Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

18a Riunione del Comitato Internazionale
di Raccordo tra Cattolici ed Ebrei

Dichiarazione congiunta

Buenos Aires 5-8 luglio 2004.
Incontro dell’ International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC) sul tema:

Giustizia e Carità.
Affrontare le sfide del futuro:
 i rapporti ebraico-cattolici nel 21° secolo

I rapporti tra la Chiesa cattolica ed il popolo ebraico hanno sperimentato grandi cambiamenti dalla Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra Aetate (1965), che ha sottolineato le radici ebraiche del Cristianesimo e il ricco patrimonio spirituale condiviso da Ebrei e Cristiani. Nell’ultimo quarto di secolo, il Papa Giovanni Paolo II ha approfittato di tutte le occasioni che si sono presentate per promuovere il dialogo tra le due comunità di fede, che considera inerente alle nostre identità. Questo dialogo ha generato un’intesa e un rispetto reciproci. Speriamo di continuare ad arrivare a circoli sempre più ampi e di toccare le menti ed i cuori di Cattolici ed Ebrei e dell’intera comunità.

La 18ª Riunione del Comitato internazionale di raccordo tra Cattolici ed Ebrei ha avuto luogo a Buenos Aires dal 5 all’8 luglio 2004. Questo incontro, celebrato per la prima volta in America Latina, ha avuto come tema centrale Tzedek and Tzedakah (Giustizia e Carità) nei loro aspetti teorici e nelle loro applicazioni pratiche. Le nostre decisioni sono state ispirate dal comandamento divino "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lev 19,18; Mt 22,39). Dalle nostre diverse prospettive, abbiamo rinnovato il nostro impegno nei confronti della difesa e della promozione della dignità umana in base all’affermazione biblica per la quale ogni essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Ricordiamo la difesa dei diritti umani di Papa Giovanni XXIII per tutti i figli di Dio enunciata nella sua enciclica Pacem in Terris (1963) e le rendiamo un tributo speciale per aver iniziato questo scambio fondamentale nei rapporti ebraico-cattolici.

Il nostro impegno reciproco nei confronti della giustizia ha una profonda radice in entrambi i Credo religiosi. Ricordiamo la tradizione di aiutare la vedova, l’orfano, il povero e lo straniero derivanti dal comandamento di Dio (Es 22,20-22; Mt 25,31-46). I Maestri di Israele hanno sviluppato un’ampia dottrina di giustizia e carità per tutti, basata su una profonda comprensione del concetto di Tzedek. Costruendo sulla tradizione della Chiesa, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, Redemptor Hominis (1979), ricordava ai Cristiani che un vero rapporto con Dio richiede un forte impegno nel servizio nei confronti del nostro prossimo.

Anche se Dio ha creato l’essere umano nella diversità, lo ha dotato della stessa dignità. Condividiamo la convinzione per cui ogni persona ha diritto ad essere trattata con giustizia ed equità. Questo diritto include il fatto di condividere la grazia e i doni di Dio (hesed).

Vista la diffusione della povertà, dell’ingiustizia e della discriminazione, abbiamo il dovere religioso di preoccuparci per i poveri e per coloro che sono stati privati dei propri diritti politici, sociali e culturali. Gesù, radicandosi profondamente nella tradizione ebraica dei suoi tempi, ha fatto dell’impegno nei confronti dei poveri una priorità del Suo ministero. Il Talmud afferma che il Santo, sia Benedetto, ha sempre cura dei bisognosi. Attualmente questa preoccupazione deve comprendere ampi gruppi in tutti i continenti: gli affamati, gli orfani, le vittime dell’AIDS, tutti coloro che non ricevono cure mediche adeguate e quelli che non sperano in un futuro migliore. Nella tradizione ebraica, la forma superiore di carità consiste nell’abbattere le barriere che impediscono ai poveri di uscire dalla loro condizione di povertà. Negli ultimi anni la Chiesa ha sottolineato la propria scelta preferenziale per i poveri. Gli Ebrei e i Cristiani hanno lo stesso dovere di lavorare per la giustizia con carità (Tzedakah), arrivando così alla pace (Shalom) per tutta l’umanità. Fedeli alle nostre rispettive tradizioni religiose, vediamo questo impegno comune nei confronti della giustizia e della carità come la cooperazione dell’uomo con il piano divino per costruire un mondo migliore.

Alla luce di questo impegno comune, riconosciamo la necessità di trovare una soluzione per queste grandi sfide: la crescente disparità economica tra i popoli, la grande devastazione ecologica, gli aspetti negativi della globalizzazione e il bisogno urgente di lavorare per la pace e la riconciliazione.

Sono quindi benvenute le iniziative congiunte delle organizzazioni internazionali cattoliche ed ebraiche che hanno iniziato a lavorare per risolvere i problemi dei poveri, degli affamati e degli ammalati, dei giovani, di coloro che non hanno accesso all’educazione e degli anziani. Sulla base di queste azioni di giustizia sociale ci vogliamo impegnare a raddoppiare i nostri sforzi per soddisfare i bisogni più pressanti di tutti attraverso il nostro impegno comune nei confronti della giustizia e della carità.

Man mano che ci avviciniamo al 40° anniversario della Nostra Aetate, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che ha ripudiato l’accusa di deicidio contro gli Ebrei, ha riaffermato le radici ebraiche del Cristianesimo e ha condannato l’antisemitismo, prendiamo nota dei molti cambiamenti positivi che la Chiesa cattolica ha operato nei suoi rapporti con il popolo ebraico. Questi ultimi 40 anni di dialogo fraterno contrastano in maniera sostanziale con quasi duemila anni di "insegnamento del disprezzo", con tutte le sue dolorose conseguenze. Prendiamo energia dai frutti degli sforzi collettivi, che includono il riconoscimento del rapporto unico e continuo tra Dio e il popolo ebraico e il rifiuto totale dell’antisemitismo in tutte le sue manifestazioni, incluso l’antisionismo come espressione più recente dell’antisemitismo.

Da parte sua, la comunità ebraica ha evidenziato un desiderio crescente di portare a termine un dialogo interreligioso ed azioni congiunte su questioni religiose, sociali e comunitarie a livello locale, nazionale e internazionale, come illustra il nuovo dialogo diretto tra il Gran Rabbinato di Israele e la Santa Sede. La comunità ebraica, inoltre, ha compiuto numerosi passi a livello di programmi educativi sul Cristianesimo, sull’eliminazione dei pregiudizi e sull’importanza del dialogo ebraico-cristiano. La comunità ebraica ha poi preso coscienza, deplorandolo, del fenomeno dell’anticattolicesimo in tutte le forme in cui si manifesta nella società.

Nel 60° anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti, dichiariamo la nostra decisione di impedire la rinascita dell’antisemitismo che ha condotto al genocidio e alla Shoah. Su questo punto siamo uniti e seguiamo gli indirizzi delle principali conferenze internazionali su questo problema che sono state realizzate recentemente a Berlino e presso le Nazioni Unite a New York. Ricordiamo le parole del Papa Giovanni Paolo II, che ha affermato che l’antisemitismo è un peccato contro Dio e contro l’umanità.


Venerdì, 04 Marzo 2005 00:11

Yom Kippur

Yom Kippur
Il giorno dell’Espiazione o della Riconciliazione


Il Kippur, che ricorre il 10 del mese Tishri, conclude un periodo di penitenza della durata di 10 giorni e che inizia con il Capodanno (Rosh Ha-Shanà). Per gli ebrei è la solennità più importante, la celebrazione più sacra e quella che coinvolge maggiormente la sfera personale.

Secondo la tradizione ebraica, i quaranta giorni che precedono il giorno di Kippur, alla fine del periodo estivo e prima di inoltrarsi nell'autunno, sono il momento migliore per concentrarsi e per chiedere perdono (selicha') per le colpe commesse dall'individuo e dalla collettività.

E' detto anche Sabato dei Sabati per la sua importanza. In tale giorno sono proibiti ogni lavoro ed ogni attività umana. La giornata viene dedicata alla preghiera, alla confessione dei peccati, alla commemorazione dei defunti. Giorno dedicato al perdono da concedere alle persone che si sono macchiate di qualche colpa nei nostri confronti ed a quello da chiedere in vista delle riconciliazione con l’Eterno (per le colpe commesse verso D-o). È attraverso l'osservanza dell'assoluto digiuno (l’astensione dal mangiare e dal bere per 25 ore è obbligatoria per tutti gli adulti) e la preghiera che trascorre la giornata.

A Kippur le sinagoghe di tutto il mondo rimangono aperte per l’intera giornata, affinché tutti possano partecipare alla preghiera comune. Si recitano sette benedizioni in ciascuna delle cinque preghiere del giorno. Al termine viene suonato lo Shofar (strumento musicale a fiato usato fin dai tempi più antichi nel rituale ebraico e originariamente tratto da un corno di ariete).

Molti ebrei che sono lontani da una osservanza e da una pratica dell'ebraismo, si mostrano tuttavia particolarmente attenti ad osservare la ricorrenza del Kippur - almeno parzialmente - recandosi in sinagoga, seppure abitualmente durante l’anno non lo facciano.

