di Giovanni Nicolini
di Giovanni Genre
DOMANDA
Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.
Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.
Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.
Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti... Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.
La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.
Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.
Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.
Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan...) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).
Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.
Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.
(da MC, gennaio 2007)
Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.
di Giampiero Comolli
Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.
La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.
La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.
Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.
Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.
La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.
Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: forniscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.
Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.
In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.
Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.
Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.
Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione interna), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.
In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti
(da MC, gennaio 2007)
* Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.
Cinquant'anni fa, gran parte delle parole che un americano sentiva, venivano rivolte personalmente a lui come individuo o a qualcuno che gli stava vicino.
di Massimo Toschi
Il tempo della guerra, i cui segni crescono ben oltre il dato puramente militare, pone una domanda radicale anche alla cooperazione. Quando la guerra in Iraq degenera in guerra civile e lo scontro di civiltà rischia di diventare una delle chiavi per leggere il nostro tempo, quando la povertà come guerra arriva a cifre indicibili, non ci possiamo accontentare di una qualunque cooperazione.
Se la cifra di questo tempo è la guerra, sia quella guerreggiata, sia quella esibita delle culture, sia quella invisibile delle grandi povertà, la cifra della cooperazione deve essere la riconciliazione, il ricomporre le società, il dialogo tra i Paesi, la piena assunzione del dolore dell'altro e dei suoi diritti.
C'è un volto dell'umanitarismo compassionevole che è entrato dentro di noi. Alla fine, di fronte alla tragedia della guerra e al dramma della povertà del Sud del mondo, ogni progetto va bene, perché porta risorse e cambia qualcosa. Questa è una logica minimalista che non tiene conto della complessità e della gravità della partita nella quale tutti siamo coinvolti.
Forse varrebbe la pena prima o poi di fare una analisi della cooperazione italiana di questi anni, non solo quella promossa dal Ministero degli esteri, ma anche di quella decentrata, dei loro criteri di scelta, dei risultati ottenuti, dei partenariati promossi, dell'efficacia e dell'efficienza dei progetti, della loro capacità di impatto nelle situazioni. Penso che almeno dal Kossovo in qua il quadro ha molte luci ma anche molte ombre. Abbiamo inseguito gli eventi e non li abbiamo anticipati. È la cooperazione del giorno dopo che non ci convince, senza nulla togliere a quanto di bello abbiamo fatto di fronte a emergenze umanitarie, legate alla guerra o a grandi calamità naturali.
Si dovrebbe capire se è stata in grado di leggere i primi segni premonitori del tempo della guerra e di costruire programmi alternativi a esso o al contrario se si sono inseguiti gli eventi tappando buchi che sono rimasti sempre aperti. E si dovrebbe anche comprendere se la cooperazione legata alla lotta contro la povertà in tante parti del mondo si è accontentata di fare qualcosa oppure è stata capace di spezzare il grande nodo che unisce la povertà alla guerra. Fino a riconoscere nella povertà una dimensione costitutiva del tempo della guerra.
Se nel tempo della guerra, facciamo la scelta della cooperazione per la riconciliazione, affermiamo che la cooperazione è uno strumento per una grande politica, che pone al primo posto la pace, la giustizia, i diritti, la democrazia . La cooperazione non è il fine ma il mezzo, lo strumento non neutrale che è alternativo alla guerra per costruire un mondo più giusto. Cooperare significa lavorare insieme, Paesi, culture, continenti diversi, ad un comune disegno di pace e di riconciliazione. Lavoriamo insieme non per disegni di guerra ma per obiettivi di pace, senza i quali la giustizia è retorica, i diritti sono ideologia, la democrazia una vuota formula. La cooperazione ha inscritto nel suo Dna questa vocazione di pace. È vero che spesso questa parola è usata in modo neutro (si parla anche di cooperazione militare), ma in realtà la preposizione -con- indica un lavorare con gli altri che è l'alternativa alla cultura del nemico, contenendo in sé la cultura dell'incontro e non dello scontro. Sta qui il costruire ponti e l'abbattere muri, la formula lapiriana che meglio esprime la nuova cultura della cooperazione.
