Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti


Trentottesima parte

La precarietà

Lo spirito della Società, come scaturisce dal Carisma, è uno spirito di modestia; questo, secondo il P. Fondatore, è un carattere distintivo del Maristi dagli altri religiosi:

“Cerchiamo di adottare un genere di vita modesto che dia il meno possibile ombra a quelli tra i quali viviamo e che sia conforme e alla nostra vocazione e allo spirito della S. Vergine di cui noi portiamo il nome” (Parole di un Fondatore, Doc. 146, n. 4).

Questa caratteristica permette alla Società di fare ciò che gli altri istituti non possono (Ibid., Doc. 1, n. 2, p. 35; Doc. 19, n. 1), per la completa disponibilità a quei servizi della Chiesa che danno meno soddisfazione e minore gloria. Del resto, la Società è nata nell’umiltà e nel “deserto” dell’Hermitage e di Belley (Ibid., Doc. 85, n. 1); i suoi membri si considerano “tamquam extorres et peregrinos super terram” (Constit., p. 50, p. 19): due temi biblici – il deserto e l’esodo – tra i più ricchi di significato per il popolo di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza ( Cfr. R. CECOLIN, L’esodo, via di Dio verso la libertà, in AA.VV., Invito alla Bibbia, Roma 1974, pp. 45-83). La convinzione del P. Colin era l’efficienza della vita religiosa della Società e della sua attività nella Chiesa dipendesse dalla totale sfiducia nei mezzi umani, nel favore dei potenti (Constit., cap. V, art. IV, n. 214, p. 74), nelle possibilità economiche (Ibid., cap. VII, art. I, n. 276, p. 94) e, in generale, nelle proprie forze e capacità.

Al Marista vengono a mancare le sicurezze e il sostegno di tutto ciò che conta nel mondo, perché nella totale precarietà delle realtà terrene si appoggia unicamente alla Provvidenza del Padre e alla grazia.

Le pennellate più efficaci su questo tema sono tracciate dal P. Colin nel contesto della presenza missionaria del Marista nella Chiesa: “Fuggano la gloria di sé…scelgano i ministeri che meno brillano agli occhi degli uomini..” (Ibid., cap. VI, art. I, n. 262, p. 89).

La coscienza della precarietà delle realtà terrene fa volgere lo sguardo verso il Padre celeste, il quale, a sua volta, lo rivolge con benignità verso i suoi figli che confidano colo in Lui.

Il dialogo ebraico-cristiano.
Il cammino fatto, i problemi aperti
di Innocenzo Gargano

Premessa

Si potrebbe parlare di un simile argomento riducendo tutto agli ultimi sessant’anni circa e leggendo insieme i documenti ufficiali a cominciare dai famosi Dieci punti di Seelisberg del 1947 per proseguire con la promulgazione della Dichiarazione del Concilio Vaticano II intitolata “Nostra Aetate” numero 4 e coi documenti ufficiali prodotti dal Consilio Ecumenico delle Chiese, dalla Santa Sede e dalle singole Chiese locali negli anni successivi al Concilio.

Si potrebbe anche richiamare l’attenzione su eventi importanti e a forte impatto simbolico come la visita del Papa Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma il 13 aprile del 1986, del riconoscimento diplomatico dello Stato di Israele da parte della Santa Sede, dei pellegrinaggi del Papa ad Aushwitz e al Muro occidentale del Tempio per finire, riferendoci in particolare all’Italia, con la decisione della CEI di celebrare ogni anno la Giornata dell’Ebraismo a partire dal 17 Gennaio del 1989.

Si dovrebbero aggiungere poi le numerose iniziative internazionali e locali ideate e celebrate dalle Amicizie ebraico-cristiane ormai conosciutissime a livello internazionale.

Si potrebbe perfino parlare, fra le altre iniziative, dei nostri venticinquennali Colloqui di Camaldoli e di infinite altre iniziative analoghe… Ma tutto questo non sarebbe affatto sufficiente a dare un’idea appropriata del cammino percorso e dei grossi problemi ancora aperti nel dialogo fra ebrei e cristiani e soprattutto rischierebbe di imprigionare all’interno di testi o di iniziative – sia pure lodevolissime e necessarie – lo spirito che ha soffiato sul mondo, e sull’Europa in particolare, dopo la tremenda esperienza della Seconda Guerra Mondiale e la tragedia che hanno rappresentato per l’umanità le ideologie omicide che hanno prevalso sui popoli nel XX secolo.

Penso perciò che il modo migliore per dare ragione della straordinaria librazione nuova dello Spirito sulle acque caotiche della storia vissuta specialmente dall’Europa durante il secolo breve, possa essere quello di riportare alla memoria radici molto lontane e da lì partire per individuare piccoli passi avanti e grandi utopie che stanno delineandosi davanti ai nostri occhi in questo straordinario compito del dialogo ebraico-cristiano.

La teologia della «sostituzione»

La rottura più grave nei rapporti fra ebrei e cristiani fu prodotta nella storia in concomitanza dell’assedio prima e della distruzione poi di Gerusalemme e del suo Tempio nel ’70 d. C. quando i discepoli di Gesù, ebrei cristiani, non ebbero la sensibilità patriottica che avevano mostrato altre componenti del popolo ebraico e furono di conseguenza sentiti come traditori dal resto del popolo ebraico. Giudizio che si accentuò, divenendo definitivo, durante il periodo che va dal ’70 al 135 d. C., anno in cui l’imperatore Adriano fece tabula rasa di Gerusalemme e rifondò la città chiamandola Aelia Capitolina.

Dopo il 135, e forse anche a causa di una lettura particolare di quegli avvenimenti, Melitone di Sardi, un vescovo cristiano dell’Asia Minore, pretese di concludere, ma non fu il solo, che con la venuta di Gesù e la nascita della Chiesa fosse finita l’antica alleanza e perciò tutto ciò che si leggeva nei testi dell’Antico Testamento a proposito di Israele dovesse essere ritenuto alla stregua del progetto di un architetto, progetto svuotato di senso e d’importanza dalla sua stessa realizzazione. Fu così del tutto ovvio dichiarare che la Chiesa – vero Israele spirituale - sostituiva ormai definitivamente l’Israele carnale.

Dio aveva deciso di sostituire nella sua predilezione Israele con la Chiesa e questo in modo definitivo fino alla fine del mondo.

Partendo da questo tipo di presupposto si sviluppò così una teologia pressoché comune a tutti i Padri della Chiesa, chiamata in seguito “teologia della sostituzione”.

Gli ebrei nella società cristiana

Fino a quando non intervenne il potere politico la polemica nei confronti degli ebrei, che risultava dal convincimento che abbiamo appena sintetizzato, rimase interna al mondo religioso sia ebraico che cristiano, ma quando, con Costantino imperatore, la parte pagano-cristiana all’interno della Chiesa e il cristianesimo all’interno del Mediterraneo presero il sopravvento, cominciò a non esserci più posto per gli ebrei nella società, la quale adesso accettava di tollerarli soltanto come ombra destinata a porre in rilievo la verità, parte luminosa della storia, identificata simpliciter con la cristianità; ma niente più.

A mano a mano che ci si avvicinava al Medioevo e che crebbe la convinzione, già chiarissima con Giustiniano, che l’Impero cristiano anticipa il regno di Dio sulla terra – nonostante le contestazioni di alcuni movimenti interni alla stessa Chiesa – gli ebrei diventavano l’ostacolo insormontabile che ritardava il ritorno del Signore e la piena realizzazione della storia. Da cui due alternative possibili: o costringere gli ebrei a convertirsi oppure cancellarne la presenza giuridica, e qualche volta anche fisica, entro i confini dell’Impero. Così si pensava praticamente in tutta l’oikoumene cristiana d’Oriente e d’Occidente durante i secoli della cristianità medievale.

La tragedia dei marrani e l’inquisizione

Con i Carolingi, e ancor più con le Crociate, la convinzione dell’illegittimità della presenza ebraica divenne dominante. Gli ebrei intanto si sentivano dilaniati dentro. Un loro maestro, il famosissimo Maimonide (morto nel 1204) tentò una via d’uscita dall’angoscia sostenendo che fosse legittimo apparire convertiti restando in realtà ebrei.

Maimonide ragionava così: se per salvare la vita, che è il dono più prezioso perché permette all’uomo di osservare i comandamenti di Dio, si è costretti ad apparire cristiani, che succeda così e cioè che si appaia cristiani pur di rimanere ebrei nella propria interiorità.

Un simile ragionamento, divenuto presto assai diffuso, provocò reazioni virulente da parte dei cristiani che non sapevano più se fidarsi o meno dei cosiddetti “conversi” o convertiti. Gli ebrei, definiti ‘marrani’, sinonimo di ‘maiali’ nella lingua spagnola, divennero così agli occhi dei cristiani gli ambigui e i falsi per antonomasia da scovare e perseguire con tutti i mezzi possibili, compresa la tortura. Le chiese non disdegnarono in questo caso neppure le strade più assurde che comprendevano la delazione, gli autodafè e i roghi pubblici esemplari.

Nacque l’Inquisizione di tristissima memoria.

Gli ebrei venivano considerati adesso non solo causa del mancato ritorno glorioso del Signore, ma anche fonti e artefici oscuri di tutte le malattie, le pestilenze e i cataclismi naturali. Se non andava bene un raccolto o se avveniva un terremoto, o si diffondeva la peste, il capro espiatorio sul quale addossare tutte le colpe era puntualmente l’ebreo. Dovunque succedesse qualcuna di queste calamità si chiamavano in causa gli ebrei. Si pensava che uccidendo l’ebreo si potesse placare la divinità adirata e venir fuori da tutti i mali che attraversavano il mondo.

Una mentalità che non si arrestò, anzi si diffuse ancora di più con l’affermarsi delle identità nazionali. In alcuni casi si ripeté l’antica esperienza che aveva causato tanti lutti agli ebrei al tempo dell’ellenismo e del periodo dell’impero romano. Si divenne rigidamente intolleranti per difendere non solo l’identità politica e religiosa della nazione, ma anche la purezza del sangue. Si divenne insomma razzisti e la logica di tutto questo comportò la soppressione fisica pura e semplice o l’espulsione dei diversi e della loro diversità oltre i confini delle nazioni cristiane.

Fu tremendamente tragica soprattutto l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492.

Le tragedie dell’età moderna

L’età moderna, che siamo stati abituati a far iniziare da questo anno in cui venne scoperta l’America, si inaugurò di fatto con l’ultima e più drammatica delle espulsioni, quella che vietava agli ebrei di risiedere non solo nella Spagna, ma anche in tutti gli altri territori allora dominati dagli spagnoli, comprese la Sicilia e l’Italia meridionale. Gli ebrei furono costretti di nuovo a spargersi ai quattro venti, ma soprattutto nell’Europa orientale e meridionale e nei paesi arabi.

In realtà proprio l’età moderna, di cui l’occidente si sente così fiero, fece enorme fatica ad elaborare tutte le diversità della società in cui gradualmente si affermava e chi ne pagò più pesantemente le spese furono proprio gli ebrei in compagnia di tutti coloro ai quali la società di allora li assimilava.

I due secoli XVI e XVII furono assai difficili per tutti coloro che si ribellavano alla decisione dei potenti di sottomettersi col corpo e con lo spirito al potere regnante secondo il principio del “cuius regio eius et religio”.

L’anno 1600 assistette sgomento al rogo di Giordano Bruno in Campo dei fiori a Roma, complice San Roberto Bellarmino, dottore della Chiesa e gesuita, il quale sentì l’assurdo di una simile condanna, ma non riuscì a trovare le coordinate giuridiche e teologiche adeguate per impedirne la pena capitale. E se tutto questo succedeva nei confronti di Giordano Bruno, frate domenicano, cosa poteva succedere per un ebreo che oggettivamente si trovava in prima fila fra coloro che contestavano i difensori ad oltranza dello status quo?

Quei secoli furono duecento anni spaventosi che però sfociarono, nel XVIII secolo nella nascita, sviluppo e affermazione dell’illuminismo, che ebbe il suo culmine con la Rivoluzione francese del 1789, quando si aprirono i ghetti e gli ebrei ritornarono finalmente a respirare nella nostra Europa.

Infatti dopo aver subito l’obbligo di mettersi un segno distintivo sul petto (la famosa stella gialla) per permettere ai cristiani di sapere a prima vista con chi avevano a che fare, si erano creati, verso la fine del Medioevo, anche i ghetti, cioè quartieri chiusi da mura con tanto di porta e chiavistelli, perché gli ebrei non uscissero, complice il buio della notte, a contaminare i cristiani.

I cristiani più fervorosi, non contenti di questo, percorrevano tutte le strade possibili per convertire gli ebrei. Alcuni di loro in Quaresima spingevano, o meglio costringevano, gli ebrei a sorbirsi i quaresimali del predicatore di turno e, per essere sicuri di fare proprio tutto perché gli ebrei li ascoltassero davvero, si preoccupavano di inviare infermieri specializzati alle porte delle chiese, per un lavaggio appropriato delle orecchie ebraiche con acqua calda atta a eliminare eventuali tamponi auricolari dei malcapitati.

Tutto questo e altro ancora, è stato vissuto nel rapporto fra ebrei e cristiani in Europa fino alla Rivoluzione francese. Né le cose andarono immediatamente meglio dopo la sconfitta di Napoleone e la restaurazione della prima metà dell’Ottocento. Fra le cose da restaurare ci fu infatti in qualche caso anche il ristabilimento dei confini dei ghetti e sappiamo che soltanto i Piemontesi smantellarono, con la presa di Roma del 1870, lo storico ghetto degli ebrei romani.

Dai Pogrom alla Shoà-Olocausto

Quando nel lungo secolo XIX, che alcuni fanno terminare con la prima guerra mondiale, ai pregiudizi “religiosi” si aggiunsero anche i pregiudizi sociali, economici e politici, si arrivò ai famigerati Pogrom dell’Europa dell’Est. La tragedia della Shoà, spesso chiamata Olocausto, in cui più di 6 milioni di ebrei furono ridotti in cenere, insieme con milioni di altri esseri umani, a loro volta ritenuti “diversi” come era “diverso” l’ebreo, non nacque dunque all’improvviso.

Riflettiamo sopra questi fatti, perché fanno parte integrante dei rapporti fra ebrei e cristiani. L’accoglienza dell’ebreo è infatti una sorta di archetipo. Accogliendo il “diverso”, identificato con l’ebreo, ci si educa ad accogliere anche tutti gli altri “diversi” presenti nell’umanità.

Non per niente i nazisti cominciarono con gli ebrei e poi finirono col fare fuori tutti i “diversi”: gli zingari, gli omosessuali, i matti, i dissenzienti politici e alla fine i polacchi, tutti considerati ugualmente carne da macello, perché diversi come erano diversi gli ebrei.

Sono cose terribili ma è indispensabile partire da qui per capire il capovolgimento di pensiero e prassi dell’atteggiamento successivo dei cristiani nei confronti degli stessi ebrei. I nostri amici ebrei contemporanei hanno tutti indistintamente dei parenti finiti nelle camere a gas: chi i genitori, chi i nonni, chi gli zii, chi i fratelli, chi le sorelle chi cugini e cugine e questo ha costretto i cristiani a mettersi di fatto nella pelle degli interlocutori per poterli capire in qualche modo dall’interno.

Un anno andai a tenere una conferenza a Napoli, in un contesto di amicizia ebraico – cristiana. Avevo, appuntata sulla giacca, una crocetta dorata da prete. Alla fine della conferenza una donna mi disse: “Padre, guardi, le devo confessare una cosa: per la prima volta ho potuto guardare una croce e non sentirmi dentro ribollire il sangue nelle vene per le violenze che in nome della croce sono state fatte a me e ai miei familiari”.

Terribile.

Noi veneriamo la croce perché segno dell'umiliazione di Cristo: per loro invece la stessa croce è il segno della loro personale umiliazione sopportata per secoli.

Quella famosa frase antigiudaica presente in Matteo: “che il suo sangue ricada su di noi e sopra i nostri figli” pesa ancora moltissimo sulle spalle ebraiche.

La tragedia della Shoà è stata talmente assurda, che non ci sono parole adatte a raccontarla.

Serve solo il silenzio.

L’impotenza di Dio nell’esperienza ebraica

Sono stato a Dachau, sono stato pellegrino ad Auschwitz. Ho visto cose assolutamente irraccontabili.

Soltanto Dio, quando lo deciderà e vorrà, romperà questo assoluto silenzio su cose che superano ogni possibilità e immaginazione umana.

Ha scritto un ebreo – cristiano, famoso in Italia, si chiama Paolo De Benedetti: “Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione, e noi proseguiamo a credere in Lui e a sperare nella vita futura , perché vogliamo capire cosa ci risponderà. Non vogliamo discorsi, perché la prova che Dio ci ha chiesto è veramente grande, non ci sono parole utili finché non sia Lui, direttamente Lui, a parlare”.

Dopo Auschwitz è stato messo in discussione il concetto stesso di Dio: non è la stessa cosa parlare di Dio prima e dopo Auschwitz.

