Religioso Marista
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I primi e gli ultimi
di Giovanni Vannucci
La parabola riportata in Mt 20, 1-16, per certi particolari, e per il contenuto di fondo, si ricollega a quelle del figlio prodigo e del pastore che, lasciando le novantanove pecorelle, va in cerca di quella smarrita. Il figlio maggiore, le novantanove pecorelle, rimasti sempre nella casa paterna e nell'ovile, non hanno conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli avvilimenti del prodigo e della pecorella smarrita; così gli operai della prima ora patteggiano liberamente il prezzo, ignorano la pena di veder passare le ore senza essere ricercati, di veder arrivare la sera e la notte senza aver lavorato; gli altri non sanno come verranno pagati, accettano il lavoro, felici di poter guadagnare qualcosa.
Gli operai dell'undicesima ora avevano atteso tutto il giorno che qualcuno li cercasse; se i primi avevano durato la fatica e il gran caldo, gli altri avevano conosciuto l'avvilimento e l'angoscia dell'inutile attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna, giustamente rimprovera gli insoddisfatti: «Vedi tu di malocchio ch'io sia buono? Non mi è lecito di fare del mio quello che voglio?».
Tutta l'idea dell'annuncio cristiano è contenuta in questa affermazione. Cristo è venuto non per i giusti e i sani, ma per i peccatori e gli ammalati; non per le pecorelle sicure nell'ovile, ma per quelle smarrite; non per i vignaioli che possono contrattare il prezzo del loro lavoro, ma per quelli che accettano il lavoro senza domandarsi quale ricompensa verrà data loro. Come il malato e non il sano abbisogna del medico, il peccatore e non il giusto ha necessità del Redentore, così colui che a lungo è stato disoccupato necessita di occupazione e di lavoro, egli non discute di ricompense, è solo pago di lavorare.
L'operaio dell'undicesima ora non è soltanto, come comunemente s'intende, il peccatore che si converte all'ultima ora. Ordinariamente è l'uomo buono, intelligente, spesso colto, spiritualmente disoccupato; l'uomo cioè privo di idealità, non perché ne sia incapace ma perché sino ad allora nessun vero ideale gli si è presentato. E di questi uomini ne esistono in tutte le razze e in tutte le religioni. Spesso si vive un'intera vita senza interessarsi ai massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese e i riti della propria religione, senza preoccuparsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai della parabola, si aspetta qualcuno che ci cerchi, qualcuno che ci faccia lavorare, finché qualcuno giunga; talora il padrone che ci manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria, dolore! Giungerà colui che ci domanderà: «Perché ve ne state ancora inoperosi?»; risponderemo: «Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l'ultima ora del giorno». Ed egli ci dirà: «Andate anche voi nella vigna».
Spesso, dopo una vita inutile e vuota, con un richiamo improvviso, come un bagliore sopra gli occhi chiusi, comincia il lavoro dello spirito. Che esso duri molto o poco non importa, importa che esso ci sia, importa che tutta la giornata terrena non sia conclusa nell'ozio. Così vediamo persone anziane, vissute fino ad allora tranquille, che di colpo, come obbedendo a un richiamo, si gettano in attività, si dedicano a studi cui mai avevano pensato, si interessano appassionatamente al mondo che le circonda, e, con uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del Signore.
L'operaio dell'undicesima ora è stato chiamato e ha risposto, avrebbe risposto prima se prima fosse stato cercato. L'operaio dell'undicesima ora non dice mai «è tardi», ma risponde sempre «eccomi!». Il premio degli ultimi sarà giustamente uguale a quello dei primi, poiché attendere di essere chiamati e mantenersi liberi con l'animo di aderire al richiamo, è già lavorare.
La ricompensa dei primi come degli ultimi è unica. La ricompensa è l'indiamento, il possesso beato della pienezza della vita; vi è solo una vita divina, la quale non può darsi ai suoi fedeli se non nell'identica maniera. I brontolamenti, le proteste dei figli rimasti sempre nella casa paterna, degli operai della prima ora, attireranno solo lo sdegno del padre e la dura risposta del padrone, che testimoniano un'infinita comprensione in un infinito amore. «Tu sei sempre stato con me», dice al figlio maggiore il padre del figlio prodigo. «Amico, non ti fo alcun torto, non hai convenuto con me per un denaro?», risponde il padrone della vigna.
La parabola termina con un aforisma che ci deve far pensare: «Gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi». Perché questa predilezione divina verso gli ultimi? Spesso mi chiedo: verso chi andavano le preferenze di Gesù morente sulla croce, al buon ladrone o all'altro che accetta fino in fondo le conseguenze della sua vita delittuosa? Il primo, in qualche maniera, approfitta di Cristo: «Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno»; il secondo vive fino all'estremo la sua scelta di libertà.
E non è una domanda retorica questa, facciamocela e forse riusciremo a spogliarci di tutte le nostre albagie di figli buoni e di operai della prima ora!
Spesso lo stato d'animo dei figli prodighi, degli operai dell'ultima ora corrisponde a quello che Ornar Khayam descrive in un suo poema: «Ho visto un uomo solitario in un luogo arido. Non era ne eretico, ne ortodosso. Non aveva né ricchezze, né religione, né Dio, né Verità, né Legge, né certezze. Chi in questo mondo è capace di tanto coraggio?». Quando questi uomini entrano nella vigna, vi portano il loro coraggio, la loro forza, la loro dedizione che hanno raggiunto in una solitudine libera e spoglia. Allora «gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi».
Gli ultimi non porteranno nel Regno le meschinerie, le rivalità, le ambizioni dei primi!
(Da Giovanni Vannucci, «I primi e gli ultimi» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 25a del tempo ordinario, Anno A; pp. 165-167).
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Il sacrificio di Abramo
Abramo è il padre comune dei credenti appartenenti alle tre religioni monoteistiche. Egli ha una duplice discendenza: Isacco, nato dalla sua legittima moglie Sara, e Ismaele, il figlio nato da Agar, la schiava di Sara. La tradizione attribuisce al primo la discendenza ebraica e all'altro la discendenza araba. Il testo coranico non precisa se il figlio che Dio chiede ad Abramo di immolare sia Isacco o Ismaele.
Genesi 22,1 - 19
Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo! Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l'asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato.
Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutt'e due insieme. Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?”.
Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!“. Proseguirono tutt'e due insieme; così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l'altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull'altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. L'angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
Sura 37, dal versetto 101.
Gli demmo la lieta novella di un figlio magnanimo.
Poi quando raggiunse l'età per accompagnare suo padre, questi gli disse: “Figlio mio, mi sono visto in sogno in procinto di immolarti. Dimmi cosa ne pensi”. Rispose: “Padre mio, fai quello che ti è stato ordinato: se Allah vuole, sarò rassegnato”.
Quando poi entrambi si sottomisero, e lo ebbe disteso con la fronte a terra,
Noi lo chiamammo: “O Abramo,
hai realizzato il sogno. Così Noi ricompensiamo quelli che fanno il bene.
Questa è davvero la prova evidente”.
E lo riscattammo con un sacrificio generoso.
Perpetuammo il ricordo di lui nei posteri.
Pace su Abramo!
Così ricompensiamo coloro che fanno il bene.
In verità era uno dei nostri servi credenti.
E gli demmo la lieta novella di Isacco, profeta tra i buoni.
1 - Una lettura ebraica
di Armand Abécassis (1)
Che cosa saremmo pronti a sacrificare per il nostro ideale personale o collettivo? Fino a qual punto si deve amare la patria, i genitori, i figli, la sposa, un idolo della musica o dello spettacolo, una filosofia, o più semplicemente un maestro, un guru? Sembra che sia difficile trovare obbiezioni alla risposta: “L'amo e sono pronto a morire per lui”. In questo senso la logica immanente dell'amore sarebbe quella del sacrificio, come le madri lo vivono per i loro figli, per esempio, o l'eroe che muore per la patria, o come Rabbi Aqiba scorticato vivo dai Romani perché si ostinava a insegnare la Torah nonostante la proibizione o il martire cristiano nelle arene di Roma. Una simile concezione dell'amore è ammirevole e perciò è presentata come modello dalle religioni, dai capi militari e dagli agitatori rivoluzionari. È sinonimo di abnegazione, di dono, di generosità, di abbandono e di purezza, quando non di santità.
. Moloch era una divinità del popolo di Ammon, di Tiro e degli Assiri, al quale gli Ebrei e persino i loro re furono indotti a sacrificare i loro figli nella valle della Geenna! In altri termini, il Dio di Israele, il Dio monoteistico, non desidera che gli vengano sacrificati i bambini. Il racconto biblico insiste dunque sui limiti del potere paterno che in quei tempi era assoluto e giungeva fino alla morte del figlio per molte stupide ragioni, come per esempio un handicap. Il racconto biblico insegna che neppure per Dio il padre ha diritto di attentare alla vita del figlio, perché questo è un rito pagano.Ma, soprattutto, gli interpreti ebrei mostrano che la prova di Abramo non poteva consistere, come sempre si insegna, nel sacrificio del figlio su richiesta di Dio. In quel caso sarebbe spettato ad Abramo stesso di dare la sua vita per provare il suo amore! L'angelo mandato al patriarca gli dice: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio” e non: “Ora so che tu ami Dio”.Temere Dio è rispettarlo, cioè obbedire alla sua legge e non alla legge che noi ci dettiamo da soli, individualmente o collettivamente. La prova era dunque quella della Legge e non quella dell'amore. Si trattava per Abramo di mostrare che era capace, in quanto essere umano, di interiorizzare una legge che riceveva dall'esterno, una legge trascendente.
E su che cosa verteva questa legge? Lo enuncia il versetto due di questo capitolo: Dio disse: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Rashi, il famoso commentatore della Torah, osserva: “Dio non ha detto ad Abramo: 'Sgozzalo!', perché il Santo, sia Benedetto, non voleva l'immolazione di Isacco, ma 'farlo salire sulla montagna' per dargli il carattere di una offerta a Dio. Quando lo fece salire gli disse : 'Fallo discendere!'” .
Comprendiamo bene ciò che questa lettura significa: il patriarca avrebbe mal compreso l'ordine divino che di fatto si riferiva al problema dell'iniziazione di Isacco, alla sua elevazione e alla sua promozione alla condizione di figlio. La funzione del padre non è, come ha creduto di comprendere Abramo, di insegnare al figlio a morire, ma a innalzarsi fino a quel punto da cui possa ridiscendere con il padre. Potrà allora sposarsi, come narra il racconto seguente, e divenire padre a sua volta. “Immola tuo figlio” non poteva essere un ordine divino; purtroppo il padre interpreta l'iniziazione del figlio come la sua sottomissione totale e assoluta alla sua propria comprensione del mondo e della trasmissione umana. Ma l'angelo non lascia che Abramo tocchi il figlio Isacco. Attende che lo leghi, perché questo è tutto ciòche è richiesto, ma il coltello non tocca Isacco e il sangue del figlio non scorre, perché Dio non lo voleva. Per questo la tradizione ebraica ha dato all'episodio biblico il titolo di “Legatura di Isacco” e non quello di “sacrificio di Isacco”.In questo racconto biblico è analizzata la relazione fra le generazioni, cioè, in realtà, la relazione fra padre e figlio, fra la paternità e la filialità. Se Abramo avesse sacrificato il figlio sarebbe stato un pagano. La sua prova consistette nel poter compiere il suo sacrificio lasciando vivere il figlio e ridiscendendo con lui dalla montagna. Non nella salita aveva luogo la prova, secondo l'interpretazione di Rashi, ma nella discesa “con” il figlio.
2 - Una interpretazione musulmana
di Eric Geoffroy (3)
Il testo coranico orchestra il tema della prova, vera pedagogia spirituale per i credenti.
Secondo l'islam il Corano è il punto terminale della Rivelazione. Si presenta come la ricapitolazione e la sintesi dei messaggi presedenti, e vari messaggi biblici vi sono riportati in maniera condensata e allusiva.
L'episodio del sacrificio di Abramo illustra il tema coranico della prova (bala) che agisce come una vera pedagogia spirituale per i credenti e, a maggior ragione, per i profeti: la loro elezione e la loro investitura hanno come passaggio obbligatorio la purificazione di Abramo (Ibrahim in arabo) perché egli ha subito con successo varie prove. Una delle più intense fu senza dubbio quel sogno nel quale il patriarca si vide nell'atto di immolare il figlio: “Figlio mio, mi sono visto in sogno in procinto di immolarti. Dimmi cosa ne pensi”. Rispose: “Padre mio, fai quello che ti è stato ordinato: se Allah vuole, sarò rassegnato”.