Essa contiene una pars destruens : la cooperazione come abbattimento dei muri culturali, politici, economici, spirituali che dividono i popoli. E una pars costruens : il costruire ponti di dialogo, di giustizia, di pace e di riconciliazione. Questo è l'esatto contrario del tempo della guerra, quando si innalzano i muri e si distruggono i ponti.
Quando si parla di tempo della guerra si vuole indicare un tempo medio, non breve, di cui la guerra e la sua cultura sono la dominante. Questo non significa mettere al centro le guerre di cui quella dell'Iraq è la principale, ma non unica. La guerra diventa la chiave che attraversa tutti i rapporti: economico, militare, culturale e spirituale. Se davvero vogliamo combattere la povertà dobbiamo combattere la guerra, che uccide non solo perché uccide, ma uccide perché drena imponenti risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate per fronteggiare pandemie, la siccità e la fame. Non si può lottare efficacemente contro la povertà senza avviare coraggiosi impegni nel campo del disarmo .
Ma in realtà il tempo della guerra impone il riarmo. La paura che ne è come l'anima spinge in questa direzione. Basterebbe confrontare la crescita esponenziale che è avvenuta in questi quattro anni dopo la distruzione delle due Torri. La paura ha reso possibile questa nuova corsa alle armi, che dopo la caduta del muro di Berlino si era progressivamente attenuata. Si combatte la guerra per sconfiggere la paura e in realtà la guerra stessa produce paura e a questa spirale corrisponde la spinta incessante agli armamenti come elemento insostituibile di sicurezza.
È singolare notare come la guerra inaugurata dal terrore sia una guerra tipicamente asimmetrica, nel senso che chi attacca usa mezzi radicalmente diversi da chi è attaccato, ma chi risponde usa i mezzi tipicamente tradizionali e usa questa guerra asimmetrica per giustificare enormi investimenti nei mezzi tradizionali della guerra.
E come se dovesse partecipare a una guerra tradizionale. Anzi più il nemico è oscuro e più cresce la domanda di una risposta tradizionale di mezzi militari.
In questo senso il terrorismo non solo uccide con il terrore ma anche imponendo questa corsa al riarmo, con il risultato di prosciugare molte risorse che potrebbero essere meglio utilizzate nella partita della vita e della giustizia per interi continenti.
Si potrebbe dire con una formula di Colin Powell: “ La guerra al terrore è legata a doppio filo a quella alla povertà” . Questo significa non solo che prosciugando i bacini della povertà si prosciuga il consenso al terrorismo, ma che nel medio periodo la lotta al terrorismo avviene combattendo la povertà e dunque investire contro il terrore significa non aumentare gli armamenti, ma ridurre gli armamenti per costruire progetti e programmi che diano futuro, sviluppo, diritti e democrazia a milioni di persone. Questa è la versione nel tempo della guerra della frase del profeta: trasformare le lance in falci e le spade in vomeri.
La cooperazione internazionale, che vuole essere strumento di riconciliazione, si deve misurare con questo orizzonte culturale e politico che attraversa popoli e conflitti. Non si può rimanere catturati solo in una logica economicistica o sviluppistica, che alla fine è la nuova faccia dell'umanitarismo compassionevole, che la destra proclama. Qualche aiuto purchessia. Oppure non si può rimanere prigionieri di una logica corporativa che ci spinge ad andare là dove ci sono fondi per progetti e dunque si inseguono i progetti per avere fondi. Basti ricordare in questi anni come le stesse guerre dal Kossovo all'Afghanistan sono diventate luogo di attività imponente di Ong, non per fare la pace ma per garantirsi il futuro. Solo pochissime hanno seguito una strada diversa e più feconda. Altre, addirittura, sono state parte della politica dei governi. Ricordiamo tutti a proposito dell'Afghanistan la polemica tra Emergency e il Ministero degli esteri.