Hanz Jonas, filosofo ebreo, ha parlato di un Dio che ha dimostrato di non essere più onnipotente: “Basta con queste fandonie! Con la creazione dell’uomo, dotato della sua stessa libertà, Dio ha rinunciato una volta per tutte alla sua onnipotenza. Dio non è intervenuto ad Auschwitz semplicemente perché non era in condizione di farlo”.

Martin Buber preferì parlare di eclissi di Dio, per poi spiegare: “ L’eclissi della luce, non è estinzione della luce”. “Tu hai fatto di tutto per toglierci la fede, e io nonostante tutto proseguo a credere fermamente in Te”: recitava un frammento trovato ad Auschwitz.

Il grido di Gesù sulla croce non fu molto diverso.

Scriveva Luigi Pareyson: “l’effettiva scelta dell’uomo non è pre–veduta da Dio, ma veduta. Non ha nessun senso quel pre. È veduta quando l’uomo la fa ed è veduta nella sua temporalità. Non è dunque pre – scienza, ma è scienza contemporanea, è scienza temporale. Il sapere divino è contemporaneo all’agire umano, la libertà ha un potere iniziale di scelta di fronte a possibilità inaudite, impreviste e imprevedibili. C’è dunque una contemporaneità di scelte e di atti nella libertà.”

Auschwitz, in cui è stata consumata l’eclissi di Dio e umiliata definitivamente la sua onnipotenza, ha aperto gli occhi dell’umanità sull’incredibile e tragica valenza della libertà dell’uomo, rispettata scrupolosamente da Dio, per non venire meno alla parola data e compiuta nell’atto stesso della creazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza. Ne risulta una tremenda responsabilità.

Ad Auschwitz, il Dio infinitamente buono ha rivelato che la sua radicale impotenza nei confronti del male è reale. Una verità amara per l’umanità, perché ne assegna all’uomo e solo all’uomo, in ogni tempo, in ogni luogo, la responsabilità. (Devo queste riflessioni all’intuizione di un ex presidente dell’amicizia ebraico-cristiana di Torino: l’amico Ernesto Riva).

Le possibili strade di un dialogo

Qualcuno ha parlato di necessario passaggio dalla religione alla fede, aggiungendo comunque che quest’ultima perché resti tale, ha bisogno di essere attraversata continuamente dal pungolo salutare del dubbio e della paura. Non c’è mai evidenza. Se si pretende l’evidenza si finisce nell’integrismo e nell’integralismo che ne è la conseguenza logica e naturale.

Dialogare con gli ebrei ignorando Auschwitz significherebbe trastullarsi in gondola fra le onde del mare, nella vacua ricerca di un tranquillo vivere secundum naturam.

La Chiesa non può farlo più.

Ma fare memoria di Auschwitz significa non solo fare memoria di quel particolare passato dell’uomo concreto, storico, fatto di carne e sangue, del quale siamo impastati tutti, che costituisce l’anima stessa dell’eredità ebraica, ma significa anche ripensare alla radice il presupposto della lettura cristiana della storia ebraica a partire anzitutto dall’eliminazione di almeno due equivoci millenari: il creduto ripudio di Israele da parte di Dio e la terribile accusa di deicidio addossata agli ebrei dai cristiani.

L’eliminazione di questi equivoci, dovuta al coraggio del Padri del Concilio Vaticano II, in aggiunta a correzioni analoghe in campo protestante, ha prodotto un capovolgimento nei rapporti dei cristiani con l’insieme della storia e della cultura spirituale ebraiche che possiamo definire come passaggio dalla consuetudine al disprezzo alla consuetudine al rispetto.

Le conseguenze rivoluzionarie di tutto questo stanno evidenziandosi lentamente nel mondo cristiano e stanno producendo frutti non tanto a livello istituzionale o propriamente teorico, quanto soprattutto a livello pratico e di condivisione di vita e di proposte che possiamo definire impropriamente ‘pastorali’.

In sostanza le Chiese, considerate nella loro globalità di popolo dei credenti in Cristo, hanno finalmente dato inizio ad un confronto serio con la radice comune che condividono con gli ebrei riconosciuti solennemente dal Papa come rispettati, venerati, amati fratelli maggiori.

Con una conseguenza fondamentale: l’esclusione assoluta di ogni proselitismo cristiano nei confronti degli ebrei. I cristiani hanno cominciato cioè a rendersi conto che non sono gli ebrei a dover essere innestati nel tronco cristiano, ma i cristiani stessi a dover mostrare riconoscenza per essere stati innestati nel tronco ebraico.

La scena di Gesù che a dodici anni si pone rispettosamente in ascolto degli anziani nel Tempio comincia diventare l’icona per eccellenza dei cristiani che, sempre più numerosi, fanno altrettanto mettendosi sinceramente in ascolto della sapienza ebraica.

Ne sta risultando un’esplosione significativa di interesse per la tradizione, la cultura, la spiritualità ebraiche che si traduce in migliaia di pubblicazioni che, soprattutto a partire dagli anni ottanta del XX secolo, vengono proposte da case editrici piccole e grandi sul mercato europeo e americano.

Facciamo qualche esempio.

La scoperta di «godere con rendimento di grazie»

Il pio ebreo recita ad alta voce due volte al giorno alcuni versetti del libro del Deuteronomio e del libro dei Numeri, seguiti da un piccolo credo desunto ancora dal libro del Deuteronomio. Questo piccolo credo comincia così: “ Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto. Il Signore ci fece uscire dall’Egitto, ci condusse in questo luogo, ci dette questo Paese dove scorre latte e miele, per questo io presento le primizie dei frutti del suolo che Tu Signore mi hai dato. Il testo insiste: “deporrai davanti al Signore il tuo cesto e gioirai con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te”.

dei quali non hai voluto godere durante la tua vita terrena”. Ma questo godimento è vissuto con la piena consapevolezza della gratuità e nel ricordo costante di una peregrinatio continua verso la terra promessa, che appartiene misteriosamente alla identità ebraica originaria. L’ebreo è sedentario e simultaneamente in cammino, come un nomade, un pellegrino che sale costantemente sulla montagna di Gerusalemme la città della pace e del re dei re.

Per gli ebrei non fruire dei piaceri significa indispettirsi nei confronti del donatore. La vita è un piacere da godere comunque con rendimento di grazie, senza appropriarsene mai egoisticamente e condividendolo sempre in comunione con la propria comunità e con lo straniero.

La riscoperta dei fratelli ebrei contemporanei ci sta portando anche questo. Potremmo perfino dire che dialogare con gli ebrei significa lasciarsi in qualche modo ri evangelizzare.

Tantissimi aspetti della nostra vita quotidiana non ci vengono assolutamente infatti dall’insegnamento dell’ebreo Gesù, ma da altre parti.

L’importanza di «fare memoria»

Una delle cose più importanti, che la rivisitazione della tradizione ebraica ha comportato nella sensibilità cristiana, è stata l’importanza di fare memoria.

Questo punto è stato sempre fondamentale anche nella proposta cristiana, ma l’amicizia con gli ebrei permette di capire meglio in modo semplice e chiaro, perché il riferimento a fatti concreti, avvenuti nella storia e sperimentati da uomini intessuti di pelle ed ossa come noi, sia così determinante sia per l’identità degli uni che per quella degli altri.

Nonostante la tragicità e l’angoscia provocate dalle scelte libere dell’uomo, noi, ebrei e cristiani, facciamo memoria non soltanto della storia sofferta, ma anche della storia goduta, in questo nostro mondo, così com’è, con la sua bellezza, con le sue attrazioni, con la possibilità dei godimenti delle cose buone della vita, ma anche con la sua enigmaticità, le sue luci, le sue ombre, accettate insieme.

Uno dei testi più antichi del N.T., certamente testo fondante della Chiesa cristiana, la Prima Lettera ai Corinti (15,11) recita fra l’altro:“Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che si fece vedere a Cefa e quindi ai dodici, ultimo fra tutti si fece vedere da me, Paolo. Pertanto sia io che loro così predichiamo, così avete creduto.”

Ciò che accomuna la proposta ebraica e quella cristiana è dunque l’irrinunciabile riferimento a dei fatti precisi, concreti, accaduti nella storia e testimoniati da persone, che hanno visto e udito e perciò ne parlano, trasmettendo quello che anch’essi hanno ricevuto. Non si tratta mai semplicemente di idee o di proposte sapienziali o mistiche, o altre cose del genere, ma di fatti.

Il recupero della centralità dell’ascolto

In questo processo di trasmissione, che nel nostro linguaggio chiamiamo traditio o tradizione, gli ebrei ci insegnano che ha un’importanza determinante l’ascolto. La prima parola pronunciata all’inizio e al termine della giornata dall’ebreo osservante è infatti Shemà, “ascolta”.

Bisogna chiarire, dal momento che anche nel testo Paolino citato se ne fa espresso riferimento, che in ebraico fra i tanti modi con cui si indica la Bibbia ce n’è anche uno molto significativo per noi : è il termine Micrà, che di per sé non significa tanto scrittura, come spesso viene tradotto, quanto lettura e si tratta non tanto di lettura compiuta con gli occhi quanto di suono che percuote l’orecchio.

I maestri ebrei spiegano che Dio è una parola non da leggere ma da ascoltare: che la parola sia stata scritta è fondamentale, ma solo perché diventi parola da ascoltare. Tutto sommato il libro, in quanto libro scritto, è solo un passaggio strumentale, accidentale, utilizzato appunto come strumento che provoca la generazione dei suoni: quest’onda sonora che percuote l’orecchio, ma non si ferma all’orecchio. “ Fides ex auditu” avrebbe detto S. Paolo.

In questo senso si può e si deve dire che né gli ebrei, né i cristiani sono tecnicamente una religione del libro. Definizione quest’ultima coniata dagli Islamici che avevano ed hanno una concezione diversa del libro sacro. Nella Seconda Lettera ai Corinti (3,6) Paolo può permettersi persino di dire che Littera occidit” ( la lettera uccide), cioè che il testo scritto chiuso in se stesso, può diventare omicida. Affermazione estremamente grave: quanti omicidi sono stati compiuti per seguire la lettera!

Il Rabbino Copciovschi, grande amico dei Colloqui di Camaldoli e già rabbino capo di Milano, spiegava che “ascoltare” in ebraico non comporta solo il coinvolgimento dell’organo fisico dell’udito ma anche un’accoglienza del suono della voce nell’orecchio del cuore in cui ha sede quell’organo misterioso dell’essere umano che presiede ad ogni decisione.

La regola di S. Benedetto, testo fondamentale di formazione per tutti i monaci cristiani d’occidente, inizia anch’essa del resto con queste parole precise:” Obsculta, fili praecepta magistri et inclina aurem cordis tui, et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple”, che nella traduzione è reso così:“ ascolta, figlio, gli insegnamenti del maestro e apri l’orecchio del tuo cuore, accogli volentieri i consigli di un padre che ti vuole bene e mettili in pratica con fedeltà”.

Alcuni maestri ebrei hanno ripreso a introdurre i cristiani anche nei segreti nascosti del midrash. Conosciamo l’importanza data dagli ebrei alla viva voce di ogni testo scritto. Presso di loro qualche volta una interpretazione è data semplicemente dalla dizione: dal modo come leggi già interpreti.

Se il Targum è la traduzione orale immediata di un testo declamato, il midrash aggiunge alla declamazione un’interpretazione attualizzante, anch’essa orale, del non detto del testo scavato in profondità. Spesso questo si ottiene con la sottolineatura e il cambiamento di una interpunzione. Una stessa parola, se subisce un cambio di vocale, o la trasposizione di una lettera o di un accento, indica altre cose e poi altre e altre ancora, quasi all’infinito, rintracciabili con l’ausilio di testi paralleli, analogie, assonanze, allitterazioni o altro, che trasformano di fatto il testo in vera e propria opera d’arte.

La Scrittura viene così interpretata non solo applicando le leggi proprie della filologia, ma utilizzando anche la creatività che è propria di un interprete che possieda lo stesso spirito dell’agiografo che ha prodotto il testo ritenuto ispirato.

Tutte queste cose stanno riscoprendo i cristiani nella lettura della Bibbia compiuta all’interno di un’amicizia ritrovata coi fratelli ebrei con conseguenze del tutto inedite nella fruizione globale dell’Antico Testamento con spazi nuovi aperti anche alla comprensione dei Vangeli e degli altri scritti del Nuovo Testamento.

Il ritorno alla tradizione

È risaputo che nell’insegnamento dei saggi ebrei succeduti alla tragedia del ‘70, si distingueva fra Torah scritta e Torah orale, legge scritta e legge orale. L’una e l’altra fatte risalire in ultima analisi allo stesso Mosè.

Anche nella tradizione cristiana si parla di scrittura e tradizione. E così si va riscoprendo sempre più che, per gli uni e per gli altri, ebrei e cristiani, il punto di partenza, identico, è la tradizione orale. I discepoli hanno ascoltato Gesù e hanno trasmesso viva voce ciò che viva voce avevano ricevuto. Gli uni e gli altri solo in un secondo momento hanno sentito la necessità di mettere per iscritto ciò che avevano udito e sperimentato.

Nel II secolo, Papia, vescovo di Ierapolis, si permetteva di scrivere queste parole: “io preferisco la tradizione orale, ai testi scritti, che non hanno la stessa vitalità e che sono lettera morta”.

Un libro senza interpretazione è lettera morta.

Ireneo di Lione qualche decennio più tardi, avrebbe rivendicato a sua volta la necessità di interpretare oralmente i testi scritti canonicamente ricevuti dalla Chiesa in parallelo con la prassi presente nell’assemblea dei saggi ebrei.

Principio, questo, di concordia, diacronica e sincronica, comune sia agli ebrei che ai cristiani, che di fatto ha permesso e permette tuttora un’enorme molteplicità di proposte teologiche, giuridiche e comportamentali.

Il confronto continuo con Israele aveva contribuito anche in passato dunque a produrre un intreccio fecondo fra modo di essere credenti da parte degli ebrei e modo di essere credenti da parte dei cristiani.

Questo non significa che ci fosse consapevolezza piena dall’una e dall’altra parte. Forse facevano così solo perché convivevano e perché condividevano tante cose, derivate dal fatto che gli uni e gli altri si riferivano alla radice comune di un albero del quale si sentivano rami distinti, contrapposti, e tuttavia connaturali. Un grande mistero del quale adesso siamo divenuti finalmente più consapevoli da una parte e dall’altra.

Un amico ebreo mi confidò un giorno: “È come se noi ebrei e voi cristiani camminassimo tutti e due su un pavimento di specchio: una parte di noi vede le cose dal basso in alto e l’altra parte dall’alto verso il basso, ma il punto è comune: dove metto il piede io lo metti anche tu. E tuttavia io ho una postura e tu un’altra!”.

Sta di fatto che in ogni epoca storica è possibile osservare specularmente risposte teoriche e proposte pratiche di vita analoghe nel mondo ebraico e nel mondo cristiano fino ad oggi.

Faccio due esempi:

Il primo è quello di Origene, che interpretava la Bibbia con gli stessi metodi e nella stessa città di Cesarea di Palestina, contemporaneamente ai padri ebrei della Mishnà. Un professore universitario di Gerusalemme faceva notare qualche anno fa che nel commento al Cantico dei cantici Origene non fa altro che ripetere l’interpretazione dei rabbi, mettendo semplicemente al posto di Dio Gesù e al posto di Israele la Chiesa o l’anima credente.

Il secondo è questo: S. Francesco d’Assisi e il pellegrino russo proponevano gli stessi stili di vita dei kassidim ebrei loro contemporanei. Questo avveniva non perché fossero influenzati l’uno dall’altro in modo esplicito, ma perché l’humus al quale attingevano sia gli uni che gli altri era lo stesso. Vale la stessa cosa anche per noi.

Cammini aperti verso il futuro

Abbiamo parlato di strade analoghe, ma dobbiamo aggiungere anche i risvolti tragici della specularità. Ne propongo alcuni, anche questi a titolo di esempio, che servano a individuare meglio l’itinerario che ancora resta da fare.

Primo: il senso di superiorità che molto presto segnò e continua ancora oggi a segnare le due parti: l’una fondata sulla oggettiva superiorità numerica e di potere; l’altra sulla convinzione, nonostante tutto, di una indiscussa primogenitura e superiorità spirituale.

Secondo: il modo diverso di definire e di proporre la rispettiva identità. La tradizione rabbinica in cui si riconoscevano e si riconoscono gli ebrei accoglie all’interno di sé, addirittura elogiandole, conservandole e trasmettendole, le interpretazioni più varie e persino contraddittorie che scuole e singoli maestri propongono in piena libertà.

Né l’ortodossia né l’ortoprassi sono un problema. Due ebrei possono credere o non credere cose diverse e “osservare” la legge in modo diversissimo e ciò nonostante sentirsi pienamente ebrei.

Si è ebrei se si accettano queste quattro cose fondamentali: l’unico Dio, il popolo, la legge, la terra. Quest’ultima difesa in modo particolare perché la legge è stata data per venga messa in pratica nella terra promessa da Dio ad Abramo e alla sua discendenza. Se si elimina dunque la terra promessa si toglie una colonna portante dell’identità ebraica! Il che spiega molti punti della nostra incomprensione nei confronti dei fratelli ebrei.