Tutti i traduttori rendono questo passo al passato: “Figlio mio, mi sono visto in sogno…”-, ma è importante restituire il presente usato nel testo arabo: egli vede la visione in diretta, non in differita! I commentatori insistono sulla dimensione onirica della scena, assente nel testo biblico. Tuttavia Abramo non ha interpretato, “trasposto” dice l'arabo, questa visione, perché, secondo l'opinione dei commentatori, il sogno o la visione dei profeti appartiene alla rivelazione (wahy) ed è da loro percepito come una realtà immediata. Infatti: “Quando poi entrambi si sottomisero, e lo ebbe disteso con la fronte a terra, Noi lo chiamammo: “O Abramo, hai realizzato il sogno. Così Noi ricompensiamo quelli che fanno il bene”. In realtà la visione ricevuta da Abramo non gli ordinava di immolare materialmente il figlio, ma di consacrarlo a Dio. L'islam si accorda su questo con la tradizione ebraica.
“Questa è davvero la prova evidente”. Prova suprema di sottomissione a Dio quella di credersi obbligato a sgozzare il proprio figlio! Secondo alcuni sufi, la prova consisteva nel dare il vero significato alla visione. Essi fanno notare che il figlio è il simbolo dell'anima. Quel che Dio chiede ad Abramo è dunque di immolare il suo “io”, questa anima profetica, elevata certo, ma ancora capace di amore per uno che non è Dio. Ora, per essere investito pienamente dell'intimità divina, Abramo deve vuotare il suo cuore di ogni attaccamento alle creature. D'altronde, l'episodio del sacrificio segue immediatamente a un passo in cui si vede Abramo distruggere gli idoli adorati dal suo popolo (84-98).
“E lo riscattammo con un sacrificio generoso”, perché la posta è enorme. Un ariete proveniente, secondo la tradizione, dal paradiso e portato sulla terra dall'angelo Gabriele per il sacrificio, si sostituisce al figlio: grazie a questo scambio, Dio riscatta ad Abramo tutta la sua discendenza, profetica e non, per meglio preservarla e benedirla. Così: “Perpetuammo il ricordo di lui nei posteri. Pace su Abramo!” : dopo la sottomissione (islam) viene la pace (salam). L'animale, essere puro perché conosce per intuizione diretta il creatore, come i regni minerali e vegetali, può infatti prendere il posto di un essere umano puro, profeta e figlio di profeta. Con il suo sacrificio consentito, egli permette ai “figli di Adamo” - e non soltanto di Abramo - di rigenerare la loro energia vitale e quella spirituale.
Rimane il fatto che la commemorazione del sacrificio di Abramo, attualizzato ogni anno con il sacrificio di animali, è diventato la “grande festa” (al-îd-al-kabir) dei musulmani, celebrata il 10 del mese di dul-hijja, mese del pellegrinaggio, lo Hajj. Coloro che l'hanno compiuto lo sanno bene, lo Hajj è una prova. A somiglianza della bestia, il pellegrino è l'offerta sacrificale il cui percorso rituale consente alla comunità musulmana, e all'umanità intera, di rigenerarsi. Se il sacrificio dell'animale conserva ancora oggi la sua pertinenza, e se la condivisione e il dono della carne perpetuano “l'ospitalità sacra” di Abramo, è importante non perdere di vista il senso primo del sacrificio: la purificazione interiore.
Si osserverà che il Corano non precisa se il figlio offerto in oblazione è Ismaele, padre degli Arabi, figlio della serva Agar, oggetto della gelosia da Sara, oppure Isacco, suo fratello minore, padre degli Ebrei. Questa imprecisione ha diviso i musulmani e ciascuno trae dagli stessi passi coranici argomenti opposti, a favore di Isacco o di Ismaele.
Il silenzio del Corano sull'identità del figlio sacrificato - o immolato - nel contesto attuale, può essere interpretato sia come fonte di rivalità e di inimicizia, sia come fonte di vicinanza o di intimità fra ebrei e musulmani. Non sarà forse nel superamento dell'ego, vero senso del sacrificio di Abramo, che gli uni e gli altri arriveranno a restaurare una armonia secolare guastata da sviluppi politici recenti?
3 - Un punto di vista psicologico
di Marie Romanens (4)
Come non stupirsi che il Dio di Israele, che chiede all'uomo di non uccidere, sembri qui esigere un assassinio? Questo dio che ha promesso ad Abramo una posterità innumerevole, che ha concesso alla sua sposa, Sara, donna anziana e sterile, di mettere al mondo un figlio, come può essere che voglia con un sol gesto cancellare tutte le sue parole e i suoi fatti? Sarebbe dunque un dio pieno di incoerenza, crudele e despota?
Si può ben capire che molte persone si siano allontanate da lui dopo aver recepito una simile immagine come una rappresentazione divina. L'interpretazione che è stata loro data andava nel senso della sottomissione: bisogna obbedire ciecamente per non spiacere a questo dio geloso. Nel senso del dolorismo, anche: per rientrare nelle sue grazie, bisogna accettare ciò che fa soffrire di più!
Tuttavia questo passo biblico sembra dire una cosa diversa. Certo, parla di prova: “Dio mise alla prova Abramo”. Ma la prova è inerente alla vita. Essa è ciò che conduce ciascuno a crescere in umanità, cioè a divenire più cosciente e più capace di apertura. Non stupisce dunque che il destino di Abramo prima o poi lo confronti con questa esigenza. Non potrebbe anche essere, infine, che questo testo non parli di subordinazione, ma piuttosto di liberazione? Il suo scopo non sarebbe di conservare in uno stato di piccolezza, ma al contrario di favorire lo sviluppo pieno dell'essere.
Il suo aspetto sommamente paradossale ci interroga. Quando Abramo lascia i servi, ordina loro di aspettare il ritorno di “noi“, cioè del padre e del figlio, mentre noi pensiamo che dovrà tornare da solo. Sembra che Dio esiga un sacrificio per rifiutarlo subito dopo. Ci si può domandare se questo aspetto fuorviante della scrittura non sia là proprio per consentire al lettore, attraverso le domande che suscita, un cammino, un cammino appunto per la sua crescita .
Il mistero si fa più profondo quando si pensa al comportamento di Isacco. Un figlio quasi muto, che si lascia legare senza ribellarsi. Eppure la sola volta che apre la bocca è per porre una domanda cruciale: “Dove è l'agnello per l'olocausto?” Come ogni bambino ha il dono di andare al cuore dell'argomento. e interpella questo padre ambiguo che lo ama come “suo” figlio, il suo “unico”, e che si aggiusta perché possano andarsene “tutt'e due insieme”. Non si sente forse l'agnello sacrificato questo figlio, così desiderato da farci immaginare i genitori intenti a covarlo continuamente con un'attenzione piena di angoscia? Non deve restare legato, se suo padre, ancora tanto immaturo, ha bisogno per vivere di restare così aggrappato a lui?
Abramo risponde: “Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!”. Così il patriarca accetta, volgendosi verso chi è più in alto di lui, di non sapere, di non restare in posizione di potere. La psicanalista Marie Balmary (5) osserva che le parole “figlio mio” e “se ne andarono tutt'e due insieme”, che manifestano un'unione soffocante, sembrano quasi messe al posto dell'agnello. Il coltello è chiamato a tagliare il legame di dipendenza, a rendere il figlio libero e così a far diventare questo padre pienamente padre. Abramo si dimostra capace di superare le sue angosce, di dimenticare i suoi bisogni affettivi troppo invadenti e di lasciare Isacco libero di andare al suo destino. L'immolazione dell'ariete significa che egli accetta la perdita. Così ognuno, padre e figlio, e forse anche il lettore, sfugge alle forze di morte generate da un Io troppo possessivo per accedere alla Vita feconda.
Maria non é chiamata, innanzi tutto, ad essere una testimone, ma ad essere la madre del Signore. E testimone di questo fatto. La vocazione specifica di Maria è stata la sua partecipazione libera e attiva, in senso barthiano, al miracolo di natale.
Religioni: violenza o dialogo?
di Michael Amaladoss *
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Il dialogo fra le religioni, da parte dei cristiani, normalmente si situa in un contesto missionario. Alcuni vedono il dialogo come una tappa nella direzione della proclamazione di Cristo e della Chiesa come unico mezzo di salvezza.
Il Cristianesimo è inteso come la compiutezza delle altre religioni. Si dialoga con gli altri credenti perché la proclamazione non è possibile nelle situazioni in cui il popolo e i governanti si oppongono ad essa.
Altri, tuttavia, vedono il dialogo come una dimensione integrale della missione. Si dialoga con gli altri perché si riconosce la presenza e l'azione dello Spirito di Dio in essi.
Oggi il dialogo tra le religioni ha acquisito una nuova dimensione e una nuova urgenza. Credenti di diverse religioni vivono insieme, ma in molti luoghi lottano fra loro in nome della religione. Le religioni ispirano e legittimano la violenza.
Pertanto, il dialogo fra le religioni sembra essere urgente per la sopravvivenza e la pace degli esseri umani su questa terra. Di conseguenza, dobbiamo stare attenti al dialogo tra le religioni, non soltanto in un contesto missionario e religioso, ma anche sociopolitico. I due contesti sono in relazione in termini di vita e di ideologia.
Violenza in nome della religione
La violenza fra i popoli che professano differenti religioni ha una lunga storia.
Ogni religione ha i propri martiri.
Le Crociate e le guerre europee di religione fanno parte della storia mondiale.
Se consideriamo solo la seconda parte del secolo XX, constatiamo che la violenza interreligiosa nel mondo si è diffusa molto. Violenza fra indù e musulmani in India, fra buddisti e indù nello Sri Lanka, fra cristiani e musulmani nelle Filippine, in Indonesia e nella ex Jugoslavia, violenza infra-cristiana in Irlanda, fra ebrei e musulmani in Medio Oriente, fra buddisti e cristiani in Birmania. La lista completa sarebbe troppo lunga. (...).
La violenza interreligiosa raramente ha cause puramente religiose. Esistono sempre cause socioeconomiche e politiche al fondo dei conflitti religiosi. La religione li giustifica e vi aggiunge sue proprie ragioni. Per questo, adotteremo qui un approccio ampio nello sforzo di capire la violenza religiosa.
In difesa dell'identità personale
Una delle radici della violenza religiosa è la ricerca di identità sociale. Le nostre identità sono socialmente costruite. Gli individui diventano coscienti della loro identità attraverso l'interazione con altri individui significativi, a cominciare dai genitori, dai fratelli, dai familiari, dai vicini. Allo stesso tempo costruiscono anche un'identità sociale mediante l'interiorizzazione delle strutture simboliche su comunicazione e relazione attraverso il linguaggio e il rituale. Il ciclo della vita e i riti delle stagioni contribuiscono, in particolare, alla costruzione del gruppo. I riti di iniziazione possono svolgere un ruolo significativo in un momento cruciale dello sviluppo personale. Questi sono costituitivi della cultura. L'individuo appartiene a un gruppo che si distingue in contrapposizione ad altri gruppi: "Noi" contro "Loro".
Gli psicologi sostengono che, quando ci sono due gruppi, questi si vedono non solo come diversi, ma come competitivi, nemici e inferiori. Tale atteggiamento si basa sul sentimento di "appartenere al gruppo" contro lo "stare fuori dal gruppo". Non c'è lo sforzo di conoscere l'altro, la qual cosa da origine a ignoranza e preconcetti.
Questi sentimenti possono rimanere sopiti in tempi di normalità, ma si aggravano in momenti di tensione per un qualunque motivo. Tali disgreganti sentimenti di gruppo sono ancora più rafforzati dalla religione. I simboli religiosi parlano delle prospettive ultime, e, come tali, toccano livelli più profondi di identità personale e di gruppo. I riti religiosi rafforzano questa appartenenza.
La religione è una poderosa forza di associazione. Un gruppo può sentirsi scelto da Dio e detentore di una rivelazione speciale o può attribuirsi un'esperienza particolare delle cose ultime. Gli altri, allora, possono essere visti come entità che mettono in questione o minacciano questa relazione speciale, particolarmente se rivendicano una differente esperienza del divino. In una situazione di conflitto, le persone tendono a proiettare nell'altro i propri mali e problemi. In un contesto religioso, tale proiezione può convenirsi in demonizzazione degli altri.
"Comunalismo" religioso
I conflitti fra i gruppi sorgono quando essi sono forzati a condividere lo stesso spazio geografico, economico e politico. Tale prossimità implica una questione di potere: chi controlla la situazione, chi domina. La necessità di dominare sembra essere un'esigenza basilare degli esseri umani, in quanto animali politici. Il controllo politico, tuttavia, diventa cruciale quando, nella sfera economica c'è competizione a causa di risorse limitate. Gli individui, allora, considerano indispensabile l'appoggio del gruppo. Il gruppo religioso, naturalmente, sarà il più forte perché ha Dio al proprio fianco.
Un gruppo religioso può essere unito ancor più strettamente di un gruppo di classe.
La religione, allora, diventa "comunalista". Il comunalismo consiste nell'uso politico dell'identità religiosa del gruppo. Le persone appartenenti ad una stessa religione sono portate a pensare di condividere gli stessi interessi economici e politici.
La vera guerra può cominciare nelle sfere economica e politica, giustificate dalla religione. Ma facilmente si riversano nella sfera religiosa e i simboli religiosi sono attaccati. In questi casi, le religioni sono coinvolte nei conflitti economici e politici. Possono esserci alcune persone davvero religiose in ogni gruppo, capaci di percepire tale abuso della religione, che criticano o prendono posizione contro di esso.