La cooperazione per la riconciliazione è il nuovo orizzonte che fa della cooperazione il grande strumento per fare la pace e il fondamento di una nuova politica internazionale. È necessario attraverso la cooperazione costruire rapporti di partenariato non solo tra istituzioni locali ma anche tra governi nazionali in un disegno comune che valorizzi i popoli e le comunità come comuni protagonisti di un processo di pace, di stabilità, di sviluppo e di democrazia.
Nel tempo della guerra la cooperazione per la riconciliazione è l'unica che ha futuro , perché è capace di incidere e di operare a livello delle società, dei governi locali e nazionali, investendo sul futuro dei Paesi, perché ne accoglie la domanda più radicale che è quella di vivere nella pace.
Questa cooperazione mette al primo posto le persone e quelle più colpite, le vittime, piuttosto che un'astratta discussione sui modelli economici e sociali. La cooperazione per la riconciliazione nasce dalla domanda quotidiana di vita e di pace delle persone e delle comunità e a essa deve rispondere, altrimenti è un'operazione che parte e ritorna in occidente, da usare forse mediaticamente, ma incapace di costruire veri ponti di pace e di giustizia.
La cooperazione per la riconciliazione punta alla realizzazione del concreto riconoscimento dei diritti delle persone, in primo luogo delle vittime, come diritto alla vita, al futuro, che è fatta di scuola, di salute, come avvio e sostegno di un processo di autogoverno delle comunità locali e nazionali, che ha come suo punto di arrivo le forme della democrazia. Anche qui senza integralismi, rispettando le storie e le culture di popoli ed etnie. Basterebbe ricordare il peso che hanno nel continente africano i poteri tradizionali come punto di equilibrio per la prevenzione e il superamento dei conflitti tra le etnie e dentro le etnie.
Nell'orizzonte di una cooperazione per la riconciliazione è necessario scegliere i progetti di cooperazione, perché non è più possibile una qualsiasi cooperazione ma quella che prevenga i conflitti e li porti a un suo superamento. Il problema non è solo la grandezza di un progetto ma il suo valore aggiunto sul piano politico, il suo peso specifico in ordine all'ispirazione, la sua capacità di coinvolgere società e istituzioni.
Il perdono è una grande parola pubblica e politica. Essa si fonda sulla verità, cioè sul pieno riconoscimento delle responsabilità di ciascuno, di ciascun gruppo, di ciascun popolo verso il dolore dell'altro che è accanto a noi, dentro e fuori la comunità a cui apparteniamo. Questo riconoscimento di responsabilità, fatto in modo trasparente, crea le condizioni per il superamento dell'ingiustizia subita, permette di superare la cultura della paura e della diffidenza che anima sempre qualunque conflitto , crea le condizioni per una conversione profonda della politica, che ha generato e alimentato la violenza.
LA GUERRA VISIBILE E QUELLA INVISIBILE
A una lettura superficiale si potrebbe dire che tra la povertà di interi continenti e la guerra non c'è nessun rapporto diretto e significativo. Sembra che la guerra abbia precise responsabilità dirette da parte di governi e gruppi che la promuovono, mentre la povertà risale a cause di medio-lungo periodo non facilmente identificabili se non in termini generico ideologici. In realtà la situazione attuale è molto diversa. Ogni giorno muoiono ventimila persone a causa della povertà e delle malattie a essa connesse. Sette volte le vittime delle due torri. In un anno muoiono circa sei milioni di persone per lo stesso motivo. Nel 2004 sono stati investiti nel commercio delle armi 1.044 milioni di dollari, con un aumento del 20% in quattro anni. Nell'ultimo G8 dell'anno scorso è stato deciso di investire cinquanta miliardi in cinque anni per combattere le pandemie in Africa, dieci miliardi l'anno. Una cifra importante ma non commensurabile rispetto a quella impegnata nel commercio delle armi.