Ma esiste anche un’altra preoccupazione: stabilire l’ebraicità o meno degli individui secondo carne e sangue è considerata da alcuni fratelli ebrei un problema estremamente importante.

Il criterio di “mater semper nota” è determinante per alcuni e relativa per altri. Ne consegue un’accentuata diversità per cui non sai mai fino a che punto l’interlocutore che hai davanti riscuota il consenso dei suoi correligionari oppure no.

I motivi per i quali alcuni sono così rigidi e altri no, si riducono spesso alla sfida della modernità e, oggi, della postmodernità, che comporta la temuta assimilazione con conseguente messa in pericolo della perdita di identità e conseguente abbassamento della guardia di fronte al proselitismo cristiano o ‘goin’, che si può far strada soprattutto attraverso i matrimoni misti.

I metodi dei nazisti, che quando occupavano un territorio, verificavano la ebraicità o meno delle famiglie fino alla settima generazione, hanno prodotto negli ebrei risultati contradditori.

Sta di fatto che oggi siamo posti di fronte a una molteplicità di modi di essere o sentirsi ebrei che va dai superortodossi di Meah Shaarim ai giudei messianici e ai giudeo-cristiani di origine protestante, ortodossa o cattolica, che pongono serie difficoltà al proseguimento di un dialogo sereno e rispettoso dall’una e dall’altra parte.

La tradizione cristiana, e cattolica in particolare, avendo eliminato qualunque riferimento a carne e sangue, per stabilire l’identità, non ha né strumenti culturali né sensibilità spirituale adeguati a tener conto di questi problemi senza approfittare della debolezza degli altri.

Il risultato è spesso una rigidità apparentemente inspiegabile da parte dei fratelli ebrei che non trovano altra strada per far avvertire agli interlocutori la propria difficoltà, se non quella di rendere più difficile possibile il dialogo in modo da mandare allo scoperto soltanto coloro che sono abbastanza forti nella propria identità da potersi proteggere.

La storia ha insegnato a tutti che questi problemi non sono facilmente superabili soprattutto se si tiene conto di ciò che è successo per secoli quando la convinzione di essere nella verità ha armato di fervore i cristiani a tal punto da sentirsi in dovere, oltre che in diritto non solo di proporre, ma anche di imporre con le buone o con le cattive la propria fede religiosa agli altri.

Il dialogo dei gesti significativi

Il cammino del dialogo resta ancora molto lungo, ma è già tantissimo averlo iniziato.

Tutto cominciò, per noi cattolici, con un gesto minimale compiuto da Giovanni XXIII il quale, passando di sabato con la sua macchina davanti alla sinagoga di Roma, fermò il suo corteo di macchine, scese e benedisse gli ebrei che stavano uscendo dalla sinagoga.

Racconta Elio Toaf, ex Rabbino capo di Roma: “fece fermare il corteo di macchine che lo accompagnava e benedisse noi, che dopo un comprensibile smarrimento, cominciammo ad applaudirlo con molto entusiasmo, mentre lui ci diceva:siete fratelli miei”. Era la prima volta che un Papa ci benediceva. Fu quello il primo vero gesto di riconciliazione: quel giorno cominciammo a sperare in una svolta dei cristiani negli atteggiamenti verso di noi.”

Era il 17 marzo 1962.

Richiamandosi probabilmente a questo episodio, Giovanni Paolo II amplificò quel gesto chiedendo, per la prima volta dopo duemila anni, di far visita alla Sinagoga di Roma e venendo accolto con lacrime di gioia dai vicini di casa che abitavano semplicemente dall’altra parte del Tevere, il 13 aprile 1986.

Con i fratelli ebrei si va avanti per gesti significativi come questi , ma anche come quelli compiuti dallo stesso Papa Giovanni Paolo II col pellegrinaggio ad Aushwitz, col riconoscimento dello Stato d’Israele e soprattutto con quel biglietto di richiesta di perdono imbucato tre le fessure del Muro Occidentale del Tempio a Gerusalemme in occasione del suo pellegrinaggio giubilare in Terra Santa.

Le parole non servono – mi dicono spesso i miei amici ebrei – perché i Papi e i vescovi cattolici ci hanno abituati purtroppo, nella lunghissima storia dei nostri rapporti reciproci, a continue docce scozzesi. Ci hanno fatto passare dall’esaltazione di sentirci fratelli alla depressione angosciante di sentirci definire deicidi. Gli stessi documenti moderni della Santa Sede, perfino dopo il Concilio, non sono stati affatto omogenei. Perciò preferiamo i gesti significativi e, più ancora, fatti concreti che servano a lenire ferite o a limare cicatrici, purtroppo assai appariscenti, vecchie di quasi due millenni.

Il futuro è nelle nostre mani

Se resta difficile da parte dei fratelli ebrei credere nella sincerità della nostra conversione – loro la chiamano teshuvàAntisemitismo, antigiudaismo, antisionismo, antiisraelianismo sono tutti termini che esprimono la realtà di un disagio presente ancora in molti di noi. – non è che si possa dare per scontato il dialogo neppure da parte della cristianità.

Siamo preoccupati di distinguere questi termini per mostrare le nostre ragioni, ma spesso le motivazioni passano insensibilmente dal piano religioso, al piano politico e perfino razziale, senza che ce ne accorgiamo, perché ci resta ancora difficile, assai difficile, assumerci il peso di una storia lunghissima.

Vorremmo accettare di essere eredi dei nostri padri soltanto nel patrimonio positivo, ma facciamo enorme fatica a riconoscerci eredi anche dei loro limiti, dei loro sbagli e forse, - perché non dirlo? – dei loro gravi, oggettivamente gravi, peccati.

E, nonostante tutto, il clima nuovo che si è determinato col Concilio Vaticano II, ci permette di rileggere con occhi certamente diversi ciò che fin dal tempo di Paolo veniva proclamato nelle assemblee cristiane che cantavano insieme la Berakà della bellissima Lettera agli Efesini,:

“ Benedetto sia Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero, cioè il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose: in Lui siamo stati fatti anche noi eredi” con l’aggiunta: “ Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai fatti della promessa, senza speranza, senza Dio in questo mondo, ora invece grazie a Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio.”

Lo spazio per un rapporto completamente nuovo con gli ebrei si è aperto di nuovo davanti ai nostri occhi ma lo possiamo percorrere legittimamente, raccogliendone i frutti, ad una condizione: che accettiamo di portare sulle nostre spalle un’eredità che ha segnato per secoli la vita dei nostri padri con conseguenze più o meno avvertite che ci riguardano tutti, anche oggi.

Sarebbe anche troppo facile scrollarci di dosso superficialmente il passato protestando “io non c’ero”. Così facendo, noi rischieremmo di essere talmente improvvidi da non aver imparato nulla dalla storia, col rischio, purtroppo assai realistico, di ripetere gli stessi sbagli dei nostri santi padri del passato.

La venuta di Gesù di Nazareth

Ma qualcuno mi dirà: D’accordo, ma andiamo al sodo: cosa pensano gli ebrei di Gesù di Nazareth? Hanno fatto anche loro qualche passo avanti nella riconsiderazione della persona di Gesù, così ignorata per non dire altro, nel loro insegnamento?

Domande assolutamente legittime.

Parliamone allora ma accettiamo l’idea che tutto abbia avuto inizio proprio con la venuta di Gesù di Nazareth, che già il NT definisce segno di contraddizione.

Prendere atto di questo è estremamente importante. Nel Vangelo secondo Luca il vecchio Simeone dice di lui: “Questo bambino sarà segno di contraddizione perché si mettano a nudo i segreti di molti cuori”.

Proprio Gesù che era venuto – secondo la fede cristiana – per essere luce delle genti e gloria del suo popolo Israele, è stato punto di demarcazione, pietra angolare che ha costretto Israele prima e i Gentili poi a prendere posizione. E sappiamo tutti che compiendo una scelta se ne esclude un’altra. Da qui alla polemica nei confronti di coloro che hanno compiuto una scelta diversa dalla nostra, il passaggio è quasi naturale. La polemica sembra anzi necessaria per rinforzare le motivazioni della propria scelta e definire meglio la propria identità.

Non c’è da scandalizzarsi nel constatare che il Nuovo Testamento è stato scritto nella polemica, così come era nato e cresciuto in contesto polemico. Tutto questo però significa anche che quello che si attribuisce a Gesù nel Nuovo Testamento va vagliato attentamente perché altro è ciò che Gesù è stato e ha detto e altro è ciò che i discepoli di Gesù hanno interpretato, ciascuno a modo suo, e hanno redatto per iscritto.

Altro è Gesù e altro sono i discepoli che, nella loro diversa sensibilità, hanno redatto i vangeli, e altro ancora è tutto ciò che ne è seguito nella interpretazione patristica, per esempio, dello stesso Nuovo Testamento. Non sarebbe fuori posto ricordare l’insegnamento di Origene il quale sosteneva che, come è necessario distinguere fra lettera e spirito nel testo dell’Antico Testamento, altrettanto necessario è farlo a proposito del Nuovo Testamento.

Il contesto storico del Mediterraneo Orientale

I primi passaggi sono avvenuti in un periodo delicatissimo della storia del Mediterraneo. Un periodo in cui l’identità ebraica, che era consapevole della propria tradizione e della propria ricchezza religiosa e culturale, non accettava di essere sottoposta a quel cilindro compressore che era per tutti nel Medio Oriente la cosiddetta civiltà greco-romana.

Gli ebrei avevano cominciato a difendersi dal rischio dell’assimilazione o appiattimento già fin dal 169 a.C., quando con Antioco Epifane c’era stata assoluta intolleranza da parte del mondo ellenistico nei confronti della diversità ebraica. Si pensava che, per poter mantenere unito politicamente l’impero ereditato da Alessandro Magno, fosse necessario sottomettere tutti non soltanto all’unico potere politico e militare, ma anche allo stesso credo religioso. Dove questo non si riusciva ad ottenerlo con la convinzione si tentava poi di ottenerlo con la costrizione e la violenza. Faceva paura la diversità in quanto tale, perché si era convinti che minasse l’unità del regno. Per questo Antioco Epifane pretese di profanare il Tempio di Gerusalemme con la presenza di un simulacro pagano, gesto indispensabile secondo lui per sottomettere gli ebrei alle comuni leggi ellenistiche del proprio regno. Non si accontentò solo di questo, ma fece anche questo. provocando l’inevitabile reazione violenta degli ebrei.

La rivolta dei Maccabei, che almeno per qualche decennio ebbe qualche fortuna, finì col gettare gli ebrei in braccio agli odiati romani. Fu infatti proprio Simeone, l’ultimo dei fratelli Maccabei, a stipulare per primo un’alleanza con i romani, considerati allora un popolo rispettoso delle leggi e delle consuetudini degli altri e popolo pieno di dignità. Simeone però, chiedendo aiuto, apriva di fatto il varco all’ingerenza dei romani in Medio Oriente facendoli diventare ben presto arbitri decisivi in ogni conflitto o decisione importante.

Pompeo non fece che raccogliere frutti già maturi quando condusse le sue legioni vittoriose in terra d’Israele ed entrò stupito nel buio sacro del Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.

Gli anni fra il ‘60 circa a. C. e il ’60 circa d. C. furono anni di relativa calma in Medio Oriente. Si parlò addirittura di toto orbe in pace composito dopo le vittorie di Augusto e la definitiva sottomissione dell’Egitto al potere di Roma, ma furono anni solo di relativa pace, che coincisero col tempo in cui si svolse la vita di Gesù di Nazareth.

La mediazione, della dinastia Asmonea prima e degli erodiadi poi, non riuscì comunque a spegnere del tutto il desiderio di affermare la propria indipendenza da parte degli ebrei che finirono col ribellarsi venendo schiacciati con crudeltà inaudita prima da Tito nel ’70 e poi da Adriano nel 135 d. C..

In realtà il mondo ebraico di quei decenni pullulava di correnti religiose, politiche e di pensiero, di ogni tipo. Oggi, grazie alle scoperte avvenute a partire dal ritrovamento dei rotoli di Qumran e della biblioteca di Nag Hammadi (anni 1946-1948) e anche grazie ai ritrovamenti archeologici seguiti alla guerra dei 6 giorni (1967), sappiamo molto di più sul mondo contemporaneo di Gesù di Nazareth. Non siamo certo in grado di scrivere una biografia di Gesù, e nessuno si permetterebbe di farlo seriamente, ma già iniziano a venir fuori lavori molto seri che permettono di arrivare nelle vicinanze assai prossime ad un ebreo marginale della Galilea del tempo del secondo Tempio, che fu il tempo di Gesù di Nazareth.

Da tutti gli elementi che possediamo oggi, grazie – come dicevamo - a scoperte archeologiche e letterarie che prima non venivano neppure prese in considerazione, possiamo infatti delineare meglio la silhouette di un ebreo del tempo di Gesù per cui, mettendo insieme il puzzle di ciò che poteva essere la situazione e il comportamento di un individuo come Gesù in quel determinato territorio, in quel preciso periodo storico, possiamo avvicinarci moltissimo alla sua persona storica.

Tutto questo ha comportato la caduta di una serie di giudizi e pregiudizi, ma soprattutto ha aperto agli studiosi orizzonti nuovissimi per la comprensione del Nuovo Testamento e della coeva letteratura rabbinica che sarà l’anima dell’ebraismo che si accompagnerà nei secoli successivi allo sviluppo del movimento cristiano.

Gli ebrei nostri contemporanei hanno un approccio assai diverso di Gesù di Nazareth rispetto a quello dei loro correligionari dei secoli passati. Conoscono tutti la frase spesso ripetuta a partire da Flusser: “La fede di Gesù ci unisce, la fede in Gesù ci divide”. Non è molto per noi cristiani, ma è un enorme passo avanti per i nostri fratelli ebrei ed è ancora più confortante constatare che nelle Università israeliane e nelle facoltà rabbiniche il Nuovo Testamento diviene un testo sempre più studiato da specialisti ebrei e perfino nell’educazione dei giovani israeliani la figura di Gesù conquista uno spazio sempre più grande, che viene poi allargato alla conoscenza non solo approssimativa del cristianesimo durante gli anni del servizio militare obbligatorio degli israeliani.

Le opinioni degli ebrei su Gesù sono, come sempre, assai diversificate, ma è indubbio che buona parte dei nostri interlocutori oggi non soltanto considerano Gesù un ebreo come loro – opinione ormai generale nella mentalità ebraica -, ma anche come un grande personaggio del passato, talmente grande che alcuni si spingono addirittura a considerarlo profeta, anzi il più grande dei profeti di Israele, per il semplice fatto che, grazie a lui, la Torà di Israele è stata divulgata su tutta le terra!

Qualcuno si spinge anche oltre scoprendo in lui il mediatore attraverso il quale la benedizione promessa ad Abramo ha trovato una strada misteriosa per raggiungere concretamente tutti i popoli della terra.

Assai diverso è invece l’approccio che proseguono a mantenere gli ebrei nostri contemporanei sull’Apostolo Paolo. Ma su questo occorrerebbe altro tempo a disposizione.

A proposito di Paolo mi permetto di invitare a dare uno sguardo, per chi fosse interessato, ai quattro volumetti che ho pubblicato in questi ultimi quattro anni (2001.2.3.4) sulla Lettera ai Romani presso le edizioni Dehoniane di Bologna.

Giacché ci siamo, tento adesso di dare anche qualche titolo bibliografico per indicare alcuni testi che ho tenuto presente in questa mia lezione, ma anche per proporre letture che facilitino l’approfondimento del tema trattato.

Consiglio anzitutto due volumi un po’ impegnativi: Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo. Un profilo storico-filosofico, Morcelliana, Brescia 2003; Stefano Levi della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somigliane, conflitti, Feltrinelli 2003. A questi si può aggiungere Paolo Sacchi, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, meno impegnativo, ma lavoro sintetico di un grande esperto dell’ebraismo del Secondo Tempio e della letteratura apocalittica o intertestamentaria. Molto ben fatti sono i Quaderni “Ecumenismo e dialogo” a cura di Stefano Rosso ed Emilia Turco, editi (pro manuscripto) dalla «Commissione Interregionale per l’ecumenismo e il dialogo» di Piemonte e Valle d’Aosta, soprattutto il quaderno n. 7 del 2003. Non posso fare a meno ovviamente di ricordare poi, dulcis in fundo, gli Atti dei Colloqui di Camaldoli dei quali cito solo l’ultimo volume: Innocenzo Gargano ( a cura), “Siate Santi perché io sono Santo" (Lv 19,2). Costruirsi e costruire fra diversi. Atti del XXIII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli (4-8 dicembre 2002), Editore Pazzini, Verucchio 2003.

(relazione tenuta al Corso Superiore di Scienze Religiose, Trento 25/XI/2004)

Le Chiese dell'oriente cristiano
Le chiese ortodosse autocefale
di Mervyn Duffy


Ci sono tredici chiese ortodosse generalmente riconosciute come “autocefale”, che in greco significa “con un proprio capo”. Una chiesa autocefala possiede il diritto di risolvere tutti i problemi interni con la sua autorità ed è abilitata a scegliere i propri vescovi, incluso il Patriarca, l’Arcivescovo o il Metropolita che è a capo della chiesa. Mentre ogni chiesa autocefala agisce indipendentemente, essa rimane in piena comunione sacramentale e canonica con tutte le altre.