Ogni gruppo avrà i suoi profeti, che condannano gli abusi e tentano di incanalare la religione per promuovere la pace.
Fondamentalismo religioso
A volte, la stessa religione può diventare causa di divisione e di conflitto. Ogni religione ha gruppi fondamentalisti. Fondamentalisti sono i difensori di quegli elementi che essi definiscono i fondamenti della loro religione, quando sentono che sono attaccati.
Il fondamentalismo cristiano è sorto negli Stati Uniti, ai primi del secolo XX, quando alcuni cristiani sentivano le loro credenze minacciate dalle emergenti teorie scientifiche, come la teoria dell'evoluzione delle specie, proposta da Charles Darwin, considerata una pura visione naturalistica del mondo che non aveva bisogno di Dio. Pensavano che tale teoria attaccasse, direttamente, il racconto biblico della creazione. Difendevano la loro fede religiosa mediante un'interpretazione letterale della Bibbia. Tali gruppi, più tardi, posero la loro attenzione e la loro azione contro il comunismo, considerato come propagatore di ateismo. Questa opposizione al comunismo è al fondo della costruzione di quella grande macchina da guerra che sono oggi gli Stati Uniti. Anche prassi di morale liberale come la rivendicazione dell'aborto, hanno attirato l'opposizione di questi gruppi.
Esiste una corrente fondamentalista simile anche nell'Islam. Molti fra i moderni riformatori dell'Islam si opponevano tanto all'ateismo secolarista, promosso dalla cultura consumistica dell'Occidente rappresentato degli Stati Uniti, quanto all'ateismo marxista delle potenze comuniste. Alcuni di essi hanno promosso un'interpretazione letterale del Corano.
Purtroppo, tali conflitti fondamentalisti sono diventati comunalisti da quando le due correnti cultural-religiose sono state appoggiate l'una dal dominio politico-militare delle potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti, l'altra dal blocco comunista, guidato dall'ex Unione Sovietica.
Ecco che questi conflitti diventano sono diventati non solo religiosi, ma anche politici e militari. Guerriglie e attacchi terroristici sono le "armi del debole". La violenza sarà allora giustificata come autodifesa.
L'esclusivismo religioso può essere considerato una forma lieve di fondamentalismo. Gli esclusivisti pensano che la loro religione sia l'unico mezzo di salvezza.
Di conseguenza, sono anche universalisti o globali. Si sentono responsabili della salvezza di ogni persona. Questo sentimento di responsabilità li spinge a "salvare" gli altri, se necessario, attraverso la forza.
La forza può essere politica, sociale, economica e, oggi, anche dei media.
Nel passato, l'Islam e il Cristianesimo non hanno esitato ad usare perfino la forza militare con questo proposito, naturalmente per il bene ultimo del popolo.
Violenza religiosa
Fino a qui, la nostra analisi può farci pensare che i gruppi sociali siano realmente responsabili della violenza per motivi economici e politici. Il potere della religione è, spesso, cooptato per legittimare il conflitto. Anche il fondamentalismo religioso non sembra diventare violento, a meno che non sia mescolato con fattori politici e, forse, con interessi economici non tanto occulti.
Potremmo essere indotti a pensare che le religioni, in se stesse, sono promotrici di pace, personale (o interiore) e sociale. Purtroppo, le religioni sono molto ambigue su questo punto.
Un critico letterario francese, René Girard, giunge a suggerire che la violenza è alla fonte della religione. La sua tesi è semplice. C'è una tendenza umana di base a desiderare di avere quello che hanno le altre persone. Chiama, questo, mimesis o imitazione. Uno è pronto ad usare la violenza contro un altro allo scopo di appropriarsi di quello che l'altro possiede. In una comunità, questa tendenza alla violenza reciproca è proiettata su un capro espiatorio - una persona più debole o uno straniero - che a questo punto è morto.
Questo atto di violenza aiuta la comunità a purgarsi della sua propria aggressività.
Nel cristianesimo, Dio in Gesù, attraverso l'offerta di se stesso come capro espiatorio e la ritualizzazione di questa offerta nell'Eucaristia, ci libera dalla necessità di trovare altri capri espiatori e, pertanto, da ulteriore violenza e dalla colpa conseguente.
Non concordo con questa teoria. Penso che svilisce la religione, considerandola un prodotto della violenza umana. Ma il fatto che questa teoria oggi trovi ascolto dimostra quanto facilmente la violenza possa essere giustificata e cooptata dalla religione.
Tutte le religioni iniziano come ricerca di soluzione al problema del male, in quanto sofferenza immeritata. La sofferenza è vista come punizione del peccato. Il male del peccato può essere attribuito solo agli umani, non a Dio.
Ma il peccato sembra essere tanto grande che la maggioranza delle religioni sente la necessità di un potere maligno come Satana che tenta e provoca gli umani.
Satana può infine essere vinto da Dio. Ma abbiamo un conflitto continuo fra il bene e il male, il quale prende forma storica, umana e sociale. La lotta è diretta contro quelle persone e strutture che sono identificate come agenti di Satana in questo mondo. La violenza contro di esse non solo è accettata, ma pure incoraggiata.
È così che una "guerra giusta" scivola verso una "guerra santa": una jihad, una crociata.
Le Scritture di tutte le religioni sono piene di queste guerre. L'Antico Testamento è pieno di guerre del popolo di Dio contro i suoi nemici. Spesso sono umanamente ingiustificabili. L'elezione e il favore di Dio sembrano essere l'unica giustificazione. Il Nuovo Testamento parla di lotta fra Gesù e Satana. Tuttavia alla fine è Gesù che è morto. La morte di Gesù è interpretata come una punizione per i peccati dell'umanità. L'induismo ha le sue guerre epiche fra le forze del bene e del male, nel Ramayana e nel Mahabharata.
Nel Corano, Maometto è a capo di un esercito, anche se l'ultima battaglia in difesa della Mecca si è svolta in modo non violento.
Solo nel buddismo la lotta fra il bene e il male è vista come battaglia morale, interiore. Perciò Budda sceglie la via mediana fra l'ascetismo rigoroso e l'indulgenza. Sebbene i buddisti siano violenti quanto gli altri, non possono citare Budda o i suoi insegnamenti per sostenere la loro violenza.
Pertanto, tutte le religioni, eccetto il buddismo, tendono a demonizzare il nemico e a giustificare la violenza, e persine ad incoraggiarla. I difensori delle guerre giuste sono molto attivi, anche oggi.
Dunque non si può dire che le religioni non difendono o non giustificano la violenza. Purtroppo lo fanno. Non sto affermando che le religioni sono intrinsecamente violente. Ma giustificano la violenza in determinate circostanze.
Violenza sacrificale
C'è ancora un altro principio religioso che sembra giustificare la violenza.
Tutte le religioni parlano di sacrificio. Nella storia delle religioni si trova uno spettro che si estende dal sacrificio umano al sacrificio "spirituale". Si parla di sacrifici nel contesto del peccato, della colpa e della propiziazione. Strettamente parlando, il sacrificio è l'offerta di se stesso, è l'offerta della propria vita. Ma si da simbolicamente, mediante l'offerta di altre vite, cioè di animali. La vita è simbolizzata dal sangue.
Pertanto il sacrificio implica assassinio e violenza. Il giainismo, in India, il buddismo e alcune forme di induismo hanno abolito i sacrifici cruenti. Ma lo hanno fatto ponendo l'enfasi sull'auto-realizzazione, attraverso la meditazione in cerca della liberazione definitiva. Queste religioni non parlano più di un Dio che ci si deve propiziare o che si deve soddisfare con l'offerta di sacrifici. Noi cristiani non abbiamo abbandonato il linguaggio sacrificale nella comprensione della redenzione realizzata da Gesù. L'offerta di se stesso come un segnale d'amore e di servizio ha un senso profondo, ma noi dobbiamo liberare questa auto-offerta da qualunque senso di riparazione o soddisfazione che implichi la sofferenza come punizione. Dobbiamo anche distinguere fra auto-offerta e sofferenza. La sofferenza può essere accidentale. Si può anche assumere la sofferenza come mezzo per mostrare amore in una circostanza particolare, ma non è un elemento essenziale dell'amore o dell'offerta. Si può deplorarla anche accettandola.
Le religioni per la pace
Sebbene le religioni possano, in molti modi, provocare la violenza, possono anche ispirare la pace. Tutte parlano di pace: Shalom!, Salam!, Shanti!
Esattamente in quanto religioni, nel processo di radicamento in un determinato luogo, tendono a inculturarsi e a giustificare strutture socioeconomiche e politiche già esistenti; le religioni, o per lo meno alcuni dei loro praticanti seri, sfidano l'ingiustizia e la violenza in nome dell'Ultimo. Le strutture economiche e politiche saranno sempre guidate dal profitto e dal potere.
La ricerca della giustizia e della pace può venire solo dalla/e religione/i.
Anche quelle che giustificano la violenza propongono sempre la pace come loro scopo. Come possono le religioni nella pratica promuovere la pace? Penso che ogni religione, per se stessa, deve rispondere a questa domanda.
Ma le religioni difficilmente possono promuovere la pace, se non sono in pace tra di loro. (...).
Un atteggiamento positivo nei confronti delle altre religioni
Prima del Concilio Vaticano II, il Cristianesimo si considerava l'unico mezzo di salvezza e l'unica vera religione. Le altre religioni erano semplicemente false. La falsità non può rivendicare nessun diritto. Pertanto, laddove i cristiani erano maggioranza, i membri di altre religioni erano, nella migliore delle ipotesi, tollerati, senza pieni diritti. Nella peggiore, erano perseguitati, come gli ebrei. Dove era possibile, le loro terre venivano loro sottratte e loro fatti cristiani a forza, come, per \esempio, in America Latina. Solo le culture ricche e le religioni evolute dell'Asia riuscirono a resistere a questa aggressione. Non c'è bisogno di ricordare questa sgradevole storia. Ma non dobbiamo farisaicamente dimenticarla.
Nel Concilio si sono fatti due passi avanti. C'è stata un'affermazione della libertà religiosa. Le persone hanno diritto di seguire la religione secondo la loro coscienza. Questa libertà non è basata sulla "bontà" delle religioni, ma sulla dignità di cui ogni persona umana gode essendo creata a immagine di Dio. In secondo luogo, c'è stato un approccio più positivo verso le altre religioni. Dio è visto come origine e destino comune di tutti i popoli: si riconoscono nelle altre religioni, viste come sforzi umani per giungere a Dio, elementi di bontà e di santità, i semi della Parola. I cristiani sono incoraggiati a dialogare con loro. Insieme a questa apertura verso le altre religioni c'è stata anche una vigorosa affermazione della volontà salvifica universale di Dio. Ogni essere umano ha la possibilità di partecipare del mistero pasquale di Cristo, mediante l'azione dello Spirito, pur attraverso cammini a noi sconosciuti.
Dopo il Concilio, il progresso teologico ha incoraggiato una valutazione più positiva delle altre religioni.
Adottando un approccio a priori, teologi come Karl Rahner affermavano che, se Dio viene alle altre persone con la grazia salvifica in ragione della loro natura umana (corporale), sociale e storica, questo può essere dato solo attraverso le religioni mediante le quali le persone tentano di raggiungere Dio. Le persone pertanto sono salve nelle e attraverso le loro religioni e non malgrado esse. Adottando un approccio a posteriori, i vescovi asiatici hanno affermato che, a giudicare dai frutti di santità, dobbiamo riconoscere l'azione di Dio nelle altre religioni.
Questo atteggiamento positivo nei confronti delle altre religioni ha ricevuto sigillo "ufficiale" quando Giovanni Paolo
Il ha invitato i leader di tutte le religioni a riunirsi ad Assisi per pregare per la pace nel mondo nell'ottobre 1986 (...).
Basandosi su questi nuovi avanzamenti, i teologi oggi affermano che le altre religioni agevolano l'incontro salvifico divino-umano. Molti teologi sarebbero anche d'accordo sul fatto che la salvezza è in relazione con il mistero pasquale di Cristo, ma non sembra necessario riconoscere questa relazione coscientemente. La dinamica di questa relazione è spiegata diversamente dai differenti teologi.
Ci sono tuttavia due opinioni sul modo in cui le altre religioni si relazionano alla Chiesa. Alcuni pensano che le altre religioni devono trovare la loro pienezza nella Chiesa, identificata con il Regno di Dio. La salvezza è sempre in relazione alla Chiesa, in un modo alquanto misterioso. Il dialogo perciò sarebbe un mezzo attraverso il quale tale pienezza potrebbe essere promossa. Questo equivale a dire che il mondo intero è destinato a diventare Chiesa. Altri pensano che la Chiesa non è il Regno di Dio, ma solo il suo simbolo e la sua serva. L'obiettivo verso il quale la Chiesa e le altre religioni si incamminano è il Regno. Questa traguardo deve essere escatologico. Intanto le religioni sono chiamate a dialogare, a correggersi mutuamente e ad arricchirsi nella loro vita verso il Regno. La Chiesa è cosciente della speciale missione di promuovere l'unità di tutte le cose nel Regno, come suo simbolo e sua serva.
