole: "Questo è il Mio Corpo", "Questo è il Mio Sangue". E Cristo è già con noi. Il mistero della fede per l'ortodossia non ha bisogno di essere spiegato e neanche annunciato, ma vissuto con tutto il nostro essere.

La conoscenza di Dio proviene dalla conoscenza dell'uomo da parte di Dio. Quando conosco il mistero della presenza di Dio, conosco la Sua conoscenza di me. La nostra conoscenza di Dio e la conoscenza che Dio ha di noi si fondano sulla rivelazione che Dio ha fatto. Rivelazione, di cui ci appropriamo attraverso la fede ed il reciproco amore di Dio e dell’uomo.

Questo vuol dire portare Cristo nel cuore e col cuore partecipare alla natura divina.

"Chi ama Dio col senso del cuore è conosciuto da Lui. Infatti, uno è tanto nell'amore di Dio, quanto di esso accoglie nel senso dell'anima" (Diadoco di Fotica).

"Egli è l'albergo in cui rimaniamo per la notte ed anche il termine finale del nostro viaggio" (Nicola Cabasilas). Siamo già entrati e siamo lontanissimi dallo scopo del nostro pellegrinaggio.

E Cristo rimane sempre al centro della nostra fede, come l'Alfa e l'Omega, come Giudice e Salvatore, come nostro Amico intimo e nostro Signore; Colui che è che era e che viene" (Ap. 1,18).

“Cristo eucaristico”

Il Cristo nel mistero eucaristico è un tema centrale per la Chiesa Ortodossa, anche se questo centro non è sempre visibile. Si può parlare dell'Eucarestia in modi diversi: dal punto di vista dogmatico, liturgico, spirituale, ecclesiologico, escatologico, ma lo scopo finale, il telos del discorso, come dicevano i greci, sarebbe sempre lo stesso: la comunione con Dio nella persona di Gesù Cristo, morto e risorto, presente e vivo nei Sui doni e nel Suo Regno. L’Eucaristia, nel senso profondo e teologico, è la partecipazione alla natura divina (cf. 2 Pt 1,4); nel senso concreto, è la partecipazione liturgica all'Ultima Cena del Signore; nel senso ecclesiale, è l'attualizzazione della Chiesa come Corpo di Cristo. La parola chiave, in ambedue i casi, è la partecipazione, l'accoglienza del Dio santo ed immortale da parte dell'uomo peccatore e mortale, l'unione, impossibile ma realizzata, fra di loro.

Corpo di Cristo. Senza l'Eucarestia non c'è una vita ecclesiale, come l'Eucarestia è impossibile fuori della Chiesa".

La fede cristiana e l'ecclesiologia ortodossa hanno lo stesso fondamento: il dogma della divinoumanità di Cristo e il mistero della SS. Trinità. "Il canone eucaristico - continua Kern, - è una interpretazione liturgica del dogma della SS. Trinità, della creazione, della redenzione e della santificazione". In altre parole, l'Eucaristia porta in sé e manifesta il nucleo della fede che confessa che l'opera di Cristo è la nuova creazione dell'uomo e del cosmo nello Spirito Santo grazie all'unità dell'umanità con Dio.

L'Eucarestia è un atto con cui Dio ci unisce nel Corpo del Cristo. (P. N. Afanasiev). I fedeli sono rifondati nel Corpo del Cristo, perché sono nutriti con lo stesso Corpo. Se la Chiesa avesse il cuore, quel cuore dovrebbe essere il sacramento dell'Eucarestia.

L'identità con Cristo è condizionata dall'esistenza delle moltitudini. Lo Spirito che costituisce l'identità del Cristo è lo Spirito della comunione e la sua opera consiste nel trasformare in comunione la realtà umana. Lo Spirito Santo è incompatibile con l'individuo separato dagli altri. La Trinità stessa è la comunione e nello stesso tempo la personalità. Il mistero della Chiesa è il mistero dell'"uno" che è al stesso tempo moltitudine. Per questo motivo la cristologia ortodossa non è concepibile senza l'ecclesiologia. Per l'esistenza del corpo una condizione necessaria è che la testa sia la testa.

La Chiesa è come icona del Regno che deve venire e la sua identità coincide con l'identità del Cristo e del Regno escatologico. La sua esistenza è iconica. Essa è l'immagine di ciò che la trascende.

Un altro momento importante: non c’è separazione fra il Cristo come Parola ed il Cristo eucaristico.

Entriamo nella comunione alla verità tramite la Parola. La verità fa parte del nostro essere, perché siamo stati illuminati dalla luce della Parola, ma la verità va rivelata e risvegliata nella nostra intelligenza. Così la Parola di Dio diventa la comunione della ragione, perché anche il Vangelo è il luogo della "presenza reale" dello Spirito. Il Vangelo come l'icona del Cristo risorto.

"È detto che noi beviamo il sangue del Cristo non soltanto quando lo riceviamo secondo il rito dei misteri, ma anche quando riceviamo le sue parole ove risiede la vita”.

“L'Eucarestia esige il m e m o r i a l e (o a n a m n e s i s) di tutta la storia della salvezza, compendiata nel suo centro, la croce vivificante, la croce pasquale. Questi avvenimenti, iscritti nella "memoria" di Dio, la Chiesa li rende presenti, attuali, efficaci. In tale "memoriale" vivente, il prete è l'immagine di Cristo, un "altro Cristo", dice san Giovanni Crisostomo. Egli è il testimone dell'incrollabile fedeltà di Cristo alla Sua Chiesa. Per mezzo di lui - che compendia la preghiera del popolo e rappresenta per il popolo il segno di Cristo, questo unico gran sacerdote - compie l'Eucarestia. E tutto si fa nello Spirito Santo. Nello Spirito Santo la Chiesa è il "mistero" del Risorto, il mondo in via di trasfigurazione.” (Olivier Clément, Alle fonti con i padri).

Nell’Eucarestia Cristo diventa la radice della deificazione della natura umana. L'uomo deve diventare Chiesa. La comunione con Cristo ci fa il Corpo del Cristo. Il corpo umano in questo caso è lo strumento, ma anche il tempio dello Spirito. La vita comune si fa cammino verso la deificazione dell'uomo, che può essere solo per azione del Santo Spirito. Quando il sacerdote dice: “I santi doni ai santi”, proclama la santità del Corpo di Cristo presente nella comunità dei credenti – che è anche il popolo dei peccatori. Questo Corpo è unito nell'unità escatologica della Parusia. Già la Didaché ci dà un'immagine del pane disperso e raccolto. La Chiesa come un atto della ri-unione dell'umanità che vive in Cristo.

Il Cristo è l’unico vero pane che unisce in sé la moltitudine delle persone. Colui che mangia la carne del Figlio di Dio diventa Sua "parte", ha qualche cosa in comune con il Figlio di Dio.

Cristo della preghiera

Proviamo ad esprimere la stessa cosa con un’altra immagine: la preghiera autentica è come un'operazione a cuore aperto. E nel nostro cuore lasciamo entrare Cristo.

"Egli infatti sapeva ciò che vi era nell'uomo" (Gv.2, 25). Ed in ogni uomo, nella sua profondità - tranne le debolezze, l'egoismo e il peccato -, c'è anche una grande nostalgia di Dio e dell'amore spontaneo di Dio. Da questa fonte umana, dove il peccato è mescolato con l'amore, nasce la preghiera. La preghiera con il suo primo compito di liberare l’amore e di vincere il peccato - che è nient’altro un ladro dell’amore. "Il ladro non entra che per rubare, sgozzare e distruggere. Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in sovrabbondanza" (Gv. 10,10).