Oggi queste chiese ortodosse autocefale includono i quattro antichi patriarcati orientali (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), esistono poi dieci altre chiese ortodosse emerse nel corso dei secoli in Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Cipro, Grecia, Polonia, Albania, e nelle repubbliche Ceca e Slovacca. Di sua iniziativa, il patriarcato di Mosca ha concesso lo status autocefalo a molte delle sue parrocchie nordamericane sotto il nome di Chiesa Ortodossa in America. Tuttavia, poiché il Patriarcato di Costantinopoli reclama il diritto esclusivo a concedere lo status autocefalo, esso e molte altre chiese ortodosse non riconoscono l’autocefalia della Chiesa americana.

Nove di queste chiese autocefale sono patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Georgia. Le altre sono guidate da un arcivescovo o da un metropolita.


Sabato, 02 Settembre 2006 21:15

Perché riviva il Vaticano II (Marcelo Barros)

Perché riviva il Vaticano II
di Marcelo Barros

L’8 dicembre 1965, in piazza San Pietro, a Roma, una solenne santa messa celebrata da Papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II. Dopo la celebrazione eucaristica, il pontefice bene­disse la prima pietra di una chiesa romana dedicata a Maria, Madre della Chiesa, che sarebbe servita da memoriale del Concilio. Sempre in quell'occasione, dopo aver in­viato "al mondo" una lunga serie di mes­saggi. il Papa consegnò a mons. Felici il breve con cui chiudeva ufficialmente la grande assise. Nel discorso di chiusura, il Papa affermò: «Il culto di Dio che si è fat­to uomo è andato incontro al culto dell'uomo che si è fatto Dio». Quale perfetta descrizione del mistero del Natale, che si sarebbe celebrato di lì a poche settimane!

Oggi, a 40 anni esatti da quella data, molti cristiani propongono la celebrazio­ne di un nuovo concilio. Essi sono con­vinti che occorra rilanciare l'opera allora iniziata ma - è questa la loro opinione - sfortunatamente interrotta e messa da par­te agli inizi degli anni Settanta. E spiegano: mentre la società civile è alla ricerca di un nuovo mondo possibile, le comunità cristiane hanno il diritto di sperare in una chiesa "sempre rinnovata", capace di essere la profetica anticipazione di una uma­nità più giusta e fraterna.

il deposito della fede e la formulazione in cui esso è espresso. Pertan­to, egli varò il Concilio sulla base di tre grandi intuizioni: apertura al mondo con-temporaneo. vocazione ecumenica e op­zione per i poveri».

In verità, l'invito rivolto alla chiesa di diventate “chiesa dei poveri" fu più volte udito nel corso dei lavori conciliari, ma non li recepito e sviluppato. Sarebbe per lo più servito. alcuni anni dopo. a convin­cere i poveri del Terzo Mondo che la chie­sa non sarebbe mai stata profondamente evangelica, se non avesse accettato la pro­posta formulata nel corso della Seconda Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellin (1968): «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa au­tenticamente povera, missionaria, pasqua­le, spoglia di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli es­seri umani e di tutto intero l'essere umano» (Medellin 5,15a).

Va da sé che questo cammino fu reso possibile dal fatto che il Concilio aveva sottolineato il carattere locale della chie­sa. Si disse che la chiesa locale o partico­lare altro non è che la chiesa universale che si «ha evento In un luogo determinato. Di recente, la Federazione dei vescovi catto­lici dell'Asia, nel 'documento di sintesi preparato in occasione del Sinodo per l'Asia e intitolato Ciò che Lo spirito dice alte chiese, ha affermato: «La comprensione che la chiesa ha di sé stessa è di essere ve­ramente chiesa locale, incarnata in un po­polo, autoctona e inculturata. Essa è il cor­po di Cristo fitto reale e incarnato in un popolo particolare, nel tempo e nello spa­zio». La chiesa universale è più che una somma di chiese: essa è la comunione delle chiese locali.

Organismi ecumenici e comunità ec­clesiali di base sono oggi convinti che è ur­gente iniziare un processo conciliare che ponga la chiesa in costante stato sinodale, cioè di dialogo e di ricerca comune. Quan­do Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica attraversava un periodo di estrema chiusura istitu­zionale e di rigidità dottrinale. Nel frat­tempo, però, a partire dell'inizio del secolo XX, anche se sospettati e messi sotto ac­cusa dalla curia vaticana e dalla maggior parte dei vescovi, erano sorti il movimen­to biblico, il movimento delle comunità di base e altri ancora. Per decenni e superan­do molte difficoltà, questi movimenti, for­mati da laici, sacerdoti e religiosi, avevano aiutato le comunità locali a crescere. Ben­ché quasi relegate nella clandestinità, furono proprio queste nuove realtà ecclesia­li vive a offrire alla chiesa tutta una base teologica e una spiritualità nuove che avrebbero trasformato l'evento Concilio in una vera e propria primavera per tutta la comunità cattolica.

Quella primavera non deve finire. Es­sa va rinnovata. Pertanto, mentre ci ap­prestiamo a celebrare il Natale di Gesù Cristo - il mistero in cui «il culto di Dio che si è si è fitto uomo va incontro al cul­to dell'uomo che si è fitto Dio» - dobbia­mo desiderare ardentemente anche un nuovo natale della chiesa. Pronti anche ad andare «contro corrente" e contro l'oscu­rità della notte. Perché solo così si può ac­celerare il ritorno dell'aurora.

(da Nigrizia, dicembre 2005)

“Il pensiero di Cristo”:
la conoscenza mistica
nelle "Centurie gnostiche"
di San Massimo Confessore
di Vladimir Zelinskij


Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture...” (Lc.24, 45)

San Massimo il Confessore, “il genio della sintesi” secondo l’espressione di Harnak, “il modello esemplare per una nuova era” (1), come lo chiama lo studioso moderno W. Völker, ha creato il ponte fra l’eredità patristica dei primi cinque secoli e lo sviluppo teologico delle epoche successive. Nel suo pensiero la fedeltà assoluta ai predecessori va insieme con l’originalità non meno assoluta del suo spirito creativo. E fra le sue numerose opere le “Centurie gnostiche” sono ritenute da un teologo di statura come Hans Urs von Balthasar “ciò che di più significativo noi possediamo dalla penna del Confessore”. (2) Ma, forse, anche ciò che vi è di più difficile, come già faceva notare il patriarca Fozio.

Ma che cosa sono le “Centurie”? Un mosaico di sentenze sparse, con la loro ricchezza stupenda di colori, di sfumature, di incisioni del pensiero, ma con una struttura irreperibile? Un albero di duecento rami, con foglie che mantengono tutta la loro freschezza spirituale ed intellettuale, ma con la radice, che dà la vita a tutto, nascosta? La forma aforistica, abbastanza tradizionale, che Massimo ha recepito dal suo maestro Evagrio, ha una somiglianza soltanto esteriore con le opere analoghe dei suoi predecessori: né in Evagrio, né in nessun altro troviamo questa stupenda confusione di generi. Infatti, nei “Duecento capitoli sulla conoscenza di Dio e sull’incarnazione di Cristo” (un altro titolo delle “Centurie gnostiche”) la teologia non si separa dall’amore alla sapienza, il trattato gnoseologico dalla poesia del pensiero, e il concetto dall’allegoria e dalla contemplazione.

Questa originalità del genere letterario proviene da un carattere esistenziale dell’opera massimiana: qui non si tratta della dottrina cristologica nel senso stretto e preciso, ma - diciamo in modo metaforico – dell’“inabitazione” nel pensiero imbevuto dalla preghiera davanti al mistero aperto e rivelato del Dio Vivente. Questo mistero agisce nell’essere umano, e noi siamo chiamati dal nostro autore ad essere non soltanto testimoni di questa “inabitazione”, ma anche gli ospiti invitati a condividere il suo spazio spirituale. Quando entriamo in questo spazio, sembra di sentire il battito del cuore, mentre il pensiero prega nella contemplazione.

Ma dalla densità esistenziale nasce anche la difficoltà del testo: esso non è scritto come sistema logico e coerente, e neanche come codice segreto da decifrare per ricostruire il senso celato, ma è come un cammino che, già battuto, ogni lettore deve fare proprio sulle tracce del santo pensatore, diventando discepolo alla scuola della sua fede. E il cammino si ripete in quasi tutte le duecento stradine che portano alla stessa meta: la vita nella Parola di Dio, che è – secondo le parole di s. Massimo - “rugiada, acqua, fonte e fiume” (Centurie, II, 67), ma altresì “via, porta, chiave e regno” (II, 69) nascosti nel cuore umano; il lettore è in tal modo condotto a quel “Verbo-pensiero”, che nasce nell’uomo e lo santifica.

Come avviene questa nascita? Il capitolo 83 della seconda “Centuria” dice:

“Il pensiero di Cristo che i santi ricevono secondo il detto ‘Noi abbiamo il pensiero di Cristo’, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettiva, né come completamento del nostro pensiero, ma come illuminando mediante la propria qualità la potenza del nostro pensiero e portandola alla sua stessa operazione. Anch’io, infatti, dico di avere il pensiero di Cristo, che pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte cose”. (3)

Così san Paolo, alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1 Cor.2,16), “Nos autem sensum Christi habemus”, secondo la Vulgata. Qui in un attimo, come è spesso da Paolo, tutta la visione trinitaria si svela davanti a noi. Il “pensiero di Cristo” (νουν Χριστου), il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso, significa che il nostro intelletto e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori” (Ef.3,17) abbiano qualche sostanza in comune e questa sostanza si chiama lo Spirito Santo. “Conformando l’operazione intellettiva umana a quella di Cristo, lo Spirito Santo mette l’anima in grado di conoscere per oscura, intima esperienza mistica Colui nel quale si concentra la contemplazione del Cristo: il Padre... Lo Spirito Santo, che scruta la profondità di Dio comunica al credente il mistero di Dio che non può essere scrutato da nessun intelletto umano, lo rende partecipe – attraverso la fede – della conoscenza che Cristo ha del Padre”. (4)

Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto umano, che è stata data all’apostolo dei pagani, trova il suo sviluppo nella teologia di Massimo il Confessore, teologia costruita alla scuola dello Pseudo Dionigi, ma anche dell’esegesi di Filone d’Alessandria e di Origene. Da tutta questa eredità il Confessore è riuscito a creare una sintesi completamente originale ed organica. Il suo “pensiero di Cristo che ricevono i santi” si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).

“Il pensiero di Cristo... non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma come “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos, in altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le parole del vescovo Basile Osborn, la sua “struttura interiore”. Ma, come sappiamo, il simile è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé l’immagine di lui, che è capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo”: con il “pensiero di Cristo” pensiamo ciò che non può essere pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato, né con i sensi, né con l’intelletto.

“Ogni pensiero è proprio di chi pensa e di chi è pensato, ma Dio non appartiene né alla categoria di chi pensa, né di chi è pensato: infatti è superiore a queste”, dice s. Massimo (II, 2), poiché il nostro intelletto - pensando – sottopone Dio alle condizioni delle cose che appartengono all’intelletto stesso, cioè limitate. Dio non può in nessun caso essere un soggetto del pensiero, ma nello stesso tempo può essere vissuto e “toccato” con la mente, il cui “logos” umano partecipa al Logos divino. L’essenza del divino è oltre qualsiasi atto della conoscenza; ma essa si lascia “spogliare” dall'illuminazione dello Spirito Santo, che si unisce all’intelletto. “Il pensiero di Cristo” si riempie con la forza illuminatrice dello Spirito che si comunica attraverso la fede in Cristo. In altre parole: il nostro pensiero con il suo logos partecipa, per la fede, al Logos divino e alla Trinità, ma anche a tutto il creato. Perché

“infatti la fede è una conoscenza vera che possiede principi indimostrabili (i logoi), essendo come sostanza (ipostasi) di cose superiori alla mente ed alla ragione” (I, 9).

La fede in Massimo è un organo della vera conoscenza delle cose, in cui i logoi, o “principi indimostrabili”, offrono (mediante la fede) “la prova delle cose, che non si vedono”, come dice la Lettera agli Ebrei (11,1).

Ma c’è un’analogia con la definizione paolina anche più profonda: la fede come conoscenza della “sostanza di cose superiori alla ragione” coincide – ciò che ha notato anche von Balthasar - con il fondamento delle cose che si sperano: la parola greca – ipostasis – è la stessa, ed anche il messaggio è quello di Paolo. La fede, che viene come dono, scaturisce della stessa dimensione divina che l’uomo porta in sé. (5) La capacità di credere, il dono della fede e l’ipostasi stessa della fede, logica massimiana, sono come “una cosa sola”, di cui l’immagine più incisiva è “il pensiero di Cristo”. In questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica; in questo pensiero siamo chiamati ad entrare, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.

“Il mistero dell’Incarnazione (letteralmente “incorporazione”) del Verbo ha la fede, forza di tutti i segreti e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili” (I, 66).

Il capitolo sull’Incarnazione, che ci introduce - secondo von Balthasar - nel santuario del pensiero di Massimo”, (6) serve da chiave alla pratica della sua conoscenza mistica. Il mistero dell’Incarnazione entra in ogni suo pensiero, in ogni immagine; si chiarisce nella profondità splendida dalla sua vita in Cristo.

Ma è davvero corretto, secondo l’essenza delle cose, parlare di mistero nei confronti di Colui che il profeta (Ml. 4,2) chiama, “Il Sole di giustizia” (I,12)? Di fatto in Lui s’incontrano la sostanza dell’inconoscibilità e l’essenza della luce; ciò che si cela, che sfugge all’occhio e ciò che si rivela a noi; ciò che non può essere visibile e ciò che è più reale di qualsiasi realtà terrena. La presenza di questo mistero, che si rivela in noi “nel pensiero di Cristo”, come in tutte queste immagini della Parola che troviamo nei Capitoli, mantiene il suo carattere paradossale. Infatti, nella logica delle “Centurie” si possono trovare due “teorie della conoscenza”: una areopagitiana, che insiste sull’inaccessibilità assoluta di Dio allo spirito umano; un’altra di radice origeniana ed evagriana, che sviluppa il proprio cammino verso Dio nell’abbandono di qualsiasi immagine e forma per accedere direttamente alla luce del Dio trinitario. Ma, come osserva Hans Urs von Balthasar, (7) una siffatta contrapposizione è artificiale: le due visioni provengono dallo stesso “mistero dell’Incarnazione” che, nella vita spirituale, si esprime attraverso la carità e la pratica dell’ascesi.

Questa pratica serve per la purificazione, ossia la liberazione del mistero dentro di noi, nascosto e incarnato nella sostanza dell’ipostasi della speranza. La liberazione del mistero significa la ricerca della sua trasparenza nel buio del nostro essere, il suo “sfaccettarsi” in immagini e concetti. I “Duecento capitoli” ci offrono, con particolare ricchezza, i simboli sfaccettati del cammino interiore dell’uomo verso il mistero di Cristo nascosto dentro lui. L’idea dell’ascetismo, tradizionale per l’Oriente cristiano, sotto la penna del Confessore si riveste della poesia biblica delle allegorie.

Ascetismo, secondo la tradizione patristica, è un ritorno a se stesso, alla propria natura creata da Dio, attraverso la purificazione del cuore e il rifiuto dei “movimenti innaturali dell’ira e della concupiscenza” (I, 16). L’uomo si purifica trattandosi come una pietra preziosa, liberando lo splendore interiore a lui proprio; così “chi risplende è ritenuto degno di riposare con il Verbo sposo nel talamo dei misteri” (I,16).

Il suo cammino spirituale, secondo i “Capitoli” di s. Massimo, ha due livelli. Il primo grado si acquista con il silenzio (ossia, il sabato) e con la circoncisione dell’anima (ossia, con la mietitura). Tutte queste figure hanno lo stesso significato di stadio iniziale della guerra contro le passioni e “l’assalto dei nemici invisibili”. Perciò il lavoro ascetico (spiegato da s. Massimo sulle tracce dei suoi grandi predecessori) precede sempre i frutti della conoscenza nello Spirito.

Il sabato nel suo sistema ha tanti significato, o piuttosto compiti che l’anima deve svolgere. Il sabato è l’attuazione di buone opere, ma anche il compimento della saggezza - che deriva dalla vita attiva - nella carità, il compimento della conoscenza, naturale e divina, dei logoi delle cose e del loro divenire; il sabato è il possesso del logos degli esseri, ma anche “l’imperturbabilità dell’anima razionale che secondo la vita attiva ha eliminato del tutto le tracce del peccato” (1,37).

Ma dopo essere ascesa al sabato, l’anima va avanti ed entra nel “sabato dei sabati”, nella circoncisione della circoncisione, nella mietitura della mietitura ch’è “la comprensione di Dio, a tutti inaccessibile, che sussiste in modo inconoscibile nella mente in seguito alla contemplazione mistica degli esseri intelligibili” (1,43).