Ma tutti concordano sul fatto che c'è bisogno, oggi, di dialogo fra i credenti delle differenti religioni, non di conflitto.
Questo dialogo deve verificarsi non semplicemente a livello religioso, ma anche a livello sociale e politico, dove siamo chiamati a collaborare nella promozione della giustizia, della solidarietà e della pace nel mondo.
Possiamo ancora continuare a testimoniare la chiamata di Gesù a diventare suoi discepoli e ad essere simboli e servitori del Regno nel mondo.
Possiamo ricevere persone desiderose di diventare discepoli di Gesù e partecipare della sua missione. Ma non presentiamo più questo come l'unico cammino attraverso il quale possiamo essere "salvi".
Nella situazione di conflitto nella quale ci troviamo, anche una forma sottile di fondamentalismo, rappresentato da una posizione esclusivista, deve essere evitata.
Avere un appropriato atteggiamento di dialogo
Non possiamo, di fatto, dialogare con gli altri se non siamo realmente impegnati in questo. Altrimenti non godremo di credibilità. Stiamo comunicando un messaggio doppio. All'interno della Chiesa c'è diversità di opinioni. La Chiesa, diversamente da altre religioni come l'induismo o il buddismo o lo stesso Islam, è una istituzione molto ben organizzata. In questo senso, quello che i suoi leader dicono è preso sul serio. I leader che parlano in nome della Chiesa sembrano parlare un doppio linguaggio. Da un lato, il papa invita i leader delle altre religioni a riunirsi in preghiera per la pace. Dall'altro, il Vaticano taccia le altre religioni di essere obiettivamente deficienti (il riferimento è alla Dominus lesus della Congregazione per la Dottrina della Fede, v. Adista n. 64/00, ndf).
Non so chi ci ha dato il diritto di giudicare gli altri in questioni di religione. Una cosa è testimoniare le proprie convinzioni, altro è giudicare gli altri, specialmente dopo aver riconosciuto la libertà di Dio e degli altri. I leader della Chiesa suggeriscono, in modo più o meno sottile, che stanno incoraggiando il dialogo solo perché non possono proclamare il Vangelo. Per questo, i membri delle altre religioni guardano con sospetto all'entusiasmo che alcuni cristiani dimostrano a proposito di dialogo. Una cosa è dire che è necessario non negare o nascondere le proprie convinzioni quando si dialoga con gli altri. Suppongo che ogni credente pensi che la sua religione sia la migliore. Altra questione è, nella pratica missionaria, continuare con un atteggiamento e un linguaggio aggressivi, come echi di una crociata religiosa. Anche se voglio proclamare ad altri uomini dotati di libertà che hanno una loro propria esperienza di Dio, la buona novella che Dio ha comunicato a me, posso farlo solo in forma di dialogo, tenendo conto della loro esperienza di Dio. A volte, ci si domanda perché chi si mostra severo nell'imporre la propria versione del Cristianesimo in Oriente o nel Sud non dimostra lo stesso tipo di zelo nel tentativo di convertire le popolazioni scristianizzate del Nord e dell'Occidente, le quali progressivamente sembrano non credere più in nulla.
Le persone serie, rispetto al dialogo interreligioso, non dicono che tutte le religioni sono la stessa cosa o sono tutte uguali. Stiamo dialogando non con le religioni, ma con le persone. Stiamo dicendo che la grazia salvifica di Dio raggiunge le persone, ovunque siano. Stiamo suggerendo che le varie religioni facilitano l'incontro salvifico divino-umano. Tutti i sistemi e le istituzioni religiose, compresa la Chiesa, hanno i loro limiti e un loro stato di peccato. Hanno bisogno di essere sfidate, profeticamente, per convertirsi. Non aiuta guardare il bene che è in noi, in teoria, e il male negli altri, in pratica. Se crediamo che lo Spirito di Dio è presente in ogni parte, dobbiamo discernere allora la sua presenza attentamente e non dare giudizi a priori sul piano di Dio per gli esseri umani, basandoci sulla nostra esperienza di Dio. Neanche stiamo cercando un denominatore comune intorno al quale potremmo unificare tutte le religioni. Le religioni sono differenti. Dio è libero di dire parole differenti a popoli differenti. Per questo il dialogo fra le religioni può essere arricchente per tutti (...).
Dialogo come soluzione del conflitto
In una situazione di conflitto interreligioso, la prima tappa del dialogo è il superamento del conflitto. Questo può esser fatto a due livelli. Dove c'è o c'è stato conflitto, bisogna lavorare per costruire la pace. A un secondo livello, dobbiamo esplorare vie attraverso le quali le persone coinvolte nel conflitto e nella violenza reciproci possano riconciliarsi. Il primo elemento nella soluzione del conflitto è la restaurazione della giustizia. Le autorità sudafricane, al ritorno della democrazia dopo anni di apartheid, costituirono la Commissione di Verità e Riconciliazione (Cvr), un'esperienza che ha propiziato un clima favorevole a certe proposte.
I conflitti interreligiosi sono spesso provocati da fattori economici e politici. Le proprietà di alcuni vengono distrutte e altri ne beneficiano, ci sono assassinii. Anche l'ordine politico è violato. In tale situazione, non si può parlare di soluzione di conflitti senza restaurazione della giustizia. Giustizia non significa vendetta: occhio per occhio, vita per vita. Non si tratta di giustizia del vincitore, come è successo con il processo di No-rimberga dopo la Seconda Guerra mondiale. Non possiamo rimettere indietro l'orologio della storia. Non possiamo riportare in vita i morti. Per questo la Cvr parlava di giustizia restau-ratrice in opposizione alla giustizia retributiva. La riparazione può essere fatta a vantaggio di chi ha perso le proprietà, sia da parte di chi li ha destituiti dei loro beni, nel caso possa essere identificato, sia da parte della comunità/Stato. La giustizia re-stauratrice non aspira a tornare al vecchio ordine, ma aspira a costruire una nuova comunità. Questo suppone il perdono e la riconciliazione, basati sulla verità. Deve essere stabilita la verità di quello che è realmente accaduto. Si può superarlo; non è necessario dimenticarlo. Il processo del perdono parte dalle vittime: sono loro che devono essere pronte a perdonare, seppure non disposte a dimenticare. Perché possano perdonare, la verità di quello che hanno sofferto deve essere riconosciuta. Il perdono suppone e richiede il pentimento di coloro che hanno agito male. Il perdono non può essere dato se non è richiesto e accettato. Le persone al potere, concedendo a se stessi o ai loro predecessori una amnistia generale, non fanno un atto di riconciliazione. Dare la colpa al sistema non è perdonare. Le persone che hanno coperto cariche di responsabilità - per 10 meno i leader - devono presentarsi per assumersi la responsabilità e manifestare pentimento.
Solo questa specie di interazione fra oppressori e vittime può condurre alla cura delle memorie.
Non è necessario abolire le memorie, ma le si può curare. I resoconti del riconoscimento, davanti alla Cvr, delle violenze perpetrate e delle pene e delle provocazioni sofferte hanno costituito una catarsi per tutti. (...).
Il dialogo dell'azione
Quando si tratta di identificare le cause della violenza, dobbiamo distinguere tra i leader e la massa. I leader, naturalmente, devono essere identificati e giudicati secondo le leggi del Paese.
Ma la massa, frequentemente, si comporta in modo disumano e irrazionale. Coloro che costituiscono la massa sono travolti dall'emotività.
Vi sono casi di persone che partecipano ad atti di violenza, in quanto parte della massa, ma si vergognano di quanto fatto quando, più tardi, riflettono con calma. Ci devono essere mezzi per promuovere questa autoriflessione, coscientizzazione e conversione. Allo stesso tempo, le persone colpite devono anche essere condotte a riacquistare fiducia. Lo Stato non è l'autorità appropriata per portare avanti questo processo di riconciliazione. Gli manca l'autorità morale e la credibilità per farlo. Qui i gruppi interreligiosi, costituiti da leader comunitari, devono prendere l'iniziativa di promuovere la riconciliazione e la pace. Questo è, di fatto, il dialogo dell'azione. Per essere effettivo, tale dialogo dell'azione richiede un contesto democratico, dove ci sia libertà e possibilità di partecipazione per tutti. In un clima di autoritarismo, questo dialogo dell'azione probabilmente si limiterebbe a gesti profetici di protesta.
Il dialogo della vita
L'esperienza del conflitto ci deve portare ad assumere azioni preventive, al fine scongiurare tali conflitti nel futuro. Abbiamo visto sopra che una delle ragioni del conflitto è l'emergere dell'identità di gruppo che oppone un gruppo a un altro.
Come può essere superata questa identità conflittuale e come può essere promosso un senso di comunità? Do per certo che differenze di identità, specialmente a livello religioso, non possono essere abolite. Pertanto, dobbiamo creare una coscienza del fatto che, nella società contemporanea, stiamo realmente vivendo molteplici identità. Apparteniamo a differenti gruppi in differenti momenti delle nostre vite: gruppi di convivenza, professionali, ricreativi, culturali.
Alcuni di questi gruppi possono essere scelti volontariamente. Uno dei gruppi che, in certo modo, coinvolge tutti gli altri, ci riunisce come cittadini di un Paese. Come cittadini condividiamo alcuni interessi economici e politici comuni. Lo Stato dovrebbe essere una struttura neutra, che non favorisce nessun gruppo in particolare. A un altro livello, ogni gruppo possiede anche e ricerca identità e interessi propri, senza nuocere i legittimi interessi degli altri. Ma, tra questi due livelli, esiste una società civile dove tutte le diverse religioni e gruppi ideologici si impegnano in una discussione attiva al fine di convergere su obiettivi comuni, per quanto ogni gruppo si basi sulle sue proprie prospettive religiose e culturali. Tale dialogo è condotto in gruppi di discussione, sui media, nelle università ecc. Questo è dialogo interreligioso, in un contesto socio-politico.
Il fatto di incontrare gli altri in un contesto sociale, culturale e politico ci rende capaci di scoprire gli altri in quanto esseri umani, non identificati esclusivamente nei termini della religione che praticano. Il contatto ci aiuta a conoscerli e a coltivare relazioni di amicizia. Questo ci aiuta a scoprire e a sperimentare una fratellanza ad un livello umano più profondo che trascende le divisioni religiose.
Vivere insieme in una stessa area geografica, frequentare la stessa scuola o club, lavorare nello stesso ufficio può aiutare a raggiungere questo scopo.
Ma questo non avverrà automaticamente. Le circostanze possono riunirci, ma noi dovremo fare sforzi positivi per conoscerci mutuamente, per relazionarci.
Questa amicizia può, infine, portarci anche a conoscere alcuni elementi della credenze e della pratica religiose degli altri, in modo che i nostri pregiudizi nei loro confronti possano essere ridotti, se non eliminati. Potremmo allora, a un livello sociale, partecipare a feste e celebrazioni gli uni degli altri. Questo sarà il dialogo della vita.
Questo dialogo della vita può essere iniziato e preparato, a livello scolare, se agli studenti vengono presentate le varie religioni, i loro fondatori, le storie e le dottrine, le loro feste e le loro specifiche pratiche, le loro opzioni politiche e morali. Questa presentazione potrebbe includere i testi e la letteratura, le opere d'arte e i luoghi di culto, i simboli e i rituali.
Il dialogo della vita potrebbe essere appoggiato dallo scambio e dalla discussione a un livello più specializzato e intellettuale. L'approccio qui non sarebbe quello della religione comparata, che rivendica una certa qualità neutrale e scientifica. Ci incontriamo come credenti e riferiamo quello che crediamo in maniera sistematica e razionale. Affermiamo le somiglianze, così come le differenze.
Questo approccio intellettuale può aiutarci a superare l'attaccamento fondamentalista alle nostre tradizioni. Un approccio interpretativo per rendere rilevante la nostra esposizione per il presente può condurre, in un contesto di dialogo, a una fusione di orizzonti e all'arricchimento reciproco. Si spera che le conclusioni convergano sull'azione. Tale interazione interreligiosa è sempre esistita nella storia, pur essendo polemica. Il confronto intellettuale porta sempre alla chiarificazione e alla crescita.
L'incontro interreligioso può condurre alla riforma interna e al cambiamento.
Nel XIX secolo vi sono stati molti movimenti di riforma nell'induismo, grazie all'incontro con il cristianesimo. L'atteggiamento cristiano rispetto alle altre religioni sta subendo una radicale trasformazione a causa del suo incontro con le religioni sviluppatesi dall'Asia, come l'induismo e il buddismo. L'Islam ha generato il sufismo devozionale quando ha incontrato la religiosità popolare e il misticismo devozionale attraverso l'India e l'Asia.
Pregando insieme
Considerando che tutte le religioni (eccetto il buddismo) credono in Dio e nessuna religione è realmente politeista, il più profondo incontro tra le religioni può avvenire nella presenza di Dio.