Un altro motivo della difficoltà nel discorso sulla preghiera è il suo carattere tradizionale, che per tanti cristiani occidentali sembra troppo ritualistico. Le stesse preghiere nate centinaia e centinaia anni fa sotto altre stelle, sotto altre circostanze storiche ed umane servono ancora per i cristiani all’inizio del XXI secolo! Perché? Proviamo a rileggere queste preghiere che la Chiesa Ortodossa propone per le sue celebrazioni o per le regole. Dopo aver letto qualche volta con il cuore e l'attenzione scopriremo che la preghiera ortodossa non è un'espressione religiosa dell'esperienza di ogni giorno: essa proviene dal livello più profondo, anzi nascosto, dell'anima. Con le preghiere antiche noi cerchiamo di risvegliare noi stessi, di portarci a quella profondità che di solito resta coperta sotto la superficialità dell'esistenza quotidiana. Ma è una scoperta stupenda! Andiamo verso il nostro intimo, in questa parte del nostro cuore dove l’entrata è chiusa anche per le persone più amate, più vicine a noi e vi troviamo che nella stessa intimità siamo in comunione con gli altri, che la nostra profondità ha una dimensione comunionale. E questa dimensione si esprime con le parole comuni, le parole nate mille anni fa nel cuore dei santi, nell'anima dell'uomo che portava Cristo in sè, che le "nostre mani hanno toccato" (1 Gv. 1,1) e nostre parole hanno chiamato.

Dunque, la vera preghiera ortodossa non esprime le nostre aspirazioni, i desideri, le domande del nostro "io" nel suo stato empirico ma, diciamo, del nostro "io" eterno o, più precisamente, del nostro "io" santo che oggi ancora non ci appartiene, della nostra santità virtuale. Un "io" in Cristo cerca di liberarsi dall'"io" peccatore che ha un potere enorme (e il potere cresce inaspettabilmente appena cominciamo il nostro "combattimento invisibile"). La preghiera autentica ci porta alla nostra identità da realizzare, da sviluppare, da lasciare andare in libertà. La libertà che comincia, però, con la disciplina, con il senso della povertà.

Per sentire la necessità della preghiera dobbiamo sentirci veramente poveri, terribilmente poveri, "poveri in spirito", come dice Gesù stesso. Questo senso di povertà ci dà la preghiera del pentimento. Siamo chiamati a liberare il nostro spirito da tutto ciò che impedisce la venuta e il soggiorno dello Spirito Santo. A purificare la nostra mente per avere "il pensiero di Cristo". Il pentimento non è soltanto il rifiuto del peccato che abbiamo commesso ma qualche cosa di più: il sentimento di aver perso il contatto con Dio e che noi non possiamo vivere senza questo contatto. Ogni preghiera porta in sè questo appello dell'Apocalisse: Vieni Signore Gesù!

E Gesù ci ascolta e risponde alla nostra nostalgia e al nostro amore. Gesù viene quando ci trova poveri e puliti. Ma quando Lui viene per riempire la nostra povertà cambia anche la nostra preghiera: ormai questa diventa la preghiera delle lodi, della gioia, della Sua presenza. Per questo motivo le due preghiere principali più diffuse nella Chiesa Ortodossa sono la preghiera della povertà e della purificazione e la preghiera della ricchezza e della benedizione. Ed esse sono legate in modo strettissimo l'una con l'altra. Kyrie eleisson! e benedetto il Regno del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! - la preghiera che comincia ogni liturgia nella Chiesa Ortodossa.

Cristo “iconico”

Non sappiamo Cristo secondo la carne, ma Lo sappiamo secondo l’immagine santa (o l’icona). L’icona non è, certamente, un ritratto e neanche un semplice ricordo. L'icona è un linguaggio, una notizia portata con mezzi accessibili ai nostri occhi. L'icona è un altro cibo per il cuore, già nutrito con la parola, già acceso con la fede. L'icona è una visione spirituale creata dalla preghiera della Chiesa, l'icona è come un'intercessione fra il mondo celeste e il nostro, il simbolo e nello stesso tempo la realtà stessa di tutto ciò che possiamo rappresentare con la nostra arte umana. Ogni icona è un modo della beata presenza del Salvatore, della Sua Madre, dei santi. Ma questa presenza – ed è proprio questo il segreto dell'icona - è condivisa o, almeno, dovrebbe essere condivisa con noi. Noi non siamo gli spettatori passivi; la presenza dell'immagine è sempre aperta e questa appertura ci invita, ci spinge anche al superamento della chiusura del nostro cuore (cioè della sua situzione "abituale" in questo mondo decaduto). L'icona è l'immagine che rimane sempre nascosta senza la nostra partecipazione, senza il dono del cuore. In questo senso il segreto dell'icona assomiglia al mistero della Chiesa: anch’essa senza la fede ed il dono del cuore rimane una montagna di riti morti seppure belli e di superstizioni anche interessanti per la storia della cultura. La bellezza nell'ortodossia è come un sigillo della verità, la verità della fede, della vita spirituale, ma anche della preghiera. Una raccolta di scritti dei Padri orientali sull'arte della preghiera si chiama Filocalia.

Cristo “etico”

Chi è Cristo nel comportamento cristiano? Cerciamo di spiegare con le parole di San Paolo:

"Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio; ma spogliò di se stesso, assumendo la condizione di servo e divinendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil.2, 5-8).

"Spogliarsi di se stesso" vuol dire rinunciare alla propria superbia che si trova alla radice della nostra personalità, del nostro "io" che cerca sempre la migliore posizione nel mondo, in quelli che hanno "come dio il loro ventre" (Fil. 3,19): il denaro, il potere, la sessualità, il successo, ma anche la stima degli altri, la buona reputazione, ecc. L'uomo è chiamato a "spogliarsi" di tutto questo, "assumendo la condizione di servo" di Dio che porta al limite la nostra assimilazione al Cristo. La più alta dignità (che significa anche la sua santità) che l'uomo può avere è quella di umile servo di Dio, che segue le tracce del suo Signore. Per questo motivo la santità ortodossa è più spesso marcata dalla sfida interiore al mondo che per l'azione eroica dentro questo mondo, perché come si dice nella stessa Lettera di San Paolo ai Filippesi "la nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso... (3,21).

"Spogliarsi di se stesso" vuol dire sacrificare una parte di noi stessi, quella parte che forma, cimenta e salvaguarda la nostra identità in questo mondo decaduto e che ci "protegge" contro Dio e contro l’amore. "L'etica ortodossa", se possiamo parlarne, nella sua essenza, non è l'etica della legge ("tu devi comportarti così") ma piuttosto l'etica della vocazione (tu sei chiamato all'amore che comincia dalla tua vittoria sul peccato). O, meglio, secondo le parole di san Paolo: che "Cristi sia formato in voi!" (Gal. 4,19). Ma nell'intimo più profondo le tentazioni e le minaccie del diavolo, la disciplina ascetica, la serietà del combatimento invisibile sono legati con questa "formazione del Cristo" e con l'esperienza della Sua Croce attraverso la quale tutti dobbiamo passare per avere "la vita in abbondanza" (Gv.10,10), la vita eterna.

Il Cristo della santità umana

Come Cristo è vissuto nel cuore degli uomini? Il Suo vero volto si vede attraverso i volti dei santi. In ogni atto di canonizzazione e di glorificazione di un santo la Chiesa proclama ancora la sua fede, il suo credo, la sua visione dell'esistenza nel Cristo e riempita dalla luce di Cristo. E questa proclamazione corona molto spesso il processo della venerazione, detta "popolare", che si rivolge verso questi eletti. Il popolo dei fedeli trova non soltanto il suo ideale nella persona dei singoli santi, ma cerca e trova la presenza di Dio stesso, che si manifesta nella sua vita, nei suoi atti, nelle sue parole, nei suoi miracoli. Il santo è come il Cristo stesso, incarnato ancora una volta, un uomo diventato Dio secondo la grazia o "un beato". "Beati i poveri nello spirito, perché di loro è il Regno dei cieli, Beati quelli che piangono...", Beati i miti..." Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia...", "Beati i misericordiosi...", "Beati i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il Regno dei cieli". "Beato" vuol dire essere nella beatitudine o nella bellezza mistica del Regno di Dio che è "vicino", secondo la parola di Gesù. È in questa "vicinanza" o intima prossimità che arde l'anima umana ed in questo consiste tutto il segreto della santità ortodossa. "È giunto per voi il regno di Dio" (Mt. 12,28), ma "non tutti quelli che dicono "Signore, Signore! entreraranno nel regno di Dio" (Mt.7,21). I santi sapevano - certamente, non con la ragione, ma con la sapienza del cuore - che essi, per il fatto di dire "Signore, Signore!" tutta la vita, perfino ogni ora della vita, "non entreranno" così, "in folla", semplicemente perché sono stati dei "buoni credenti". Uno dei santi più recenti, il monaco Silvano del Monte Athos ha ricevuto una rivelazione da Cristo stesso: "Tieni la tua mente nell'inferno e non perdere la speranza!" E lo stesso santo ha detto della sua propria esperienza (senza parlare di se stesso): "Il Signore ha dato il Santo Spirito alla terra, e colui nel quale Egli vive, sente il paradiso in sé".

La terra e il Cielo, l'inferno e il paradiso sono le realtà quotidiane della vita di coloro che sono vicini al Regno - che lo portano in sé, ma vi entrano solo con la forza, con la violenza su se stessi. Perché "il regno di Dio soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt. 11,12). Si tratta della violenza della separazione, del distacco dal mondo caduto, e questa esperienza può essere paragonata alla morte vissuta. "Perché voi siete già come morti. La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio", dice San Paolo, e da questa frase, da questa visione della vita cristiana si apre la strada verso la mortificazione della carne per i monaci e per gli eremiti futuri. In verità la santità ortodossa è una vittoria della forza interiore, una vittoria che noi non vediamo. Insomma, questa santità è più nascosta che manifesta; la maggior parte dei santi erano sconosciuti (come era quasi sempre sconosciuta la loro vita in Cristo) o cercavano di essere sconosciuti e solo la loro morte, spesso, sollevava il velo dalla loro "beatitudine" o addirittura "dal Cristo", vissuto e manifestato segretamente nella loro vita. "E quando il Cristo, che è la vostra vita, sarà visibile a tutti, allora si vedrà anche la vostra gloria, insieme con la sua" (Col.3,3).

Perseguitati per Cristo. Assomiglianti a Cristo

Accanto a coloro che soffrono con Cristo, santi tipicamente russi, nella storia della santità si trova anche un'altra categoria di santi più tradizionali, una categoria che il nostro secolo ha reso forse più numerosa. Sono i martiri per la fede. Il numero dei martiri di questo secolo (o più precisamente di un quarto di secolo 1918-1943) è incredibilmente grande e noi non sapremo mai la cifra esatta. Immaginiamo una Chiesa con circa 78 mila parrocchie e cappelle, circa ottanta diocesi, con più di mille monasteri che è stata letteralmente schiacciata, cancellata; in tutto il territorio dell'Unione Sovietica sono rimaste alcune centinaia di chiese e non un solo monastero. Possiamo dire che praticamente tutta la Chiesa Russa nel secolo scorso - nella persona di tanti vescovi, preti e milioni di laici - é entrata nella beatitudine dei perseguitati per Cristo, di coloro che soffrono con Cristo.

Come sempre, la santità della Chiesa Russa è stata silenziosa, umile, quasi muta, poco conosciuta. Il martirio in Russia non cercava mai la fama mondana, la sua gloria, nemmeno nella Chiesa stessa. La vera luce dell'Ortodossia è sempre nascosta, poco manifesta, è il suo destino storico. La biografia ufficiale della Chiesa non sempre riflette questa luce, che pare rimanere segreto, sfuggire la storia. Un'antica leggenda russa dice che esiste una città dei santi, una misteriosa Kitez, che un giorno, tante centinaia di anni fa, s'immerse nel fondo di un lago all'avvicinarsi delle orde dei Mongoli. Dio cela i suoi eletti, li mette al riparo dal mondo e le forze del male non possono trovare la strada che conduce là. "Così alla fine del secolo, - si dice nella "Leggenda della città di Kitez “- Dio ha ricoperto con il palmo della sua mano quella città ed essa è diventata invisibile per le suppliche di quanti vi giungono degnamente e secondo giustizia e non subiscono afflizioni e pene da parte della bestia dell'anticristo". La santità russa è sempre un pellegrinaggio verso questa città invisibile. Ma dobbiamo capirlo nel senso metafisico o, piuttosto, escatologico: la città di Kitez esiste nel fondo delle nostre anime.

Tutto ciò che viene elargito per grazia, trova il suo inizio nell'amore. Gli eremiti abbandonano il mondo per amore della preghiera: perfino i tranquilli monasteri fra i boschi sembravano loro, talvolta, covi di seduzione e di rumori. Così rinasce in Russia, dopo l'Oriente cristiano, il tipo più diffuso della santità, in russo "prepodobnye", cioè gli "assomiglianti agli Angeli" o a “Cristo stesso".

"L'uomo recondito del cuore"

Non esiste fede senza questo amore; restano solo le "convinzioni religiose" in cui esprimiamo noi stessi, ma non ci apriamo a Dio. L'amore conosciuto dai santi era men che meno un amore speculativo, immaginario, poiché cominciava dalla purificazione da ogni sorta di "fantasie", dalla morte della "istintività", cioè dall'abbattimento di questa barriera di "passioni", della prigionia che ci separa da Dio. L'amore per Dio, per sua natura, è un sacramento e non un concetto e neppure semplicemento un sentimento: il sacramento del morire con Cristo e risorgere con Cristo. E allora tutto il mondo, fino a ieri "immerso nel male", si rivela nella luce della resurrezione. Questo significa che agli occhi del santo il mondo e se stesso si rivelano attraverso l'amore. La preghiera del cuore o la preghiera di Gesù "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatore", contiene in sé, secondo la tradizione orientale, tutto il Vangelo, tutto il messaggio cristiano, cioè la nostra fede nel Dio crocifisso per noi e per la nostra salvezza e il nostro pentimento davanti a Lui e in Lui. E questo messaggio, ripetuto mille volte, riunito con il ritmo del respiro e anche con i palpiti del cuore, compie un miracolo di transmutazione, crea il cuore nuovo, pieno della beata e incedibile presenza del Cristo. E questa presenza tramite il cuore riempie tutta la nostra esistenza, ci volge alla visione del mondo in Cristo, creato come paradiso. La santità della preghiera del cuore, che si acquista sempre con un lavoro enorme e ininterrotto, è la santità paradisiaca. Così nel monastero o nel "deserto" nasce invisibile a tutti "l'uomo recondito del cuore nella bellezza incorruttibile di uno spirito mansueto e silenzioso" (1Pt. 3, 4). Questo uomo è liberato dalla sua natura caduca a tal punto che Dio fa di lui la propria dimora (1Re. 8,30), il proprio tempio, il proprio vaso, gli fa gustare la beatitudine e la vicinanza della propria Presenza, gli permette di vedere se stesso e il mondo con i propri occhi. Nei "Racconti di un pellegrino russo", (il libro di un autore anonimo pubblicato nella seconda metà del secolo XIX, che è riuscito ad esprimere lo spirito e l'esperienza più profonda e, io direi, la "dolcezza" della santità russa), così vien descritto il risveglio di questo "uomo recondito": "Da quel momento cominciai a provare diverse sensazioni nuove nel cuore e nella mente. Talvolta mi ferveva nel cuore come un'ebbrezza, e tale era il senso di leggerezza, di libertà e di consolazione che mi sentivo completamente trasformato e cadevo in estasi. A volte sentivo un amore bruciante per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio. Talvolta mi sgorgavano lacrime di riconoscenza per il Signore che aveva avuto pietà di me, miserabile peccatore. A volte, nell'invocare il nome del Signore Gesù Cristo, ero preso soprattutto da una grande gioia, e compendevo che cosa significassero le sue parole: "il Regno di Dio è dentro di voi". Ma questo Regno, come l'amore stesso, è sempre un dono.

“Poveri in spirito". Pazzi per amore di Cristo

 "Beati i poveri in spirito" proclama Cristo e questa strana e misteriosa povertà alla quale noi siamo chiamati, resta come provocazione per la nostra ragione, per il nostro buonsenso, perché fa parte del buonsenso cercare le ricchezze, se non nell'accumulo dei beni materiali, nelle conoscenze, nel buon nome ed infine nello spirito. I folli per Cristo si distaccano da tutto questo, in forma visibile si staccano anzitutto dalla ragione, dalla vanità e dalla dignità umana, dalla considerazione dei contemporanei, talvolta anche dai buoni costumi.

Chi erano i "folli in Cristo"? Anzitutto i "folli" che facevano cose provocanti e incredibili, che correvano quasi nudi in città nell'inverno russo più duro, come san Basilio (la voce del popolo ha battezzato con il suo nome la chiesa più famosa della Russia).

I "folli in Cristo" suscitano sempre una curiosità particolare, soprattutto in Occidente. Ma in fondo facevano la stessa cosa dei solitari dei boschi o di altri luoghi. Se quelli rinunciavano al mondo e ai suoi piaceri, ma soppratutto alla tentazione monastica per la pietà famosa, questi rinunciavano alla ragione del mondo, alla sua struttura razionale, e la loro rinuncia della fama li conduceva fino all'amore per l'infamia. Se quelli si ritiravano nei loro deserti, questi vivevano nella città, in mezzo alla folla, sulla piazza della fiera, ma ciascuno - gli uni con il loro andarsene solitari e la preghiera ascetica, gli altri con la loro follia errabonda - rammentavano al mondo le parole di Cristo: "Il mio Regno non è di questo mondo" (Gv. 18, 36). Le rammentavano con le loro vesti strappate, con le verghe che schioccavano sulle loro spalle denudate, con i loro piedi scalzi che non temevano il ghiaccio e la neve, così come con le loro predizioni e le loro accuse.

Il Regno di Dio viene "con potenza" e si svela attraverso i santi, ma non viene "in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: eccolo qui, o eccolo là. Perché il Regno di Dio è dentro di voi" (Lc. 17, 20-21). La santità russa è una figura di questo Regno senza apparenza, esso vive dentro il paese peccatore, dentro la Russia storica e di essa non si può dire: eccola qui, eccola là. Incontro dei santi.

C'è una santità che vuole cambiare questo mondo, evangelizzarlo, aiutarlo, educarlo, umanizzarlo, illuminarlo con la luce di Cristo. Ma ce n'è un'altra e questo tipo di santità è più vicina al cristianesimo in Russia, la santità volta verso un Regno che viene, la santità che dai suoi boschi, dalla sua sofferenza, dal suo martirio, dalla sua follia, condanna l'autosufficienza e l'orgoglio di questo mondo. E tutte e due hanno i propri doni, i propri carismi, e tutte e due sono piacevoli agli occhi del Signore. Perché - e questo deve essere sempre ricordato - il dono della santità non è un dono individuale. La santità è sempre la realizzazione, l'attuazione dei doni della Chiesa, della sua spiritualità o, diciamo, dell"ecclesialità". Tutto ciò che noi sappiamo dei santi, conosciamo anche dalle preghiere di ogni giorno, dalla celebrazione ecclesiale. Ma tutto ciò che noi sentiamo, loro l'hanno effetuatto, tutto lì e nient’altro. E da questa santita vediamo, indoviniamo la "personalità" della Chiesa. Da una parte, i taumaturghi, i simili al Cristo, i santi eremiti, i santi monaci, i santi della "preghiera di Gesù", i santi pazzi, i santi iconografi, dall'altra, i maestri della Chiesa, i santi papi, fondatori degli ordini religiosi, i santi missionari, i combattenti per la dignità della Chiesa, i santi scrittori. Dall'altra parte la Chiesa che mette tutta la sua energia spirituale nella ricerca della solitudine interiore, del luogo del cuore, della rinuncia di tutte le richezze di questo mondo, la Chiesa che può fare i miracoli, leggere i cuori umani, che rifiuta anche la ragione umana per la "follia" del Cristo; questa è la santita della t r a s p a r e n z a umana, fino alla totale apertura umana per la presenza, la gloria e la volontà di Dio.

Un'altra Chiesa ha maggiormente sentito l'appello del Vangelo: andate e predicate il mio Regno, la Chiesa che durante tutta la sua esistenza storica ha lottato per trovare il posto per questo Regno sulla terra, nella Chiesa stessa, che ha mandato e continua a mandare gli innumerevoli missionari che perdono la propria vita, che evangelizza, predica, discute, insegna e prega; questa è la santità dell'a z i o n e umana e che esprime l'azione e la volontà di Dio. Non posso non credere che questi due tipi di santità non si incontrino un giorno, non soltanto alla tavola delle commisione teologiche, ma nella profondità della vita spirituale che esiste in ciascuna di esse. Tutte e due porteranno i loro doni diversi ma ugualmente necessari al Signore, per fare la Chiesa dei santi comuni e delle ricchezze condivise, la Chiesa della inesauribile pienezza di Gesù Cristo, nostro Signore.

Il Cristo della salvezza

Per finire, una breve meditazione pasquale.

Il simbolo della fede dei primi cristiani era brevissimo, di una densità incomparabile. San Paolo lo rende così: “…se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rm. 10, 9). ΚΥΡΙΟΣ ΙΗΣΟΥΣ, Signore Gesù: un Vangelo che con due parole annunzia l’umanità storica del Verbo che venne ad abitare in mezzo a noi, presta la lingua ad esprimere il mistero di Dio che nessuno ha visto e che è venuto sulla terra, e afferma anche che il tempo della loro unione può essere la nostra esistenza stessa che santifica il Verbo nel nome umano. Il Verbo che si è fatto carne si è sottomesso al ritmo della vita umana con la nascita, la sofferenza, la morte. Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre il Dio con noi. La Sua età include l’abisso del passato, ma anche l’immensità dell’avvenire che si perde nell’orizzonte. Ma Egli anche è il “bambino avvolto nelle fasce” (Lc. 2,12) che la Madre Sua ha portato sulle bracce, un condannato che muore sulla croce. L’inizio e la fine, Betlemme e Golgota sono iscritti in quel presente eterno che è immesso nella nostra fede.

Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana fa tanto fatica ad unire, ma che il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in quell’avventura del credere? La risposta è già nell’invito di Gesù: “prendi parte nella gioia del tuo Signore” (cf. Mt. 25,21). Il ponte è proprio la gioia, anche se può portare le lacrime del vivere con la croce, quella gioia che unisce il nome di un ebreo vissuto 2000 anni fa al Signore incomprensibile, il suo breve soggiorno fra gli uomini alla speranza di tutti popoli, il nostro presente che ci fugge alla luce dell’eternità, l’intimità di un’anima alla comunità planetaria dei cristiani. Quel ponte di gioia si chiama Risurrezione.

E se entri davvero nel dolore e nella gioia che è nel nome del Morto e del Risorto, se scopri che il nome della gioia è amore,

«… sarai salvo».

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L'ecumenismo e la Chiesa ortodossa
di Vladimir Zelinskij





Il tema “l’ecumenismo e l’ortodossia” è troppo vasto per spiegare tutto nel poco tempo che mi è stato assegnato, per il semplice motivo che la posizione delle Chiese ortodosse nei confronti delle altre Chiese varia da paese a paese, da teologo a teologo. Per alcuni di questi teologi l’ecumenismo è una vocazione in senso proprio, una necessità che proviene dalla fede, per gli altri, e sono non pochi, tutta l’avventura dell’unione tra le Chiese è nient’altro che un trucco dell’Anticristo che vuole confondere le religioni per costruire una sorte di Super-Chiesa sotto il suo potere. Non esiste, dunque, un consensus generale simile al clima favorevole dei contatti interconfessionali nel mondo protestante o alla posizione ufficiale del Magistero cattolico. Un’altra difficoltà, poi, è di carattere culturale: il rapporto con le altre comunità cristiane in Occidente è come se fosse inevitabilmente iscritto in un quadro più ampio del rapporto, fin troppo drammatico, fra Oriente e Occidente, anche al di fuori del contesto cristiano. Questo vuol dire, che il lavoro ecumenico non è ancora liberato, almeno per l’Oriente, dal suo peso storico e politico, pieno di conflitti e di rivalità. Quando non c’è nessuna rivalità, come, per esempio, nel caso delle trattative teologiche con le chiese orientali pre-calcedoniane, i contatti non suscitano particolare interesse o agitazione all’interno dell’Ortodossia e non vengono neanche chiamati ecumenismo, cioè con il nome che provoca reazioni diverse e abbastanza aspre nel popolo.

La quarta difficoltà proviene da un fatto che tutti conoscono e sempre dimenticano: le Chiese ortodosse, con poche eccezioni, stanno praticamente vivendo i primi 15 anni della loro libertà in senso pieno, come la viviamo in Occidente e non hanno avuto ancora il tempo per abituarsi a tutte le sue sfide. Non sanno bene che cos’è la libertà della società civile con il suo inevitabile pluralismo religioso, come affrontarlo e viverlo pacificamente accanto alle altre forme della vita religiosa, a volte anche abbastanza intolleranti ed aggressive (se pensiamo alle sette, soprattutto straniere). Esse si sono abituate sia ad una situazione molto favorevole nei confronti dell’ortodossia come religione privilegiata, in regime di persecuzione crudele, ma non verso lo Stato indifferente e laico, che con la sua neutralità favorisce, in un certo senso, la vocazione ecumenica. Ma anche dall’altra parte, quella occidentale, democratica e dialogica, manca spesso l’immaginazione che possa esistere una mentalità diversa da quella occidentale, democratica, dialogica, ecc.

La più importante è anche la quinta difficoltà (lasciamo perdere le altre a cui non ho potuto accennare) che tutti conoscono, ma di cui non sempre si tiene conto. Si tratta del problema teologico nel senso essenziale e precisamente che la Chiesa ortodossa (in questo contesto possiamo parlare di Chiesa nel suo insieme) è la Chiesa tradizionale. Il suo carattere tradizionale significa che non solo la sua fede, ma anche la sua ragione, il suo pensiero, il suo atteggiamento nei confronti dei fenomeni della vita cristiana, delle fedi delle altre Chiese si appoggiano sulla Tradizione di duemila anni, soprattutto sull’eredità dogmatica dei sette Concili ecumenici, sul lavoro teologico dei Padri della Chiesa, sulla vita spirituale vissuta nell’esperienza dei santi.

Prima di cominciare il dialogo ecumenico con l’ortodossia, bisogna cercare di capire che cos’è la Tradizione e il suo ruolo nella Chiesa. Non siamo come la prima generazione dei cristiani che non avevano neanche la Scrittura, ma solo la testimonianza della parola orale, la speranza, l’attesa del Ritorno del Signore e il martirio (ma tutti questi momenti rappresentavano già una forma della Tradizione). Gli ortodossi non scoprono la fede come se fra di essi in ogni momento della storia e della rivelazione di Dio in Cristo non ci fosse niente. Perché secondo la loro fede, anche dopo l’Incarnazione, il Padre Celeste continua ad agire con le sue due mani, il Figlio e lo Spirito (secondo l’espressione di Sant’Ireneo di Lione), e gli ortodossi si sentono eredi di questo enorme lavoro nella storia umana, ne portano e ne custodiscono la memoria. La Tradizione è una memoria sacra e incarnata nella vita ecclesiale del passato, dei nostri giorni, ma anche del futuro e il dovere della fedeltà a questa memoria è più importante del nostro adattamento alle regole e alla morale del mondo in cui viviamo. Devo dire che questa fedeltà, che può essere autentica, ma a volte anche fanatica, ha provocato non poche lacerazioni e scismi all’interno dello stesso mondo ortodosso (soprattutto russo).

La Tradizione spesso prende su di sé il ruolo che svolge il Magistero nella Chiesa cattolica, ma non coincide con esso. Se il Magistero interpreta la Rivelazione rispetto ad ogni epoca della storia, spiegandola e a volte adattandola alla comunità dei credenti, la Tradizione ortodossa è, in un certo senso, la Rivelazione stessa come frutto dell’azione permanente dello Spirito Santo che agisce nella Chiesa. E può essere cambiata solo con un’altra azione dello Spirito, invocato o “voluto” unicamente dal Concilio ecumenico (secondo la formula: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi...” – Atti, 15, 28), ma anche confermato dalla ricezione del “noi” nel senso più ampio, cioè dal Popolo di Dio. Si vede che questo concetto della Tradizione, formulato in modo diverso dai vari teologi, consegna all’ortodossia una grande stabilità e la protegga dalle molte crisi che subiscono le Chiese Occidentali, ma nello stesso tempo renda difficilissimo qualsiasi cambiamento all’interno, senza il quale non è possibile un vero riavvicinamento fra le Chiese. Non si può spiegare questa difficoltà solo con l’immobilismo orientale; il concetto nodale in questo caso è quello della comunione della Chiesa con il proprio passato, con il suo vissuto che è, infatti, un eterno presente nella sua realtà quotidiana.

La Tradizione è il canale e il «recipiente» della santità rivelata in passato e che continua nei riti e nei sacramenti, nei gradi di ministero e nei dogmi, nelle preghiere, nelle istituzioni e nelle immagini, nella vita dei santi e nell’architettura ecclesiale, ma anche nelle abitudini e nei ritmi dell’esistenza quotidiana. Non è la sovrana ragione umana e nemmeno il “senso religioso” il punto di partenza della riflessione teologica, ma l’ubbidienza a ciò che è stato tramandato dai nostri padri nella fede. E l’accoglienza spirituale di questa eredità è la base del dialogo con il mondo contemporaneo. Non è accettata la logica del: “adesso facciamo noi ciò che, a nostro avviso, è buono e giusto”, perché nella Chiesa niente è inventato da qualche illuminazione mistica o ragionevole, ma tutto è frutto dell’esperienza e della presenza operosa dello Spirito Santo che vive nel Corpo di Cristo nel suo insieme attraverso la storia. Questa esperienza non va persa o dimezzata in nome dell’aggiornamento alla modernità, come essa possa essere utile. Nell’ortodossia non c’è affatto il culto dell’“oggi” della storia e dell'uomo moderno come punto di partenza per la riflessione teologica, ma piuttosto la comunione con tutto ciò che Dio ha fatto nella storia con le mani, con le preghiere, con i doni dei Suoi servitori.

Ammettiamo che quest’argomento possa suonare anche bene alle orecchie dei non-ortodossi nel quadro della teologia dei manuali e delle conferenze, ma può offendere qualcuno quando si tratta di conclusioni pratiche e di comportamenti umani. L’incomprensione reciproca emerge prima di tutto nel rapporto con le Chiese e le comunità protestanti nella loro attuale evoluzione. Il sacerdozio femminile, la lingua inclusiva (Dio chiamato non solo come Egli, ma anche come Ella), i diritti delle minoranze sessuali e gli altri problemi di questo tipo per l’ortodossia non sono neanche discutibili. Perché? Prima di tutto, questo non ha nessun rapporto con la Tradizione, con ciò che la fede proclama, con il vissuto dei padri nella fede venerati nella Chiesa, con l’esperienza del credere e del servire Dio da ortodosso. Sono problemi importati dall’esterno. Naturalmente, delle minoranze sessuali esistono anche fra gli ortodossi, ma non c’è nessuna istanza autorevole, nessun patriarca, nessun sinodo, che avrebbe il pieno diritto di trovare un nome più attraente e diplomatico per ciò che dal I secolo fino al 2006 venne chiamato e percepito come peccato mortale. Esistono santi ed antichi canoni che puniscono severamente tali comportamenti e che nessuno può o vuole cambiare perché sono sempre in vigore.

“Ma non si può prendere tutto alla lettera - sento l’obiezione energica, - soprattutto questi precetti paolini, condizionati dalla sua epoca, che la moglie sia sottomessa al marito, che la donna in chiesa debba avere il capo coperto...” Ma chi ha detto che non si può? Il nostro buon senso? Non è una cosa sempre apprezzata nella nostra Chiesa. Anche oggi una signora che entra in un tempio ortodosso senza fazzoletto sulla testa o in pantaloni rischia di non avere una buona accoglienza. E, tra l’altro, non da parte del clero, ma da altre signore, che si sentono custodi dell’ordine del luogo e del suo spirito. Non credo che una donna vestita in modo maschile sia ammessa alla confessione e alla comunione in nessun monastero ortodosso, almeno in Russia, ma suppongo che sia lo stesso anche in Grecia, in Bulgaria, in Georgia, ecc.

Questo non è fondamentalismo, come noi lo intendiamo, ma semplicemente gelosia per la casa del Signore, come la gente percepisce, nel grande e nel piccolo. Questi dettagli che, certo, non hanno molta importanza per il nostro discorso possono servire da introduzione se non alla spiritualità, ma in senso ortodosso, della Chiesa. La Chiesa non è il Regno di Dio, ma, diciamo, la sua anticamera. La Chiesa è la terra santa su cui ci si deve togliere i sandali o il banchetto di nozze dove non si deve entrare senza abito nuziale. La sacralità della casa della preghiera e della comunione chiede non solo un semplice rispetto, ma quasi una venerazione (che naturalmente può essere anche eccessiva, a volte ridicola). La stessa cosa, però, vale anche per l’ecumenismo. Il senso della sacralità del tesoro intoccabile della fede, con tutte le sue espressioni, spesso prevale sul desiderio del dialogo e di conoscere gli altri. C’è un errore tipico dell’Occidente: apprezzare la bellezza della Chiesa Orientale e aspettare nello stesso tempo che la portatrice di questa bellezza pensi e si comporti in modo moderno, aggiornato, aperto al mondo, ecc. Ma tutta la ricchezza orientale fu creata in epoche lontanissime dalla nostra e porta anche una forte impronta della sua visione del mondo, dello spirito di tempi passati che preferivano isolare gli eretici con anatemi piuttosto che dialogare con loro. Ammirare le icone, i canti, la teologia palamita, la “preghiera di Gesù”, il commovente “pellegrino russo” e nello stesso tempo sinceramente stupirsi perché questi “pellegrini”, che oggi si possono incontrare dappertutto in Occidente, spesso non siano così ecumenici..., significa non capire che la cultura dell’Oriente cristiano è omogenea, non è cambiata nei secoli. E per ora non ha manifestato una grande voglia di cambiare.

Certo, non tutto nelle nostre tradizioni, che provengono dalla mentalità orientale e dalle abitudini popolari, appartiene alla Tradizione come forma della Rivelazione e questo lavoro di separazione della “carne e del sangue” dall’azione dello Spirito Santo nella storia richiederà un enorme sforzo teologico e che potrà essere difficilissimo per gli ortodossi. Ma dobbiamo e possiamo farlo solo noi mentre gli altri cristiani hanno un certo diritto ad aspettare che lo facciamo. Abbiamo bisogno anche noi della purificazione della memoria. Una cosa deve essere, però, chiara: qualsiasi purificazione, se sarà chiamata “riforma”, rinnovamento”, “aggiornamento” o con un altro simile nome, può essere fatta nella Chiesa ortodossa solo nello spirito del ritorno alla Chiesa apostolica, alla sua santità iniziale. Non si tratta della copiatura dell’antichità, ma dell’ascolto dello Spirito pentecostale.

Parecchie volte mi è capitato di sentire la domanda: perché “La dottrina sociale della Chiesa Ortodossa Russa” adottata nel 2000 afferma che la Chiesa Ortodossa sia unica Chiesa di Cristo? Come si possono affermare delle cose simili alle soglie del XXI secolo? La risposta corretta sarebbe troppo lunga e dettagliata, ma per far fronte alla domanda, rispondo così: il pensiero della Chiesa cattolica su se stessa 50 anni fa, prima del Vaticano II, era davvero diverso? Per dire la verità, anche oggi non è molto diverso, ma semplicemente si usa un linguaggio un po’ più sottile. Anche oggi nei mezzi di comunicazione, nei colloqui quotidiani sotto la parola “Chiesa” s’intende sempre quella cattolica. Più volte ho sentito l’espressione “la Chiesa in Russia” proprio con questo senso univoco. Si può constatare l’esistenza di due linguaggi, uno teologico, riflettuto, bilanciato, l’altro radicato nella mentalità diffusa e non solo popolare, quasi nel subconscio con le sue reazioni spontanee. Ma la Chiesa ortodossa per ora ha solo un linguaggio, meno moderno, forse, ma più sincero, in cui la teologia non si è staccata dalla spontaneità, dal senso di essere nella verità. Perciò non proclama che la Chiesa di Cristo sussiste (subsistit in) nella Chiesa ortodossa, come dice la Chiesa romana, ma continua ad usare il vecchio verbo “essere”, “è” al presente, che non lascia molto spazio ai compromessi e alle sottigliezze.

Perché l’unica, autentica Chiesa di Cristo è proprio la Chiesa Ortodossa? Il nostro modo di pensare, che ragiona nei termini della “legittima pluralità di tutte tradizioni più o meno uguali”, non può prendere sul serio questo verbo “essere” che si fa segno di uguaglianza fra l’ortodossia e la Chiesa di Dio sulla terra. Ma ascoltiamo la sua risposta, abbastanza conosciuta, ma messa sempre tra parentesi. La Chiesa Ortodossa, che nella sua dottrina non ha cambiato niente nella fede degli Apostoli e non ha aggiunto niente che non sarebbe implicitamente contenuto in questa fede, deve essere considerata come una, santa, cattolica e apostolica Chiesa, fondata da Cristo stesso. La sua cattolicità si esprime non nei termini dell’universalismo geografico, ma nei concetti dell’unità e della coerenza organica della fede.

All’interno di questa visione, condivisa praticamente da tutti teologi ortodossi (almeno a livello ufficiale) esistono due scelte, quella della cosiddetta acribia e quella dell’economia. La prima scelta, assai diffusa ai nostri giorni, soprattutto nell’ambiente monastico ortodosso, corrisponde a ciò che si chiama l’integrismo nel linguaggio cattolico postconciliare, ma io preferisco usare il concetto ecclesiale. L’acribia afferma, secondo lo spirito intransigente di san Cipriano di Cartagine (III sec.), che le tutte comunità che a causa dei loro errori si sono staccate dall'unica Chiesa di Cristo - che oggi è la Chiesa Ortodossa - hanno perso tutto e che fuori di essa non c'è proprio nulla: né sacramenti, né grazia, né salvezza. Dunque, unica forma del dialogo è il ritorno alla Chiesa o nella versione più mite, alla eredità intatta del primo millennio cristiano. In questa ottica l’ecumenismo stesso che presuppone che oltre la Chiesa di Cristo ci siano altre Chiese, è già tradimento, un'eresia ingannevole e pericolosa che raccoglie in sé tutte le eresie antiche (come, per esempio, l'arianesimo, l'incredulità nella vera e visibile Chiesa, una, santa…, ecc.). Che dialogo può esistere con la gente che ha scelto di andare alla propria rovina? Ma chi vuole essere salvato deve prima chiedere il battesimo nella Chiesa ortodossa e poi vivere secondo i suoi statuti.

Ma c’è un altra strada, quella dell’economia che parte anche dalla stessa premessa: che la pienezza della Chiesa di Cristo si possa trovare solo nella Chiesa Ortodossa (“la teoria dei rami” non è accettatta in nessun modo), ma che fuori dall’ortodossia esista anche una grande comunità di battezzati. La Chiesa agisce con la sua grazia anche fuori dei suoi confini visibili. L’unità della Chiesa che già esiste non può essere messa in discussione perché l’unità è il dono dato fin dall’inizio dal Signore. La Chiesa non si è mai divisa, nonostante le divisioni e le crisi che hanno attraversato tutta la sua storia, ma le parti della Chiesa che si sono staccate dal suo corpo visibile non hanno perso tutti i doni del Signore. Questo concetto intuito o elaborato dai più importanti pensatori ortodossi (devo dire che la piattaforma integrista non ha dato per ora nessun teologo di un certo rilievo), nonostante la premessa dogmatica che per ora è fuori discussione (cioè che l’unica Chiesa di Cristo è la Chiesa ortodossa, anche se ha tantissime debolezze storiche), apre una vasta strada a un vero e profondo discorso ecumenico. Possiamo e dobbiamo discutere sui doni di noi stessi e degli altri. Da qui rimane un passo dall’idea dello “scambio dei doni”, così cara a Giovanni Paolo II.

Ma di quali doni parliamo? Tutti i doni che abbiamo ricevuto appartengono a Cristo, erano nascosti e rivelati in Cristo, ma rivelati in modo diverso. Questa diversità nella rivelazione, anche se come concetto è abbastanza nuovo per l’ortodossia, in nessun modo contraddice i suoi orientamenti fondamentali. Anzi, esiste già una base teologica per tale discussione, più precisamente per una libertà più grande anche nel campo dogmatico. Ancora alla fine del XIX secolo un grande storico della Chiesa antica e teologo Vassily Bolotov ha proposto questa classifica per ogni affermazione ecclesiale. La prima è il dogma, cioè la verità della fede adottata dai Concili Ecumenici (come, per esempio, che Cristo è vero Dio e vero Uomo, che Maria è la Madre del Signore e Sempre Vergine, ecc.) che non può essere cambiata e su cui la Chiesa ortodossa non accetta discussioni. La seconda è la cosiddetta teologumenon, cioè la fede teologica valida per una Chiesa, ma non obbligatoria per un’altra (per esempio, il famoso filioque, pomo della discordia, Bolotov lo considerava come teologumenon - con cui noi ortodossi non siamo d’accordo -, ma che non dovrebbe essere la causa della divisione fra l’Oriente e l’Occidente). La terza è l’opinione teologica, che non ha validità dogmatica e che è ammissibile nel campo della libera ricerca individuale e delle tradizioni nazionali di ogni Chiesa.

E’ evidente che questa classifica offre un largo spazio per il dialogo fra le Chiese storiche. Tenendo conto delle difficoltà, di cui abbiamo parlato all’inizio, non si può chiedere tutto e subito. Non si può neanche aspettare che la Chiesa Ortodossa da domani inserisca nel suo linguaggio teologico questo famoso verbo: “subsistit in”. Per ora l’unica strada per l’ecumenismo, a mio avviso, è il dialogo sui doni, sulla scoperta dei doni di un’altra Chiesa nella nostra Chiesa. Ma il dono principale è proprio quello dell’unità. La Chiesa Ortodossa insiste - e questo è il punto cruciale - che l’unità non è il premio da conquistare con i nostri sforzi, che l’unità c’è e sempre c’era dal giorno della nascita della Chiesa, anche se non è sempre visibile. Sembra che questa affermazione sottintendente un’unità già realizzata sia un impasse per l’ecumenismo. Invece no, è solo un’esigenza più alta della fede che crede all’unità già realizzata e questa esigenza può servire come premessa per un dialogo più profondo e più onesto.

Faccio un esempio scomodo: l’enciclica "Dominus Iesus", firmata qualche anno fa dal Cardinal Ratzinger, che ha provocato tanto disagio nel campo ecumenico cattolico, un’amarezza fra i protestanti e quasi un’ironia fredda fra gli ortodossi, al di là di queste reazioni immediate, a lungo andare, potrebbe avere un ruolo positivo, proprio per la sua chiarezza ed onestà. Perché la mancanza della chiarezza, il linguaggio troppo accarezzante e troppo evasivo fanno solo danno al vero dialogo teologico. Con le buone maniere possiamo arrivare all’amicizia e alla simpatia reciproca che, certo, è una conquista importante, ma l’amicizia non deve essere una sosta permanente nel nostro cammino verso l’unità. Questo è il pericolo nascosto dell’ecumenismo dei nostri giorni: sostituire il mistero della riconciliazione e dell’unione in Cristo con il sorriso diplomatico, ma anche con una preghierina recitata per qualche attimo (per essere sinceri: gli ortodossi non hanno nessun gusto per le preghiere improvvisate, a volte sentimentali ed esaltate; spesso chi vi partecipa le sopporta).

Affermare esplicitamente che solo Gesù Cristo è unico e universale mediatore della salvezza fa bene per il nostro dialogo perché la Chiesa ortodossa non ha mai detto diversamente. Proclamare che la Chiesa cattolica è la vera Chiesa di Cristo può anche servire a modo suo alla ricerca della comunione perché la Chiesa ortodossa di se stessa non ha mai detto diversamente. Non mettiamo in ombra queste cose. Il dialogo sulla verità, se siamo supportati dall’animo fraterno, può solo favorire la vera riconciliazione. Ciò che sembra un maggior ostacolo all'unità può diventare un giorno il suo inizio o, diciamo, il lievito della comunione. Perché dobbiamo essere schiavi della vecchia logica "orizzontale": la verità può essere racchiusa solo in questa o quella formula, mentre la terza soluzione è esclusa? Al suo posto, invece, si può mettere la logica della profondità, dell'incontro nella verità di ciascuno, quando noi andiamo proprio al cuore della fede del nostro fratello cristiano, quando all'origine della sua fede troviamo il mistero più profondo anche della nostra fede. Se siamo sicuri che la verità sia nella nostra Chiesa, perché non cercare l'immagine, il riflesso, la vita della stessa verità in un'altra Chiesa? Perché non ci si può riconoscere l'un l'altro presso la stessa sorgente della fede cristiana, nel volto di Cristo, nella nostra vita in Cristo che è "lo stesso ieri, oggi e sempre" (Ebr. 13,8)? E ieri, oggi, sempre proprio Lui rimane l’unico principio fondamentale nella ricerca ortodossa dell’unità visibile.

Sì, ci troviamo davanti ad un paradosso che non può essere ridotto a una semplice pluralità di tradizioni diverse: siamo chiamati alla ricerca dell’unità che già esiste dall’inizio e che ogni giorno è proclamata nel nostro Credo. Non si può alleggerire questo paradosso, bisogna viverlo nella speranza, nella devozione, ma anche con dolore. Unità significa la piena comunione, l’Eucarestia comune, che secondo il concetto ortodosso, non può essere il mezzo della ricerca, ma il suo scopo. Mi rendo conto che questa posizione possa sembrare offensiva e poco ecumenica: un ospite, un fratello arriva alla soglia della nostra casa e trova la porta chiusa. Capisco l’amarezza di colui che rimane sempre fuori. Ma anche colui che resta dentro prova talvolta lo stesso disagio. L’ospitalità eucaristica senza il nostro impegno di vivere l’Eucarestia nello stesso modo porterebbe, infatti, all’inflazione di ciò che per gli ortodossi è più sacro e che si trova nel centro più profondo, più intimo della loro fede. Il prezzo della stessa unità in tal caso dovrebbe calare drasticamente. Se il Corpo e il Sangue di Cristo sono già condivisi da tutti, non importa se crediamo alla loro presenza reale o no, non importa con quale spirito li consumiamo, cosa facciamo con il pane e il vino consacrati dopo la comunione, ecc., che senso avrebbe il nostro cammino all’unità se l’unità è già raggiunta, scontata, e tutti noi ci sentissimo contenti nelle nostre case separate, ma senza porte?

Nella pedagogia dell'unità, che si costruisce nascostamente, deve arrivare, forse, anche il momento della sofferenza. La gioia deve andare insieme col dolore, che io chiamerei il farmaco ecumenico, con l'amarezza dell'ospitalità impossibile, perché prima che i figli possano unirsi, anche i padri devono essere riconciliati. Prima di arrivare alla tavola comune dobbiamo anche scoprire il Cristo comune, riconosciuto pienamente nella fede di un altro, ma anche vissuto con la stessa pienezza spirituale nell'Eucarestia di un altro. Per fare questo cammino più cristiano, più umano proviamo ad offrire il nostro dolore della separazione a Dio e il nostro cuore al prossimo “separato”.

In un certo senso il nostro dialogo deve ricominciare da capo. Ogni Chiesa proclama implicitamente o apertamente: siamo noi la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, fondata e voluta da Cristo. Per mille anni non c’era bisogna di provare questa fede: la fede provava se stessa con il fatto della sua semplice confessione. Ma quando cominciamo a confessare la propria fede con tutto il suo bagaglio dogmatico, istituzionale, sacramentale, spirituale non solo all’interno della nostra realtà ecclesiale, ma anche davanti agli altri, che credono e pensano in modo diverso, questi ultimi ci chiederanno delle prove. Non avremmo paura della polemica onesta e leale; nello spirito dell’amore fraterno anche la polemica che stima il credo degli altri non può ferire alcuno. Le prove che saremmo costretti a manifestare, ad affrontare con le nostre controparti, e che non possono essere sempre vecchie, ma vanno rinnovate, riapprofondite, ripensate, riformulate, anche se tratte dalla stessa Tradizione apostolica, porteranno alla riscoperta della nostra propria fede. E nella sorgente nella nostra fede in Cristo, nella Chiesa nostra, con la grazia dello Spirito Santo scopriremmo anche la fede d’un altro fratello e il suo essere la Chiesa con la quale siamo uniti.


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Russia:
il problema delle diocesi cattoliche
di
Vladimir Zelinskij



Per capire la sostanza del conflitto attuale cattolico-ortodosso in Russia prima di tutto non bisogna diminuirlo. Non si tratta del litigio di famiglia fra i grandi capi delle due Chiese ex-sorelle, ma di cose più serie, più profonde. Basta fare una passeggiata per le parrocchie ortodosse di Mosca o di Pietroburgo; fra le centinaia sarà difficile trovarne almeno una decina dove non siano esposti gli opuscoli polemici, non direi solo contro la nuova “Ostpolitik” del Vaticano, ma contro la fede cattolica come tale. Il filioque, le eresie, il papismo, ma soprattutto il papa in persona. “Questo vecchio che non è neanche più capace di piegarsi per baciare un pezzo di terra, pretende di prendere tutta la terra russa, oggetto della bramosia dei papi di Roma” – leggiamo sulla rivista ‘nazional-religiosa’ La casa russa. Nello stesso tempo la mano secolare dello Stato, che non legge le riviste, ma che ha bisogno di una nuova ideologia dell’unità nazionale, toglie dai passaporti dei sacerdoti cattolici i visti d’ingresso permanente in Russia.

L’ecumenismo, già nato molto debole, è come svenuto in Russia e la notizia dell’istituzione in loco di alcune diocesi cattoliche fu, in pratica, la constatazione del suo coma. E tutto questo si poteva prevedere facilmente. Perché ciò che sembrava essere una cosa normalissima per la Chiesa Cattolica, che da secoli coabita senza problemi con le altre religioni e confessioni e che si organizza in modo suo su tutto il pianeta, è diventata una ferita aperta nella sensibilità, nella fede e nell’ecclesiologia della Chiesa Ortodossa, che vive secondo il principio antico ed apostolico: la Chiesa locale sul territorio di un popolo. San Paolo scrisse “alla Chiesa di Dio che è in Corinto” (1 Cor.1,2), che vuol dire che tutta la pienezza dei doni di Dio sia data al suo popolo che abita in Corinto e si trova in comunione con le altre Chiese locali. La comunione fra di loro nelle preghiere e nei sacramenti, nella Tradizione e nei riti, nel passato apostolico vissuto insieme e nei santi comuni, fa il principio della cattolicità ecclesiale dal punto di vista ortodosso. Un vescovo che presiede la Chiesa locale non può interferire nella vita di un’altra Chiesa e l’Ortodossia rigetta il principio della “giurisdizione immediata” del primo vescovo (sia di Roma, sia di Costantinopoli sia di qualsiasi altro vescovo) sui fedeli delle altre diocesi. La Chiesa Cattolica si è comportata come se la Chiesa Ortodossa locale (nel nostro caso: Russa) non ci fosse.

Nella storia, tutti i dogmi che dividono oggi l’Oriente cristiano dall’Occidente furono adottati come “il polmone orientale” che non respira più. Anche oggi nessun dialogo sull’argomento delle diocesi, nessuna consultazione con la Chiesa locale prima della decisione presa: per la Chiesa Cattolica è chiaro che si tratta del suo problema interno.

Invece per la Chiesa Ortodossa non è così. Per questo motivo, quando sente dire da parte della sua “Grande Sorella” dell’Occidente: “siamo amiche, siamo sorelle (o quasi), cerchiamo la comunione e la testimonianza comune davanti al mondo secolarizzato”, la Chiesa Ortodossa dice: “no”. Sembra strano, ma questo “no” in fondo può essere più ecumenico dell’appello permanente e sorridente al dialogo. Perché il “no” ortodosso, da la sua testimonianza anche se negativa della visione della Chiesa unita, della riconoscenza della Chiesa Cattolica come la “Chiesa locale dell’Occidente”. Nel nostro caso, una Chiesa locale fa l’interferenza nel “territorio canonico” di un’altra Chiesa locale e questo atto suscita la sua protesta.

Si pone la domanda: perché la Chiesa Ortodossa non protesta in modo così forte contro la presenza sul suo territorio delle altre “chiesette” che vengono dall’estero o dall’interno? Protesta, ma in modo diverso, perché non vede alcun elemento di ecclesialità in questi movimenti. Loro sono fuori “dall’ovile”, fuori dalla Tradizione apostolica (dal punto di vista ortodosso) e con loro non c’è un vero e proprio dialogo ecclesiale, dunque non c’è neanche il senso doloroso di offesa e di rammarico. Paradossalmente, in fondo a questo senso di offesa nei confronti dei cattolici, si può trovare una traccia di memoria della Chiesa indivisa. Certo, nella reazione così violenta da parte della Chiesa Russa e del suo gregge, vi sono tanti fattori che hanno poco in comune con la vita ecclesiale. Lo shock della libertà che è caduta addosso senza nessuna preparazione, l’ondata della secolarizzazione che tanti credono sia stata inviata dall’Occidente, (ma, in realtà, l’Occidente ha semplicemente portato la merce che la Russia stessa ha ordinato), la ricerca dell’anima nazionale come difesa contro questa ondata di porcheria (che a l’Est dell’Europa è più caotica e disordinata che all’Ovest), ma soprattutto la sensibilità tipicamente russa a qualsiasi invasione dall’estero, sia puramente culturale che “spirituale”.

L’argomento comune: che voi, ortodossi, avete aperto o state per aprire tante vostre chiese qui, da noi, in Occidente, non funziona nel nostro caso. Il discorso logico e giuridico cede il terreno alla sensazione della minaccia e del complotto.

La soluzione? Prima di tutto ascoltare e capire. Capire il ragionamento di un altro e sentire il suo cuore. Ciò che l’Ortodossia non può capire è che il vescovo di Roma per i cattolici è molto di più di un vescovo. Infallibile o meno, il Papa viene percepito come un canale della Rivelazione che continua nella Chiesa, come un’icona vivente e parlante. Anche i cattolici devono sforzarsi di capire che la terra per i popoli ortodossi può divenire un’icona, silenziosa e piena di mistero, come tutte le altre icone, che raccolgono in sé la luce del regno e la memoria sacra. Non guardare gli abusi, le debolezze e gli errori di un altro (ce ne sono abbastanza da ambedue le parti), ma contemplare le icone di ciascuno, entrare nella sostanza della sua fede e cercare la corrispondenza del suo agire con questa sostanza.

Sul piano pratico: perché non cerchiamo di riunire i vescovi locali, ortodossi e cattolici, per risolvere alcuni problemi insieme? È chiaro che l’inizio non sarà facile. Perché non cercare di avviare alcune iniziative comuni in campo umanitario o altro? Senza dubbio, subito non andrà tutto liscio. Perché senza imporre il dialogo, non chiedere, cosa abbiamo in comune nella sostanza, nel mistero di Cristo incarnato e risorto? Forse non si potrà evitare la polemica, o peggio, il silenzio dell’indifferenza o della poca fiducia. Però bisogna insistere, non perdere la speranza. “Bussate e vi sarà aperto” (Mt.7, 7).



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