Queste cifre mostrano che tra la guerra visibile della guerra e la guerra invisibile della povertà certamente non c'è un rapporto automatico, ma un qualche rapporto c'è, nel momento in cui si investono enormi capitali nel mercato delle armi e si danno cifre poco più che simboliche per combattere la povertà. O per meglio dire si promettono cifre poco più che simboliche. Come sempre è accaduto, solamente una parte dei fondi promessi arriva concretamente a destinazione. Se poi si guarda agli impegni dei Paesi rispetto allo 0,70% del Pil stabilito dall'Onu e da tutti accettato, si rimane sgomenti con il nostro Paese all'ultimo posto della graduatoria con lo 0,11- 0,12%. Non si tratta solamente di violare gli standard Onu o di non rispettare delle statistiche: si tratta di percorrere la linea di una politica che uccide perché lascia andare alla deriva intere generazioni di Paesi e di continenti.
VITTIME E CARNEFICIL'esempio del Sudafrica mostra che l'esperienza della Commissione verità e riconciliazione ha innestato un percorso virtuoso, che ha evitato al Paese la guerra civile e il collasso sociale e ha promosso un nuovo tipo di convivenza. Il Sudafrica è diventato punto di riferimento dei Paesi attraversati da conflitti in tutta l'Africa. Un gruppo di intellettuali israeliani ha posto la medesima questione al governo israeliano, chiedendo un pieno e unilaterale riconoscimento delle sue responsabilità nel dolore e nella sofferenza del popolo palestinese. Questo aprirebbe spazi inediti e originali al processo di pace, perché sarebbe un contributo irrinunciabile al superamento della cultura della negazione dell'altro e della sua dignità.Il perdono rinvia sempre alle vittime, che hanno bisogno di perdonare, e ai carnefici, che hanno bisogno di essere perdonati. Questo tipo di giustizia riconciliativa cambia i rapporti all'interno dei popoli e tra i popoli e avvia processi di ricomposizione sociale e culturale del tutto imprevedibili. Quando la politica è violenta non basta il cambiamento della politica, è necessaria la conversione della politica. Cambiare politica non significa cambiare solamente i contenuti di superficie, ma lo stesso modo di pensare e di agire politicamente. La conversione della politica tocca il profondo delle scelte, gli abiti culturali attraverso cui leggere la realtà.Quando si dice che l'Europa investe di più su una mucca francese che su un bambino del Burkina Faso, si denuncia una grave stortura e si domanda un cambiamento, affermando innanzi tutto la violenza di una politica che uccide. Ma mettere al centro il bambino del Burkina significa rovesciare la politica, investire su uno sviluppo che abbia la misura del futuro di quel bambino, su una sanità che ne garantisca la vita contro tutte le pandemie, su istituzioni che producano una politica che metta al primo posto i suoi diritti al cibo, alla scuola, alla salute e alla pace, altrimenti non c'è futuro per lui. Questa è la conversione della politica e la politica come conversione da un passato che ha privilegiato gli interessi economici europei rispetto alla vita delle persone africane, in primo luogo i bambini. Questo crea le premesse per la riconciliazione tra gli Stati, tra i popoli e tra i continenti. È la vera alternativa alla guerra e al suo tempo. È possibile su queste basi costruire un nuovo partenariato euroafricano. La cooperazione è lo strumento di questa grande politica, che accetta la sfida del perdono per costruire riconciliazione. (da Missione oggi)
di Rosalinda Gaudiano
di André Chouraqui
di Rabbino David Sciunnach
DOMANDA
Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».
L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.
I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.
Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.
A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintoisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.
Il popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»... di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.
Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.
È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.
Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.
Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!
Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!
(da MC, gennaio 2007)
* Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.
di Don Paolo Farinella *
Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi arnesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani... Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentiero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.
In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a esserne il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.
Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.
Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.
Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.
In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.
Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.
Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d'Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.
La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.
(da MC, gennaio 2007)
* Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ha esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio-politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.
di Raimon Panikkar
di Massimiliano Fortuna
Non ci si stancherà mai di ripetere che Capitini merita d’essere più letto, più diffuso. Contribuirvi costituisce un piccolo dovere filosofico, un comandamento laico che sono invitati a seguire quanti non vogliano arrestarsi alle contrapposte retoriche militariste e pacifiste, ma prender sul serio l’idea-azione di pace in tutte le sue scabrose complessità. Merito dunque a chi ci consegna oggi un nuovo strumento. Esce infatti per le edizioni Ets un’antologia di suoi scritti sulla nonviolenza, curata da Mario Martini, che nel corso di circa un decennio ha dedicato a Capitini numerosi interventi e dato alla luce non poche pagine divenute un riferimento critico imprescindibile.
Un’antologia che si va ad aggiungere a Il messaggio di Aldo Capitini (a cura di Giovanni Cacioppo, Lacaita, 1977), un tomo di grossa mole che tentava di accostare tutte le traiettorie seguite dal suo pensiero, ed a Opposizione e liberazione (a cura di Piergiorgio Giacché, Linea d’ombra, 1991, poi L’ancora del mediterraneo, 2003), imperniata sui risvolti autobiografici. Questo delle edizioni Ets è un volume agile, indubbiamente adatto a chi di Capitini intenda farsi una prima idea, che si propone di presentare le principali nervature della riflessione capitiniana sulla nonviolenza, la quale rimanda del resto all’interezza della sua biografia intellettuale, anzi proprio non può esserne scissa senza gravi fraintendimenti. E Martini cerca nell’introduzione (che appropriatamente si apre designando Capitini come il «massimo teorizzatore ed attuatore della nonviolenza in Italia, ma forse anche in ambito europeo») di richiamare sinteticamente tutti i cardini sui quali questa riflessione poggia, schizzando un panorama in cui le «premesse teoriche», già ben riconoscibili nel primo scritto del 1937, Elementi di un’esperienza religiosa, si saldano all’«impegno nonviolento», il cui vertice simbolico può ritenersi la Marcia della pace Perugia-Assisi, inauguratasi il 24 settembre 1961. Sarebbe però stato forse più opportuno fornire un apparato bibliografico delle opere (nelle indicazioni testuali all’inizio delle suddivisioni tematiche viene addirittura omesso il nome dell’editore), a maggior ragione considerando che, come anche il retro di copertina ci ricorda, i libri di Capitini sono oggi quasi introvabili. Ed, a questo proposito, verrebbe da chiedersi quanto occorrerà ancora aspettare prima di vedere una grossa casa editrice farsi carico della pubblicazione di almeno uno fra i suoi testi maggiori.
Che aggiungere su Capitini? Lo si legga, nient’altro. Si colga, se possibile, l’occasione di transitare dai brani selezionati in questa antologia all’interezza dei suoi libri (in una buona biblioteca qualcosa si trova, ma si contatti anche il Movimento Nonviolento di Verona), senza oltrepassarne con impazienza le insistite meditazioni filosofiche e religiose – quasi si riducessero ad un’appendice di scarsa rilevanza pratica, una vernice intellettuale di poca sostanza –, e il premio sarà l’accesso ad un universo denso di pensiero e di salutari “scosse” etico-politiche, l’incontro con parole capaci di ritagliarsi una luce purissima in mezzo agli automatismi bellici ed all’eccesso di pacifismo da centro sociale che attraversano i nostri giorni. Fra le tante queste: «La nonviolenza non è l’antitesi letterale e simmetrica della guerra: qui tutto infranto, lì tutto intatto. La nonviolenza è guerra anch’essa, o, per dir meglio, lotta, una lotta continua contro le situazioni circostanti, le leggi esistenti, le abitudini altrui e proprie, contro il proprio animo e il subcosciente, contro i propri sogni, che sono pieni, insieme, di paura e di violenza disperata. La nonviolenza significa esser preparati a vedere il caos intorno, il disordine sociale, la prepotenza dei malvagi, significa prospettarsi una situazione tormentosa. La nonviolenza fa bene a non promettere nulla del mondo, tranne la croce».
• Aldo Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di Mario Martini, Ets, Pisa 2004, pp. 195, € 16 (www.edizioniets.com).