Nell'ottobre del 1986 e nel gennaio del 2001, le varie religioni si sono riunite ad Assisi per pregare per la pace. Per quanto non abbiano pregato insieme, hanno riconosciuto e rispettato la preghiera le une delle altre. Decenni prima, in India, il Mahatma Gandhi promuoveva la preghiera interreligiosa come mezzo di promozione della pace e dell'amicizia interreligiosa.
Gruppi religiosi diversi leggevano le proprie scritture, cantavano i propri inni e pregavano. L'atteggiamento degli altri fedeli presenti poteva variare dalla presenza rispettosa alla partecipazione attiva, secondo i tipi di simbolo usati.
Se riconoscessimo che tutti stiamo pregando l'unico Dio, allora dovremmo essere capaci di relativizzare ed entrare nelle strutture simboliche di altre religioni, purché non insistano nello specifico dei propri miti, fede e storia. In questo processo, ogni religione scopre la differenza con i propri simboli e significati, accettando la convergenza di senso mediante un pluralismo di simboli.
Questa preghiera interreligiosa sta diventando comune, attualmente, in Asia.
Per quanto riguarda la teologia cristiana, se crediamo che 10 Spirito di Dio sia presente in altre religioni, possiamo accettare la possibilità che Dio abbia loro parlato nelle loro scritture ufficiali.
Per quanto Dio non abbia rivolto queste parole a noi, 11 fatto che siano state indirizzate ad altri esseri umani significa che non sono totalmente irrilevanti per noi, specialmente in un contesto interreligioso. Individui di livello più popolare sembrano più aperti alle esperienze interreligiose. Il loro riconoscimento del sacro come qualità di persone e luoghi sembra dipendere più dalla loro esperienza che da frontiere ufficiali.
Troviamo un'apertura simile ai livelli più alti. Da alcuni decenni, i cristiani si sono interessati ai metodi di meditazione dell'induismo e del buddismo.
Molti cristiani praticano Yoga e Zen. Alcuni non vanno oltre l'uso delle loro tecniche per raggiungere la pace interiore. Ma altri tentano di toccare le profondità dell'esperienza alle quali questi metodi conducono. Una volta che la prospettiva del cristianesimo come pienezza delle altre religioni viene abbandonata e queste sono riconosciute e accettate come diverse, sorge la domanda se un cristiano possa aspirare a un'esperienza hindu di Dio o dell'Ultimo.
Si può essere hindu-cristiani? Questa non è una questione astratta, poiché esistono persone che hanno tentato di oltrepassare le frontiere.
Questa non è una questione accademica, ma esperienziale.
Gli esperimenti e le esperienze di alcuni pochi mostrano come le frontiere che separano le religioni non sono tanto impermeabili come i loro devoti immaginano.
Qui arriviamo al dialogo al suo livello più profondo.
Conclusione
Gesù disse che il sabato è per l'uomo e non l'uomo per il sabato.
In modo simile, possiamo dire che le religioni sono per le persone e per la loro vita nel mondo; le persone non vivono per la loro religione. Il comandamento fondamentale è amarci gli uni gli altri e amare Dio nell'altro, e non lottare riguardo a quale simbolo di Dio è autentico.
L'ultimo giorno, Gesù non domanderà a quale Dio le persone hanno reso culto, ma se hanno servito il povero e il bisognoso (Mt 25).
Dio non è esclusivista; le persone e le loro religioni sì.
Una volta che siamo certi che l'amore salvifico di Dio in Cristo e nello Spirito raggiunge tutte le altre persone per cammini a noi sconosciuti, possiamo testimoniare, senza ansia e aggressività, l'amore di autosvuotamento di Cristo.
Il cammino di Gesù è il servizio kenótico, non la dominazione.
Possiamo lasciare che Dio, in quanto Dio, riunisca tutte le cose, perché Dio sia tutto in tutto (cfr. 1Cor 15, 28).
Possiamo rispettare la libertà di Dio e la libertà delle persone.
Riconoscere e accettare la libertà dell'altro è essere disposti al dialogo. Allora la violenza in nome della religione non esisterà più.
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* Direttore dell'Istituto per il Dialogo fra le Culture e le religioni di Chennay, nel Madras.
(Tratto da Adista 14 ottobre 2002)
Sono veramente onorato e considero un grande privilegio concessomi quello di dedicare una postfazione d'indole ecumenico-mariana all'amico Renzo Bertalot, valdese, apprezzato docente presso la Pontificia Facoltà Teologica Marianum di Roma.
Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (seconda parte)
di Alberto Valentini
Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)
1. Nota introduttiva
1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.
2. La preghiera in At 1,14
2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.
3. La prima comunità
3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;
4. Conclusione breve
2. La preghiera in At 1,14
Il sommario di At 1,14 mette in primo piano la preghiera della comunità raccolta intorno agli apostoli. Si tratta di una preghiera sine glossa, senza le aggiunte o specificazioni, del resto preziose, che troviamo in altri testi.
Tale preghiera può includere diverse forme ed espressioni, come viene precisato, per es. nel sommario 2,42-47; ed è naturale che la comunità di At 1,14 spezzasse il pane in casa, frequentasse il tempio, celebrasse il Signore con salmi, inni e cantici spirituali (cf Col 3,16; Ef 5,19). (36)
La preghiera della comunità di At 1,14 poteva essere molto varia, ma ciò non viene detto. C’è tuttavia un elemento fondamentale di tale preghiera che non può essere messo in dubbio né trascurato: l’attesa dello Spirito. Tutto il contesto orienta in tale direzione: il sommario di 1,14 si colloca al centro del primo capitolo, a metà strada tra la promessa dello Spirito e la sua venuta; gli annunci sono espliciti: “comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere la promessa del Padre... voi sarete battezzati in Spirito santo fra non molti giorni” (1,4-5); riceverete la forza dello Spirito che verrà su di voi e sarete miei testimoni... “ (1,8). Il ritorno a Gerusalemme dal monte degli ulivi e il radunarsi in attesa, nella stanza superiore, si spiegano in base al comando del Signore e alla sua promessa.
Lo Spirito sarà donato in vista della testimonianza da rendere a Gesù (cf 1,8): la preghiera della comunità, pertanto, è anche in preparazione al futuro ministero affidato agli apostoli. Luca ama associare la preghiera al dono dello Spirito (37) e all'annuncio del vangelo, due realtà del resto inscindibili. Tale connessione è verificabile nella supplica unanime degli apostoli (4,24-31), nella preghiera per i diaconi (At 6,6), nell'orazione di Saulo (9,11) e di Pietro (10,9), nella preghiera comunitaria per Barnaba e Saulo in partenza per la missione (13,3): l'effetto della preghiera è lo Spirito che non solo permette di annunciare, (38) ma sceglie, invia (cf At 13,2.4) e orienta il cammino degli evangelizzatori (cf 16,6.7). Il legame tra Spirito e testimonianza, proclamato all'inizio degli Atti (1,8), è legge fondamentale di ogni apostolato.
At 1,14 non è un testo fra gli altri: è il primo dei sommari, inserito in un capitolo introduttivo e programmatico. La preghiera unanime ed assidua per ottenere lo Spirito non caratterizza solo gli apostoli e quanti sono radunati con loro nella stanza superiore, ma tutti i credenti, quanti sono chiamati a rendere testimonianza al Signore Gesù.
La preghiera della comunità delle origini dev'essere vista in analogia con Lc 3,21, dove si ha un significativo riferimento cristologico. Come Gesù nel battesimo, mentre era in preghiera, ricevette lo Spirito, e quindi iniziò il suo ministero (Lc 3,23), (39) così il primo nucleo della Chiesa neotestamentaria è in preghiera prima di ricevere lo Spirito che l'abiliterà alla sua missione di testimonianza. (40) A Pentecoste, soprattutto - in risposta alla preghiera dei discepoli per il Regno (cf Lc 11,2) - il Padre celeste effonde come dono il suo Spirito. (41)
2.1. Preghiera unanime
L'unione degli animi, dei cuori, è una delle note fondamentali della preghiera nella comunità primitiva. E' un elemento che emerge con particolare evidenza in At 1,14.
L'unanimità suppone ovviamente che la preghiera sia comunitaria. La nota comunitaria è il primo passo e la condizione indispensabile per una preghiera unanime. Appare utile pertanto riflettere prima sulla preghiera in comune dei credenti e poi sull'unità dei cuori di coloro che pregano insieme. (42)
Questa distinzione è suggerita dalla formulazione stessa del nostro sommario che inizia con "tutti costoro", (43) soggetto riferito agli Undici appena nominati, e aperto agli altri personaggi elencati successivamente: le donne, la madre di Gesù e i "fratelli" di lui.
La preghiera comunitaria, come si è detto, costituisce una novità degli Atti nei confronti del vangelo di Luca. Parecchi testi la mettono chiaramente in luce: "e pregando dicevano..." (1,24) ; "erano perseveranti...nelle preghiere" (2,42); "una preghiera insistente saliva dalla Chiesa verso Dio..." (12,5); "vi erano molti radunati e in preghiera" (12,12); "dopo aver digiunato e pregato e imposte loro le mani, li lasciarono partire" (13,3); "inginocchiatosi con tutti loro, pregò" (20,36); "inginocchiatici sulla spiaggia, pregammo..." 21,5).
Il segreto di questo cambiamento rispetto al vangelo - la sottolineatura della preghiera comunitaria - dipende dal fatto che i credenti ormai sperimentano di essere "chiesa": una comunità raccolta dallo Spirito e radunata, con gli apostoli, nel nome del Signore Gesù. (44)
La preghiera comunitaria, quando è autentica, è espressione e fonte di quella unione dei cuori che negli Atti viene ribadita con evidente intenzionalità.
Tale disposizione interiore, che è l'anima di ogni preghiera in comune e che la giustifica come tale, è espressa in At 1,14 dall'avverbio homothymadón,che caratterizza non solo il soggetto hoútoi pántes, ma l'intera proposizione: sono unanimi non solo gli Undici, ma tutte le persone elencate insieme con loro. Potremmo dire che attraverso quell'avverbio si realizza l'unità di coloro che vengono presentati come persone e gruppi distinti; (45) e tale unità si esprime nella preghiera. Non si tratta di una comunione passeggera ovvero occasionale: l'unanimità è perseverante, come perseverante è la preghiera che la sostiene. L'avverbio homothymadón, derivato dai LXX, (46) è un termine caratteristico degli Atti; (47) applicato alla comunità cristiana, esprime una forte connotazione religiosa. In tale “accezione forte ed intensamente religiosa” (48) ricorre non solo nel nostro testo, ma anche nei sommari successivi, i quali proiettano ulteriore luce sul senso del termine e sulla preziosa annotazione di At 1,14. In 2,46 si conferma: “ogni giorno unanimi erano assidui nel frequentare il tempio”; in 5,12: "tutti stavano unanimemente nel portico di Salomone”. Il medesimo avverbio ricorre nell’introduzione alla preghiera, in 4,24: “Essi unanimemente alzarono la voce a Dio...”. L’illustrazione più efficace di homothymadón si ha in 4,32 ove si afferma che “la moltitudine dei credenti era un cuor solo ed un’anima sola”. Homothymadón è divenuto, per così dire, un termine tecnico, addirittura un’"espressione stereotipa della comunità". (49) In tale avverbio è condensato quanto Paolo richiede a tutti i credenti: di acquisire una mentalità comune, affinché "unanimi (homothymadón),con una sola bocca" glorifichino Dio (cf Rm 15,6). La concordia dev’essere così intensa da tendere a realizzare e manifestare l’unità voluta da Cristo (cf Gv 17,22). Ciò si compie, anzitutto nella preghiera. (50)
La voce homothymadón non è stata scelta a caso: essa evoca una ricca tradizione a livello di riletture bibliche e giudaiche. La comunità del Nuovo Testamento che attende unanime il dono dello Spirito - la Legge della nuova Alleanza (cf Ger 31,31.33) - riprende e porta a compimento un’esperienza antica fondamentale: quella del popolo di Dio che ai piedi del Sinai, homothymadón (yahdâw) (Es 19,8), (51)accoglie il dono della legge e dell’alleanza. Tale esperienza, che ha segnato profondamente la storia d'Israele, rimane un punto di riferimento ideale per le generazioni successive. La tradizione giudaica ne fa oggetto di riflessioni edificanti. Secondo il midrash tale unanimità era frutto di un intervento diretto di Dio. In Egitto infatti gli israeliti erano caduti nei lacci dell'idolatria ed avevano contratto inimicizie; anche la loro partenza e le tappe del cammino nel deserto erano state segnate da divisioni e discordie. Giunti al Sinai, Dio operò un radicale rinnovamento del popolo, guarendolo da infermità e discordie: (52) il giorno dell'alleanza "erano tutti un cuor solo per accettare con gioia il Regno di Dio". (53) Luca si inserisce in questa tradizione interpretativa. Per lui la comunità di Pentecoste è il compimento definitivo di quell'assemblea del Sinai, posta alle origini della storia d'Israele, nella quale si era intravisto il disegno di Dio sul popolo dell'alleanza. La Pentecoste si presenta pertanto come nuovo Sinai e la comunità, in quel giorno radunata, come l'Israele dei tempi futuri. La Pentecoste cristiana non è tuttavia una semplice riproposizione dell'alleanza sinaitica, ma anche il suo superamento: è l'alleanza nuova, vaticinata dai profeti, (54) come proclamerà Pietro, dopo la venuta dello Spirito, citando Gioele (cf At, 2,17-21). L'unanimità è il segno evidente della salvezza operata dal Signore; è la caratteristica del popolo redento che finalmente può accogliere la Legge dello Spirito in cuori riconciliati per testimoniarla con coerenza e fedeltà.