Originariamente, Yom Kippur era l'unico giorno dell'anno in cui il Sommo Sacerdote entrava nel santuario interno del tempio (il Santo dei Santi) per offrire il sacrificio.

Giovedì, 03 Marzo 2005 00:37

Una storia per la pace (Enrico Peyretti)

Una storia per la pace
di Enrico Peyretti

"La storia sarebbe una gran bella cosa, se solo fosse vera" (detto attribuito a Lev Tolstoj)

"La storia è una bugia su cui ci si è messi tutti d'accordo" (Napoleone)

Intendo che il compito dato a questo intervento sia la ricerca di un modo di concepire e raccontare la storia, tale da contribuire alla possibilità della pace. Perciò non darò qui bibliografie sulle ricerche storiche di pace, che possono essere trovate altrove (1).

Proverò invece a rispondere a tre domande: quale concezione della storia per una cultura di pace?; quale sentimento di fronte alla storia e quale ricerca storica contribuiscono alla pace?

Il presupposto, che mi pare ovvio, è che la storia non si impone a noi come un oggetto dato, ma noi la vediamo, la raccontiamo, la leggiamo, la orientiamo, la pratichiamo in una direzione o nell’altra, nella logica della violenza o della costruzione pacifica, secondo lo spirito con cui la viviamo e la osserviamo. La scelta preliminare della pace positiva dà luce su un certo profilo della storia, sia come pensiero interpretativo dei fatti passati, sia come azione presente nel mondo.

NOTE

    1. Una bibliografia da me curata, più volte pubblicata in edizioni successivamente crescenti e pur sempre incomplete, può essere richiesta a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Una sua sintesi è stata pubblicata in Effe, n. 9, estate 1998, rivista bibliografica delle Librerie Feltrinelli e, nell'aggiornamento a quella data, nell'Annuario di pace, Italia/maggio 2000-giugno 2001, Trieste, Asterios, 2001, pp. 339-352.



    1. Quale concezione della storia?

    La storia può essere pensata almeno secondo tre principali concezioni, ognuna delle quali può prevalere senza necessariamente escludere del tutto le altre:

    1. storia determinata o guidata principalmente da una dinamica di forze materiali: economiche, militari, organizzative, quantitative;

    2. oppure storia mossa da energie e risorse dello spirito umano, cioè come possibile progresso umano, possibile evoluzione umanizzatrice, civilizzatrice;

    3. storia composta da forze non solo umane ma umane e divine in libera sinergia, per l'affermazione del bene sul male (la salvezza), come nelle visioni religiose (dette di solito provvidenzialiste, termine che non deve essere inteso nel senso di fatalistiche e necessarie), specialmente nelle religioni storico-profetiche, del ceppo di Abramo, meglio che in quelle cosmiche, del ceppo indù (2).

    La prima di queste immagini della storia è quella che più facilmente si impone. Per esempio, i fatti del 1989 nell'Europa dell'Est, sono stati interpretati come la vittoria militare ed economica dell'Occidente nella terza guerra mondiale non combattuta, ma pur sempre decisa dalla forza militare, negando importanza decisiva, pur insieme ad altri fattori, alle rivoluzioni popolari nonviolente (3).

    Molte generazioni, ancora alcuni di noi, hanno imparato a scuola che la storia è mossa e promossa in definitiva dalle guerre, perché la storiografia è stata per lo più opera degli scribi delle corti e dei governi, occupati nelle guerre, o degli intellettuali delle classi dominanti. Poi è venuta l'attenzione degli storici alla vita dei popoli, fino alla microstoria del quotidiano, ben più seria, reale, interessante e istruttiva. Se la storia è questa, se è la storia della vita, allora essa comprende la guerra e la pace, l'amore e l'odio, la distruzione e la costruzione.

    La seconda visione della storia come fatta dallo spirito umano è propria non solo delle filosofie idealiste, ma anche delle filosofie etiche.

    Gandhi, quando gli viene contestato che la nonviolenza è fuori dalla storia, scrive: "La storia in realtà è una registrazione di ogni interruzione della costante azione della forza dell'amore o dell'anima [...], è una registrazione di un'interruzione del corso della natura. La forza dell'anima, essendo naturale, non viene registrata dalla storia". La storia è dunque, per Gandhi, un sismografo, che non scrive nulla quando la terra vive tranquilla e non trema, e si sveglia solo per registrare distruzione e morte. Gandhi dice pure che "il fatto che vi sono ancora tanti uomini vivi nel mondo dimostra che questo non è fondato sulla forza delle armi ma sulla forza della verità e dell'amore" (4).

    Cioè, questo fatto dimostra per Gandhi che la storia reale dell'umanità non è quella delle guerre. La vera storia è il tessuto continuo della vita, nel quale prevale, pur con mille limiti, la cooperazione; nel quale procedono le cose umane, pur con i problemi che la vita sa risolvere più o meno bene. In questo tessuto, violenza e guerre ne sono soltanto gli strappi. Le guerre e la violenza, anziché essere la storia, sarebbero proprio la non-storia, l'arresto e i vuoti della storia umana.

    Aldo Capitini ha questa idea della storia: "La storia vivente ha dimensioni molto più vaste di quella scritta. La storia non ha soltanto aperto questa strada, costruito questo argine, spostate queste pietre dal monte alla piazza architettonica; la storia ha dato moltissimo a me direttamente e interiormente, mediante l'umanità scesa in me dai miei, e abitudini, tendenze, linguaggio, mentalità, che provengono dalla storia e continuano in essa. Anche riguardo a cose elementari la storia mi ha mutato; e certamente non guardo l'alba, il monte, il mare, con lo stesso animo con cui avrei guardato quegli eventi così semplici tremila anni fa. Ormai non posso e non debbo disfarmi dell'attestazione interiore dei valori, perché mi parrebbe di spiantare la ragione d'essere e di svilupparsi di qualsiasi coscienza umana" (5). La sostanza della storia degli uomini è ciò che altrove Capitini chiama la "costruzione corale dei valori", che avviene nell'intimo, nel silenzio, nel continuo delle esistenze, nelle loro dimensioni di incontro e non di scontro eliminatorio.

    Per Levinas la ragione totalitaria, linea di fondo della filosofia occidentale, eleva la storia universale a giudizio inappellabile dell'operato dei singoli, considera la guerra come strumento risolutivo del confronto politico, e infine giustifica tutti i regimi totalitari (6).

    Ma col termine "infinito" opposto a "totalità", egli indica ciò che rompe la totalità, ed è la relazione etica, che sorge dall'appello veniente dal volto bisognoso ed indifeso dell'altro uomo. Questo atto etico non ha bisogno di alcun riconoscimento da parte del giudizio storico per essere sensato, e neppure ha bisogno della promessa religiosa (7), perché è esso stesso significazione di senso. L'atto etico è dunque la vera vicenda umana, che realizza l'umano, e non dipende dal cosiddetto successo storico (8).

    La storia registrata e celebrata, dunque, non è tutta la realtà. Uno dei "convincimenti etici fondamentali" che "molta parte, la parte migliore dell'umanità, ha posto a base del suo vivere in società, ha espresso in una straordinaria varietà di culture popolari tra loro non isolate e ha trasmesso, soprattutto attraverso la sapienza della donna, sino al momento presente", uno di questi convincimenti è "la tranquillità e la pace che vengono dalla certezza di una giustizia non affidata alla storia" (9).

    Anche Gianni Vattimo, rifacendosi a Marcuse, ha espresso l'idea che la storia abbia come senso la riduzione della violenza (salvo poi vedere senz'altro la modernizzazione come effettiva riduzione di violenza, che è giudizio ben discutibile) (10). E dunque, quando avanza la violenza, la storia umana si arresta o arretra, e viceversa.

    Tutti questi modi di interpretare il cammino attraverso vicende che hanno come protagonista eminente lo spirito umano, vedono la storia come consistente soprattutto nelle opere di pace.

    Nella terza delle concezioni indicate, la visione religiosa o teologica della storia come storia della salvezza, attraverso i liberi e fallibili atti umani Dio vive insieme all'uomo la liberazione dal male e la crescita nel bene. Nessuna necessità divina sostituisce l'uomo, ma l'alleanza di Dio lo accompagna. La storia non è garantita dal rischio di fallire (la fedeltà infedele del popolo d'Israele nella Bibbia ebraica, poi, nella Bibbia cristiana, l'immagine mitica dell'inferno e della dannazione, o della distruzione apocalittica, significano questa possibilità di fallimento personale e collettivo), ma è sostenuta dalla speranza attiva. In particolare, nel cristianesimo, Dio si è abbassato (kenosis di cui parla la lettera di Paolo ai Filippesi 2,5-l1) nella condizione umana per condividere con l'umanità tutta l'esperienza del male e dell'ingiustizia più assurdi, per spezzarne l'assolutezza del potere con la forza dell'amore totale e infinitamente vitale. Questa storia di Dio con l'uomo si svolge non nei momenti isolati del rito religioso, ma nel tempo comune, dentro la storia umana, laica, quotidiana, fermentandola senza forzarla. Attraverso la libera fede e la risposta attiva e pratica, nella vita vissuta come amore, si compie la promessa e la profezia di salvezza, come disse Gesù nella sinagoga di Nazareth: "oggi questa parola si realizza tra voi" (11).

    Questo genere di vita nell’amore generoso e sovrabbondante, non può essere altro che costruzione di una storia di pace. In questa visione, la storia vera e salvifica è in corso, è il cuore di tutta la vicenda umana, ed è storia di pace attiva, nella lotta interiore contro il male, nella resistenza forte opposta alla violenza, ma nel perdono e nella mitezza anche verso il violento, per riguadagnarlo all'umanità.

    NOTE

      2. Per questa distinzione, che non va forzata, vedi. H. Küng , Cristianesimo e religioni universali, Milano, Mondadori, 1986, pp. 327-329; A. Rizzi, Il senso e il sacro. Lineamenti di filosofia della religione, Torino, Editrice Elle Di Ci, 1995, pp. 61-70. Raimon Panikkar, filosofo e teologo interculturale, euro-indiano, propone la visione della storia cosmo-teandrica, composta da energie naturali, divine, umane.

      3. Mi scriveva Norberto Bobbio, in una lettera del 10 settembre 1994: "La ragione principale per cui sono capi quei regimi, a cominciare da quelli della Germania Orientale, e della Russia stessa, è la sconfitta in una guerra (la guerra fredda), non combattuta, ma vinta, se non con l'esercizio diretto della violenza, con la minaccia d'una violenza, che si è manifestata alla fine di per sé stessa efficace. La pratica della nonviolenza non c'entra". G. Salio, in Il potere della nonviolenza, Torino, Gruppo Abele 1995, esamina una dozzina di diverse interpretazioni di quegli eventi, scegliendo poi quella di Johan Galtung, che riconosce tra i fattori decisivi l'azione popolare nonviolenta.

      4. M. GANDHI, Teoria e pratica della non violenza, Torino, Einaudi, 1996, pp. 64-65.

      5. A. CAPITINI, La vita religiosa, 2ª edizione, Bologna, Cappelli, 1985, p. 24, citato anche in G. ZANGA, Aldo Capitini. La sua vita, il suo pensiero, Torino, Bresci editore, 1988, p. 78.

      6. E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, Jaka Book, 1990, pp 19 20.

      7. ID., Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Roma, Città Nuova, 1984, p. 124

      8. Cfr. G. FERRETTI, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 102-103, 156-162,262-263.

      9. P.C. BORI, Per un consenso etico tra culture, 2ª edizione, Genova, Marietti, 1995, p. 108.

      10. N. BOBBIO, G. BOSETTI, G. VATTIMO, La sinistra nell'età del karaoke, I libri di Reset Roma, Donzelli 1994. p. 54,

      11. Cfr vangelo di Luca 4,21. Questa lettura del cristianesimo non anzitutto come dottrina, nè morale, né culto rituale, ma come storia profetica, storia santa in atto, lettura che era più chiara nella teologia biblica del primo millennio cristiano, è richiamata oggi efficacemente, per esempio, da un grande monaco, scomparso nel novembre del 2000, Benedetto Calati, i cui saggi principali si possono vedere nella raccolta Sapienza Monastica, Roma, Studia Anselnilana, 1994. Nell'Introduzione a questo volume, Innocenzo Gargano scrive: "La profezia è insomma il mistero che si dispiega progressivamente nelle manifestazioni della bellezza cosmica, nella storia dei popoli, nel mistero nascosto in ogni uomo e donna e nella crescita di ciascun individuo", op. cit., pp. 55-56. Una più rapida e colloquiale esposizione del pensiero di Calati si trova nell'intervista-testamento raccolta da R. LUISE in La visione di un monaco, Assisi, Cittadella, 2000.



      2. Quale sentimento della storia?

      Questa seconda domanda vuole individuare gli atteggiamenti profondi ed esistenziali, prima che elaborati ed interpretativi, con cui gli umani si pongono davanti agli avvenimenti e ai movimenti della storia umana: atteggiamenti e sentimenti di rassegnazione e adattamento a ciò che avviene? Oppure volontà di cambiamento verso un maggior valore, verso un senso migliore, discernendo bene e male, giusto e ingiusto, positivo e negativo? E quale sarà il criterio distintivo tra questi opposti?

      Se ci si pone davanti alla storia avvenuta e alla storia in atto in modo attivo e positivo, il passato sarà osservato per trarne esperienza, ma non sarà proiettato sul presente e sul futuro come una legge fatale, ed il futuro potrà essere progettato e voluto con caratteri migliori di tante situazioni ed eventi del passato.

      Qui entra in gioco davvero l'opzione profonda tra violenza e nonviolenza, tra la legge della forza e della sopraffazione da un lato e, dall'altro lato, la legge dell'equivalenza, cioè dell'uguale valore tra gli esseri umani e del necessario reciproco rispetto assoluto. La "regola d'oro" presente in tutte le culture umane, detta in decine di modi diversi ma analoghi (ne ho raccolti circa venticinque), esprime e comanda questa equivalenza e questo rispetto: non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te (in negativo); fai agli altri quel che desideri che gli altri facciano a te (in positivo).

      L'opzione è dunque essenzialmente morale, ed avviene nell'intimo dell'animo umano, nella libera (relativamente ma realmente libera) decisione fondamentale. Come opzione fondamentale, essa può essere contraddetta da singoli atti della persona, ma vale ancora se rimane l'orientamento di fondo di quella persona.

      Di fronte al male pesantemente presente nella storia e nel presente, la persona che ha scelto di agire secondo la regola d'oro, impegnandosi a superare la violenza della storia anzitutto a cominciare da sè (12), imparerà a indignarsi senza odiare (13), ad impegnarsi, sentendosi presa-in-pegno dal valore degli altri, sentendo che il confine buoni-cattivi, bene-male non passa tra due campi o categorie, ma tra due comportamenti, due spiriti e atteggiamenti tra i quali ognuno ha da scegliere e decidersi, dentro di sé.

      NOTE

        12. Cfr. E. HILLESUM: "È proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri" (Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 212).

        13. N. NERI, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Milano, Bruno Mondadori, 1999, nel quale mostra come nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita come lei a "trasformare il dolore in forza", evidenzia la centralità in Etty Hillesum dell'indignarsi senza "odiare", in un intervento torinese del maggio 2000, ora leggibile nell’opuscolo Il pensiero di un 'estrema compassione, Coop. Studi, via Ormea 69, 10125 Torino, tel 011-650.31.58, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., p- 35.




        3. Quale ricerca storica?

        La ricerca, in generale, dipende da ciò che già si preconosce in parte e per ciò si desidera conoscere, proprio perché non si conosce del tutto: Eros, per Platone, è figlio di ricchezza e povertà: ha e non ha ciò che cerca; è filosofo chi non è sapiente come gli dei, né ignorante come gli animali bruti, ma ha un po' di sapienza e ne desidera altra, come gli esseri umani; Agostino intuisce che Dio dice a chi lo cerca: "Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato".

        Che cosa si cerca nella storia? La scelta degli oggetti, degli ambiti, dei profili che andiamo a cercare nel mare immenso della realtà storica dipende dai sentimenti con cui alla storia guardiamo. E questi derivano dalla prime esperienze dell'esistenza personale, dalla cultura in cui si viene educati, e infine dalle scelte morali con cui personalmente si reagisce alle influenze ricevute e alla realtà incontrata.

        In conseguenza di ciò che ognuno cerca e va a vedere nella storia, si forma la propria concezione della storia. La quale è quell'immagine del cammino umano nel tempo che una data tradizione, un dato insegnamento, una data ricerca e un dato orientamento personale ci danno. Una certa selezione dei fatti storici, da un certo punto di vista, forma quella certa filosofia della storia, che poi determina l'ottica con cui torniamo a cercare fatti e significati nella storia conoscibile. La ricerca storica dipende dal sentimento con cui guardiamo la storia e plasma l'idea della storia, che continuerà a guidare la nostra ricerca. Se abbiamo visto solo guerre e non abbiamo reagito con una indignazione attiva e impegnata a vedere di più, continueremo a vedere solo guerre, a cercare solo guerre nel passato, e a non aspettarci altro che inevitabili guerre nel futuro.

        Per esempio, nei fatti del 1989, Johan Galtung vede la combinazione di tre fattori: il primato della politica, la politica di pace, il potere popolare dei due tipi di movimenti di base, per la pace all'ovest, del dissenso all'est, perché, in quanto cercatore di pace, ha la vista preparata a riconoscere le condizioni che rendono possibili grandi rivolgimenti politici senza uso di violenza. Altri, i più, anche Bobbio, hanno visto soltanto la maggiore minaccia militare e la più forte pressione economica come causa della vittoria occidentale nella guerra non combattuta, ma rimasta minaccia effettiva, la Guerra Fredda. Così la guerra, le armi, la sopraffazione sono riconosciute regine inamovibili della storia (14).

        Un altro esempio: la Resistenza italiana al nazifascismo è stata per lungo tempo interpretata unicamente in termini militari. Anna Bravo ha ricordato che nel dopoguerra l'apposita commissione del Ministero della Difesa riconosceva la qualifica di partigiano soltanto a chi aveva partecipato a tre azioni armate (15).

        Ma Anna Maria Bruzzone affermava: "Nel nostro libro (16) abbiamo dato lo stesso valore a chi ha sparato e a chi ha nascosto in casa gli ebrei" (17).

        Nel lavoro citato alla nota 15, La Resistenza civile nelle ricerche storiche, ho cercato di seguire e dimostrare l'evoluzione, fino al 1995, della storiografia della Resistenza nello scoprire e riconoscere la realtà della resistenza civile. Claudio Pavone, che, nel suo saggio maggiore del 1991 (18) era rimasto insensibile alla ricerca della resistenza civile, non armata, nel 1995 riconosceva chiaramente, grazie al lavoro di Bravo e Bruzzone, il "valore euristico" del concetto di resistenza civile, che è "qualcosa di più ampio della cosiddetta resistenza passiva (19)

        Jacques Semelin, il maggiore storico europeo della resistenza civile, ha scritto nella sua opera principale: "Non è stata la sola curiosità storica a motivare questa ricerca: essa è nata da un interrogativo più profondo, di natura etica e strategica, sulle capacità delle società di resistere senz'armi ad una aggressione (o occupazione militare o potere totalitario)" (20).

        Dunque, sono il bisogno e il desiderio di vedere che permettono allo storico serio di vedere, non di sognare, ciò che senza quel desiderio non saprebbe vedere. Il bisogno e la scelta della pace permettono di vedere la pace anche nella storia e non solo nell'utopia. Il pensiero desiderante, spesso disprezzato dai realisti duri, aiuta, guida, illumina la conoscenza della realtà effettiva.

        Per superare la guerra, metterla fuori dalla storia, liberare l'umanità da questo flagello, bisogna inventare e valorizzare le alternative. In questo modo bisogna vedere anche la storia, evidenziando non tanto le paci imposte dai vincitori ai vinti, che sono l'atto di guerra culminante e lo scopo delle guerre stesse, non le paci-intervallo tra le guerre, ma le paci-invece-delle-guerre, cioè i conflitti condotti a soluzioni non distruttive e non omicide.

        Così pure, è da fare anche una storia controfattuale. Non è vero che la storia non si fa con i "se". È invece importante studiare le alternative di pace lasciate cadere, o non viste per incapacità immaginativa, o soffocate per volontà contraria, e ipotizzare le differenti condizioni ed opportunità che ne sarebbero seguite. Non è vero che la storia si fa unicamente con i fatti pesantemente avvenuti. Anche le occasioni perse sono realtà storica da meditare, per fare oggi e domani una storia di qualità umana migliore.

        Questa è ricerca storica per la pace. La ricerca delle alternative alla guerra è particolarmente convincente quando è possibile rintracciare, nella storia fattuale, casi reali (pochi o tanti) di difesa dei giusti diritti, di liberazione da un'oppressione, di lotte condotte senza riprodurre la violenza omicida che si vuole respingere. Quel che è fatto è possibile, anche se appare difficile. La dominante cultura di guerra ha di fatto ignorato queste forme di resistenza e di liberazione, facendole apparire impossibili. A questa scoperta un ramo della cultura della pace sta lavorando in questi anni.

        A conclusione della presente relazione, segnalo il libro di due intrepidi ricercatori per la pace dell'Università di Granada (21), che imposta precisamente il lavoro per una Storia della Pace. Da questa opera traduco alcune righe, a pag. 29, nelle quali si può vedere una profonda consonanza col brano di Gandhi da me citato all'inizio:

        Vorremmo cominciare formulando questa asserzione: le esperienze pacifiche, di scambio, cooperazione, solidarietà, diplomazia, sono state dominanti nella Storia. E, tuttavia, questa è una storia che, forse perché la sua quotidianità e naturalezza non lasciano tracce visibili e dimostrabili, e perché nemmeno fa rumore, non ha avuto bisogno di essere fatta risaltare. Nei paragrafi seguenti proponiamo alcune linee sulle quali costruire una storia della pace: la pace silenziosa; la storia della socializzazione umana, della solidarietà e cooperazione; la storia e le esperienze della "bassa entropia"; la negoziazione come articolazione positiva di realtà in conflitto. Evidentemente, non saranno le uniche linee possibili per la costruzione della Storia della Pace (Peace History), ma con buona probabilità serviranno per alimentare il dibattito a questo riguardo". (In nota, è indicata la rivista Peace and Change come lo spazio nel quale si sono concentrati molteplici sforzi in tal senso).

        Alberto L'Abate ha studiato le precedenti esperienze di interventi alternativi alla guerra in zone di acuti conflitti (22) e ne ha realizzati egli stesso (23). Anche per questo aspetto di prima importanza del suo lavoro lo ringraziamo e lo festeggiamo oggi (24).

        NOTE

          14. Cfr. E. HILLESUM: "È proprio l'unica possibilità che abbiamo, Klaas, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in sé stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri" (Diario 1941-1943, Milano, Adelphi, 1985, p. 212).

          15. N. NERI, autrice di Un'estrema compassione. Etty Hillesum testimone e vittima del lager, Milano, Bruno Mondadori, 1999, nel quale mostra come nessuna vittima, nel Novecento, era riuscita come lei a "trasformare il dolore in forza", evidenzia la centralità in Etty Hillesum dell'indignarsi senza "odiare", in un intervento torinese del maggio 2000, ora leggibile nell’opuscolo Il pensiero di un 'estrema compassione, Coop. Studi, via Ormea 69, 10125 Torino, tel 011-650.31.58, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo., p- 35.

          16. Cfr. la lettera di Bobbio e il libro di G. SALIO, Il potere della nonviolenza, citati alla nota 3.

          17. Anna Bravo citata da E. PEYREITI in La Resistenza civile nelle ricerche storiche, in Fascismo, Resistenza, Letteratura. Percorsi storico-letterari del Novecento italiano, I Quaderni del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, n. 2, febbraio 1997, pp. 61-87. La citazione è a p. 67.

          18. A. BRAVO, A.M. BRUZZONE, In guerra senza armi. Storie di donne 1943-1945, Bari, Laterza, 1995.

          19. Cfr. La Resistenza civile..., cit. alla nota 15, p. 67.

          20. C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

          21. Id., I percorsi di questo speciale, articolo introduttivo al fascicolo de Il Ponte, n. 1/1995, dedicato a Resistenza. Gli attori, le identità, i bilanci storiografici, p. 13.

          22. J. SEMELIN, Senz'armi di fronte a Hitler, Torino, Sonda, 1993. p. 13.

          23. Historia de la Paz. Tiempos,, espacios y actores, a cura di F.A. Munoz, M. Lòpez Martìnez, Colleccion Eirene, n. 12, Instituto de la Paz y los Conflictos, Granada, Universidad de Granada, 2000.

          24. A. L'ABATE, Forze nonarmate e nonviolente di pace. I precedenti storici, in volontari di pace in Medio Oriente, a cura di Alberto L'Abate e Silvano Tartarini. I Quaderni della D.P.N.,. n. 21, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 1993, pp. 17-35.

          25. Si veda, per esempio, il fascicolo citato nella nota precedente e, di A. L’ABATE, Kossovo: una guerra annunciata. Attività e proposte della diplomazia non ufficiale per prevenire la destabilizzazione nei Balcani, Molfetta, Edizioni La Meridiana, 1999. In questo libro L'Abate riassume l'attività che ha svolto per due anni nella "Ambasciata di pace" a Pristina.

          26. Il saggio qui pubblicato è una rielaborazione della relazione tenuta nel convegno in onore di Alberto L'Abate, per i suoi settant'anni: "La nonviolenza nella ricerca, nell'educazione, nell'azione", Torino, 12.02.2001.

          (Tratto da Quaderni Satygraha n. 4 – dicembre 2003 – pag. 105)

          Spiritualità Marista 

          di Padre Franco Gioannetti
           




          Ventinovesima parte

          Per Colin la nostra congregazione si riaggancia idealmente e spiritualmente alla Chiesa nascente, alla comunità apostolica di Gerusalemme, radunata con Maria, inviata dalla Spirito Santo verso i confini della terra. In “Parole di un fondatore” (42/3), dice: “Noi non prendiamo come modello alcun corpo; non abbiamo che altro modello che la Chiesa nascente, la società di Maria ha cominciato come la Chiesa; bisogna essere come gli apostoli e come quelli che si unirono a loro: cor unum et anima una”.  

          Ancora interessate è quanto dice in “Parole di un fondatore” (159): “Quelli che partono per l’Oceania imitino gli apostoli; quelli che restano in Europa imitino la Chiesa primitiva, alla fine dei tempi la Chiesa sarà come nei tempi apostolici” . Il termine apostolato in Colin si rifà alla concezione antica esistente nella chiesa, secondo la quale la vita apostolica prima di essere un compito è una forma di vita, un preciso modo di rapportarsi a Cristo, di imitarlo, di lasciarsi inviare da Lui, a portare la Sua Parola per le vie del mondo. Nell’antica e autentica tradizione della chiesa, nella patristica, nel nascere della vita religiosa: apostolato e apostolico significano l’imitazione del genere di vita degli apostoli e della chiesa primitiva radunata intorno ai dodici. Questo è il concetto che Colin ha recepito, vissuto e proposto. Da dove può aver tratto il padre Colin questa concezione?

          Egli aveva in mano ogni giorno il Nuovo Testamento: il gruppo dei dodici intorno a Gesù, il loro invio nel mondo, la loro umiltà di cuore e di anima, il legame tra la comunità apostolica e Maria, tutti temi che egli meditava ed interiorizzava e poi richiamava continuamente ai suoi religiosi. Ma non possiamo neanche escludere un influsso dai contatti avuti con la Trappa e con la Chartreuse.

          Quindi probabilmente una concezione nata dal Vangelo e dall’esperienza.
          Da questa concezione di vita apostolica cogliamo la tensione a voler riprodurre nel marista la consacrazione delle persone al vangelo come fu vissuta dai dodici apostoli e dai primi discepoli.

          Il fondatore vedeva chiarissimo l’innesto della società di Maria nella chiesa nascente, nella chiesa apostolica e pur aderendo fedelmente alla dottrina del servizio petrino nella chiesa universale aveva scelto per connaturalità ed istinto interiore l’ecclesiologia della chiesa nascente radunata ella Pentecoste intorno a Maria, una chiesa piccola, povera, umile.
          Padre Colin si collocava dunque nella linea della spiritualità antica dei Padri e della vita religiosa nascente che avevano visto nella chiesa apostolica il modello di ogni altra comunità cristiana. Pur nella fedeltà a Roma Colin recupera questa ecclesiologia e cerca di attuarla nella congregazione e nella missione marista.

          La chiesa nascente continua, in quanto movimento missionario, nella società di Maria, i cui membri partono dalla comunione per portare l’annuncio di salvezza.


          La divinizzazione che rimane come aspirazione nell'uomo può diventare una parola vuota, un'illusione crudele perché l'uomo si ritrova ad essere "secondo" l'immagine di ciò che ha creato, diventa a-logikós, folle e perverso perché adora ciò che non ha consistenza di vita eterna, adora la visibilità della vita creata.

          Martedì, 01 Marzo 2005 22:27

          I Padri Apologisti (Lorenzo Dattrino)

          I Padri Apologisti
          di Lorenzo Dattrino




          A confronto con giudaismo, paganesimo e impero romano.

          Un primo aspetto fondamentale del cristianesimo è l’universalità : una religione non di un solo popolo, ma per tutti. I cristiani adorano un solo vero Dio; professano una morale in antitesi con i criteri tradizionali del paganesimo; il mondo pagano cerca, a più riprese, ora di emarginare, ora di assorbire il cristianesimo. Ma i cristiani mantengono la propria identità e sopportano con coraggio le persecuzioni.  In questo clima ostile escono allo scoperto non pochi scrittori cristiani: loro primo obiettivo è dissipare le opinioni correnti che mettono in falsa luce la fede e la vita dei cristiani. 

          L’apparizione di tali opere va considerata come un fatto del tutto nuovo nella storia del cristianesimo, anche per la natura di tali scritti.  Gli apologisti intuiscono che occorre scendere sul terreno stesso degli avversari per dimostrare che è la dottrina cristiana la vera interprete della ragione dell’uomo, e non le molteplici e spesso contraddittorie enunciazioni della filosofia.  L’azione degli apologisti, inoltre, si propone di rendere accettabile la dottrina cristiana sotto la luce della piena credibilità, e di guadagnare proseliti alla chiesa.

          L’interrogativo drammatico che i pensatori cristiani si propongono è questo: dialoghiamo con il mondo, oppure, per mantenere la nostra identità, ci arrocchiamo e non permettiamo che il Kerigma venga “annacquato “ dalla filosofia pagana ?

          Scorgiamo due risposte : quella di Taziano, il quale intende “chiudere porte e finestre“ per non lasciare entrare nemmeno uno “spiffero di ellenismo“; quella di Giustino, il quale spalanca le porte e vuole dialogare a 360 gradi. Prevarrà la linea del dialogo e sarà vincente.  Il Kerigma cristiano, nato in contesto semitico, viene inculturato nel contesto ellenistico e permea l’area del bacino del Mediterraneo.

          Relazione introduttiva del presidente
          La spiritualità ecumenica
          Card. Walter Kasper


          La spiritualità ecumenica. Relazione introduttiva del presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani card. Walter Kasper, in "Il regno-documenti", 21 (2003), pp. 653-658; riduzione del testo a cura di Cesare Filippini.



          I princìpi

          Il Pontificio consiglio non fa ecumenismo a suo gradimento, né cerca di imporlo come gli aggrada, ma compie la missione che Gesù ha affidato ai suoi discepoli alla vigilia della sua morte (Gv 17,21) e agisce per mandato della Chiesa che ha scelto il cammino ecumenico inaugurato dal Concilio Vaticano II. L’ecumenismo non è una semplice appendice alla missione pastorale della Chiesa, ma appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione (Unitatis redintegratio, n. 1), ed esso è una delle priorità pastorali dell’attuale pontificato (Ut unum sint, n. 99).

          La promozione dell’unità dei cristiani è compito dell’ecumenismo ad extra, cioè ell’ecumenismo del dialogo; dell’ecumenismo ad intra, cioè la promozione e divulgazione dello spirito e dell’azione ecumenici nella stessa Chiesa cattolica. Questi due ecumenismi devono avvenire nella verità e nella carità. Il suo scopo dichiarato è l’unità visibile della Chiesa nella fede, nei sacramenti, soprattutto nella comune celebrazione dell’eucaristia e nel ministero gerarchico.


          La situazione ecumenica: luci e ombre

          1. Siamo testimoni di un’incoraggiante crescita alla base della consapevolezza ecumenica. L’ecumenismo è una realtà scontata, solidamente radicata nella vita della Chiesa. Esso non ha assunto soltanto la forma di un’attività esteriore, ma abbiamo un gran numero di testimonianze toccanti di una spiritualità ecumenica vissuta. Nell’insieme, si può affermare che il compito affidato al Pontificio consiglio corrisponde alle attese e alle aspirazioni di numerosi cristiani, "che tutti siano una cosa sola".

          È ancora attuale quanto Giovanni Paolo II ha sottolineato nell’enciclica Ut unum sint riferendosi ai frutti del dialogo (n. 41; EV 14/2741). Il Santo Padre afferma che il vero frutto è la fraternità ritrovata.

          L’unità della Chiesa è, al tempo stesso, segno e strumento dell’unità del genere umano (LG n. 1). Per questo motivo, la solidarietà dei cristiani tra di loro è un servizio reso a tutta l’umanità. In questo senso è stato commovente e significativo rilevare lo scorso anno, la sintonia non concertata delle Chiese e comunità ecclesiali, che si sono prnunciate a favore della pace e contro la guerra. Nella giornata di preghiera per la pace (2002 ad Assisi) hanno affermato insieme che Dio è una parola di pace, e che egli non può dunque, in alcun modo, essere invocato per giustificare la guerra.

          2. Inversamente, esistono purtroppo tendenze d’orientamento opposto che suscitano tensioni e, a volte, anche divisioni in seno alle Chiese. Se, da una parte, si perviene a vincere gli antichi contrasti, dall’altra insorgono nuove divergenze, per la maggior parte in materia etica: aborto, divorzio, eutanasia, omosessualità; analogamente i problemi etnici, sociali e politici hanno spesso l’effetto di causare divisioni. Le tensioni tra le Chiese ortodosse autocefale, nell’ambito della Comunione anglicana e delle comunità di tradizione della Riforma, come anche a volte nella Chiesa cattolica, nuocciono al dialogo.

          In tale contesto il Consiglio si chiede chi sono i suoi partner in una situazione in cui si constata la paralisi di alcune famiglie confessionali mondiali provocata dai loro conflitti interni. In linea di principio il Pontificio consiglio intrattiene un dialogo teologico con l’insieme delle Chiese ortodosse e con le famiglie confessionali mondiali.

          Un altro problema sorge dal fatto che la consapevolezza ecumenica e la pratica dell’ecumenismo sono spesso superficiali. Il pensiero pluralista e relativista moderno e postmoderno, che si discosta dalla questione della verità, vuole negligere le differenze attuali in materia di fede e si impone una tolleranza mal compresa, non basata sul rispetto dell’opinione altrui, ma su un atteggiamento indifferente nei confronti delle proprie convinzioni di fede e di quelle dell’altro. L’ecumenismo, allora, non è la causa, ma la vittima di questo relativismo.

          Di fronte a questo pericolo, in tutte le Chiese e comunità ecclesiali si notano i segni forieri di un nuovo confessionalismo. Malgrado le preoccupazioni, giustificate e non da trascurare, che affiorano in queste tendenze, non è una soluzione praticabile il ripiegarsi sulla propria identità confessionale che basta a se stessa. Il movimento ecumenico postula disponibilità al cambiamento di pensiero, alla conversione e alla riconciliazione. Quando alcuni comportamenti sconfinano nel fondamentalismo fanatico, essi possono condurre, anche oggi, a forme d’ostilità confessionale e perfino a manifestazioni violente.

          3. Quest’ultimo fenomeno si riscontra in modo particolare nelle sette, antiche e nuove, e in numerosi movimenti neo-religiosi. Il problema è estremamente complesso e le sue cause sono molteplici. Il concetto stesso di setta è molto difficile da definire e fino a ora teologi e sociologi della religione non sono pervenuti a intendersi sull’argomento. Abbiamo a che fare con una vasta gamma di fenomeni che non sono affatto uniformi tra loro e che emergono nelle diverse regioni del mondo con caratteristiche diverse.

          Sullo sfondo di questo movimento si intravedono diversi motivi ed elementi: delle autentiche preoccupazioni spirituali, elementi eclettici, sincretisti, ovvero ideologici di una nuova gnosi, motivi politici ed economici, smania del miracoloso, vanagloria, manifestazioni demoniache.

          Il dialogo rimane molto difficile, se non spesso impossibile, con le sette che affermano in modo aggressivo un esclusivismo fanatico della salvezza. Nella pratica, tuttavia, molte sfumature sono possibili. Constatiamo ciò soprattutto con i movimenti carismatici e pentecostali.

          Il dialogo con le Chiese orientali

          1. Il dialogo con le Chiese orientali è stato una delle più accentuate priorità dell’attività del Consiglio durante gli ultimi due anni. Siamo molto vicini a queste Chiese nella fede, nei sacramenti e nel ministero episcopale e siamo legati ad esse in una "comunione della fede e della carità". Esse conservano una ricchezza spirituale che è patrimonio della Chiesa universale. Nei nostri contatti le difficoltà sono causate da fattori non teologici, dalla diversità di storia, di cultura e di mentalità. Tuttavia siamo lieti di poter affermare che i vincoli di communio fraterna con molte singole Chiese ortodosse si sono rafforzati in modo impensabile fino a poco tempo fa. A tali progressi ecumenici hanno ampiamente contribuito i viaggi del papa. Il Pontificio consiglio ha potuto anch’esso stabilire nuovi contatti e annodare nuove amicizie in occasione di una serie di visite.

          Un’ulteriore e incoraggiante esperienza di dialogo è stata realizzata con le antiche Chiese dell’Oriente.

          2. Le relazioni con la Chiesa ortodossa russa, nell’insieme buone fino alla svolta politica del 1989-1990, hanno assunto una configurazione delicata. A partire da quegli anni (’89-’90) vi sono state lamentele al riguardo del cosiddetto uniatismo (relativamente alla Chiesa greco-cattolica in Ucraina occidentale) e del proselitismo, lamentele che si sono riaccese nel febbraio 2002 con l’erezione di circoscrizioni ecclesiastiche nella federazione russa e, più recentemente, nel Kazakistan. A queste difficoltà si aggiungono i problemi teologici circa la comprensione della Chiesa (autocefalia, territorio canonico, comprensione del termine Chiesa sorella).

          Tuttavia il dialogo non si è mai completamente interrotto: una serie di contatti informali hanno avuto luogo negli ultimi due anni e, più di recente, sono emersi segni della volontà di un netto, anche se lento, miglioramento delle relazioni. Sarebbe auspicabile stabilire una sorta di codice di comportamento tra il Patriarcato di Mosca e la Conferenza episcopale cattolica di Russia (ovvero la Santa sede).

          3. Il problema principale nelle nostre relazioni con le Chiese orientali è costituito dall’impasse in cui si dibatte il dialogo teologico internazionale avviato nel 1980 con le Chiese ortodosse nel loro insieme. Difficoltà interne tra alcune Chiese ortodosse hanno impedito una nuova convocazione della Commissione, anche se si manifesta da parte di tutti il desiderio di continuare il dialogo.

          Nel maggio scorso, il Pontificio consiglio ha convocato un simposio accademico cattolico-ortodosso sul ministero petrino. La riunione è stata caratterizzata da interventi ad alto livello scientifico e si è svolta in un’atmosfera molto positiva. Il problema teologico centrale è quello della koinonia/communio, quello cioè che riguarda l’autocefalia. In prospettiva futura bisogna elaborare il concetto concreto e la prassi di una comunione universale nel pieno rispetto delle ricche e antiche tradizioni liturgiche, teologiche, spirituali e canoniche delle Chiese orientali.

          I rapporti della Chiesa cattolica con singole Chiese orientali seguono un cammino positivo e pieno di promesse.

          Il dialogo con le comunità ecclesiali occidentali

          1. Le differenze non soltanto storiche e culturali, ma anche di carattere dottrinale, con le comunità ecclesistiche occidentali sono più gravi di quelle con le Chiese orientali. Quanto è stato detto sui cambiamenti della scena ecumenica e sulle luci e ombre dell’ecumenismo si applica anche ai dialoghi con le comunità ecclesiali occidentali. Tra le Chiese e comunità ecclesiali, la Chiesa cattolica è di gran lunga la Chiesa che intrattiene il maggior numero di dialoghi ecumenici. Dalle Dichiarazioni ufficiali i dialoghi avanzano lentamente, ma con serietà.

          Un accenno particolare merita il dialogo con la Comunione anglicana che progrediva assai positivamente, ma che improvvisamente, a causa dei nuovi problemi etici, ha rallentato il cammino.

          2. Un’analisi più approfondita di tali difficoltà permette di constatare, al di là degli umori del momento, per la maggior parte passeggeri, il problema di fondo nel dialogo con le comunità ecclesiali di tradizione della Riforma. Abbiamo a che fare con delle ecclesiologie diverse che conducono a diverse concezioni dello scopo ecumenico al quale si tende. Tali concezioni suscitano attese differenziate che, per loro natura, provocano delusioni da una parte e dall’altra proprio per il fatto che un partner non risponde a ciò che l’altro si attende da lui. Questa situazione ha portato ad una sorta di situazione di stallo che rende impossibile ogni progresso sostanziale, fino a quando cioè le questioni dell’ecclesiologia non saranno fondamentalmente risolte.

          Lo scopo ecumenico, dal punto di vista cattolico, è la comunione piena e visibile nella fede, nei sacramenti e nel ministero gerarchico. Questa comunione – vedi l’esempio delle Chiese orientali – considera una ricchezza la pluralità delle forme d’espressione delle diverse Chiese locali a condizione che esse non comportino divergenze sostanziali. Da ciò si discosta il modello d’unità proposto dalla Concordia di Leuenberg (1973) diventato predominante soprattutto nel contesto del protestantesimo del continente europeo.

          Secondo tale modello, le Chiese confessionali fino ad ora separate adottano una forma di comunione ecclesiale che presuppone un consenso di principio circa la comprensione del Vangelo, pur lasciando sussistere professioni di fede diverse. Dal punto di vista confessionale ed istituzionale, le Chiese restano separate, ma sono in comunione per il pulpito e la santa Cena; inoltre riconoscono reciprocamente i loro ministeri rispettivi. Tale pluralismo confessionale è considerato legittimo sulla base del N.T.

          Risulta chiaro che una tale comprensione della comunione ecclesiale si distingue fondamentalmente dall’unità ecclesiale in quanto unità di communio secondo la concezione cattolica. Si comprende allora in che modo e per quale motivo le Chiese protestanti insistano attualmente sull’intercomunione ovvero sull’ospitalià eucaristica.

          3. Il modello di Leuenberg non è l’unico e solo modello applicato da parte evangelica; ci sono anche i risultati del dialogo con gli anglicani, la dichiarazione della Chiesa luterana evangelica d’America, la dichiarazione della Chiesa luterana del Canada. Studiosi di Lutero, sia protestanti che cattolici, hanno dimostrato che la sua intenzione – come quella degli altri riformatori – non era di fondare una propria Chiesa confessionale, ma di riformare, a partire dal Vangelo, la Chiesa universale esistente. Un tale progetto è fallito per ragioni sia teologiche che politiche. Poiché attualmente il movimento ecumenico accoglie le richieste legittime degli uni e degli altri come uno "scambio di doni", viene a cadere per ciò stesso ogni legittimità di una separazione delle Chiese.

          L’ecumenismo in un prossimo futuro

          La situazione che abbiamo descritto non deve essere motivo di rassegnazione. Nel frattempo il movimento ecumenico è pervenuto ad una situazione untermedia di buon vicinato e di communio ecclesiale più profonda sebbene non ancora completa. Si tratta ora di un ecumenismo di vita; si tratta di dare forma ad una situazione intermedia e d’infondere la vita in una tale situazione. Se potessimo realizzare tutto ciò che è fattibile, e anche opportuno, senza difficoltà e senza infrangere nessuna regola ecclesiale, saremo molto più avanti nel nostro cammino.

          Alla luce di quanto detto vorrei attirare particolarmente l’attenzione su un punto. Di fronte all’attuale pericolo di erosione di ciò che secondo i principi cattolici dell’ecumenismo costituisce la base di fede dell’ecumenismo – il battesimo e la fede battesimale, il Credo – è necessario rinforzare tali fondamenta. In conformità con l’ultima Assemblea plenaria il Pontificio consiglio ha iniziato questo compito chiedendo alle conferenze episcopali di pervenire ad un accordo sul reciproco riconoscimento del battesimo con i loro partner ecumenici, ovvero di verificare e approfondire gli accordi esistenti. Non si tratta soltanto del riconoscimento formale della validità del battesimo conferito con l’acqua e con la formula trinitaria, ma di un accordo sulla comprensione del battesimo e della professione di fede che di esso fa parte. Le reazioni che sono pervenute fino ad ora a queste iniziative del nostro dicastero sono incoraggianti.

          Aristotele ha dimostrato che ogni comunità, stato compreso, dipende, per la sua conservazione, dall’amicizia e dalla cerchia dei suoi amici (Nic. Etica 1155; 1160a-61a). L’amicizia è un’importante categoria del N.T. ed è un termine che i primi cristiani usavano per descrivere se stessi. (Gv 15,11-15; 3 Gv 15). L’ecumenismo non progredisce principalmente con documenti e azioni, ma grazie alle amicizie che superano le barriere confessionali. In ragione dell’unico battesimo, della comune appartenenza all’unico corpo di Cristo, della vita che emana dallo Spirito Santo, queste amicizie vanno al di là di una semplice simpatia umana e creano innanzitutto quel clima di fiducia e di reciproca accettazione che permette al dialogo teologico di fare sostanziali progressi.

          L’ecumenismo spirituale è l’anima e il fulcro del movimento ecumenico. Alla spiritualità ecumenica appartiene in primo luogo la preghiera, che si concentra nella settimana di preghiera per l’unità; grazie ad essa, cresce in noi la consapevolezza che l’unità non può essere frutto soltanto degli sforzi umani; l’unità è un dono dello Spirito; come esseri umani non la possiamo fare. Importante è la conversione e la santificazione personale, poiché non vi è ecumenismo vero senza conversione personale e rinnovamento istituzionale.

          Ritengo che, soprattutto a partire da una comprensione purificata e chiarificata della spiritualità ecumenica, si possa pervenire a una pratica ecumenica rinnovata e approfondita, capace di imprimere un nuovo slancio alla ricerca ecumenica, e liberarla dalle difficoltà, dalle aporie e dalle crisi attuali.


          Cosa significa essere ortodosso
           in un paese di maggioranza cattolica?
          di Vladimir Zelinskij


          Se posso parlare della mia esperienza, per me è una grande ricchezza. Non ho nessunissimo "complesso antiromano", perché sono nato ateo in una famiglia che ha perso ogni traccia della vita religiosa nel paese che riduceva in ceneri o calpestava queste tracce per decenni. Mi sono convertito al cristianesimo e sono stato battezato negli anni 70 a Mosca all'età di 29 anni. Nella mia conversione la scoperta del Volto di Dio nella persona di Cristo era molto più importante che l'adesione alla Chiesa locale.

          Certo, ho trovato anche la Chiesa proprio come Madre (quel legame intimo fra Cristo e la Madre, come Maria, ma anche come l'Ortodossia Russa, è sempre vivo in me), ma insieme con la fede non ho scelto la cecità premeditata di non vedere il Volto del mio Dio fuori dell'Ortodossia. Provo sempre la gioia quando riconosco lo stesso Volto, ma con espressione, forse, diversa nella vita spirituale, nelle varie manifestazioni della santità incontestabile nella fede di un altro. Vedo, per esempio, questi tratti nella persona di Giovanni Paolo II, nei missionari, persi nei lontanissimi angoli del nostro pianeta rischiando la loro vita; nelle testimonianze del sacrificio, del servizio al prossimo, della carità.

          Ma nello stesso tempo il mio soggiorno in Italia con tantissimi contatti con i cattolici mi ha aiutato di riscoprire di nuovo la mia fede ortodossa. Le cose che appartengono all'eredità apostolica e che mi sembravano ovvie per la vita cristiana quando ho vissuto a Mosca, come la preghiera individuale, il senso del pentimento, la sacralità vissuta dell'Eucarestia, il senso acuto del mistero, gli elementi dell'ascetismo con il suo ritmo di digiuni, la presenza permanente della memoria ecclesiale nella forma della Tradizione ecc., sono un po' indeboliti fuori dall'Ortodossia.

          Ho scoperto la mia vocazione sacerdotale che dormiva in me per tanti anni proprio qui, in Occidente. Credo nello "scambio dei doni" e che il nostro contributo ortodosso è la testimonianza della Chiesa indivisa, appena nata. Dobbiamo portare quella testimonianza non con una malevolenza polemica, ma con amore, apertura ed amicizia.

          (da Madre, gennaio 2005)


          L’iniziativa del dialogo in Ucraina
          di Vladimir Zelinskij




          Purtroppo, le vie del dialogo non sempre sono facili. Ne è riprova la vicenda legata al testo che proponiamo qui di seguito. Il dialogo nasce da un autentico ascolto. Voler sentire dall'altro soltanto quello che rientra nei propri interessi non è una buona premessa. P. Vladimir non è stato per niente contento di come il giornale Avvenire ha utilizzato il suo articolo (pubblicato il 25 gennaio 2005 con il titolo "Da Kiev la nuova via del dialogo"): «M'ha utilizzato e  strumentalizzato. Il testo completo è diverso». Qui di seguito pubblichiamo il testo di P. Vladimir e il "suo" articolo pubblicato da Avvenire.


          Una delle grandi scommesse delle elezioni presidenziali in Ucraina è la formazione della società civile. L’indipendenza nazionale, un sogno secolare per alcuni, un dramma per altri, avvenuta 13 anni fa, ha messo in fermentazione un popolo di 50 milioni di abitanti che dalla metà del XVII secolo ha vissuto nell’impero russo ed in seguito, ancora 70 anni sotto il piombo sovietico. Subito sono venute fuori le vecchie e le nuove opposizioni fra i nazionalisti e comunisti, l’Ovest, a volte accanitamente antirusso e l’Est russofono, fra gli ortodossi e i greco-cattolici, ma anche fra gli ortodossi stessi. Sembra che oggi non si possa trovare un paese nell’Europa orientale con delle divisioni così dolorose e delle cicatrici più profonde. Basta guardare la mappa religiosa: accanto alla Chiesa greco-cattolica con il suo centro a Lviv esistono almeno tre Chiese ortodosse dello stesso rito che non possono neanche parlare fra di loro, quella dipendente dal Patriarcato di Mosca (canonica), quella del Partiarcato di Kiev (il cui capo è scomunicato da Mosca), e la Chiesa autocefala, anch’essa non-canonica. Senza parlare della presenza della Chiesa Ortodossa Russa all’estero che non riconosce neanche l’esistenza dell’Ucraina indipendente e che sogna di tornare nella Russia della monarchia Romanov, più che dei giorni nostri...

          Non esiste una ricetta miracolosa che possa riconciliare tutte queste ispirazioni, ideologie, nazionalismi, sogni, opposizioni. Esiste una proposta: integrazione del vecchio stampo, sotto l’occhio del padrone imperiale; e un’altra: la costruzione della società civile in cui forze irriconciliabili fra di loro potrebbero trovare il loro posto legale e riconoscere la legalità, almeno sul piano civile, dell’esistenza dell’altro. Solo da questo riconoscimento si può fare un grande passo verso la riconciliazione umana, cristiana, ecclesiale. Perché la riconciliazione è il nome autentico dell’ecumenismo...

          Per ora siamo ancora lontani da questa maturità sociale, senza parlare di quella cristiana. La vita reale, però, non corrisponde mai al suo quadro dipinto da lontano. Nel tempo delle divisioni e delle lacerazioni si può trovare in Ucraina delle iniziative stupende di vero lavoro spirituale e culturale che riunisce le comunità più lontane le une dalle altre e che già oggi portano i loro frutti. Immaginiamo le importanti conferenze internazionali che si svolgono fra le mura della Laura delle Grotte di Kiev, nella culla stessa del cristianesimo russo (conosciuto per il suo spirito assai poco ecumenico), con la partecipazione dei cristiani e dei laici, degli ortodossi tradizionali e dei cattolici, degli uomini di cultura e di fede. Ma il fatto, forse, più positivo è che questi incontri si svolgono davanti agli studenti dell’Accademia teologica (quasi 3.000 studenti), cioè davanti ai futuri chierici della Chiesa Ortodossa in Ucraina, non nelle condizioni della semiclandestinità, ma con l’approvazione e la partecipazione attiva del capo della Chiesa canonica metropolita mons. Vladimir e con la partecipazione del metropolita di Minsk mons. Filaret.

          Forse, lo spirito di questi incontri ha trovato la sua adeguata espressione nella figura di Serghei Averintzev, un ortodosso, membro dell’Accademia Pontificia (1937-2004), uno dei più grandi studiosi e pensatori russi della nostra epoca, uno dei più devoti cristiani che io abbia mai incontrato. Averinzev era l’incarnazione della pace fra forze che erano sempre in guerra (fredda, ma a volte anche calda) nella terra russo-ucraina: intellighenzia e Chiesa, Est e Ovest, l’anima patriottica e una straordinaria apertura alle altre culture e fedi che, forse, si può trovare solo tra i russi.

          Questi incontri sono stati organizzati dal Centro Europeo delle ricerche umane che lavora all’interno dell’Accademia Pietro Moghila a Kiev e in qualche modo sono segnati da questa grande personalità della prima metà del XVII secolo. Moghila, metropolita di Kiev, autore del catechismo ortodosso (scritto da lui in greco e in latino) fondò nel 1615 la prima Università (che a quell’epoca era più importante nell’Europa Orientale dopo quella di Cracovia). Questa Università, diventata simbolo della più alta cultura ucraina, è esistita fino alla rivoluzione russa ed è stata chiusa dal potere comunista per essere più riaperta nel 1991. Oggi, l’Accademia S. Pietro Moghila, a differenza delle altre Università in Ucraina, non ha una vecchia nomenclatura e ciò ha fornito un’ottima occasione per creare lo spazio per un respiro nuovo.

          La figura chiave di questa attività è il giovane professore di filosofia (che insegna a Kiev, a Parigi, a volte anche in Italia), Konstantin Sigov. Egli è l'organizzatore delle conferenze e degli incontri (La famiglia nella società post-atea, Le vie dell’educazione e i testimoni della verità, La personalità umana e la tradizione, ed altri ancora). La prossima conferenza del settembre 2005 avrà come titolo: “Il Messaggio, l’uomo, la storia” e sarà dedicata alla situazione del cristianesimo nell’epoca della globalizzazione, nel contesto del dialogo con il mondo contemporaneo - il dialogo che respira sempre con i due polmoni. In questi incontri hanno preso parte, oltre a teologi e a pensatori ortodossi provenienti dalla Russia, dall’Ucraina e dall’estero, come il vescovo Kallistos Ware da Oxford, p. Boris Boibrinskoy, p. Nicolas Lossky da Parigi (Istituto Saint-Serge), Nikita Struve (Parigi); ma anche cattolici, come il vescovo John Faris (New York), mons. Michel Van Paris, già l’abbate di Chevetogne (Belgio), mons. Bernard Dupire (Parigi), il Prof. Patrick de Laubier (Ginevra), il prof. Adriano Roccucci dalla Comunità di Sant’Egidio, il prof. Guglielmo Forni Rosa (Bologna), il prof. Jonathan Sutton (Londra) ed altri ancora. Bisogna menzionare che la costruzione dei ponti culturali era ispirata, oltre che dal Prof Sigov, anche dai suoi amici della Commissione per l’Unità cristiana mons. Pierre Duprey e Paola Fabrizi.

          Dopo 10 anni di attività del Centro Europeo si può parlare di un successo eccezionale delle sue iniziative perché le cose che si sono perfettamente realizzate in Ucraina, sembrano oggi quasi utopistiche a Mosca. E’ davvero difficile trovarle in Russia ove, dopo il “boom” religioso degli inizi degli anni 90, il dialogo tra l’intellighenzia e la Chiesa è quasi interrotto; e dove tutte le comunità religiose vivono nel loro ghetto culturale. Manca uno spazio nel quale i rappresentanti delle diverse denominazioni possano condividere la propria esperienza, dove si incontrino non tanto le posizioni e le ideologie, ma prima di tutto le persone e le fedi.

          Oltre alle regolari conferenze il Centro ha una propria casa editrice che si chiama “Duch e Litera” (Lo Spirito e la Lettera) e che pubblica in ucraino e in russo una cinquantina libri di teologia e di filosofia all’anno. Non conosco una casa editrice religiosa così importante neanche in Russia. Più di una metà delle pubblicazioni sono libri tradotti dalle lingue europee. L’anno scorso il card. Kasper è venuto appositamente a Kiev per la presentazione del suo libro “Gesù Cristo” in ucraino. Fra qualche mese deve uscire il libro del card. Etchegaray “Vero Dio, vero uomo”, anche in ucraino.

          Ma le conferenze organizzate a Kiev e nelle altre città non bastano più. Dall’estate del 2004 in un piccolo villaggio a 30 chilometri da Kiev è stata organizzata la Scuola Teologica estiva che è durata due settimane con la partecipazione dei docenti venuti dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Germania, su vari argomenti (liturgia, bibbia, diritto, ecc.). É prevista un'altra sessione con una partecipazione internazionale più ampia per la prossima estate. Ma le iniziative che portano lo stesso spirito della riconciliazione fra le persone, le culture, le fedi, le tradizioni crescono e adesso bussano alle porte dell’Europa Occidentale. C’è già il progetto di fare un incontro simile in Italia. Perché l’Italia dove oggi si trovano oggi decine e decine di migliaia di immigrati dall’Est Europeo (soprattutto dall’Ucraina) deve diventare il luogo dell’incontro delle culture e della riconciliazione.



          Il testo pubblicato da Avvenire
          Da Kiev la nuova via del dialogo
          di Matteo Liut





          Accanto a un antico monastero cattolici e ortodossi si incontrano per discutere sui temi più importanti della società odierna

          Nel cuore di un Est europeo che vive sul filo delle divisioni è la fede cristiana a tracciare un percorso di ricomposizione nel segno del dialogo. E se Kiev di recente ha mostrato al mondo un volto lacerato, nasce proprio nella capitale ucraina il progetto di un futuro diverso. Ce ne parla padre Vladimir Zelinskij, teologo ortodosso e docente presso l'Università cattolica di Brescia.

          Padre Zelinsky, qual è il volto religioso dell'Ucraina odierna?

          «L'Ucraina presenta ancora cicatrici profonde e dolorose. Accanto alla Chiesa greco-cattolica con il suo centro a Lviv esistono almeno tre Chiese ortodosse dello stesso rito che non si riconoscono: quella dipendente dal Patriarcato di Mosca, quella del Patriarcato di Kiev e la Chiesa autocefala».

          Un nodo difficile da districare.

          «Non esiste una ricetta miracolosa per riconciliare tutte queste ispirazioni, ideologie, opposizioni. Se da una parte si predica l'integrazione vecchio stampo sotto lo sguardo del "grande fratello del Nord", dall'altra si auspica la costruzione di una società in cui le diverse identità trovino un riconoscimento giuridico. Almeno sul piano civile e legale».

          E dal punto di vista religioso?

          «I frutti più efficaci stanno nascendo a Kiev, grazie a un'iniziativa a carattere spirituale e culturale che riunisce soggetti molto lontani tra loro».

          Di cosa si tratta?

          «Di conferenze internazionali che si svolgono fra i muri della Laura delle Grotte di Kiev, nella culla stessa del cristianesimo russo, noto per il suo spirito poco ecumenico. Vi partecipano ortodossi e cattolici, religiosi, laici e uomini di cultura. Ma il fatto forse, più positivo è che questi incontri si svolgono davanti agli studenti dell'Accademia teologica: il futuro clero della Chiesa Ortodossa in Ucraina».

          Quindi c'è l'approvazione ecclesiastica?

          «Gli incontri vedono la partecipazione del capo della Chiesa canonica metropolita Vladimir e del metropolita di Minsk monsignor Filaret».

          Da dove nasce questa iniziativa?

          «Gli incontri sono stati organizzati dal Centro Europeo per le ricerche umanistiche, nell'Accademia "Pietro Moghila" a Kiev, un ateneo senza vecchia nomenclatura e quindi più aperto al dialogo. Lo spirito di questi appuntamenti ha trovato la sua espressione più alta nella figura di Serghei Averintzev, un ortodosso e membro dell'Accademia Pontificia (1937-2004), uno dei più grandi studiosi e pensatori russi della nostra epoca. Oggi la figura chiave di questa attività è il giovane professore di filosofia, che insegna a Kiev e a Parigi, Konstantin Sigov, appoggiato all'origine dai suoi amici della Commissione per l'Unità dei cristiani, monsignor Pierre Duprey e Paola Fabrizi».

          Quali sono i temi affrontati in queste conferenze?

          «Finora si è parlato di temi come la famiglia nella società post-atea, le vie dell'educazione e i testimoni della verità, la persona e le tradizioni. La prossima conferenza il prossimo settembre avrà come titolo: "Il Messaggio, l'uomo, la storia". Sarà dedicata alla situazione del cristianesimo all'epoca della globalizzazione».

          Chi vi prende parte?

          «Teologi e pensatori ortodossi dalla Russia, dall'Ucraina e dall'estero, come il vescovo Kallistos Ware da Oxford, padre Boris Boibrinskoy, padre Nicolas Lossky da Parigi (Istituto Saint-Serge), Nikita Struve (Parigi), ma anche cattolici come monsignor Michel van Paris, già abate di Chevetogne (Belgio), monsignor Bernard Dupire (Parigi), padre Patrick de Laubier (Ginevra), il professore Adriano Roccucci dalla Comunità di Sant'Egidio, il professore Guglielmo Forni Rosa (Bologna), il professor Jonathan Sutton (Londra)».

          Un confronto che coinvolge anche l'Europa occidentale quindi.

          «Certo. L'anno scorso il cardinale Walter Kasper è venuto a Kiev per la presentazione dell'edizione in ucraino del suo libro "Gesù Cristo". Fra qualche mese uscirà anche un libro del cardinale Etchegaray. E, vista la presenza di migliaia di emigrati dall'Est europeo, si pensa a incontri simili anche in Italia».



          Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore.

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