La comprensione di Dio nella Sua incomprensibilità fa intravedere la Sua sapienza, scoperta anzitutto negli esseri, poi nella Sua propria sostanza inaccessibile, che può essere trovata, ma non toccata, vissuta, ma non posseduta, rivelata, ma non conquistata, perché “Dio dona senza fatica a noi, che non ce l’attendevamo, le sagge contemplazioni della sua sapienza” (I,17)... “Ora l’esperto asceta è un agricoltore spirituale, che trapianta - come un albero selvatico - la contemplazione delle cose visibili alla sensazione nella regione delle cose intelligibili, e trova il tesoro, cioè la manifestazione per grazia della Sapienza che si trova negli esseri” (I,17).

Ma l’anima dell’asceta che scopre la sapienza del “pensiero di Cristo” in sé (quel pensiero che abbraccia tutti gli esseri nella luce della grazia), l’anima che vive l’ineffabile esperienza della scoperta della propria vicinanza con Dio diventa - nel suo sabato mistico e silenzioso - il modello del cosmo in cui si riuniscono i “principi” di tutte le cose. “Riposo del sabato - dice il Confessore - è il totale incontro in Lui di tutte le creature” (I,47). E poco oltre ripete le parole del Libro della Genesi: “E Dio vide quanto aveva fatto ed ecco andava molto bene” (I,57).

Il cammino delle “Centurie” ruota attorno alla sua scoperta di una bellezza ineffabile che non si lascia mai esprimere pienamente nelle parole o nelle immagini. Per questo esso crea tante immagini, tante parole, che cercano di raccogliere “il tesoro in vasi di creta” (2 Cor. 4,7), ossia i “beni della grazia” che si ricevono e si danno.

Il pensiero di Cristo” è uno dei tanti nomi del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale, o comunione della ragione (secondo il termine di Lev Karsavin), che si realizza nello Spirito Santo, il quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente comunica al mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose create, visibili ed invisibili, e “contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute” (Rom.1,20). L’arte della conoscenza mistica è l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello Spirito “che ci è stato dato” (Rom.5,5) o, se si vuole, nel “pensiero di Cristo che pensa Lui attraverso tutte le cose”.

Rileggendo i “Capitoli gnostici” e le altre opere di Massimo il Confessore si capisce ciò che dovrebbe essere la vocazione della filosofia cristiana. Non si tratta solo dell’insegnamento della sana dottrina, ma della cosa più essenziale: di ragionare nello Spirito, di creare la conoscenza a partire dalla propria vita spirituale. Infatti le “Centurie” portano in sé i semi delle grandi idee che avranno il loro sviluppo nella filosofia europea, anche più recente. Non riconosciamo forse nel concetto massimiano del “pensiero nudo”, “della mente spogliata” (I, 84) che percepisce Dio, l’intuizione fondamentale dell’“epoché” della fenomenologia husserliana? O nell’idea dell’essere che non può essere pensato, ma che si apre alla conoscenza negli esseri, la distinzione fra “das Sein” e “das Seiende” di Heidegger? O nell’immagine di Dio come Pensiero puro una certa eco della filosofia della religione di Hegel (“Dio stesso è secondo la sostanza il pensiero, dice Massimo...” (I. 82)? O nel concetto di due tipi della conoscenza ciò che diventerà quasi un luogo comune nella filosofia europea? E nella visione della “sapienza che si trova negli esseri” non c’è una radice della sofiologia russa? Anche il confronto spirituale dell’uomo con il suo proprio pensiero non è degenerato all’alba del razionalismo moderno nella solitudine metafisica del “Cogito ergo sum”?

Certo, c’è una differenza radicale fra la creazione del suo universo a partire dalla ragione pura e la scoperta del mistero della Parola fuori e dentro di noi. Il pensiero di s. Massimo non è teso a sviluppare un sistema segnato dalla coerenza intellettuale, chiuso ed autonomo, ma si trova in comunione permanente con la fonte che lo nutre. Esso aspira alla trasparenza assoluta dell’intelletto aperto ed illuminato dalla vita di Cristo, per cui la trasparenza del pensiero diventa la sapienza che porta in sé i logoi degli esseri. In tal modo la mente umana riesce ad “uscire dal ‘se stesso’, oltrepassare il pensiero, rimanere nel silenzio” (I,81) o, in altre parole, riesce a diventare il sacramento della conoscenza, la comunione dell’intero nostro essere alla “pienezza della divinità” che abita in Cristo (Vd. Col. 2,9)

“Chi ha imparato a scavare secondo i patriarchi mediante la vita attiva e contemplativa i pozzi che sono in lui della virtù e della conoscenza - dice s. Massimo (II,40) - vi troverà dentro Cristo fonte della vita, da cui la sapienza ci ordina di bere dicendo: ‘Bevi le acque dalle tue cisterne e dalla fonte dei tuoi pozzi’ (Prov.5,15). Facendo ciò, troveremo i suoi tesori che sono dentro di noi”.

Nella filosofia russa esiste il concetto della “conoscenza integrale”, che fa eco alla nostalgia, all’ideale impossibile, all’ideale perduto piuttosto che alla realtà della sapienza. Nel pensiero di s. Massimo questa conoscenza è pienamente realizzata, non soltanto nella genialità dell’intelletto creativo, ma nell’armonia di tutto l’essere umano in quanto tempio di Dio, in cui l’attività del pensiero si svolge come celebrazione liturgica, come offerta portata all’altare. La conoscenza integrale può nascere solo nell’uomo deificato, e le “Centurie” servono in questo caso anche come scuola pratica e spirituale della deificazione. Nella conoscenza integrale il corpo e la mente diventano lo strumento di Dio; e la parola umana che dà la sua carne alla parola di Dio e il pensiero completamente posseduto da Dio appaiono lavoro dell’intelletto che - nella luce dello Spirito - si trasforma nel pensiero di Cristo.

“Chi mediante la virtù e la conoscenza - dice s. Massimo nell’ultimo capitolo delle Centurie - ha armonizzato il corpo con l’anima, è divenuto cetra, flauto e tempio di Dio: cetra, perché ha custodito bene l’armonia delle virtù; flauto, perché ha accolto mediante la contemplazione divina l’ispirazione dello Spirito; tempio, perché è divenuto dimora della Parola mediante la purezza della mente” (II,100).

Note

1) Cfr. W.Völker, Maximus Confessore al Meister der geistlichen Leben, Wiesbaden 1965. In Massimo Confessore, Il Dio-uomo, a cura di Aldo Ceresa-Castaldo, Jaca Book, Milano, 1980, p. 15-16.

2) Hans Urs von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Welbild Maximus‘ des Bekenners, Zweite Auflage, Einsiedeln, p. 482; in Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 17.

3) Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 103.

4) Giuseppe de Gennari - Elisabetta S. Salzer, Letteratura mistica. San Paolo mistico, Libreria Editrice Vaticana, 1999, p. 203.

5) “Dio offre ai pii la capacità di credere e confessare la sua reale esistenza” (I,9).

6) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 628.

7) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 504.

L’anno liturgico celebra Cristo
di Francesco Pio Tamburrino

L’anno liturgico si presenta come il calendario di Dio, che fissa gli appunta,menti decisivi per la vita dei fedeli e apre loro le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti di Cristo Signore, così da renderli in qualche modo presenti in ogni tempo.

Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, è lo stesso ieri, oggi e sempre (Eb 13,8)


Le espressioni di cui si è servita la tradizione per indicare l’anno liturgico sono tutte cariche di riferimenti teologici: “anno del Signore”; “anno della redenzione” (cf. Lc 4,19-21); “anno della grazia” (cf. Is 61, 1-2);”anno di salvezza”. In filigrana, il riferimento di fondo è al mistero di Cristo, centro della storia di salvezza, al quale si riannoda, mediante il memoriale, il nostro tempo consacrato dalle celebrazioni della liturgia. “Le tappe dell’”anno di grazia” riflettono i momenti decisivi della realizzazione della nostra salvezza in Gesù Cristo. Nel suo svolgimento l’anno liturgico ci fa seguire il dispiegamento di tutta la ricchezza del mistero di Cristo (1).

La prima e più Importante nota teologica dell’anno liturgico è il riferimento a Cristo Signore. “L’anno liturgico non è un’idea, ma è una persona, Gesù Cristo e il suo mistero attuato nel tempo e che oggi LA Chiesa celebra sacramentalmente come “memoria”, “presenza”, “profezia” (2).

1. Mistero di Cristo

Il riferimento allo sviluppo storico dell’anno liturgico è particolarmente indicativo per cogliere la teologia che soggiace ad esso. Le scansioni celebrative sono nate nell’antichità cristiana da un unico centro vitale: il mistero pasquale. Il culto della Chiesa è nato dalla Pasqua e per celebrare la Pasqua nel “dies dominicus”. All’inizio della liturgia cristiana l’unica festa era la domenica, memoriale ebdomadario del grande giorno della resurrezione. Ben presto, i legami delle comunità cristiane con l’ebraismo hanno fatto organizzare una celebrazione annuale del mistero pasquale, che resterà il punto culminante dell’anno liturgico, come del resto lo fu di tutta la missione di Cristo nella sua morte e resurrezione.

Un po’ alla volta, intorno a questo centro salvifico, sotto l’esigenza di “storicizzare” il mistero pasquale, le celebrazioni si sono dilatate in un “triduo pasquale”, nella settimana santa. Dando luogo ai battesimi nella grande Veglia Pasquale, e organizzando la disciplina penitenziale nei “quaranta giorni” che precedono la Pasqua, ne è nata la Quaresima come forte periodo preparatorio alla Pasqua. Così pure, l’esigenza di accompagnare i neofiti in un itinerario di approfondimento dei sacramenti ricevuti ha prodotto un ulteriore ampliamento nella celebrazione della cinquantina pasquale, che si conclude con la Pentecoste. Lo sviluppo delle celebrazioni è fortemente unificato da quell’unico centro focale, che è la Pasqua di Resurrezione.

Si può dire che la genesi dell’anno liturgico non avvenne principalmente sotto la spinta del pensiero teologico, che pure si andava sviluppando e organizzando nelle dispute contro le tendenze ereticali. Le celebrazioni nascevano dalla percezione della “eccedenza” del mistero di Cristo. La ricchezza inesauribile di tale mistero, compresa anche, nelle sue molteplici sfaccettature, alla luce della historia salutis e dei Vangeli ha determinato l’espansione del mistero di Cristo su spazi sempre più ampi.

L’anno liturgico celebra essenzialmente Cristo, non solo nei due cicli “cristologici” per eccellenza (Natale e Pasqua) e nel proprio del tempo dall’Avvento alla Pentecoste, ma anche nelle feste della Beata Vergine Maria e dei santi. Il “santorale” infatti celebra lo stesso evento salvifico di Cristo, in quanto ricevuto dalle membra di cristo, visto cioè nei suoi frutti, realizzato nelle sue membra più perfettamente configurate al Cristo morto e risorto (3).

Dopo una eccessiva proliferazione di feste dei Santi e delle devozioni particolari, che minacciavano di oscurare nella mente dei fedeli il punto centrale e primario, costituito dal mistero di Cristo, il Concilio Vaticano II, nel classico articolo 104 della Costituzione Liturgica Sacrosanctum Concilium afferma che la Chiesa celebra sempre e soltanto il mistero pasquale anche nelle feste dei suoi Santi, in quanto questi, più o meno perfettamente sono configurati al mistero di Cristo morto e risorto, e come tali sono celebrati e presentati come modelli alla Chiesa.

2. Crescita in Cristo

L’anno liturgico è cristocentrico anche in forza dei sacramenti che si celebrano perché gli uomini possano essere associati alla salvezza operata da Cristo. “Moritur Christus ut fiat Ecclesia: muore Cristo perché nasca la Chiesa” (4): la Chiesa nasce dal mistero pasquale di Cristo comunicato nei sacramenti. In tal modo Cristo ci raggiunge e ci convoca nel suo mistero pasquale. I sacramenti, che riuniscono tutti i diversi aspetti del mistero, con la meravigliosa semplicità di un solo segno ricco di una straordinaria pienezza, ci permettono di accogliere, per mezzo di “ritus et praeces” i gesti che Cristo ha compiuto “per noi uomini e per la nostra salvezza”.

“L’anno liturgico è la vicenda di Cristo che si inserisce sul piano personale per diventare salvezza, non isolando la persona, ma immettendola nel dinamismo della “istoria salutis” (5)”. In esso infatti “mysteria redemptionis… (Ecclesia) fidelibus aperit, adeo ut omni tempore quodammodo praesentia reddantur: ricordando i misteri della redenzione, la Chiesa aopre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche, in modo tale da renderli come presenti a tutti i tempi” (Sacrosanctum Concilium, 102).

Nella liturgia cristiana, nessuna celebrazione è identica all’altra. L’anno liturgico è un andare avanti, a partire dal punto in cui si era arrivati, è un nuovo avvento di Cristo nella vita della Chiesa e di ciascuno. Di festa in festa siamo “sempre di nuovo” davanti a Dio in Cristo, per realizzare il “crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e testimoniarlo con una degna condotta di vita” (Colletta della I dom. di Quaresima).

O. Casel paragona l’anno liturgico alla salita di una montagna attraverso tornanti che si affacciano sugli stessi versanti, ma a quote differenti: “Come una strada corre serpeggiando intorno ad un monte, allo scopo di poter raggiungere a poco a poco, in graduale salita, la ripida vetta, così noi dobbiamo ogni anno ripercorrere su un piano più elevato la stessa via, finché non sia raggiunto il punto finale, Cristo stesso, nostra meta”.

Si tratta insomma di “vivere questa vita di Cristo Signore, questo cammino imponente, dal seno della Vergine fino al trono della divina maestà nell’alto dei cieli, questo mistero. Si tratta di celebrare e di fare nostre grandi realtà della salvezza, non semplicemente di contemplare e imitare nel sentimento la vita terrena del Signore, nei suoi particolari.

Questo potrebbe farlo anche un non battezzato, mentre noi cristiani e cattolici siamo chiamati a celebrare il mistero di Cristo, servendoci della potenza che ci viene dallo Spirito di Dio; non ricevendo soltanto illuminazioni e grazie, ma partecipando all’oggettiva spirituale realtà di Cristo presente… Soltanto così possiamo attingere, pieni di gioia, dalla sorgente di vita che è Cristo Salvatore… L’affermazione di Cristo: Io sono la via si realizza così nel modo più elevato. Cristo non è semplicemente l’esempio e tanto meno uno che indichi la via: è invece la via vera e propria, che ci porta fino alla meta” (6). L’anno liturgico non ricalca la concezione statica, greco-romana, del tempo, chiuso nella ripetitiva ciclicità di mesi, stagioni e anni; deriva invece da quella biblica, che concepisce il succedersi del tempo come una spirale progressiva, diretta verso il compimento finale della salvezza.

“L’articolazione del ciclo liturgico non deve trarre in inganno. Le varie fasi (Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua) si giustificano come diversi approcci dell’unico mistero, e si caratterizzano per il riferimento alle sue fasi.

Procedimento pienamente legittimo e altamente pedagogici, purché si tenga ben presente che il mistero è uno solo: Cristo pasquale. E allora, quando celebro l’Avvento, non dimentico che egli è già venuto; quando celebro la Quaresima non mi sento come uno che attende ancora la purificazione dal sangue di Cristo, ma come un credente che porta già il sigillo della croce e vuole solo immedesimarsi meglio con essa… Ogni fase va collegata con il paschale sacramentum.

Così il Natale non è solo la celebrazione della nascita di Cristo: è il mistero della redenzione, vista in una determinata angolazione: il Verbo che si fa carne per salvarci (7).

3. Storia della salvezza in atto

La concentrazione cristologica del mistero celebrato nella liturgia va intesa secondo la legge intrinseca della economia di salvezza contenuta nelle Scritture e che ha raggiunto la sua pienezza in Cristo. Dalla creazione all’Apocalisse Dio entra nella storia degli uomini con un piano organico e progressivo, in cui “con eventi e parole intimamente connessi tra di loro” (Dei Verbum, 2), Dio attua la salvezza ponendovi Cristo Signore quale centro verso cui tutto converge e da cui tutto si irradia.”L’anno liturgico celebra il mistero di Dio in Cristo, quindi è radicato su quella serie di eventi mediante i quali Dio è entrato nella storia e nella vita dell’uomo” (8). La liturgia celebra tutta la storia della salvezza incentrata nella persona e nei fatti della vita storica di Gesù . il prima di Cristo è la storia sacra dell’Antico Testamento, colta nella sua dimensione essenzialmente profetica; il dopo di Cristo è il tempo della Chiesa, che ha per pietra angolare Cristo Gesù e per fondamento gli apostoli e i profeti della Nuova Alleanza.

Questa triplice dimensione storica è resa presente nella liturgia dall’annuncio degli avvenimento dell’Antico Testamento, del Vangelo e degli scritti apostolici. L’esempio più luminoso è presentato dalla successione delle letture della Veglia pasquale; ma anche le grandi formule di benedizione (dell’acqua, degli oli), di ordinazione,di dedicazione del tempio e dell’altare, le preghiere di “raccomandazione dell’anima”, seguono lo stesso modulo.

Il modo proprio con cui la liturgia permette di rivivere oggi gli eventi salvifici annunciati e commemorati nella celebrazione è il memoriale.

E’ vero che l’anno liturgico ha una sua funzione didascalica, utile per la catechesi, e nei contenuti offre l’essenziale per un itinerario di fede e di evangelizzazione. Tuttavia va tenuto presente che l’anno liturgico non è un album di cartelloni per la catechesi, ma la persona di Cristo: esso ci permette di entrare in contatto con i suoi misteri, che sono vivi e operanti nella liturgia.

Nel memoriale le azioni salvifiche di Cristo sono rese ritualmente contemporanee e attualizzate. L’avvenimento salvifico del passato non si ripete, ma si fa presente ed efficace qui-ora-per noi. “Ciò che era visibile del nostro redentore – afferma San Leone Magno – è passato nei riti sacramentali” (Discorso II sull’Ascensione, 1,4).

Se la festa della Chiesa è Cristo, celebrare significa partecipare alla sua grazia che ci salva. La categoria della “partecipazione” non deve essere banalizzata, limitandola – come spesso si è fatto nel periodo post- conciliare – al coinvolgimento dell’assemblea nei canti, nelle preghiere e nei ministeri, tirandola fuori dal mutismo e dalla passività in cui si era rifugiata per secoli. Partecipare è accogliere la presenza del Risorto, legarsi a lui e vivere con lui; è diventare parte di Cristo, divenendo suo pleroma, con la Chiesa e come la Chiesa. Cristo ci prende dentro i suoi misteri; mediante lo Spirito Santo li innesta nella nostra vita e li fa vivere in noi.

4. Riscatto del tempo

Nella liturgia convergono, come eredità della visione biblica, tre livelli del tempo: quello regolato dai cicli della natura (tempo cosmico); quello che si svolge nel fluire degli avvenimenti (tempo storico); l’uno e l’altro Dio li governa e li orienta verso un fine (tempo salvifico).

Nell’anno liturgico i cicli stagionali, la successione dei mesi, delle settimane e dei giorni, la sera e il mattino, la notte e il giorno, il tempo della vita terrena pieno di esperienze umane e luogo del divenire di tutte le cose, insomma il chronos assume una qualifica salvifica, mediante il kairòs: spazio e tempo propizio per la salvezza, abitato dal mistero di morte-resurrezione di Cristo.

Il tempo astronomico (chronos) misura in modo inarrestabile il nostro divenire e la nostra decadenza fisica. Dio riscatta la vita umana, facendole superare la prigione del proprio limite esistenziale, introducendola nella “pienezza del tempo” (Ef 1,10). “La realizzazione del mistero di Cristo ha inaugurato un’era nuova, cioè dei tempi che non sono più assoggettati alla vanità, alla decomposizione, ma riempiti ormai dell’azione dello Spirito in vista del ristabilimento di tutte le cose.

In Cristo ci è donato di vivere un tempo reale, non vuoto ma pieno, non fuggevole ma compiuto (K. Barth). Perché in lui il passato non si deposita in un pur ricorso, non si allontana, ma ci accompagna come una realtà viva; in lui il presente non si perde continuamente nella fretta della vita, non è subito sorpassato, ma si trova già, in maniera del compimento finale, della gloria a venire” (9).

Dio ha già operato la redenzione del tempo, con tutti i gesti di salvezza che ha compiuto dalla creazione fino ad oggi, da Abramo a Mosè, a Davide, ai profeti, fino alla pienezza dei tempi, in cui il Figlio eterno si è fatto uomo nel tempo e nello spazio e ha riempito di amore e di salvezza la vita degli uomini. Cristo Gesù è il punto di interferenza e di approdo nella storia del “tempo divino”.

La liturgia cristiana è l’ultima tappa della storia della salvezza, in continuità con ciò che Dio ha compiuto “in illo tempore”, e insieme aperta verso la realizzazione finale nel mistero che celebra.

L’anno liturgico è la continuazione della storia della salvezza. Il passato è costellato dai grandi interventi divini. Questi “magnalia”, nel tempo presente, sono i sacramenti. Senza clamore, sotto il velo dei segni, sono interventi meravigliosi di grazia che si svolgono sul nostro cammino.

Conclusione

Nella teologia dell’anno liturgico c’è la risposta al più angoscioso interrogativo dell’esistenza umana: la vita umana nel tempo non è una corsa insensata verso il nulla. La storia è lo spazio in cui Dio si affianca all’uomo e cammina con lui: luogo d’incontro e di amore, svelamento della filantropia divina, che si compromette fino a dare un nuovo senso s tutti gli interrogativi della vita: dal nascere al morire, dalle gioie alla sofferenza. La piccola storia, il frammento in cui si trova a vivere ogni uomo è un calice che attende di riempirsi in Cristo. La “virus” che usciva da Cristo deve poter raggiungere l’uomo, toccarlo (Lc 6,19) per guarirlo.

Il primato di Cristo, nell’anno liturgico, è primato di Dio nell’opera della salvezza. Egli è “il solo che opera meraviglie, perché eterna è la sua misericordia” (Sal 135,4). Il protagonista principale della liturgia non è né il ministro, né l’assemblea dei fedeli. Nella liturgia noi “movemur: siamo mossi” dallo Spirito (Rm 8,14). E’ lo Spirito che ci prende per mano, ci conduce verso il “Padre santo fonte di ogni santità” e ci introduce, mediante l’epiclesi, nella “grazia di Dio, che è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 6,23) (10).

Note

1) F. STOOP, L'an del grâce, in AA.VV., Les étapes de l’an de grâce, Neuchâtel 1962, p. 7.

2) A. BERGAMINI, Anno liturgico, in D. SARTORE – A.M. TRIACCA, Nuovo Dizionario di liturgia, Roma 1984, p. 65.

3) Cf. P. VISENTIN, La celebrazione del mistero pasquale nella memoria della Vergine e dei Santi, in ID., Culmen et fons, I, Padova 1987, pp. 340-344.

4) S. AGOSTINO, Tract. in Io 9,10.

5) M. MAGRASSI, Cristo luce sul nostro cammino, in Liturgia 12 (1978) p. 781.

6) O. CASEL, Il mistero del culto cristiano, tr. it., Torino 1959, pp. 113-114.

7) M. MAGRASSI, Cristo luce sul nostro cammino, cit., p. 783.

8) A. BERGAMINI, Anno Liturgico, cit., p. 67.

9) F. STOOP, L’an de grâce, cit. p. 22.

10) A. M. TRIACCA, Anno liturgico: «icona del rapporto tra “hodie” e l’”escaton”», in Rivista Liturgica 75 (1988) p. 479.

Memoria, azione nel presente

di Geneviève Makaping


«L’antisemitismo non è un'opinione. È una perversione. Una perversione che uccide. Non dobbiamo dimenticare quello che non si è potuto fermare». Parole del presidente francese Jacques Chirac.

Nel giorno della memoria, mi suscita angoscia profonda vedere documentari storicamente ben costruiti, libri che ci ricordano quello che fu e che non si poté fermare. Ma perché non si poté fermare? Cercare risposte sarebbe infruttuoso e porrebbe alimentare ritorsione, odio. Più utile chiederci che cosa possiamo fare ora.

Il ricordo, per ambire a dignità, dev'essere attivo, dinamico e vivo Perché tutto non si riduca a ovvie commemorazioni, dovremmo essere capaci di progettare l'azione del ricordo. È così che la Memoria diventa azione nel presente.

Nessuna cultura o comunità è mai minoranza in sé. Ciò implicherebbe che da qualche parte vi sia una maggioranza culturale. Ciascun gruppo è maggioranza rispetto a sé stesso. E poi, l'essere maggioranza o minoranza non ci fornisce nessuna informazione rispetto alla bontà o meno degli intenti. Appartenenza superiore o inferiore: questa visione del mondo in termini gerarchici ha generato razzismo e morte.

Guerre dimenticate, guerre mediatizzate, guerre dell'acqua, della fame e delle malattie. 60 anni fa, il genocidio. Bisogna andare oltre il pianto. Il ricordo da solo non basta. Siamo stati capaci di litigare persino sulle tragedie che abbiamo generato: è più drammatica la Shoah o sono più sconvolgenti le foibe? Vergogna. Vergogna due volte. Abbiamo reso bipartisan i nostri crimini contro l'umanità. Sì, mi vergogno anch'io.

Ah, le foibe!. Lo confesso: non sapevo cosa fossero. Solo a 47 anni, ho appreso l'esistenza del termine infoibare. Ho subito pensato a nok guè, parola bamiléké (la mia etnia; sono camerunese) per significare il grande serpente capace di ingoiare grandi prede. Da buona migrante, ho aperto l'enciclopedia. Foiba (dal lat.. fovèa, fossa). Caverne a grande sviluppo verticale presenti nella Venezia Giulia, con struttura a pozzo, al fonda del quale si accumulano materiali rocciosi o scorrono ruscelli sotterranei. Le F. sono uno dei più appariscenti fenomeni carsici dell’Istria. Tra il 1943 e il 1945 nelle F istriane trovarono la morte migliaia di italiani, massacrati dalle truppe partigiane del maresciallo Tito. Come dire che il buon Dio ha intarsiato e cesellato quel territorio e noi ci abbiamo messo il significato.

Memoria dinamica. Come? Dotandoci di strumenti che ci aiutino a non costruire barriere. Ve ne sono ancora molte.

Tra i gruppi perseguitati dai nazisti vi erano i nomadi, i testimoni di Geova, i tedeschi oppositori del nazismo, i membri dell'intellighenzia polacca, gli omosessuali, i delinquenti abituali, le persone cosiddette antisociali (erano considerati tali i mendicanti, i vagabondi e i venditori ambulanti).

Oggi, questi stessi uomini e donne vivono nella nostra società. Con quali occhi li guardiamo? Con quali stereotipi li rappresentiamo e li teniamo a distanza.? Ancora si perpetrano genocidi. Abbiamo perso la capacità di ricordare, di indignarci e ribellarci di fronte ai soprusi?

Racconta un a internato, che aveva il compito di accudire un carnefice: «Io lo guardavo senza quegli stivali, senza quel cappello e senza quel cappotto, lui era niente - capite? - un niente. Poi gli infilavo gli stivali e il cappotto e il cappello e ritornava a essere l'espressione della morte».

Memoria dinamica. Va costruita senza il sentimento di vendetta. Vendetta contro chi? Contro la nostra storia? La storia appartiene a tutti. Fino ai diciotto anni, vivevo in Africa. Non avevo sentito mai parlare di genocidio; o meglio, non ne avevo sentito parlare in modo da sentirmi parte di quella brutta pagina della storia. Mi ricordo, però, che noi studenti e studentesse ripetevamo in modo ossessivo: «Deutschland Uber Alles». Noi, piccoli neri, lo dicevamo persino con un piglio di fierezza, essendo stati colonizzati dai tedeschi, i più forti d'Europa. I più forti tra i bianchi. Noi eravamo sedati e, inconsapevolmente, servi dei più forti.

Non ricordo di aver mai sentito il numero sei milioni o dieci milioni. Ne avessero parlato o scritto, fossi stata anche in cima a una palma da cocco, me ne sarei ricordata. Neanche i miei genitori potevano ricordarsene: erano analfabeti, come ce ne sono ancora canti nei mondi terzi.

Allora, contro chi dovremmo vendicarci di quanto accadde? Contro noi stessi o contro le nuove generazioni? La verità storica deve far nascere in noi la volontà di ricostruire quello che abbiamo disfatto, senza rancore. Un accessibile linguaggio di pace, che dica cosa sono fame, guerra, odio, stenti, senza necessariamente doverli sperimentare.

Proviamo a contare fino a 10 milioni 860mila. Dicono le statistiche che gli ebrei uccisi nei campi furono 5.860.000 e 5 milioni i civili non ebrei trucidati. E il numero degli infoibati? C'è chi dice da 250 a 300mila, e chi dai 4mila a 5mila. Non sappiamo il numero esatto? Basta la conta.

Proviamo a scavare. Dove? Nella nostra coscienza. Vi saluto, addolorati.

(Tratto da Nigrizia, marzo 2005, pag. 77)

Giovedì, 31 Agosto 2006 03:14

Delle vite sconvolte… (AA.VV.)

Il primo, André Rochette, è partito quando aveva quarantasette anni per un ricerca non sapeva di che, verso l'India, su istigazione del suo maestro Arnaud Desjardin. La seconda, Hermes Garanger, è rimasta in Francia, ma per fare un viaggio interiore, un ritiro buddista di tre anni, tre mesi, e tre giorni. Il terzo, fratel Didier Maury, aiuta gli altri a superare le tappe di un cammino iniziatici. Tre itinerari, tre incontri.

Il ritorno a Dio
nell'insegnamento monastico
di San Bernardo
di Sr Maria Pia Schindele o. cist.

La regola di San Benedetto ini­zia con l'invito, di « ritornare a Dio con la fatica dell'obbedienza, dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia della disobbedienza» (RB Prol. 2).

Il pensiero di San Bernardo, nell'insegnamento della vita monastica, è improntato sul ritorno a Dio. Nei suoi scritti troviamo la consapevolezza che Dio ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Mediante la similitudo - ossia la somiglian­za con Lui - dovremmo essere comparte­cipi della sua vita divina. La disobbedienza a Dio però ci allontanò dalla regio similitudinis e ci portò verso la dissimilitudinis cioè verso «la regione della dissomiglianza», di modo che noi soltanto attraverso l'ob­bedienza al piano salvifico di Dio possia­mo ritornare a Lui.

Tra gli antichi testi dei Padri della Chie­sa, che hanno ispirato in lui questi pensie­ri, potrebbero essere state le Confessioni di Sant'Agostino che dice: «Mi scoprii lonta­no da Te in una regione dissimile». (1)

Bernardo sviluppa il tema del ritorno a Dio soprattutto nel trattato intitolato «La grazia e il libero arbitrio» e in alcuni degli ultimi sermoni sul Commento al Cantico dei Cantici. Questo tema è ricorrente an­che negli altri suoi scritti e sermoni.

1) Ritorno a Dio nel trattato "De Gratia et libero arbitrio"

Nell’analisi sul concetto della grazia e del libero arbitrio, Bernardo sviluppa il ritor­no dell'anima a Dio nella regione della similitudine. Espone la nozione che, per il libero arbitrio che Dio ci ha elargito, sia­mo sempre immagine di Dio, imago Dei, e lo resteremo malgrado le nostre errate de­cisioni che facciamo con la disobbedienza, perché l'immagine di Dio è indistruttibile; mentre alla somiglianza con Dio, similitudo, arriviamo solo se ci lasciamo trasformare dall'obbedienza ai suoi comanda­menti. Questo lasciarsi trasformare rinnova le forze dell'anima e, attraverso la rectitudo, la rettitudine dei nostri sentimenti e del nostro comportamento indirizza tutto il nostro essere verso Dio.

a) Il nostro ritorno nella regione della somiglianza

Bernardo nel suo trattato chiama Gesù Cristo «la Divina Sapienza» che vuole ricondurci a Dio. Descrive questo ritorno a Dio paragonando la Divina Sapienza alla donna del Vangelo che cerca la dracma per­duta (Lc 15,8). Così il Figlio dell'Uomo cerca in noi l'immagine di Dio sfigurata fino alla irriconoscibilità dal nostro pecca­to di disobbedienza. Bernardo spiega a proposito che questa immagine è il no­stro indistruttibile libero arbitrio, con il quale possiamo obbedire oppure disobbe­dire a Dio. Alla somiglianza con Dio l'uo­mo è riportato attraverso l'obbedienza al Verbo Incarnato.

Bernardo dice:

«Se quella donna del Vangelo non accen­desse la lampada, cioè se la Sapienza Incarnata, non mettesse sottosopra la casa, ovviamente quella dei vizi, e non cercasse la sua dracma (l'uomo) che aveva perduto, la sua immagine, questa che, privata della nativa bellezza e tutta brutta sotto la pelle sporca del peccato, era nascosta come nella polvere, egli trovatala la pulisce e l’innalza dal luogo della dissomiglianza, e la reinte­gra nel primitivo aspetto, la rende simile a Sé nella gloria dei santi, anzi un giorno la renderà in tutto conforme a Se stesso, come dice la Scrittura: «Sappiamo che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è» (1Gv 3,2)». (2)

b) Il nostro rinnovamento per mezzo di Gesù Cristo

Bernardo afferma che il nostro ritorno a Dio prevede, che veniamo «trasformati» secondo l'ideale di Gesù Cristo e lo indica quale «forma» (3)- modello - corrispondente al suo essere divino, al quale dobbiamo conformar­ci. Se viviamo secondo il suo ideale, saremo da Lui trasformati, gli assomiglieremo e sperimenteremo la Sua vita in noi.

Riguardo al rinnovamento della nostra volontà secondo l'ideale del Signore Bernardo scrive:

«Venne perciò la stessa, forma, cui si doveva conformare il libero arbitrio: infatti per recuperare la forma primitiva, l'uomo do­veva essere riformato da quella forma in base alla quale era stato anche formato». (4)

Questo concetto viene riproposto anche da un'altra angolatura, per ribadire il fon­damentale significato salvifico a tutta la comunità ecclesiale avente necessità di redenzione, Bernardo dice, «Colui che era deforme ha dovuto essere formato di nuovo per mezzo della forma, Cristo Gesù; le membra non possono essere condotte a compimen­to se non con il capo». (5)

c) Il rinnovamento delle nostre forze d'animo

pensiero, attraverso il quale cominciamo a riconoscere do che è buono e quindi ciò che corrisponde alla vo­lontà di Dio. Dal consensus voluntatis - dal consenso della nostra volontà - dipende l'ul­teriore aiuto di Dio, che elimina la nostra incapacità di fare il bene. Dandoci la gioia per il bene, ci dà la forza di fare il bene. Così Dio ci rende idonei alla «libertà dal pecca­to», e ci conduce alla «libertà dalla mise­ria»; quindi alla somiglianza con Lui e alla compartecipazione della sua gloria divina. (6)

Come altri scrittori ecclesiastici prima e contemporanei del suo tempo, Bernardo distingue le forze d'animo dell'uomo in memoria, ratio e voluntas. La memoria è la capacità data a noi di sperimentare Dio e di entrare in contatto con Lui. È in certo qual modo il nostro «ricordo» o «memo­ria» di Dio e quindi viene qualche volta anche chiamato recordatio.

La ragione con la quale possiamo «rico­noscere» o «ravvisare» il bene viene chia­mata ratio oppure sensus. Qualche volta questa parola è indicata con intentio, per­ché noi formiamo con la ragione la nostra «intenzione», che viene indicata anche come «modo di pensare» o «desiderio».

Siccome il nostro volere - voluntas - è accompagnato dai nostri sentimenti e dal nostro amore, troviamo per esso nei testi aventi per oggetto il nostro «rinnovamen­to» le parole voluntas, affectio oppure amor.

Quando Bernardo definisce il rinnova-mento interiore dell'uomo dice che consi­ste in tre disposizioni dell'anima: propo­sito retto - rettitudine intentionis -, sentimento puro -, puritate affectionis - e ri­cordo del bene operare - recordatione bonae operationis - grazie al quale la memoria ri­splende per la consapevolezza della sua buona coscienza. (7)

Nel trattato sulla grazia e il libero arbi­trio Bernardo menziona il «proposito incur­vato dalle preoccupazioni terrene», (8)che si può trovare nell'uomo e che deve essere sollevato con la rettitudo intentionis - «la rettitudine dell'intenzione». In questo con­testo è da considerare, quello che egli dice nel XXIV Sermone sul Cantico dei Cantici sul confronto tra l'homo rectus - l'«uomo retto» - e l’homo curvatus - l'«uomo gobbo», quando scrive: cose terrene, è una gobba dell'anima e, al contrario, meditare e desiderare le cose di lassù, è rettitudine». (9)

Riguardo a tutti gli sforzi, che noi intra­prendiamo in questo desiderio rivolto ver­so l'alto, Bernardo spiega nel trattato «La grazia e il libero arbitrio», che attraverso essi «il nostro uomo interiore si rinnova di gior­no in giorno» (2 Cor 4, 16). E continua:

«Poiché il proposito, incurvato dalle preoc­cupazioni terrene, a poco a poco dal basso risorge verso l'alto: e il sentimento, che langue per i desideri della carne, gradatamente s’irrobustisce all'amore dello spirito, e la memoria, ch’è macchiata dalla bruttura delle vecchie opere, resa candida dalle nuove e buone azioni di giorno in gior­no gioisce di più. Infatti il rinnovamento interiore consiste in queste tre disposi­zioni: proposito retto, sentimento puro, ricordo del bene operare grazie al quale la memoria rifulge ben consapevole di sé». (10)

d) Significato della rectitudo

Riguardo al nostro rinnovamento inte­riore è importante la rectitudo - la «retta intenzione» - del nostro modo di pensare e di agire, perché se la nostra volontà è in­teramente indirizzata a Dio, è ordinata.

Bernardo descrive la volontà ordinata, ad lineam rectitudinis, - la norma del retto agi­re-, con la risposta negativa di Gesù a quei discepoli che lo pregavano di avere posti d'onore nel suo regno, dice Bernardo: «Fu loro insegnato a ricondurre la volontà distorta sulla retta linea, quando udirono: "Potete bere il calice, che io berrò?» (Mt 20,22)». (11)

Secondo S. Bernardo sono pochi gli uo­mini spirituali che posseggono la piena li­bertà di ragionare, che li porti sempre al retto agire, per questo dice:

regno!” (Mt 6, 10). Questo regno non si realizzerà compiutamente neppure in loro, fino al momento in cui non solo il peccato non regnerà nel loro corpo morta­le, ma non ci sarà più assolutamente, ne potrà esserci, nel corpo ormai immortale». (12)

2) Il ritorno a Dio nei Sermones super Cantica Canticorum

Negli ultimi sermoni sul commento al Cantico dei Cantici, che S. Bernardo ci regalò poco prima della sua morte, egli non si riferisce più alla somiglianza con Dio «persa» a causa del peccato, ma a quella «sovrapposta» dal peccato. Bisogna scoprire questa somiglianza con Dio evitando il peccato e abbandonando tutto quello che ci impedisce di essere uniti completamen­te a Dio.

a) Alla nostra "grandezza" manca l'orientamento lineare verso il Signore

Nel suo 80° sermone sul Cantico dei Cantici, Bernardo insegna che la nostra somiglianza con Dio donataci al momen­to della creazione consiste nella semplicità, nell'immortalità e nella libertà. In que­sti tre doni di Dio egli riconosce la magnitudo, cioè la «grandezza» dataci, che non possiamo perdere. Ma neanche la pos­siamo sviluppare finché non abbiamo ot­tenuta la rectitudo, ossia il nostro «orienta­mento lineare» versoil Signore. (13)

b) Il ritorno a Dio è ritorno a noi stessi

Nel sermone 82 sul Cantico dei Cantici, Bernardo spiega la «somiglianza con Dio» come la forma nativa, cioè la «figura nativa dell'anima». Pero, in noi, rimane senza effetto, perché è coperta ed oscurata dalla nostra forma peregrina, la «forma estranea del peccato», Bernardo afferma:

«Quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice per­ché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza.

L'anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta; e quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla». (14)

Secondo l'esperienza di Bernardo il no­stro ritorno a Dio è anche un ritorno a noi stessi e dimostra che non possiamo essere «simili a noi stessi», cioè essere veramente «noi stessi», prima che tutto il nostro essere non si sia rinnovato in Dio: «Quindi l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa». (15) Il mistico tedesco Meister Eckhart, vissuto nel 13° secolo, cita spesso questo passo con la breve for­mula:«Allontanato Dio, ti sei anche allontanato da te stesso».

c) Riscoprire la somiglianza con Dio attraverso la purezza del cuore

Bernardo poi confronta la somiglianza con Dio all'oro, diventato scuro per una sovrapposizione di impurità, così l’anima per il peccato è diventata irriconoscibile. Secondo la sua consuetudine, fa riferimento sia a un passo del Nuovo che dell'Antico Testamento: «Si è ottenebrata la loro mente ottusa», dice l’apostolo (Rm 1, 21) e il Pro­feta: «Ah! come si è annerito l’oro, si è alterato l'oro migliore» (Lam 4,1). Bernardo dice che l'autoredi queste lamentazioni

distrutto il fondamento del colore. Resta nel fondamento la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell'umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia». (16)

Per Bernardo nostro tendere alla com­partecipazione della vita divina, vuol dire eliminare e abbandonare tutto quello che ci separa dalla nostra somiglianza con Dio. La nostra ascesi consiste nel «lasciare la sovrapposizione: doppiezza, simulazione, ipocrisia» ed ascoltare il nostro intimo per sapere quale è la volontà di Dio riguardo a nostro comportamento e alle nostre azio­ni. Se noi accogliamo questa volontà divi­na, Dio elimina ogni dissidio in noi e ci dona la - simplicitas cordis - la «semplicità o purezza di cuore». Essa è indicata nelVangelo di Matteo, dove Gesùdice: 'Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce» (Mt 6, 22).

si purifica l'ani­ma dal peccato e da tutti i «depositi» che coprono e oscurano la nostra somiglianza con Dio. Ci accorgiamo allora che il «to­gliere questi depositi» non porta ad un im­poverimento di noi stessi. Si tratta piutto­sto di riportare alla luce la nostra somi­glianza con Dio, nella quale si fonda il nostro vero essere.

Se nelle intenzioni del nostro cuore vi è soltanto l'accettazione della divina volon­tà, otteniamo - la simplicitas cordis - la sem­plicità del cuore. Con l'accettazione del divino volere ci viene concessa la – rectitudo - ossia l'orientamento verso Dio, che porta alla somiglianza con Lui e all'uniformità alla sua divina Volontà.

d) L'uniformità nel volere è "sposalizio" spirituale

Nel suo 83° sermone, Bernardo indica la totale adesione dell'anima a Dio quale «sposalizio». In questo contesto egli chiama il Si­gnore, il VERBO, come l'Essere che corri­sponde alla Seconda Persona Divina:

«Tale conformità rende l'anima sposa del VERBO. Mentre è già simile a Lui per na­tura, si rende ulteriormente simile a Lui at­traverso la volontà, amandolo come a sua volta è amata. Dunque, se l’anima ama per­fettamente, è diventata sposa. Che cosa c'è di più dolce di questa uniformità? Che cosa c'è di più desiderabile di questo amore?». (17)

Questo passo trova il suo culmine nell'affermazione:

«Questo è veramente un contratto di spirituale e santo connubio».

Poi Bernardo continua:

«Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso veramente dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti». (18)

Nel sermone 85 sul commento al “Cantico dei Cantici" Bernardo afferma:

118, 106)». (19)

In riferimento a quei membri della chiesa, che hanno accolto la chiamata allo sposalizio con il Signore, Bernardo aggiunge:

«L'anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al VERBO, vive­re per il VERBO, secondo il VERBO com­portarsi, concepire dal VERBO per poi par­torire al VERBO, che possa dire: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno” con­siderala coniuge e sposata al VERBO». (20)

Note

1) Sant’Agostino, Le confessioni, a cura di M. Pellegrino e C. Carena, Città Nuova, Roma, 1965, lib. VII, 10,16, pag. 201.

2) Cfr. Le opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. 1, La grazia e il libero arbitrio, X, 32, pp. 397-399. (d’ora innanzi San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio).

3) Bernardo riprende un tema altamente tradizionale, presente nei teologi del suo tempo: Cristo, in quanto Logos divino, è il luogo delle idee, l’archetipo della creazione (= forma dell’universo).

4) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, X, 33, p. 399.

5) Ibid., XIV, 49, p. 419.

6) Cfr. Ibid., II, 4- III,7, p. 363-369.

7) Cfr. Ibid., XIV, 49, p. 419.

8) Ibid.

9) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, a cura di D. Turco, Ed. Vivere In, Roma, 1986, col. I, serm. XXIV, 7, pag. 268.

10) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, XIV, 49, p. 419.

11) Ibid., VI, 17, p. 381.

12) Ibid., IV, 12, p. 375.

13) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, LXXX, 2, pag. 381/2.

14) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.

15) Ibid., LXXXII, 5, p. 385.

16) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.

17) Ibid., LXXXIII, 3, p. 392.

18) Ibid.

19) Ibid., LXXXV, 12, p. 417.

20) Ibid., p. 418.


(da Vita Nostra)

Commissione Teologica Internazionale
Cristianesimo e religioni
a cura di A. Dall'Osto

Il documento della commissione teologica, qui ripreso nelle grandi linee, entra subito nel vivo della questione chiedendosi: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci?

A questa domanda c'è chi dà una risposta negativa, anzi alcuni dicono che tale impostazione non ha senso; altri danno una risposta affermativa, che a sua volta apre la via ad altre domande: sono mediazioni salvifiche autonome, o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo?

Si è tentato di classificare in vari modi le diverse posizioni teologiche di fronte a questo problema. La commissione ha adottato la seguente classificazione:

  • L'ecclesiocentrismo esclusivista: è frutto di un determinato sistema teologico, o di un'errata comprensione della frase extra Ecclesiam nulla salus, ma non è più difeso dai teologi cattolici, dopo le chiare affermazioni di Pio XII e del concilio Vaticano II sulla possibilità di salvezza per quelli che non appartengono visibilmente alla chiesa (cf., per esempio, LG 16; GS 22.
  • Il cristocentrismo: accetta che nelle religioni possa esserci la salvezza, ma nega loro un'autonomia salvifica, a motivo dell'unicità e dell'universalità della salvezza di Gesù Cristo. Questa posizione è senza dubbio la più comune tra i teologi cattolici, pur essendoci differenze tra loro. Essa cerca di conciliare la volontà salvifica universale di Dio con il fatto che ogni uomo si realizza come tale all'interno di una tradizione culturale, che ha nella propria religione la più alta espressione e l'ultimo fondamento.
  • Il teocentrismo: vuole essere un superamento del cristocentrismo, un cambiamento di prospettiva, una rivoluzione copernicana. Questa posizione deriva, tra gli altri motivi, da una certa cattiva coscienza dovuta all'intreccio dell'azione missionaria del passato con la politica coloniale, talvolta anche dimenticando l'eroismo che accompagnò l'azione evangelizzatrice. Esso vuole riconoscere le ricchezze delle religioni e la testimonianza morale dei loro seguaci e, in ultima istanza, intende facilitare l'unione di tutte le religioni in vista di un'azione comune per la pace e la giustizia nel mondo. Possiamo distinguere un teocentrismo nel quale Gesù Cristo, senza essere costitutivo, è considerato normativo della salvezza e un altro nel quale non si riconosce a Gesù Cristo neppure questo valore normativo. Nel primo caso, senza negare che anche altri possano mediare la salvezza, si riconosce in Gesù Cristo il mediatore che meglio la esprime; l'amore di Dio si rivela più chiaramente nella sua persona e nella sua opera, ed è così il paradigma per gli altri mediatori. Tuttavia senza di lui non si rimarrebbe senza salvezza, ma soltanto senza la sua manifestazione più perfetta. Nel secondo caso, Gesù Cristo non è considerato nè come costitutivo né come normativo per la salvezza dell'uomo. Dio è trascendente e incomprensibile, quindi non possiamo giudicare i suoi disegni con le nostre categorie umane; come, del resto, non possiamo valutare o mettere a confronto i diversi sistemi religiosi.
  • Il soteriocentrismo radicalizza ancor più la posizione teocentrica, essendo meno interessato alla questione su Gesù Cristo (ortodossia) e più all'impegno effettivo di ogni religione nei confronti dell'umanità che soffre (ortoprassi). In tale prospettiva, il valore delle religioni sta nel promuovere il Regno, la salvezza, il benessere dell'umanità: questa posizione può così essere caratterizzata come pragmatica e immanentistica.

La questione della verità

Alla base di tutta questa discussione è il problema della verità delle religioni; ma oggi si nota una tendenza a relegarlo in secondo piano, separandolo dalla riflessione sul valore salvifico. La questione della verità comporta seri problemi di ordine teorico e pratico, tanto che in passato ebbe conseguenze negative nell'incontro tra le religioni. Di qui la tendenza a sminuire o a relativizzare tale problema, affermando che i criteri di verità valgono soltanto per la propria religione.

Alcuni introducono una nozione più esistenziale di verità, considerando soltanto la condotta morale corretta della persona, senza dare importanza al fatto che le sue convinzioni religiose possano essere condannate. Si crea così una certa confusione tra «essere nella salvezza» ed «essere nella verità»: bisognerebbe piuttosto collocarsi nella prospettiva cristiana della salvezza come verità e dell'essere nella verità come salvezza. Tralasciare il discorso sulla verità conduce a mettere superficialmente sullo stesso piano tutte le religioni, svuotandole in fondo del loro potenziale salvifico. Affermare che tutte sono vere equivale a dichiarare che tutte sono false: sacrificare la questione della verità è incompatibile con la visione cristiana.

La questione di Dio

C'è una posizione cosiddetta pluralista che pone sullo stesso piano tutte le religioni. In pratica vuole eliminare dal cristianesimo qualunque pretesa di esclusività o di superiorità rispetto alle altre religioni. Perciò afferma che la realtà ultima delle diverse religioni è identica e, insieme, relativizza la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e di vincolante. Così distingue Dio in se stesso, inaccessibile all'uomo, e Dio manifestato nell'esperienza umana. Le immagini di Dio sono costituite dall'esperienza della trascendenza e dal rispettivo contesto socioculturale: non sono Dio, però tendono correttamente verso di lui; questo può dirsi anche delle rappresentazioni non personali della divinità: di conseguenza nessuna di esse può considerarsi esclusiva.

Ne segue che tutte le religioni sono relative, non in quanto tendono verso l'Assoluto, ma nelle loro espressioni e nei loro silenzi. Posto che c'è un unico Dio e uno stesso piano di salvezza per tutti gli uomini, le espressioni religiose sono ordinate le une alle altre e sono complementari tra loro. Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e la definitiva. In tal modo la questione di Dio si trova in intima connessione con quella della rivelazione.

Il dibattito cristologico

Dietro alla problematica teologica è stata sempre presente la questione cristologica.

La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'«incarnazione di Dio», che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori oltre a Gesù Cristo?

Il problema cristologico è legato essenzialmente a quello del valore salvifico delle religioni. Si possono osservare a questo riguardo diverse posizioni.

Vi è anzitutto il cosiddetto «teocentrismo salvifico», che accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere. All'interno di questa posizione, un gruppo di teologi attribuisce a Gesù Cristo un valore normativo, in quanto la sua persona e la sua vita rivelano, nel modo più chiaro e decisivo, l'amore di Dio per gli uomini. La maggiore difficoltà di tale concezione è che non offre, nè all'interno nè all'esterno del cristianesimo, un fondamento di tale normatività che si attribuisce a Gesù.

Un altro gruppo di teologi sostiene un teocentrismo salvifico con una cristologia non normativa. Svincolare Cristo da Dio priva il cristianesimo di qualsiasi pretesa universalistica della salvezza (e così diventerebbe possibile il dialogo autentico con le religioni), ma implica la necessità di confrontarsi con la fede della chiesa e in concreto con il dogma di Calcedonia. Questi teologi considerano tale dogma come un'espressione storicamente condizionata dalla filosofia greca, che dev'essere attualizzata perché impedisce il dialogo interreligioso. L'incarnazione sarebbe un'espressione non oggettiva, ma metaforica, poetica, mitologica: essa vuole soltanto significare l'amore di Dio che si incarna in uomini e donne la cui vita riflette l'azione di Dio. Le affermazioni dell'esclusività salvifica di Gesù Cristo possono essere spiegate con il contesto storico-culturale: cultura classica (una sola verità certa e immutabile), mentalità escatologico-apocalittica (profeta finale, rivelazione definitiva) e atteggiamento di una minoranza (linguaggio di sopravvivenza, un unico salvatore).

La conseguenza più importante di tale concezione è che Gesù Cristo non può essere considerato l'unico ed esclusivo mediatore. Soltanto per i cristiani egli è la forma umana di Dio, che adeguatamente rende possibile l'incontro dell'uomo con Dio, benché non in modo esclusivo. È totus Deus, poiché è l'amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l'amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, che è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni.

Questa stessa problematica ritorna quando si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù. Questo facilita molto l'universalizzazione dell'azione del Logos nelle religioni: ma i testi neotestamentari non concepiscono il Logos di Dio prescindendo da Gesù. Un altro modo di argomentare in questa stessa linea consiste nell'attribuire allo Spirito Santo l'azione salvifica universale di Dio, che non condurrebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo.

Le diverse posizioni di fronte alle religioni determinano comprensioni differenziate riguardo all'attività missionaria della chiesa e al dialogo interreligioso. Se le religioni sono anch'esse vie alla salvezza (posizione pluralista), allora la conversione non è più l'obiettivo primario della missione, in quanto ciò che importa è che ciascuno, animato dalla testimonianza degli altri, viva profondamente la propria fede.

Una certa funzione salvifica

Il documento della commissione dedica a questo punto ampio spazio allo studio dell'iniziativa del Padre, la mediazione universale di Cristo, l'universalità del dono dello Spirito Santo e la funzione della chiesa nella salvezza di tutti.

In questa luce, si pone l'interrogativo: qual è il valore delle religioni in ordine alla salvezza?

Oggi, risponde il documento, non è in discussione la possibilità di salvezza fuori della chiesa di quelli che vivono secondo coscienza. Ribadisce tuttavia che questa salvezza non si produce indipendentemente da Cristo e dalla sua chiesa: essa si fonda sulla presenza universale dello Spirito, che non si può separare dal mistero pasquale di Gesù (GS 22: RM 10 ecc.). Alcuni testi del Vaticano II trattano specificamente delle religioni non cristiane: coloro ai quali non è stato ancora annunciato il Vangelo sono in vari modi ordinati al popolo di Dio, e l'appartenenza alle diverse religioni non sembra indifferente agli effetti di questo «ordinamento» (cf. LG 16). Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (NA 2), semi del Verbo (AG 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (OT 16): che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev'essere «sanato, elevato e completato» (AG 9: LG 17). Rimane aperto invece l'interrogativo se le religioni come tali possano avere valore in ordine alla salvezza.

L'enciclica Redemptoris missio, seguendo e sviluppando la linea del concilio Vaticano II ha sottolineato più chiaramente la presenza dello Spirito Santo non soltanto negli uomini di buona volontà presi individualmente, ma anche nella società, nella storia, nei popoli, nelle culture, nelle religioni, sempre con riferimento a Cristo (RM 28-29). Esiste un'azione universale dello Spirito, che non può essere separata né tanto meno confusa con l'azione particolare che lo Spirito svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa (ivi).

A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa: tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio ecc. (cf. DA 30-31). Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa (RM 55). Le religioni possono esercitare la funzione di praeparatio evangelica, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo.

Cristo, pienezza della rivelazione

Per quanto riguarda la rivelazione, il documento afferma che solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno. Il dono che Dio fa di se stesso e la sua rivelazione sono due aspetti inseparabili dell'evento di Gesù.

Senza dubbio, è vero che anche nelle altre religioni esistono «semi del Verbo» e «raggi della verità»; ma anche se Dio ha potuto illuminare gli uomini in vari modi, non abbiamo mai la garanzia che queste luci siano rettamente accolte e interpretate in chi le riceve; soltanto in Gesù abbiamo la garanzia della piena accoglienza della volontà del Padre. Lo Spirito ha assistito in modo speciale gli apostoli nella testimonianza di Gesù e nella trasmissione del suo messaggio; dalla predicazione apostolica è sorto il Nuovo Testamento, e anche grazie ad essa la chiesa ha ricevuto l'Antico. L'ispirazione divina, che la chiesa riconosce agli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento, assicura che in essi è stato raccolto tutto soltanto quello che Dio voleva fosse scritto.

Anche se non si può escludere, nei termini indicati, qualche illuminazione divina nella composizione di tali libri, questi non si possono considerare come equivalenti all'Antico Testamento, che costituisce la preparazione immediata alla venuta di Cristo nel mondo.

Dialogo interreligioso

Il dialogo interreligioso non è soltanto un desiderio che nasce dal concilio Vaticano II ed è promosso dall'attuale pontefice: è anche una necessità nella situazione attuale del mondo. Ma come intenderlo? I rappresentanti della teologia pluralista pensano che da parte dei cristiani si debba eliminare ogni pretesa di superiorità e di assolutezza, e ritenere che tutte le religioni abbiano lo stesso valore. Pensano che sia una pretesa di superiorità considerare Gesù come salvatore e mediatore unico per tutti gli uomini.

A loro parere, la rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso. La differenza basilare tra questa impostazione e quella del magistero sta nella posizione che adottano dinanzi al problema teologico della verità, e al tempo stesso dinanzi alla fede cristiana. L'insegnamento della chiesa sulla teologia delle religioni muove dal centro della verità della fede cristiana. Tiene conto, da una parte, dell'insegnamento paolino della conoscenza naturale di Dio, e insieme esprime la fiducia nell'azione universale dello Spirito. Vede entrambe le linee fondate sulla tradizione teologica; valorizza il vero, il buono e il bello delle religioni a partire dal fondamento della verità della propria fede, ma non attribuisce in generale una stessa validità alla pretesa di verità delle altre religioni. Questo condurrebbe all'indifferenza, cioè a non prendere sul serio la pretesa di verità tanto propria come altrui.

La teologia delle religioni che troviamo nei documenti ufficiali muove dal centro della fede. Quanto al modo di procedere delle teologie pluraliste, e a prescindere dalle diverse opinioni e dai continui cambiamenti che avvengono in esse, si può affermare che, in fondo, hanno una strategia «ecumenica» del dialogo, si preoccupano cioè di una rinnovata unità con le diverse religioni. Questa unità però si può costruire soltanto eliminando aspetti della propria autocomprensione: si vuole ottenere l'unità togliendo valore alle differenze, che sono considerate come una minaccia; si pensa almeno che devono essere eliminate come particolarità o come riduzioni proprie di una cultura specifica. Ne deriva che la teologia pluralista, come strategia di dialogo tra le religioni, non solo non si giustifica di fronte alla pretesa di verità della propria religione, ma annulla insieme la pretesa di verità dell'altra parte.

Annuncio della verità che è Cristo

Al contrario, una teologia cristiana delle religioni dev'essere in grado di esporre teologicamente gli elementi comuni e le differenze tra la propria fede e le convinzioni dei diversi gruppi religiosi. Il concilio colloca tale compito in una tensione: da una parte contempla l'unità del genere umano, fondata su un'origine comune (NA 1) e, per questo motivo, ancorata sulla teologia della creazione, «la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (NA 2); d'altra parte, però, la stessa chiesa insiste sulla necessità dell'annuncio della verità che è Cristo stesso: «Essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita" (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor 5,18-19)» (NA 2).

Secondo la commissione teologica due sono le indicazioni da tenere presenti:

1. una teologia differenziata delle religioni, che si basa sulla propria pretesa di verità, è la base di qualunque dialogo serio e il presupposto necessario per comprendere la diversità delle posizioni e i loro mezzi culturali di espressione;

2. la contestualità letteraria o socioculturale ecc. sono mezzi importanti di comprensione, a volte unici, di testi e di situazioni, costituiscono un possibile luogo di verità, ma non si identificano con la verità stessa. Con questo si indicano il significato e i limiti della contestualità culturale.

Il dialogo interreligioso tratta delle «coincidenze e convergenze» con le altre religioni con cautela e rispetto. A proposito delle «differenze», si deve tener conto che queste non devono annullare le coincidenze e gli elementi di convergenza, e inoltre che il dialogo su tali differenze deve ispirarsi alla propria dottrina e all'etica corrispondente; in altre parole, la forma del dialogo non può invalidare il contenuto della propria fede e della propria etica.

In conclusione, il cristiano di oggi deve imparare a vivere, nel rispetto per le diverse religioni, una forma di comunione che ha il suo fondamento nell'amore di Dio per gli uomini e che si fonda sul suo rispetto per la libertà dell'uomo. Ma questo rispetto verso l'«alterità» delle diverse religioni è a sua volta condizionato dalla propria pretesa di verità. L'interesse per la verità dell'altro condivide con l'amore il presupposto strutturale della stima di se stesso. La base di ogni comunicazione, anche del dialogo tra le religioni è il riconoscimento dell'esigenza di verità. La fede cristiana però ha una propria struttura di verità: le religioni parlano «del» Santo, «di» Dio, «su» di lui, «in sua vece» o «nel suo nome»; soltanto nella religione cristiana è Dio stesso che parla all'uomo con la sua Parola. Solamente questo modo di parlare dà all'uomo la possibilità di essere persona in senso proprio, insieme alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.

Il Dio in tre persone è il cuore di questa fede: soltanto la fede cristiana vive del Dio uno e trino; dal fondo della sua cultura è sorta la differenziazione sociale che caratterizza la modernità

Questa è la base solida, secondo la commissione, su cui poter impostare seriamente il rapporto con le religioni e di intendere il dialogo che non potrà mai essere disgiunto dall'annuncio.



Cosa dicono gli altri

Riportiamo in forma molto schematica alcune idee sulla figura di Gesù presenti in altre grandi religioni: l'ebraismo, l'islam e l'induismo

Gesù per gli ebrei

Per gli ebrei di oggi, come per quelli di ieri, Gesù costituisce un segno di contraddizione. «O Gesù, figlio d'Israele, che Israele rinnega, e non può ignorare», scriveva Edmond Fleg (1874-1963). Ciò che caratterizza il giudaismo tradizionale è semplicemente la volontà d'ignorare Gesù. A. Mandel, in un articolo intitolato «Un ebreo di nome Gesù», afferma che il giudaismo «non si definisce in rapporto a Gesù, nè in convergenza, né in divergenza. Non se ne interessa affatto». A dire il vero, nel corso di questo XX secolo ci sono stati dei tentativi di recuperare Gesù. Per esempio, Martin Buber (1878-1965) ha voluto riconoscere in lui un fratello. Leggiamo nei suoi scritti: «Fin dall'infanzia ho sentito Gesù come un mio grande fratello. Sono più che mai sicuro che a lui spetta un posto importante nella storia della fede d'Israele, e che questo posto non può essere circoscritto entro nessuna categoria abituale...».

Ma questo appellativo di fratello non trova unanimità di consensi. Per alcuni, Gesù rimarrà per sempre un estraneo. «Nessun scrittore, afferma Emmanuel Levinas, parlando di Gesù, ha saputo comunicarcene il fascino. Neppure tu, caro e venerato Edmond Fleg. Non basta chiamare Gesù Yechu o Rabbi per avvicinarlo a noi. Per noi, che siamo senza odio, non ha amicizia. Resta lontano. E sulle sue labbra non riconosciamo più i nostri versetti».

Dopo la tragedia di Auschwitz in seno al mondo ebraico si sono manifestate altre tendenze, per esempio, quella che vede in lui un martire, simbolo del destino del popolo ebraico. «Gesù che soffre e muore in croce in mezzo agli schemi, si chiede Schalom Ben Corin (nato nel 1913), non è forse un simbolo per tutto il suo popolo che, flagellato fino al sangue, pende sempre sulla croce dell'odio verso il giudaismo?». Sempre secondo Ben Chorin, Gesù è anche il simbolo della condizione umana, è «l'uomo, come te, come me; l'uomo esemplare nella sua piccolezza». Un altro scrittore, Pinchas Lapide (nato nel 1922), osserva che dopo Auschwitz, «Gesù è come un uomo ideale, un compagno di umanità, un compagno nel giudaismo, un israelita». In questo senso egli è veramente «luce delle nazioni».

Ma la maggioranza degli ebrei oggi continua a contestargli questo posto. Anche coloro che si sentono più vicini a lui, non lo riconoscono come il Cristo. In una parola, un fossato divide ancor oggi ebrei e cristiani, secondo una celebre frase di Ben Chorin: «La fede di Gesù ci riunisce, la fede in Gesù ci separa».

Gesù per l'islam

Il Corano riprende diversi tratti del Vangelo per caratterizzare Gesù. Il nome più comune con cui è designato è quello di figlio di Maria o di profeta inviato da Dio a Israele. Per quanto egli sia vicino a Dio, per l'islam Gesù non è nè suo «figlio» nè il Verbo di Dio. Il Corano denuncia tutto ciò che potrebbe costituire un attentato al monoteismo più rigido e assoluto. Gesù quindi è una creatura, come Adamo, creato dalla polvere: Dio gli disse: «Sii! ed egli fu». I cristiani quindi avrebbero deformato il vangelo. Leggiamo: «O gente del libro! Non superate la misura della vostra religione; non dite di Dio che la verità. Il messia, Gesù figlio di Maria, non è che un inviato di Dio, la sua Parola lanciata a Maria, uno spirito venuto da Lui. Credete dunque in Dio e nei suoi inviati. Non dite “tre”. Dio è un Dio unico. Gloria a lui! Lungi da lui l'avere avuto un figlio!».

Parlando della morte di Gesù, il Corano, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, sembra negare la realtà della crocifissione. Gesù cioè non sarebbe morto che in apparenza, o, per lo meno, la morte non avrebbe toccato che il suo corpo.

Per l'islam, Gesù quindi è un servo di Dio a cui è stata affidata la missione di annunciare il vangelo. Egli è semplicemente il penultimo dei profeti. L'ultimo è Maometto. L'islam costituirebbe quindi il superamento del cristianesimo, come il cristianesimo era stato il superamento del giudaismo.

Gesù per l'induismo

Gesù è accolto anche nell'induismo, ma è ben lontano dall'essere il Gesù del cristianesimo. Ghandi, per esempio, era affascinato dal Cristo delle beatitudini: «Lo spirito del discorso della montagna, scrive, esercita su di me quasi lo stesso fascino della Bhagavadgita. È questo discorso che sta alla base del mio attaccamento a Gesù». È stato scritto che Gandhi era «cristiano in maniera naturale, più che per ortodossia». Cristo per lui era un modello di non-violenza. Un autore del secolo scorso, Keshu, si chiedeva: «Gesù non è forse asiatico? Sì, e anche i suoi discepoli lo erano. Questo ricordo centuplica il mio amore a Gesù: lo sento con le mie simpatie nazionali». Keshu invita i suoi compatrioti ad accogliere Cristo secondo lo spirito dei libri sacri della loro tradizione. Ma si tratta di un Cristo panteista. Secondo un altro autore, Parekh, Gesù introduce a un rapporto nuovo con Dio. Essere cristiano, a suo avviso, consiste nel condividere con Gesù la sua relazione con Dio: «Per me, scrive, essere indù vuol dire essere vero discepolo di Cristo, ed essere vero discepolo di Cristo vuol dire essere più indù». In una parola, qualunque sia l'immagine di Gesù, nell'induismo, egli non è altro che una via fra le tante per giungere all'Ultimo. È un Cristo «senza legame», ossia senza chiesa, secondo l'espressione del teologo indiano cristiano S.J. Samartha. L'induismo esalta una mistica dell'interiorità a-storica. E ciò costituisce una vera sfida per il cristianesimo, mistero di un Dio impegnato personalmente nella storia.


(da Testimoni, febbraio 1997, n. 3, pp. 23-28)

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