2.2. Preghiera perseverante
L’altra nota fondamentale della preghiera della primitiva comunità, secondo At 1,14, è la perseveranza. L’assiduità, come l’unanimità, non ricorre soltanto nel nostro testo, ma anche in altri sommari: essa caratterizza la preghiera e la vita dei discepoli del Signore.
E’ noto il topos lucano della preghiera insistente e continua, (55) ma, in maniera più ampia, la perseveranza è uno dei tratti caratteristici della spiritualità lucana. Questo atteggiamento viene espresso in particolare con il verbo proskarteréo, cheetimologicamente significa "attaccarsi con forza a qualcosa", (56) e manifesta per conseguenza il senso di "essere costante, perseverante". (57) Su complessive dieci frequenze nel Nuovo Testamento, ben sei si trovano negli Atti, tre delle quali nei sommari. Solitamente il verbo ricorre in contesto liturgico, di preghiera e in genere religioso, come appare dai seguenti testi:
At 2,42: "erano perseveranti (58) nell'insegnamento degli Apostoli, nella koinonía,nello spezzare il pane e nelle preghiere".
2,46: "Ogni giorno, assidui frequentavano insieme il tempio...".
6,4 : "Noi saremo assidui alla preghiera e alla diaconia della parola".
Nella letteratura paolina il verbo ricorre solo tre volte e il sostantivo una volta sola, ma sempre - eccetto in Rm 13,6 - in contesto di preghiera:
Rm 12,12: "...pazienti nella tribolazione, costanti nella preghiera".
Col 4,2: "Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie".
Di particolare significato e solennità è la finale della lettera agli Efesini in cui troviamo il sostantivo proskartéresis (che è un hapax biblico): "Pregando con ogni preghiera e supplica nello Spirito, in ogni tempo, e vigilando a questo scopo con ogni perseveranza (proskarterései) e supplica per tutti i santi..." (Ef 6,18).
"Dato il gusto della koiné per i composti e la tendenza ad intensificare l'espressività delle parole, si può pensare che proskarteréo non differisca affatto dal semplice karteréo...Tuttavia, il suo impiego (il più delle volte con il dativo) rivela nuove accezioni, sia che si tratti di rimanere fedele a qualcuno, di dedicarsi esclusivamente a qualche cosa, o di consacrarvisi instancabilmente". (59) Per comprendere adeguatamente i brani del Nuovo Testamento, dove si parla di perseveranza nella preghiera, è necessario aver presente tale densità semantica. Se poi si riflette che il verbo proskarteréo applicato alla preghiera non si trova mai nella lingua profana né nei LXX, bisogna concludere che siamo di fronte a una creazione ad opera degli autori del Nuovo Testamento "e la sua frequenza rivela non solo uno stato di fatto nella chiesa primitiva, ma anche un'esigenza apostolica...trattasi della traduzione apostolica del precetto del Maestro" (60) di pregare, sempre senza perdersi d'animo (cf Lc 18,1; 1Ts 5,17).
Il sostantivo proskartéresis, data la sua unicità, dev'essere inteso alla stregua del verbo, con la medesima ricchezza di senso nei confronti della preghiera neotestamentaria.
Tale costanza-assiduità è espressa ovviamente anche con altre formule: è necessario pregare pántote, vale a dire, sempre, (61) en pantì kairói, in ogni tempo, (62) adialeíptos, senza sosta, in maniera ininterrotta. (63) "E' questo un atteggiamento e un modo di pregare diverso da quello del giudaismo del tempo, tutto basato su tempi fissi e rigide formule di preghiera": (64) esso si fonda sul rapporto personalissimo e costante che Gesù aveva col Padre e che aveva trasmesso ai discepoli insegnando loro a pregare.
Questa perseveranza, frutto dell'esempio e dell'insegnamento del Maestro, è illustrata da diverse pericopi evangeliche. Rinunciando ad altri brani, ci limitiamo a due testi di carattere escatologico, nei quali Luca insiste sulla necessità di una preghiera continua e insistente.
Ci riferiamo anzitutto alla parabola del giudice iniquo e della povera vedova (18,1-8), presente solo in Luca e raccontata per mostrare la necessità (tò deín) di pregare sempre, senza perdersi d'animo (cf 18,1): questo dev'essere l'atteggiamento di coloro che aspettano "il giorno del Figlio dell'uomo", non sapendo quando egli verrà. A conferma di ciò, il v. 7 afferma che i suoi eletti "gridano giorno e notte verso di lui": si tratta di coloro che - come la povera vedova - hanno subito persecuzioni e violenze, ed invocano Dio perché, con la sua venuta, renda loro giustizia. Si noti che le tribolazioni sostenute dagli "eletti" - i quali in realtà sono stati immolati - si spiegano a causa della parola di Dio e della "testimonianza" (65) (cf Ap 6,9; Lc 21,13). Essi attendono l'intervento divino con costanza e con preghiera insistente, sapendo che la loro liberazione è vicina (cf Lc 21,28). Il v. 8, che attualmente conclude la parabola, e all'origine doveva essere un detto indipendente, (66) accenna a un motivo classico dell'apocalittica: l'apostasia che deve manifestarsi alla fine dei tempi (cf 2Ts 2,3; Mt 24,11-12. 24); essa è una "seduzione" e rappresenta la "contro-testimonianza".
Il secondo testo da noi scelto è la conclusione della cosiddetta "apocalisse sinottica" (Mc 13; Mt 24-25; Lc 21), che in Luca presenta prospettive particolari.
A differenza di Marco che sottolinea l'ignoranza di "quando" il Figlio dell'uomo verrà (13,32-37), ed esorta a "stare attenti" (13,33) e a "vegliare" (13,33.35.37), Luca inizia con l'avvertimento: "Badate bene che i vostri cuori non si appesantiscano in crapule, ubriachezze e affanni della vita..." (21,34). (67) E mentre Matteo mette in guardia da comportamenti iniqui ed irresponsabili (Mt 24,48-49), Luca chiede di vegliare pregando in ogni tempo (Lc 21,36). (68) Diversamente dagli altri due sinottici, che concludono la pericope ribadendo l'imprevedibilità del ritorno finale - e in particolare da Matteo che prospetta il severo giudizio del Figlio dell'uomo (Mt 24,51) - Luca annuncia la possibilità di sfuggire agli eventi minacciosi che devono accadere, grazie proprio alla vigilanza e alla preghiera incessante. Egli introduce la consolante prospettiva di stare in piedi, con fiduciosa sicurezza, davanti al Figlio dell'uomo; (69) atteggiamento che riprende e prolunga quello del non lontano v. 28: "Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi in piedi e levate il capo, perché si avvicina la vostra redenzione".
Non solo la prospettiva lucana di vigilanza e di preghiera è differente, specie da quella di Matteo, ma il terzo evangelista aggiunge anche una cornice conclusiva al discorso escatologico. Si tratta di una specie di sommario circa il comportamento di Gesù, immediatamente prima della sua passione: "Di giorno era ad insegnare (forma perifrastica, come nei sommari degli Atti) nel tempio; di notte, uscendo, pernottava sul monte detto degli ulivi; e dall'aurora tutto il popolo andava da lui, nel tempio, per ascoltarlo" (Lc 21,37-38). Anche qui è rilevabile l'intervento lucano nel presentare Gesù, che di giorno "dimora" nel tempio, casa del Padre suo (cf Lc 2,49) e di notte si ritira sul monte degli ulivi, ovviamente in orazione. In questo atteggiamento di prolungata veglia in preghiera (Lc 21,37), prima della passione, Gesù attua in maniera singolare l'esortazione che l'evangelista, nel v. 36 - immediatamente prima - rivolgeva a tutti: "Vegliate, pregando in ogni tempo...".
Come si vede, Luca è stato colpito anzitutto dal comportamento di Gesù in preghiera, dal suo costante dialogo col Padre. La comunità apostolica non farà che seguire l'esempio del Maestro: (70) lo testimonia fin dall'inizio il sommario di At 1,14.(36) E' da ritenere che nella comunità apostolica ci fosse un'autentica vita liturgica: la preghiera in quanto tale è solo una componente della liturgia, la quale è ben più ampia e coinvolgente.
(37) Al dire di H. Lampe, "in tutti i casi nei quali menziona la preghiera, il libro degli Atti afferma o suggerisce un legame strettissimo tra questo atto dell'uomo, che è la preghiera, e l'atto col quale Dio comunica lo Spirito...Essendo la preghiera il mezzo per l'uomo di sottomettersi all'efficace influsso dello Spirito, sembra naturale a Luca considerare il dono dello Spirito come la risposta principale di Dio alla preghiera dell'uomo" (G.W.H. Lampe, The Holy Spirit in the Writings of St. Luke, in Studies in the Gospels: Essays in Memory of Lightfoot, Oxford 1955, 168).
(38) Ciò è messo in particolare evidenza nella Pentecoste ("Tutti furono riempiti di Spirito santo, e cominciarono a parlare..." [At 2,4]) e al termine della preghiera degli apostoli nella persecuzione ("Tutti furono riempiti di Spirito santo, e proclamavano la parola di Dio con parresia" [At 4,31]).
(39) Non solo gli inizi, ma tutta l'azione salvifica di Gesù è dipende dalla sua unzione di Spirito santo e di potenza (cf At 10,38).
(40) "Con ciò Luca inequivocabilmente ritorna con il pensiero al battesimo di Gesù...Nel tempo dell'attività terrena di Gesù, lo Spirito santo è il dono messianico che contrassegna Gesù, che rende possibile e fruttuosa l'intera sua attività, mentre dopo la sua esaltazione lo stesso dono viene fatto all'intera comunità cristiana e trasforma il tempo della Chiesa in un tempo dello Spirito (cf Lc 11,13; 12,12; Act. Da un capo all'altro)" (R. Schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium salutis, V, Brescia 21971, 379).
(41) "Secondo l'interpretazione teologica offerta da Luca, dove è lo Spirito è già presente il Regno. Infatti il Regno escatologico di Dio, di cui Gesù è il messaggero per eccellenza, si realizza per mezzo dello Spirito, la cui presenza è caratteristica di tale Regno" ( S.S. Smalley, Spirit, Kingdom and Prayer in Luke-Acts, NT 15 [1973] 13). Si noti che in Lc 11,2 alcuni manoscritti - invece di "venga il tuo Regno" - riferiscono: "venga il tuo santo Spirito su di noi e ci purifichi" (cf Nestle - Aland, Novum Testamentum Graece, Stuttgart 271993).
(42) Evidentemente la preghiera comunitaria autentica, animata dallo Spirito, è di per sé unanime, ma il fatto che alcuni testi, specie nei sommari, sottolineino con termini forti ed espliciti l'unanimità degli oranti, ci porta a questa distinzione, che non intende certo contrapporre comunitario ad unanime, ma vuole semplicemente ribadire l'intensità della comunione che quei testi esprimono.
(43) Con quel pántes, tuttavia, si va probabilmente oltre la scena singola, per esprimere un giudizio più generale sulla comunità delle origini (cf B. Prete, a.c., 70). Si sarebbe potuto dire semplicemente "costoro", senza aggiungere l'aggettivo "tutti"; ma questa amplificazione del linguaggio fa parte dello stile dell'autore, come si può constatare in particolare nei sommari, dove ricorrono numerose espressioni generalizzanti. Ne presentiamo un inventario: molti prodigi e segni (2,43); tutti i credenti...avevano tutte le cose comuni (2,44); ne facevano parte a tutti (2,45); presso tutto il popolo (2,47); la moltitudine di coloro che avevano creduto (4,32); con grande potenza...grande benevolenza verso tutti loro (4,33); ci fu un timore grande per l'intera chiesa e per tutti quelli che ascoltavano queste cose" (5,11); molti segni e prodigi...tutti stavano insieme (5,12); la moltitudine di uomini e di donne (5,14); la folla delle città intorno a Gerusalemme...ed erano tutti guariti (5,16).
(44) Si noti che in Lc 11,2ss la preghiera insegnata da Gesù ai discepoli è già comunitaria, ma essi non sono ancora chiesa. Ciò avverrà negli Atti, come appare, in maniera particolarmente efficace, in 12,5: "una preghiera incessante saliva dalla Chiesa a Dio...". Bisogna però dire, che nello stadio iniziale, la comunità - così com'è descritta in At 2,42-47 - non viene ancora chiamata chiesa: ciò avverrà a partire da At 8,1.
(45) I gruppi che compongono la comunità delle origini non solo si trovano nello stesso luogo, ma, quel che più conta, sono uniti da profonda comunione, avendo un solo spirito, frutto dello Spirito che invocano.
(46) Nella Bibbia alessandrina il termine ricorre 36x ed è usato in particolare nel libro di Giobbe (14x) e in quello di Giuditta (6x), per tradurre l’ebraico yahad, yahdâw. Esso significa “insieme”, quando si tratta di una folla, di una massa di gente (cf At 7,57); in base all’etimologia, il termine non indica soltanto un’aggregazione di persone, ma sottolinea il loro accordo, l'unanimità; in particolare esprime la comunione fraterna dei credenti raccolti in preghiera: è questo il senso particolare che il termine riveste negli Atti, un significato noto ai LXX e al giudaismo (cf Gdt 4,12; Sap 10,20; Filone, vit. Mos. 1,72.
(47) Vi ricorre 10x (includendo anche At 18,12); nel resto del NT si trova soltanto in Rm 16,6, sempre in contesto religioso. Per il nostro studio interessa ovviamente sottolineare la connotazione positiva di tale avverbio, che viene usato anche in senso negativo per esprimere il coalizzarsi degli avversari; “Mit homothymadón schildert Lukas in Apg 1,14; 2,46; 4,24; 5,12; 8,6 die vorbildliche Einigkeit der Gemeinde, dagegen in 7,57; 18,12; 19,29 die Einigkeit einer christenfeindlichen Menge” (E. Haenchen, o.c.,159, nota 4).
(48) Cf B. Prete, o.c., 71.
VIII, 521.(50) Cf C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, II, Brescia 1994, 254ss.
Conosciamo, tuttavia, il carattere edificante dei racconti degli Atti, in particolare dei sommari, né ci sono ignoti i conflitti e le tensioni presenti nelle comunità, ma l'unione degli spiriti non si fonda sulla simpatia reciproca dei membri o su affinità culturali, bensì su “un evento esterno al gruppo che viene ad interessarlo...provocando la sua reazione globale”. Nel nostro caso è “la risposta dei credenti a ciò che Dio ha operato per mezzo di Cristo, nel mondo e nella comunità...l’unanimità è un dono di Dio per la lode del Signore” (H.W. Heidland, a.c., 522).
(51) C'è qui un ulteriore motivo per connettere At 2,1 con 1,13-14 e non con 1,15-26. L'espressione "tutti insieme nello stesso luogo" di 2,1 esprime di per sé una vicinanza locale, "ma a giudicare dal vocabolario di Luca e dal legame che la unisce a 1,13-14, essa sembra esprimere contemporaneamente l'unanimità...Essi sono insieme non soltanto perché si trovano nel luogo, ma anche per l'unione dei cuori" (J. Dupont, La prima Pentecoste cristiana, a.c., 828s).
Si noti la risposta corale di tutta l'assemblea in Es 19,8 (cf Es 24,3.7): "Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo!" (Es 19,8; cf 24,3.7). Dio stesso se ne compiace con Mosè: "Ho udito le parole che questo popolo ti ha rivolte...Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre!" (Dt 5,28s).
(52) Cf A. Serra, E c'era la Madre di Gesù..., Milano-Roma 1989, 292s.
(53) Mekiltà Ex19,2; cf 19,8; 20,2. Cf anche Tg Ps-Jon a Es 19,2.
(54) Cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; Gl 3,1-5 (LXX).
(55) Cf Lc 6,12; 18,1; 22,44; At 12,5.
(56) Nei LXX, con significato fondamentalmente analogo, si trova in Gb 2,9; Sir 2,2; 12,15; Is 42,14; 2Mac 7,17 e in particolare in 4Mac, dove, insieme col verbo, ricorrono anche il corrispondente sostantivo, aggettivo e avverbio. Il composto proskarteréo, ben più raro nei LXX, è presente in Nm 13,20; Tb 5,8 (S); Sus 6 (TH).
Nel NT karteréo si trova solo in Eb 11,27, a proposito della fede di Mosè. Più frequente invece è proskarteréo che viene usato 10x , per lo più negli Atti. Il sostantivo proskartéresis è usato solo in Ef 6,18.
(57) Questo significato viene marcato ulteriormente quando - come in At 1,14 - il verbo è in forma perifrastica (ésan proskarteroúntes). Tale modalità, nel nostro contesto, ricorre piuttosto frequentemente: cf At 1,13: ésan kataménontes; 2,2: ésan kathémenoi; 2,5: ésan ...katoikoúntes; 2,42: ésan proskarteroúntes.
La coniugazione perifrastica con l'ausiliare essere e il participio presente - che nella lingua ellenistica viene usata in maniera molto limitata - nel NT ricorre per lo più in Luca e nella prima parte degli Atti (1-13), ma anche nel vangelo di Marco. Tale formulazione, com'è noto, intende sottolineare la durata, la continuità dell'azione. Questo senso viene ulteriormente rafforzato quando, come nel nostro caso, l'ausiliare è all'imperfetto, tempo che di per sé presenta tale caratteristica. L'espressione intende dunque attirare l'attenzione sullo stile di vita della comunità delle origini. Circa l'uso della coniugazione perifrastica in Luca, cf E. Haenchen, o.c., 155s, n. 7; Blass-Debrunner, § 353.
(58) Tale formula presenta “un’intensa colorazione religiosa, che caratterizza in forma incisiva la vita di questo gruppo” (B. Prete, a.c., 70).
(59) C. Spicq, o.c., 472.
(60) Ivi, 474s.
(61) Cf Lc 18,1; 1Ts 1,2; 2Ts 1,3.11; Rm 1,10; Ef 5,20.
(62) Cf Lc 21,36; Ef 6,18.
(63) Cf 1Ts 2,13; 5,17; Rm 1,9.
(64) W. Grundmann, proskarteréo, GLNT, V, 227. Cf anche Strack-Billerbeck, II, 237s.
(65) La testimonianza - affidata anzitutto agli apostoli - è un tema essenziale per Luca ("testimonianza" si identifica con "martirio", ovviamente non solo per l'etimologia); essa suppone la potenza dello Spirito (At 1,8; 2,4; 4,31) e una preghiera costante, specie nella prova (At 4,24-30).
(66) Le parabole infatti non finiscono con interrogativi, come in questo caso.
(67) L'appesantimento del cuore è dovuto, secondo Luca, ad eccessi nel mangiare e nel bere e agli affanni della vita: le prime due indicazioni fanno pensare alla descrizione del ricco insensato (cf Lc 12,19) e di colui che "tutti i giorni banchettava lautamente" (16,19); gli affanni della vita ricordano coloro che ascoltano la parola, ma si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita (Lc 8,14). "Non può esserci dubbio alcuno: l'appesantimento del cuore contro cui Lc 21,34 mette in guardia, è esattamente, nel suo contesto lucano, quello che minaccia direttamente i ricchi ed è automaticamente legato al possesso dei beni della vita presente. L'avvertimento di questo versetto si iscrive nella linea di una preoccupazione che si manifesta lungo tutto il terzo vangelo e che costituisce l'altra faccia della sollecitudine di cui Luca dà prova nei riguardi dei poveri" (J. Dupont, Le tre apocalissi sinottiche, Bologna 1987, 148).
(68) "Prima di tutto egli intende precisare cosa significhi per lui l'immagine di non abbandonarsi al sonno: ...Il cristiano non può dormire perché non deve mai cessare di pregare: la vigilanza cristiana è quella della preghiera" (ivi). A conferma di ciò, Dupont cita proprio Lc 18,1. Tale modo di intendere l'attesa quale "atteggiamento attivo di preghiera" caratterizzava già la pietà giudaica, come appare dalle parole di Paolo davanti al re Agrippa (cf At 26,6-7), e nel vangelo, dalla descrizione della profetessa Anna, la quale "non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (Lc 2,37), e pertanto era in grado di parlare del Bambino "a tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (2,38) (cf ivi, 148s).
(69) Cf ivi, 149s.
(70) "Ed avvenne che mentre egli era in un luogo a pregare, come ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare..." (Lc 11,1): episodio che solo Luca riferisce.
I domenicani e lo studio della teologia
Una lettera d'amore a Dio
di Mario Chiaro
La saggezza è un fuoco: i teologi sono i fuochisti che lo alimentano. Dai domenicani viene lo stimolo per la decisa promozione di una teologia più al femminile e più radicata nella vita delle persone e delle culture. Gustavo Gutiérrez sintetizzando il pensiero di molti scrive: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio”.
Per i discepoli di san Domenico, fin dall’inizio, il sogno di Dio sì è legato al “fare teologia”. Domenico trascorse la sua vita incoraggiandoli a creare tavoli di studio e confronto con altri e fu imitato nel tempo da Caterina, Tommaso, Montesinos, Eckhart: senza questa stretta interazione teologica, nessuno di loro avrebbe potuto,da solo produrre ciò che invece ha prodotto. In particolare poi il fondatore dei domenicani ha mostrato che lo studio è inutile se non arreca beneficio ai poveri: a Palencia infatti vendette i suoi libri per procurarsi denaro e nutrire gli affamati, dichiarando di non voler studiare “su pelli morte, mentre quelle vive muoiono di fame”. Oggi una rinnovata coscienza di collaborazione tra consacrate e consacrati nella ricerca teologica, in una prospettiva di impegno per giustizia e pace, porta a testimoniare come, gettando ponti sopra le acque del genere, del potere e dell’esclusione, si possano superare le distanze fra i singoli e Dio, fra uomini e donne, fra ricchi e poveri.
DONNE FORMATE AD APRIRE GLI OCCHI
Nella spiritualità dominicana, lo studio è il processo di apertura verso l’altro, uno stile permanente che diventa “disciplina di veridicità che apre gli occhi” (cf. T. Radcliffe). Aprirsi per imparare dalla parola di Dio e da ogni frammento di verità e bellezza che ci sta intorno è studiare la teologia in contemplazione. Sr. Thérèse P. T. Bach Tuyet (delle domenicane vietnamite di Santa Caterina da Siena), direttrice dell’istituto domenicano intercongregazionale di san Tommaso a Ho Chi Minh City, ci tiene a sottolineare come la predicatrice domenicana in formazione debba essere innanzitutto una teologa con gli occhi aperti allo Spirito Santo nella società in cui vive. “Il contributo delle domenicane vietnamite consiste in questo momento nel difendere e promuovere la vita attraverso l’educazione nella fede e la cultura, nello sviluppo sociale e nella cura della salute dei poveri, dei giovani, delle donne e bambini, degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei malati di Aids. Per tradurre nella pratica queste missioni, la Chiesa richiede alle donne consacrate una nuova formazione, non inferiore a quella riservata agli uomini”.
Fare teologia significa così risvegliare nelle donne la coscienza della propria dignità e dei propri diritti. “Per me come cristiana e domenicana, la teologia è sostegno per vivere la mistica e la prassi di Gesù, è un’occasione di apertura verso il significato amorevole della vita, della giustizia e della solidarietà. La riflessione teologica, la contemplazione nella prospettiva dell’incarnazione di Gesù mi ha portato a compromettermi con la realtà del mondo, in altri termini ad assumere una dimensione di fede, di speranza e a riconoscere i segni del nuovo cielo e della nuova terra presenti nell’oggi. Sono visibili le conquiste e le vittorie delle comunità ecclesiali di base nei movimenti sociali organizzati” (sr. Rosa Maria Barboza, brasiliana, provinciale della congregazione domenicana romana).
Una teologia al femminile permette di pensare al divino portando alla ribalta le represse immagini femminili di Dio, specialmente in un momento storico in cui la Chiesa diventa conscia di essere veramente universale: “E’ essenziale per il futuro della Chiesa in Asia che le donne asiatiche prendano il loro posto nella Chiesa come professioniste teologhe e studiose della Scrittura e che si esprimano con sicurezza… Oggi è imperativo che le donne domenicane (anche donne religiose e donne cristiane laiche) siano preparate a entrare intelligentemente e competentemente nelle relazioni dialogali con altre tradizioni religiose come una parte essenziale della missione della Chiesa” (Helen Graham delle suore di san Domenico di Maryknoll, per oltre 35 anni docente nelle Filippine).
“Fare teologia, per me è cercare la verità – dichiara sr. Diane Jagdeo, docente di teologia sistematica al seminario regionale di Trinidad. E la mia ricerca della verità è come quella della donna del Vangelo che, avendo perso la sua dracma, diligentemente la cerca fin quando non la trova… Oggi, se rifletto sulla mia vocazione di teologa, mi affliggono ancora le paure e le speranze e la profonda angoscia del nostro popolo caraibico… Sanare la terra e sanare la vita (il benessere dell’ecologia e degli uomini) mi sembra che siano all’ordine del giorno teologico per noi nei Caraibi”.
UOMINI CONSACRATI MA NON AUTOSUFFICIENTI
Lo studio della teologia è vitale per la formazione di una sintesi interiore che è necessaria per la maturità umana e spirituale, non solo delle donne ma anche degli uomini. Oggi infatti si entra nella vita religiosa con un bagaglio nella mente e nell’immaginazione che deve essere organizzato internamente, secondo i principi del Vangelo .Padre Wojciech Giertych, membro della provincia polacca e docente all’università Angelicum di Roma, sottolinea come lo sfondo del pensiero dei nuovi consacrati debba essere “riorganizzato perché la fede e la vocazione non siano basate sulle incertezze affettive. Bisogna che la fede entri nella vita dell’intelletto e nella sfera della libera scelta”.
Lo studio dunque è oggi prioritario in vista della identità umana e cristiana, oltre che in vista dell’apostolato. Così la teologia al maschile deve aprirsi alla teologia delle donne: “L’approccio femminile è meno razionale, più intellettuale, più descrittivo e poetico… Se manchiamo di approfittare dell’approccio femminile, la nostra teologia diventa rigida e asciutta, diventa troppo concettuale e non invita al mistero”.
”Il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dai laici, certamente cambierà il volto della teologia. Certamente essi ci presenteranno un diverso volto di Dio e un diverso volto della fede. Pensare Dio e la fede a partire dalla secolarità, dal matrimonio, dal lavoro manuale, dall’economia, dalla politica, a partire da … tutti gli angoli della vita terrena: questa sarà una buona notizia per la riflessione teologica. E il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dalle donne, è certo che cambierà il volto della teologia” (p. Felicisimo Martinez, docente in Spagna e Venezuela).
Una teologia così compresa, meno clericale e androcentrica, può essere molto utile alla questione lancinante di sapere come presentare la parola di Dio oggi in modo che sia davvero una buona novella e non dottrina fondamentalista. “Si tratterà – afferma p. Roger Houngbedjii del Benin – di elaborare una teologia che miri da una parte a far aderire i nostri contemporanei in modo radicale al Cristo, e dall’altra a renderli edotti dei loro diritti e doveri, delle cause profonde delle situazioni di ingiustizia e di povertà di cui sono vittime, in modo da condurli a essere responsabili del loro futuro. È in questa prospettiva che io credo di comprendere l’impegno del teologo domenicano nel contesto attuale dell’Africa”. Esiste dunque un legame intrinseco e dinamico tra ricerca teologica, vita di preghiera e solidarietà con i poveri, primi destinatari della buona novella.
LA MISERICORDIA DELLA VERITÀ
Lo studio insomma non è fine a se stesso: è il mezzo per aiutare il prossimo nella sua ricerca di salvezza e nell’approfondimento della propria relazione con Dio. Non si tratta di creare intellettuali, ma di formare evangelizzatori. In questo modo si apre la strada a una migliore inculturazione della fede, acquisendo uno stile di integrazione e flessibilità nell’apertura a popoli diversi dal proprio.
Si confessa sr. Antonietta Potente (che attualmente vive in una comunità di campesinos in Bolivia): “Sento che il sogno di un Dio vicino alla vita soggiace come qualcosa di nascosto, sempre più nascosto; sono sempre di meno le persone che hanno l’ardire di andare a Dio partendo dalla vita e soprattutto dalla vita più inedita. Sento che c’è tanta paura, che alcuni continuano a far teologia fra sicuri dogmatismi e superficiali diplomazie, quasi a cercare di sopravvivere fra le mode post-moderne le antiche tradizioni.
C’è chi continua a confondere la sete con il relativismo e pertanto continua a lanciare anatemi proibendo la novità dei versi del lavoro teologico. L’ordine a volte si dimentica delle sue origini … ho la sensazione che si studi poco, soprattutto tra i frati, affascinati dai facili successi o compensatori proselitismi pastorali e, noi donne, troppo chiuse in modelli di vita religiosa femminile a volte compensatori, a volte frustranti”.
Studiare teologia viva significa metterla al servizio della giustizia, poiché “la lotta per un mondo più giusto è inseparabile dalla verità. In special modo, tutti i teologi, se vogliono che il loro lavoro abbia davvero qualche valore, devono mostrarsi sensibili alla nostra povertà di significato, alla profonda sete di tutti gli esseri umani per il significato dell’esistenza, senza il quale non c’è speranza” (p. Timoty Radcliffe). Il nostro mondo globale è ferito da crepe e fratture, dalla marginalizzazione dei popoli più poveri: la sete di riconciliazione può essere lenita dalla presenza di teologi ed evangelizzatori sulle linee di frattura, invece che in aule asettiche.
La teologia è funzione ecclesiale che si compromette con la storia, che cerca di costruire un linguaggio su Dio con un popolo che vive la fede, nel contesto storico della sofferenza degli innocenti. Il noto teologo della liberazione, peruviano, Gustavo Gutiérrez (docente a Roma e a South Bend negli Stati Uniti) non esita a dire, sintetizzando il pensiero di molti: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa e al popolo a cui appartengo. L’amore continua a essere vivo, però si approfondisce e cambia la maniera di esprimerlo.
Cf. il volume dal titolo Superare le distanze: le figlie e i figli di Domenico fanno teologia, a cura di Suore domenicane internazionali, Pontificia università san Tommaso e Commissione internazionale giustizia e pace dell’ordine dei predicatori (Angelicum University Press di Roma e Edizioni Domenicane Italiane di Napoli). Trentasette teologhe/gi domenicane/i rispondono sotto forma di lettera a una griglia di domande sul senso e sullo stile del fare teologia oggi.
Il coraggio di fare autocritica
di Samir Khalil Samir
Le Chiese Ortodosse e l'ecumenismo
(dalla presentazione di Enzo Bianchi)
La fede e la storia delle Chiese d’Oriente, la visione ortodossa della liturgia, teologia, vita monastica e spiritualità, iconografia, religione popolare, missione, politica e scisma tra oriente e occidente nel libro di John Binns, apprezzato studioso anglicano.
E’ infatti uscito recentemente un libro interessante: “Le Chiese Ortodosse”, opera di John Binns, parroco anglicano di una Chiesa dell’Università di Cambridge.
Un libro che aiuta il lettore occidentale a conoscere l’oriente cristiano.
Di seguito alcuni stralci della presentazione del priore della Comunità di Bose.
Questo libro offre uno strumento prezioso per comprendere la vita di fede e la storia delle Chiese Ortodosse fino ai nostri giorni: un percorso di conoscenza sulle Chiese cristiane d’Oriente, che introduce in realtà al loro modo di sentire e conoscere il mistero di Cristo. Il lettore ritroverà così nella filigrana di queste pagine quella “spiritualità tornata alle fonti, cioè rientrata e riorientata sul mistero centrale Pasquale e parusiaco” che già Evdokimov riteneva il solo “ritorno efficace per la grande causa dell’unità cristiana”…
La grande intuizione dell’Oriente cristiano, espressa dall’adagio di Atanasio “ Dio si è fatto un uomo perché l’uomo divenga Dio”, è anche la mappa ideale che orienta gli itinerari qui suggeriti. Dio si è fatto un uomo, e continua a venire incontro all’uomo nella liturgia celebrata dalla Chiesa, una liturgia che presuppone e mostra la fede, trovando la sua verità nel sacramento del fratello. È un Dio che assume un umano, secondo l’insegnamento di Gregorio di Nazianzo, il “Teologo”, ed è perciò raffigurabile nella forma umana assunta dal Verbo: la bellezza del volto di Cristo narra nell’icona la trasfigurazione di tutto il creato. Ma “solo lo Spirito Santo può farci entrare nelle realismo del mistero“, rendendo la resurrezione di Cristo un evento operante nella nostra vita: è questa la théosis, la divinizzazione dell’uomo, che in Oriente segna radicalmente il monachesimo, ma al tempo stesso permea tutti gli aspetti della pietà e della missione della Chiesa. Siamo qui al cuore di quel “ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali…. di somma importanza per la fedele custodia dell’integra tradizione cristiana” che il Concilio Vaticano II invitava a riscoprire, riconoscendo le Chiese d’Oriente quali autentiche e Chiese sorelle della Chiesa di Roma, con la quale condividono una sostanziale comunione nella fede, nella prassi sacramentale e nella successione apostolica…..
Noi dobbiamo essere grati a all’Oriente Ortodosso, che ha saputo custodire con più lucidità e forza dell’Occidente alcuni elementi essenziali della vita cristiana: l’unità dell’iniziazione cristiana ( battesimo-cresima-eucaristia) anche nella prassi sacramentale; l’unità plurale del monachesimo, quale presenza di semplici cristiani nella Chiesa che tengono desta l’attesa della venuta del signore; la sinodalità, come cammino fatto insieme con ruoli e funzioni diversi, nella comune obbedienza a una parola rivelata, l’evangelo; infine, quello che con le parole delle metropolita del Monte Libano, Georges Khodr, potremmo definire “il mistero della diversità, della pluralità e dell’autentica dimensione di Chiesa locale, che continuano a manifestarsi nelle mondo ortodosso nonostante tutte le sue debolezze”.
Credo però che più in profondità, per la Chiesa cattolica, l’importanza dell’esistenza delle Chiese ortodosse sia l’importanza dell’esistenza dell’altro. Senza la distanza dell’alterità non c’è spazio per l’unità nell’amore, ma solo per l’assorbimento, per la fusione. Solo tra diversi la comunione fraterna ha senso, ha sapore, manifesta la libertà dei figli di Dio suscitata dallo Spirito Santo, che custodisce la diversità senza discriminazioni, crea l’unità senza uniformare.
Quello che era rimasto offuscato da un millennio di estraniamento reciproco, e che il cammino ecumenico ha reso manifesto, è che l’unità presuppone la pluralità: essa non è mai senza l’altro, mai senza l’altro fratello, mai senza l’altra Chiesa, mai senza il riconoscimento dello statuto teologico dell’altro… si tratta di imparare che il bene grande dell’incontro e della comunione può richiedere la rinuncia a ricchezze non essenziali, l’a scesi di discernere e scegliere sempre l’essenziale.
La riscoperta di ciò che unisce è stato anche il metodo che ha orientato il dialogo teologico ufficiale tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse e dopo il Concilio, un dialogo il cui fine resta quello del ristabilimento della piena comunione. Se con le Chiese ortodosse calcedonesi si è registrata un’importante e non ininterrotta convergenza verso un consenso cristologico che supera la divisione intervenuta al Concilio di Calcedonia (451), il dialogo tra cattolici e ortodossi calcedonesi, dopo aver prodotto fondamentali documenti sul mistero della Chiesa e dell’Eucaristia alla luce delle mistero della Santa Trinità (Monaco di Baviera 1982), su Fede sacramenti e unità della Chiesa (Bari 1987) e sul Sacramento dell’ordine nella struttura sacramentale della Chiesa (Valamo 1988), s’è interrotto in modo doloroso all’inizio degli anni ’90. La comune e riscoperta della Chiesa come mistero di comunione, di “koinonia insieme ministeriale e pneumatica”, in cui trova il giusto equilibrio la dimensione trinitaria, senza scissione tra Spirito e Figlio, avrebbe dovuto aprire la riflessione sul nodo ecumenico essenziale: il rapporto tra comunione di Chiese e il ministero del vescovo di Roma. Che questo sia il punto decisivo, senza il quale non vi sarà possibilità di comunione vera e visibile nella fede, era convinzione profonda di Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Ut unum sint ha invitato le altre Chiese cristiane a una ricerca condivisa sul modo di esercizio del papato; lo stesso Benedetto XVI, all’indomani della sua elezione, ha confermato in questo senso il proprio “impegno primario” per la “ ricostituzione della piena e visibile unità di tutti seguaci di Cristo”. Ma la sessione in programma a Monaco nel 1990, conseguenze ecclesiologiche e canoniche della struttura sacramentale della Chiesa: conciliarità e autorità nella Chiesa, non si è mai tenuta.
Il crollo del comunismo e la ritrovata libertà delle Chiese orientali in comunione con Roma ha riaperto una situazione conflittuale con le Chiese ortodosse (in Ucraina più di mille edifici di culto sono stati sottratti alla Chiesa ortodossa e restituiti ai greco cattolici, cui appartenevano prima della liquidazione della loro Chiesa da parte di Stalin nel 1946), e un altro calendario si è imposto ai lavori della commissione mista (…).
Gli ultimi capitoli del libro di Binns ci aiutano a comprendere qualcosa del malessere, della sofferenza non rappacificata che spingono le Chiese ortodosse –ormai presenza visibile e autorevole nelle diverse società - a mostrarsi sempre meno disponibili all’impegno ecumenico. Uscite da settant’anni di cattività comunista, o ancora minoritarie in paesi a maggioranza islamica, queste Chiese non sono a noi “contemporanee”, vivono una stagione che non è la nostra occidentale: con grande ritardo, spesso ancora prive di mezzi adeguati sul piano teologico, pastorale, missionario, devono affrontare la modernità, la quale pone seri problemi, solleva interrogativi, rivisita con la sua critica radicale tutto ciò che appartiene al vecchio mondo. Anche per questo risulta loro difficile scorgere nel progetto di evangelizzazione delle Chiese di occidente nei loro territori un aiuto e un insegnamento.
Il IV Vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici: