Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Non si può sperare senza fondamento, "ma come può la speranza essere certa se rimane speranza? Allora il testimoniare questo, predicare questa agonia, questo a me interessa del teologo, cioè di colui che è appeso alla croce, non di colui che la spiega. Qui trovo una differenza con il mio ragionamento che mi spinge alla relazione con l'altro".

Quattro vie
per l'educazione alla pace


Nel momento confuso che stiamo vivendo, con il terrorismo che ha portato la paura nel quotidiano della gente e con il rischio di scelte politiche sempre più improntate alla chiusura e alla demonizzazione dell'altro/straniero, o ispirate al principio della guerra preventiva, quali possono essere le pedagogie di pace? Quali temi devono avere quelle pedagogie - anche senza intenderle come un indirizzo teorico in senso stretto ¡ che potrebbero contrastare il virus della potenza e del dominio? A nostro parere l'educazione alla pace può passare attraverso quattro vie privilegiate: la pedagogia interculturale, l'ecopedagogia (le pedagogie attente alla terra), la democrazia partecipativa (l'opera delle persone che si associano e si mettono in rete per fare azioni concrete di pace), l'impegno delle religioni.


1. La pedagogia interculturale

La scuola svolge la funzione primaria e insostituibile di dare cittadinanza all'uomo planetario che è già in cammino
. (Franco Cambi)

Anzitutto la pedagogia interculturale: siamo consapevoli che la pace deve essere radicata nella cultura, e non può rimanere come un messaggio isolato e affidato ad un elite di pochi testimoni illuminati. La sfida è inserire la pace nell'ambito della cultura, nella convinzione che solo una cultura che sia capace di meticciarsi con le altre può essere la cultura del futuro.

Conosciamo benissimo cosa accade alle culture chiuse e autoreferenziali, perché abbiamo presente il destino della nostra cultura eurocentrica, che ha prodotto dei modi di pensare che sono serviti a giustificare gli imperialismi e le colonizzazioni. La filosofia del soggetto ha prodotto un uomo che ha "esportato la sua civiltà" tra indios, pellerossa, africani e asiatici, in cambio dello sfruttamento delle risorse altrui; la filosofia della tecnica ha portato l'uomo a imporsi sulla natura fino al punto di violarla, ma anche di mettere a repentaglio l'esistenza delle generazioni umane future. Pedagogia di pace é una pedagogia che sappia affrontare le ombre della nostra cultura (come la presunzione di superiorità e il razzismo), che sappia formare individui capaci di vivere nella complessità, "cittadini del mondo" grazie all'inclusione delle differenze, e non alla loro sottrazione: non tanto passando per la rinuncia all'identità nazionale (che spingerebbe alcuni al fondamentalismo), quanto cercando un'identità che sia plurale e non abbia paura dell'altro.

Perciò concordiamo pienamente con Franco Cambi quando scrive: "nell'interculturalità è posta una sfida alla e della pedagogia; sfida verso un nuovo modello di cultura, radicalmente diverso rispetto a quello tradizionale - occidentale o greco-cristiano-borghese -, capace di revisionare i fondamenti di quello e di proporne dei nuovi, attuando una macro-rottura all'interno dell'Occidente stesso, in quanto ne rimuove millenarie certezze e pone nuove frontiere (etiche, cognitive, antropologiche, prima che sociali e politiche) alla sua cultura, anzi frontiere del tutto nuove" (1). L'intercultura come sfida, come riscoperta e rilancio di valori positivi della cultura occidentale per superare l'etnocentrismo e le tentazioni di egemonia culturale. Questi valori sono il dialogo, il pluralismo, la convivialità delle differenze: immaginiamo una pedagogia interculturale che sia ermeneutica, capace di prestare attenzione al non-detto, al rimosso, all'emarginato capace di dialogare con quelli che la narrazione dominante pone a margine.

Una pedagogia di pace prevede quel dialogo tra culture che recepisce le aperture più illuminate della filosofia contemporanea, come le teorie di Lévinas e Derrida, che tematizzano il carattere incondizionato dell'ospitalità e cercano di superare un'aporia del pensiero occidentale, la chiusura di fronte allo straniero, e che rilanciano le categorie dell'alterità e della differenza.

NOTA

    (1) F. CAMBI, Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001, p. 15





    2. Ecopedagogie

    L'uomo non è il padrone della creazione. (...) Bisogna passare all'ecosofia, cioè alla saggezza stessa della terra di cui l'uomo prenderebbe coscienza e si farebbe portavoce. (R. Panikkar)

    La sensibilità verso la terra sta lentamente cambiando, anche se purtroppo talvolta cambia più per la consapevolezza dei pericoli che si corrono (1'euristica della paura di Jonas) che per una maturazione sempre consapevole e diffusa. Una pedagogia della pace deve prevedere l'educazione ambientale e l'alfabetizzazione ecologica: per non ripeterci rimandiamo alle considerazioni espresse su questa rivista da Luigina Mortari (numero di gennaio) e da Carlo Baronoelli (febbraio), e agli articoli che sono stati dedicati alla "Carta della Terra".

    Aggiungiamo un riferimento all'ecopedagogia. Come detto, il punto critico a cui sembra essere arrivato l'uomo nel suo rapporto con l'ambiente obbliga a cambiare necessariamente la nostra mentalità. É necessario guardare al futuro, a una diversa presenza dell'uomo sul pianeta, proiettarsi in una dimensione inedita di cittadinanza planetaria. L'ecopedagogia è la riflessione, oggi necessaria, su una teoria e una prassi educativa che tengano conto che l'uomo ha il diritto/dovere non di essere il dominatore della Terra, ma soprattutto il principale custode delle sue risorse, delle sue bellezze e delle diverse forme di vita.

    Secondo i teorici dell'ecopedagogia, Francisco Gutiérrez e R. Cruz Prado, la chiave di volta di un futuro possibile deve essere una nuova forma di razionalità, che sia all'insegna di una relazionalità flessibile, intuitiva e processuale, in grado di recepire tutte le istanze della vita sulla Terra, in qualunque forma esse si manifestino. La quotidianità è il luogo e il tempo privilegiato dello sviluppo sostenibile. L'ecopedagogia si propone pertanto come una nuova scienza che trascende i modi occidentali di concepire l'universo e coincide sorprendentemente con il pensiero e la visione del mondo delle culture tradizionali di tutte le latitudini.

    Le pedagogie della pace devono porsi il problema di educare le giovani generazioni ad abitare la terra, prendendosene cura e valorizzandone i beni.


    3. La democrazia partecipativa

    Dobbiamo sentirci solidali, corresponsabili: una solidarietà che si impara nelle piccole fraternità per allargarsi sempre di più. (R. Goldie)

    É uno dei dati sociali più importanti di questi ultimi anni, legato ad una teoria di cambiamento che si incontra con la vita pratica: si tratta della crescente voglia di partecipare espressa dalla gente comune, che si esprime non solo attraverso le consuete modalità "politiche" (ad esempio le manifestazioni) ma anche attraverso gesti quotidiani che denotano un cambiamento di coscienza.

    Già da tempo si è rilevato l'impatto positivo della diffusione di buone pratiche come la spesa nei negozi del commercio equo e solidale o l'aprire un conto corrente allo sportello della Banca Etica: l'elemento che vorremmo qui evidenziare è il fenomeno della creazione di reti di collaborazione solidale a livello locale, regionale e mondiale. Si tratta del tentativo di costruire un'alternativa democratica e non capitalista all'invadente globalizzazione, cercando una crescita economica che sia sostenibile sia dal punto di vista ecologico che da quello etico-sociale.

    L'obiettivo è ambizioso: convincersi che un altro mondo è possibile a condizione che i consumatori passino ad un consumo solidale, cioè scelgano i prodotti delle reti di collaborazione solidale anche se, in qualche caso, dovessero costare più di quelli della rete capitalista. Consumo solidale significa essere sempre consapevoli che le nostre scelte commerciali possono conservare o danneggiare gli ecosistemi, condizionare occupazione e disoccupazione, mantenere o ostacolare lo sfruttamento dei lavoratori.

    Ci sembra significativo citare il caso italiano della Rete di Lilliput, un'associazione di gruppi e cittadini impegnati nel volontariato, nel mondo della cultura, nella cooperazione Nord/Sud, nel commercio e nella finanza etica, nel sindacato, nei centri sociali, nella difesa dell'ambiente, nel mondo religioso, nel campo della solidarietà, della pace e della nonviolenza che, di contro alle leggi imperanti del mercato/profitto e alla perdita di credibilità delle istituzioni democratiche, hanno unito in un'unica voce le loro molteplici forme di resistenza contro le scelte economiche che concentrano il potere nelle mani di pochi e che trascurano la vita in nome del profitto e del consumismo.

    Adottare una strategia lillipuziana significa che è possibile per tutti i cittadini dare il proprio contributo al cambiamento delle istituzioni sociali. Per questo diventa necessario costruire le reti locali. La strategia lillipuziana può diventare uno dei modi per unire i luoghi e le forze, per mettere in rete i gruppi, laici e cattolici, e quindi per globalizzare la solidarietà.

    Del resto, l'aumento della complessità sociale richiede un aumento del livello di coordinamento dei soggetti e delle risorse. Come tutti sanno, il nome di "Rete di Lilliput" richiama la favola I viaggi di Gulliver (1725) dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift, e in particolare la situazione in cui i minuscoli "lillipuziani", alti appena pochi centimetri, catturano Gulliver, il gigante (metafora della globalizzazione), legandolo nel sonno con centinaia di fili. Gulliver avrebbe potuto schiacciare qualsiasi "lillipuziano" sotto il suo stivale, ma la fitta rete di fili lo immobilizza e lo rende impotente.

    4. Religioni per la pace

    Non ci sarà pace nel mondo finché non ci sarà pace tra le religioni. (Hans Küng)

    Anche senza entrare nell'analisi della complessa situazione geo-politica attuale dal punto di vista dei rapporti con il mondo islamico, purtroppo non possiamo ancora consolarci pensando che le Crociate e le guerre di religione appartengano ad una pagina che è stata definitivamente voltata. Come ricorda Gianni Novelli: "non è religioso, ma ha una forte connotazione confessionale, il sanguinoso conflitto nord-irlandese tra cattolici e protestanti. Le guerre balcaniche hanno registrato un aspro antagonismo tra cattolici (croati) ortodossi (serbi) e musulmani (maggioranza bosniaca). Nelle repubbliche baltiche e in molte parti dell'ex-Unione Sovietica la lotta tra cristiani ortodossi e uniati (1egati a Roma) è sempre aperta. In Asia (pensiamo all'Iran o all'Afghanistan) e in Africa (pensiamo al Sudan ma pure al Rwanda) le lotte politiche e pure le stragi assumono connotazioni religiose intrecciandosi con le ragioni etnico-tribali. Sovente queste tristi pagine di storia non sono sottoscritte dalle gerarchie delle diverse parti religiose che non hanno altra responsabilità se non quella del silenzio e della mancata educazione alla pace dei loro fedeli" (2). Si può dire, in generale, che le voci dei pastori che richiamano le vocazioni pacifiche delle religioni restano inascoltate laddove gli interessi della politica e del potere sono preponderanti. Eppure il compito di essere educatori di pace deve essere proprio delle religioni, che devono essere sufficientemente chiare da non farsi strumentalizzare e da essere tenute fuori dai conflitti religiosi (non dimentichiamo che nei messaggi lanciati all'Occidente da Bin Laden si parla ancora di "crociati").

    Serve un impegno convinto all'interno delle comunità religiose, da parte dei pastori e da parte dei laici, perché vivano la loro dimensione religiosa sempre accompagnandola con un messaggio di pace per tutti. In coerenza con quanto recita il Messale Romano nella Messa per la pace e la giustizia: "Dio della pace, non ti può comprendere chi semina la discordia, non ti può accogliere chi ama la violenza: dona a chi edifica la pace di perseverare nel suo proposito, e a chi la ostacola di essere sanato dall'odio che lo tormenta".

    NOTA

        (2) L. Bettazzi, Ecumenismo e pace: le Chiese e la pace, in V. Savoldi (a cura), Mai più guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998, pp. 252-253.



          BIBLIOGRAFIA

          Cambi F., Intercultura: fondamenti pedagogici, Carocci, Roma 2001.

          Derrida J. (con A. Dufourmantelle), L'ospitalità, Baldini e Castoldi, 2002,

          Elamè E., Intercultura, ambiente, sviluppo sostenibile, Emi, Bologna 2002,

          Gallie W.B., Filosofie di pace e guerra, Il Mulino, Bologna 1993.

          Gutierrez F-Cruz Prado R., Ecopedagogia e cittadinanza planetaria, Emi, Bologna 2000.

          Lévinas E., Umanesimo dell'altro uomo, IL Nuovo Melangolo, Genova 1998.

          Mance E. A., La rivoluzione delle reti. L'economia solidale per un'altra globalizzazione, Emi, Bologna 2003.

          Salvoldi V. (a cura), Mai più la guerra. Per una teologia della pace, La Meridiana, Molfetta 1998.

          Ucodep (a cura), Pace, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Diritti umani, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Sviluppo, Emi, Bologna 2004.

          Ucodep (a cura), Intercultura, Emi, Bologna 2004.

          (da Cem Mondialità, maggio 2004)


          Spiritualità Marista 

          di Padre Franco Gioannetti
           


          Ventottesima parte


          In primo luogo faccio ora riferimento ad alcuni brani del volume "Parole di un Fondatore", che riporta discorsi, riflessioni, esortazioni del P. Colin, citandoli sinteticamente.

          Nei paragrafi 42, 3; 117, 3; 119, 9 il P. Colin ci dice che:

          "la Chiesa nascente è il modello della società di Maria che non ha altri modelli che quella".

          Nel paragrafo 115, 5: "la Società di Maria ne deve rappresentare i primi tempi".

          Nel 120, 1 afferma che la Società deve irrigare una nuova Chiesa.

          Nel 150 che deve imitare la Chiesa nascente.

          Vorrei ora puntualizzare in modo più approfondito, secondo la Tradizione (dei Padri) e secondo il pensare di Colin, le parole apostolato ed apostolico, sulle quali avremo modo di tornare quando esporremo la spiritualità della missione Marista.

          Ciò che diciamo ora di apostolato ed apostolico è un approfondimento di quanto esposto brevemente nella parte XXIV.

          Nelle costituzioni della Società di Maria del 1872 al numero 8 il fondatore ci dice: "nei vari ministeri a cui devono attendere (i religiosi) si comportino con tale modestia, dimenticanza di sé ed abnegazione da risultare veramente sconosciuti e come nascosti in questo mondo".

          La missione così concepita nasce e matura in uno stile di vita determinato dall’esempio di Cristo unico modello degli apostoli.

          Leggiamo in proposito quanto dicono le Costituzioni del 1872 al n. 244.

          Poiché fa parte dello scopo della Società andare di luogo in luogo a diffondere la parola di Dio e catechizzare gli incolti, al fine di adempiere un così santo imitare sempre Nostro Signore Gesù Cristo, il quale, prima di insegnare in pubblico, volle restare quaranta giorni nel deserto; dopo andò per le città e i villaggi della Giudea predicando ovunque che il regno di Dio era vicino e invitando i peccatori a penitenza.


          Sabato, 01 Gennaio 2005 18:39

          Il mistero del Natale (Sr. Germana Strola)

          Nei testi liturgici del Natale si intrecciano molti motivi di varia natura e ricchi di diverse prospettive: non solo si compie, in modo inaudito e per tanti aspetti paradossale, l'attesa messianica vissuta durante l'Avvento, e nemmeno soltanto si celebra l'incarnazione del Dio con noi, o la visita del Verbo nell'anima;

          Le difficoltà maggiori si riscontrano nell'uso dei titoli attribuiti a Maria. La sensibilità teologica del protestantesimo ha letto nella letteratura cattolica eccessivi "abusi" che hanno stimolato la devozione popolare in base a "parallelismi" troppo marcati tra cristologia e mariologia.

          Mercoledì, 29 Dicembre 2004 00:01

          Catastrofi e immagini di Dio (Faustino Ferrari)

          Come è possibile insegnare che Dio è amore quando si è capaci di parlare soltanto di catastrofe e di morte? Si può amare Dio perché sperimentato come Dio e non per timore o per paura.

          Martedì, 28 Dicembre 2004 01:25

          La necessità dell’unico padre

          La necessità dell’unico padre






          «Il nostro padre è Abramo» (Giovanni 8,39)..

          Chi non conosce, nel Nuovo Testamento, la sfida lanciata a Gesù dai suoi interlocutori di cui denunciava le azioni? O ancora, l’invettiva di Giovanni Battista alle folle che venivano ad ascoltarlo nel deserto: «Non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre!» (Lc 3,8-9).

          Così, alle soglie dell’era cristiana, la figura di Abramo appare nel mondo giudaico come una figura non solo di primo piano, ma unica, il padre per antonomasia di tutti coloro che si richiamano alla fede ebraica.

          «Noi siamo discendenza di Abramo», dicevano gli Ebrei, «e non siamo mai stati schiavi di nessuno!» (Gv 8,33). Se, secondo il retroscena di questa affermazione, non ci si poneva la questione se Abramo fosse o no un personaggio storico, un’altra domanda si poneva, domanda che ci fornisce una via per comprendere tradizioni conservate in particolare nel libro della Genesi: in nome di chi si poteva reclamare Abramo come padre? In questo modo, affrontare il personaggio di Abramo come figura emblematica del padre unico costringe ad un’altra linea di lettura che la Bibbia nel suo stato attuale ci impone: quella secondo un ordine cronologico che, discendendo dall’unica figura paterna, ordina il seguito della storia. Bisogna dunque ripartire non più dalla figura di Abramo «all’origine», ma da un momento tardivo della storia ebraica e partendo di qui risalire sino alla figura di Abramo.

          In ognuno di questi casi, il gioco è particolare. Il primo, quello della lettura cronologica che parte dall’inizio (Gn 11,27ss), impone un personaggio, degli eventi, dei luoghi, che possono essere passati al setaccio della critica storica, cosa di cui Thomas Romer (vedi pp. 4-9) ricorda gli esiti. Il secondo, quello che risale a partire da uno o più precisi momenti posteriori, s’interroga in primo luogo su ciò che ha indotto i redattori e i teologi biblici a scegliere questo o quell’evento, ad accentuare questa o quella affermazione, in una parola, ad elaborare così, e non diversamente, a partire da questi momenti tardivi della storia di Israele, il personaggio e la sua storia così come la scopriamo nella Genesi e in talune allusioni dei libri profetici, dei salmi, delle lettere di Paolo e dei vangeli.

          Questo procedimento coinvolge certo la comprensione del personaggio di Abramo stesso, ma privilegia soprattutto la comprensione che Israele ha voluto farsi e dare di lui, rivelando allo stesso tempo un certo processo di composizione dell’Antico Testamento.



          Valorizzazione della storia di Abramo





          All’inizio del processo, bisogna ricordare questo dato di fatto, che Abramo compare nella storia di Israele molto prima che questo popolo esista con una propria autocoscienza, dal momento che a lui per primo fu detto: «Fa un grande popolo» (Gn 12,2). La sua realtà di «padre», di «antenato» dipende dunque dalla realtà di un Israele ancora da venire. E la lunga durata che, secondo lo stato attuale del testo biblico, lo separa dai primi momenti in cui si può riconoscere Israele come popolo sulla sua terra (nei libri di Giosuè e dei Giudici), non fa che acuire la domanda: perché la storia di Abramo è stata sviluppata, e dunque valorizzata, in questo momento?

          Per dare una risposta, non si tratta più di legge-re questa storia come se si trattasse di scoprirla alla maniera di una serie di episodi sconosciuti e sorprendenti; si tratta di leggerla come portatrice di elementi che giustificano che sia riportata così e soprattutto collocata «all’inizio» della storia di Israele.

          Tre elementi si impongono allo spirito del lettore che ha concluso la storia dell’Antico Testamento ed è giunto, nel Nuovo Testamento, alle dichiarazioni sia degli ebrei sia di Giovanni Battista: il personaggio di Abramo, i suoi movi-menti migratori e il suo insediamento in una terra che accoglierà le sue spoglie.

          Antenato di tutti gli ebrei, Abramo ha vissuto una storia che lo ha condotto dapprima dall’oriente mesopotamico (Gn 11,31) all’Occidente egizio (12,10), prima di stabilirsi sulla terra del futuro Giuda. Nel passaggio, alcuni luoghi sono destinati a ricevere una sorta di istituzione sacrale della sua presenza, dell’intervento divino e dunque delle promesse ricevute e delle gesta del patriarca. Santuari celebri (Sichem, More, Mamre, Bersabea...) riceveranno così la loro autenticazione e allo stesso tempo la garanzia della loro antichità.

          Una buona memoria biblica vi riconosce una geografia e una toponimia che permettono, sin dal libro della Genesi, di leggere in filigrana di volta in volta la geografia e la storia di Israele nel corso di parecchi secoli. Tra l’esilio in Babilonia, come punto d’arrivo, e il ritorno dall’Egitto, come punto di partenza, con i luoghi di culto e di pellegrinaggio sulla terra di Canaan, è proprio l’itinerario di Abramo che traccia il modello di quello che Israele ha percorso nello spazio di alcuni secoli, e secondo gli stessi luoghi di riferimento in cui egli ha professato la sua fede. Come l’itinerario di Israele fu dunque quello del suo antenato, così i luoghi in cui egli fece culto e professò la sua fede in JHWH sono i medesimi fondati da Abramo con un senso di pietà segnato da esperienze divine effettivamente fondanti. Ma questa lettura ascendente che, partendo dalla storia tardiva di Israele, stabilisce una concordanza tra le esperienze religiose e gli eventi vissuti dall’uno, Israele, e le pratiche religiose e gli episodi della storia dell’altro, Abramo, permette di andare oltre nella comprensione dell’elaborazione dell’una e dell’altra storia e del loro organico legame.

          Che il popolo di Israele abbia vagato, come Abramo, nel deserto, che abbia abbandonato la Mesopotamia, che sia ritornato, come lui, dall’Egitto, che abbia dunque ricevuto, proprio come lui, la terra in eredità secondo una promessa divina, non dice che una parte di questa storia nazionale. C’è anche, infatti, nel flusso stesso di questa storia, una serie di tensioni che rivela, trattandole o tacendole, lo sviluppo della storia dell’antenato unico. La storia di Abramo non appartiene così soltanto all’ordine della riproduzione in microcosmo, o della negazione, della lunga storia successiva di Israele; essa appartiene anche all’ordine di una soluzione delle tensioni che quest’ultima ha prodotto, rivelando allo stesso tempo una delle spinte del processo di composizione della storia nell’Antico Testamento.

          Per limitarci per il momento al ritorno dall’esilio, ci sono ad esempio le tensioni tra i sostenitori di un rigore morale che arrivava sino al rifiuto delle spose straniere (Esd 9), e quelli che predicavano l’apertura e la tolleranza. Questo ritorno, così fortemente desiderato dagli ebrei più zelanti, rivelava tuttavia che era fortemente intaccata un’antica unità che forse era stata solo un sogno. Tra coloro che ritornavano da Babilonia, e gli altri che si erano trovati in Egitto o erano rimasti in Palestina durante l’esilio, non cessava di emergere una grande varietà nel modo di intendere la religione, la Legge e la storia, di cui lo scisma dei Samaritani, per non parlare degli ebrei sedotti dall’ellenismo, è un chiaro sintomo.
          Parallele e correlate con quelle del ritorno dall’esilio, queste tensioni si manifestano nella storia anteriore come si troverà più o meno tardi unificata nei libri dell’Esodo e dei Re. A questa storia le cui tradizioni vedono nell’Egitto e nel deserto i grandi luoghi della nascita del popolo in attesa di ricevere la sua terra e di penetrarvi a partire dal libro di Giosuè, sembrano opporsi tradizioni più «indigene» che, nelle storie in particolare dei libri dei Giudici, lasciano intendere che Israele fu sempre là, sulla sua terra, una terra che dovette difendere contro i vari nomadi venuti dal deserto. Anche nella storia di Saul e di Davide si nota la tensione tra le ricche terre del nord, la Galilea e la Samaria, e le terre povere del sud, la Giudea, di cui Davide deve accontentarsi in un primo tempo. I problemi si risolveranno momentanea-mente alla morte di Saul, ma non saranno dimenticati, cosa che sarà, in gran parte, fondamento del tentativo di colpo di stato di Assalonne contro Davide, suo padre...

          Così, nonostante laboriose limature e puliture per unificarla in una continuità cronologica senza fratture, la storia di Israele, dai Giudici all’esilio e nei secoli seguenti, non poté cancellare completamente queste tensioni che talora sfociarono nel fratricidio. Per rispondere ad esigenze di coerenza allo stesso tempo storica e teologica, era necessario andare oltre questa tappa delle limature e puliture tra tradizioni diverse, o anche contrapposte, per risalire ad un principio di unità che avrebbe ridotto definitivamente tensioni, disaccordi e antagonismi tanto regionali quanto religiosi.

          La storiografia biblica nella sua ultima sintesi rivela qui un processo particolare fondato non solo sulla necessità di raccontare degli eventi, ma di individuare da una parte e dall’altra un principio di unità, che si rivelava provvisorio sino ad un termine ultimo, un principio definitivo. Fu così necessario passare, risalendo sempre più indietro, al di là della Legge riconosciuta e letta al ritorno dall’esilio, al di là della divisione dei due regni, al di là delle contrapposizioni tra Saul e Davide come al di là dei sostenitori di un’origine straniera o esterna, dell’Egitto e del deserto fortemente simboleggiati nel libro di Giosuè, e quelli di un’origine puramente indigena come riecheggiano alcuni episodi dei libri dei Giudici o del primo libro di Samuele. In questa incessante risalita ad un’origine pura e definitivamente «unificante», si doveva superare anche la rivelazione a Mosè sul Sinai, e superare persino l’antenato eponimo, Giacobbe, colui che diede il suo nome a Israele. Si risalirebbe così a quell’Abramo la cui storia doveva necessariamente integrare, per riconciliarli e conciliarli, le diverse componenti di una storia plurisecolare, componenti vissute o sentite all’inizio come diverse, opposte, inconciliabili e talora fratricide.

          Percepire in questo modo il processo di una storiografia alla ricerca di origini pressoché assolute, cioè incontestabili ed «unificanti», significa percepire un progetto che non è solo di ordine storico, ma molto di più, di ordine nazionale e politico, e in modo ancora più definitivo di ordine religioso e spirituale, tanto che, nel contesto della scrittura biblica, non si possono separare e nemmeno distinguere i due ordini. In sé, sarebbe stato abbastanza insignificante che un uomo di Ur avesse deciso un bel giorno di lasciare la patria per dirigersi verso nord; e l’invito divino rivolto ad Abramo di compiere il suo periplo dal lato di Beerseba o di Ebron non avrebbe avuto maggiore significato di qualunque altra storia edificante.

          Ma che questo itinerario evochi «in un’eco interiore» l’itinerario del popolo di cui quest’uomo era detto l’antenato, che i luoghi santi fondati da lui sotto la diretta ispirazione divina fossero quelli a cui questo popolo si recava in pellegrinaggio, questo conferiva a questa storia che, per quanto religiosa, era personale, un significato esclusivo, ultimo e definitivo.
          Non si trattava più soltanto di una storia, nel senso dello storico; non si trattava più soltanto di pie leggende, per quanto fondanti un particolare santuario; non si trattava nemmeno più soltanto dell’itinerario mistico di un personaggio di alta levatura spirituale. Si trattava di far vivere un popolo indicandone il padre, colui in cui poteva non solo riconoscersi, ma riconciliarsi, assumendo tutta la sua storia nelle sue tensioni. Che si tratti di terra e di deserto, di nomadismo e di sedentarietà, d’alleanza e di legge (della circoncisione), Abramo, dall’oriente all’occidente, assicurava per finire e per cominciare l’unità di Israele.

          Così sognarono e scrissero i redattori della storia di Abramo. Così sognarono e lessero le generazioni ebraiche e cristiane, correndo il rischio del giudizio che uomini ebrei non esitarono a pronunciare, a partire da Giovanni Battista e Gesù stesso.




          Martedì, 28 Dicembre 2004 00:16

          Immagini di un antenato (Sophie Laurant)

          Immagini di un antenato
          di Sophie Laurant


           

          Abramo occupa, tra i personaggi della Bibbia ebraica, un ruolo privilegiato. Insieme a Mosè è, in un certo senso, il "fondatore" del giudaismo, ma al contrario di Mosè, Abramo è diventato l'antenato comune delle tre religioni monoteiste: giudaismo, cristianesimo, islam. Questo patriarca sembra godere di un'incontestabile forza di integrazione, dato che possono riconoscersi in lui correnti teologiche diverse. Esistono dunque più letture possibili della figura di questo antenato. ll fondamento di tutte queste letture, cioè il ciclo di Abramo, che si trova nel libro della Genesi (Gn 11,27-25,18), contiene già una diversità di vedute e di rappresentazioni del patriarca.

          L'avventura di Abramo, che all’inizio si chiama Abram (fino a Genesi 17), inizia con il racconto della migrazione della famiglia del patriarca che si sposta dalla Mesopotamia alla Siria (Carran). Al momento della menzione di Sara (Gn 11,30), moglie del patriarca, è citata la sua sterilità. Ogni avvenire sembra già allora compromesso per la coppia. Tuttavia in Genesi 12,1-9, Dio promette ad Abramo una numerosa discendenza. Egli appare dall’inizio come il credente esemplare. Non pone alcuna domanda quando Dio gli ordina di lasciare il suo paese: obbedisce, e si mette in cammino verso una terra sconosciuta. Appena arrivato in Canaan, il patriarca ci è presentato come un’altra persona (12,10-20). A seguito di una carestia, egli si affretta a lasciare la terra promessa per l’Egitto. Là non esita a far passare Sara, la moglie, per sua sorella e si arricchisce grazie a lei. Gli interventi di Dio e del faraone ristabiliscono l’ordine turbato dalle azioni di Abramo. Dopo l’immagine di un patriarca ingannatore, si ritrova in Genesi 13 un Abramo conciliatore e uomo di pace. Il conflitto territoriale che lo oppone a Lot, il nipote, è regolato con una divisione in zone di occupazione. Al contrario, il racconto seguente (Gn 14) ci pone di fronte, in modo inatteso, un Abramo guerriero che interviene in un conflitto internazionale dalle dimensioni apocalittiche. L’Abramo di Genesi 15 esprime, eccome, i suoi dubbi circa la promessa divina; in seguito è informato da Dio sugli eventi futuri, finisce col credere ed entra nell'alleanza. In compenso, in Genesi 16, il patriarca gioca un ruolo passivo e si trova un po’ superato dagli eventi. Accetta la proposta di Sara che, a causa della sua sterilità, vuole farsi sostituire dalla schiava Agar. Quando la schiava è incinta, Abramo è incapace di governare il conflitto che sorge tra le due donne. Agar fugge, ed è un messaggero divino che interviene in favore di lei e di suo figlio Ismaele. In Genesi 17 il patriarca beneficia di nuovo di un’alleanza divina. Al contrario di quella di Genesi 15, questa comporta un segno, cioè la circoncisione. Il racconto della visita dei tre uomini misteriosi (Gn 18) mostra l’esemplare ospitalità di Abramo. Dopo questo episodio, che si conclude con l’annuncio della nascita di Isacco, Abramo assume il ruolo di mediatore per convincere Dio a non distruggere la città di Sodoma. La città tuttavia viene distrutta, mentre Lot, che vi si era insediato e che si è mostrato ospitale come suo zio Abramo, è salvato insieme con le figlie e diventa, in maniera poco ortodossa, l’antenato dei Moabiti e degli Ammoniti (Gn 19). In seguito troviamo di nuovo il patriarca fraudolento che, soggiornando presso il re di Gerar, fa nuovamente passare Sara per sua sorella (Gn 20). Malgrado ciò, in questo stesso racconto, egli è chiamato "profeta" ed è incaricato, come più tardi Giona, di intercedere per i pagani. Alla fine, subito dopo il soggiorno di Sara nell’harem di Abimelek, nasce Isacco, il figlio della promessa (Gn 21); ma Dio presto domanda ad Abramo di sacrificare questo figlio. Nel racconto di Genesi 22, che è certo il più sconvolgente dell’intero ciclo, Abramo si comporta esattamente come in occasione della sua vocazione (12,1-9). Di nuovo, egli obbedisce senza fare domande. In Genesi 12 Dio gli aveva domandato di rinunciare al suo passato, adesso egli è pronto a rinunciare al suo avvenire. La conclusione di questa prova (sostituzione di Isacco con un ariete, riaffermazione della promessa) segna in qualche modo la fine delle gesta di Abramo.

          I capitoli seguenti preparano la morte del patriarca. In Genesi 23, è detto che egli compra una tomba presso Ebron; e in Genesi 24, che egli fa cercare una sposa per Isacco in Mesopotamia, rifiutando i matrimoni con le "figlie dei Cananei". Nel capitolo seguente (Gn 25) Abramo, dopo la morte di Sara, prenderà un’altra donna del paese diventando, grazie a lei, l’antenato di un certo numero di tribù. Il narratore ci informa a questo punto della morte del patriarca, la cui sepoltura dà occasione a Isacco e Ismaele di ritrovarsi.

          Il racconto della Genesi mostra dunque una varietà di ritratti del patriarca. Questa diversità si spiega con l’intervento di più autori e redattori nell’elaborazione del ciclo di Abramo.



          La costruzione delle gesta di Abramo


           

          Nell’attuale situazione delle ricerche sul Pentateuco, è impossibile proporre una teoria condivisa sulla formazione di Genesi 12-25. Tuttavia si può affermare che l’epoca dell’esilio babilonese (597-539 a.C.) è un momento decisivo per la redazione scritta delle tradizioni su Abramo. Il libro di Ezechiele contiene, in 33,24, la citazione di una rivendicazione della popolazione non deportata: "Abramo era uno solo ed ebbe in possesso il paese e noi siamo molti: a noi dunque è stato dato in possesso il paese". Con questo argomento, la gente rimasta in Palestina (contadini e popolino) giustificano il loro diritto al possesso del paese contro gli esiliati che, invece, si considerano il "vero Israele". Ez 33,24 fornisce indicazioni preziose per comprendere la formazione del ciclo di Abramo. Si vede in primo luogo che il patriarca è un personaggio conosciuto. Questo significa che non può essere stato inventato soltanto all’epoca dell’esilio. In apparenza, egli rappresenta l’antenato e la figura di riferimento della popolazione non esiliata. La prima storia di Abramo è stata, probabilmente, redatta nel VI secolo a.C. per legittimare le rivendicazioni riportate in Ez 33,24, ma racconti orali (e forse anche scritti) su Abramo e Sara esistevano certamente all’epoca della monarchia ebraica, in particolare presso il santuario di Ebron, dato che il patriarca si insedia in questa città e vi compera la tomba di famiglia.

          La prima edizione del ciclo di Abramo (contenente grosso modo 12,10-20; 13; 16; 21,1-7) dà speranza alla popolazione rurale della Giudea, esortandola, attraverso l’esempio del suo antenato, a intrattenere buone relazioni con i popoli vicini (Gn 13 e 16), a non abbandonare il paese (12,10-20), promettendole un avvenire più sere-no a dispetto della situazione precaria che sta vivendo. Quando una parte degli esiliati ritorna in Giudea, a partire dal 530, costoro, attraverso talune aggiunte redazionali, rivisitano e adattano la figura di Abramo alle esigenze dei rimpatriati. Nella nuova introduzione che contiene il racconto della vocazione (12,1-9), Abramo prefigura il destino degli antichi esiliati che, come il patriarca, sono chiamati a lasciare Babilonia per la terra promessa. Gli stessi redattori inseriscono il racconto della legatura di Isacco in Genesi 22. La prova che Abramo subisce riflette il problema teologico, caratteristico dell’epoca persiana, di un Dio divenuto incomprensibile (lo stesso problema è trattato nel libro di Giobbe). Tuttavia questo racconto invita alla fiducia in Dio malgrado le apparenze; la discendenza di Abramo non sarà sacrificata, al contrario: essa è promessa ad un avvenire glorioso.

          Redattori provenienti dall’ambiente sacerdotale procedono in seguito a varie riletture, in particolare aggiungendo il cap. 17, nel quale il riferimento ad Abramo serve a fondare il rito della circoncisione che diventa, a partire dall’epoca dell’esilio, il simbolo dell’alleanza tra Dio e la discendenza di Abramo.

          Il racconto di Genesi 15 è probabilmente concepito dall’ultimo redattore della storia di Abramo, allo scopo di legarla alla storia dell’Esodo (15,13-16). In questo testo, Abramo diventa il precursore di Mosè, e Dio gli si presenta con queste parole: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei" (v. 7), espressione che richiama l’incipit del Decalogo: "Io sono il Signore che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto". Le diverse figure di Abramo che risultano dal processo di formazione della sua storia spiegano in certo modo perché diverse correnti religiose possano riconoscersi in lui. Taluni si trovano tuttavia disorientati di fronte ad una tale diversità e si mettono a cercare il "vero" Abramo.



          Il problema della storicità di Abramo

           

          Abramo condivide il destino di molti antenati storici: quello di essere difficilmente afferrabile dallo storico. Se si interpreta la cronologia dei primi libri della Bibbia come una successione di periodi storici, si arriva spesso alla conclusione che bisogna collocare l’Abramo storico nella prima metà del II millennio a.C. Si è pensato di poter provare la storicità di Abramo invocando ondate migratorie aramaiche in quest’epoca. Sono stati anche utilizzati gli archivi della città di Nuzi, ad est del Tigri, per fondare la storicità dei racconti su Abramo; dato che, in certe tavolette, si trova l’appellativo "sorella" per designare la sposa, si pensava di aver trovato una situazione storica similare per il racconto di Gn 12,10-20. Inoltre il nome Abramo è largamente attestato nel II millennio. L'idea di un Abramo vissuto attorno al 1700 a.C. è stata oggi abbandonata dalla maggior parte degli specialisti.

          Se si leggono con attenzione i racconti su Abramo, si constata subito che essi non menzionano alcun evento del II millennio; essi hanno piuttosto qualche cosa di atemporale. Così, in Genesi 12, il Faraone non ha un nome proprio, ma simboleggia semplicemente la potenza egizia con la quale Israele ha dovuto confrontarsi per tutto il corso della sua storia. E se i racconti su Abramo risalgono veramente al II millennio, bisognerebbe spiegare attraverso quale canale le sue imprese sarebbero state veicolate per oltre mille anni prima di essere messe per iscritto. Neppure lo studio dei nomi propri ci aiuta, perché il nome del patriarca è altrettanto popolare sia nel II che nel I millennio a.C.; e la teoria di una grande migrazione nel II millennio appare oggi poco probabile. I rari nomi propri in Gn 11,27-25 e 18 evocano piuttosto il contesto dei secoli VII e VI a.C., come ad esempio il nome proprio "Ur Casdim" che non è attestato al di fuori della Bibbia prima del VII secolo; il nome Ismaele è da associare alla confederazione "Sumu’il", attestata nei testi assiri della stessa epoca. Bisogna anche notare che la proposta di Sara in Gn 16 corrisponde chiaramente alle pratiche previste nel contratto di matrimonio neoassiro.

          È dunque pressoché impossibile ricostruire un Abramo storico che sarebbe vissuto nel II millennio. Non si può però escludere la possibilità di un personaggio storico che sarebbe:all’origine delle tradizioni su Abramo. Su una stele di vittoria del faraone Sesonq, datata circa 926, si trova forse (ma la lettura resta difficile) la menzione di un"campo di Abramo" localizzato nel Neghev, non lontano da Ebron. Si potrebbe dunque stabilire un legame con l’Abramo della Genesi. Non dimentichiamo però la frequenza del nome Abramo in quest’epoca.

          L’importanza della figura di Abramo non dipende affatto dalla questione della sua storicità. Le storie che lo riguardano hanno fornito a generazioni di credenti delle tre religioni monoteiste modelli di identificazione, e anche messaggi di speranza e di avvenire nonostante le prove.




          Dietro le immagini si delinea il monoteismo

           


          Le rappresentazioni di divinità dell'antico Israele, rivelate dall'archeologia, permettono di scrivere la storia della formazione del monoteismo. Othmar Keel e Christopher Uehlinger (1), professori presso l’Istituto biblico dell’Università di Friburgo (Svizzera), hanno ripreso trent’anni di ricerche archeologiche ed epigrafiche per tracciare un "paesaggio" religioso della Terra santa, dal 2000 a.C, (età del Bronzo medio) sino all‘epoca persiana (IV secolo a.C.). Il loro esauriente recupero di iscrizioni, sigilli, statue, luoghi di culto, fa emergere un universo politeista complesso e variegato, nel quale gli influssi egizi e mesopotamici si sovrappongono, ponendosi in relazione su tempi lunghi che coincidono solo parzialmente con i periodi di occupazione straniera della Palestina. Una prova in più dell’importanza degli scambi e dei reciproci influssi culturali, movimenti di fondo che lo storico non può ricondurre a coincidere con eventi politici. In un lento contesto storico emerge dunque poco a poco JHWH, l’aniconico, attestato come Dio unico degli Ebrei soltanto intorno ai VI secolo a.C. Per 1unghi secoli sono rimasti arcanto a lui dee, "signori degli animali", figure maschili guerriere (sorta di dei secondari). Essi erano espressioni in subordine della benedizione divina, simboli cultuali. Al ritorno dall’esilio si impone tuttavia un rigoroso monoteismo. Non c’è più spazio in Giuda "per una dea accanto a JHWH". Gli autori forniscono così una coerente conclusione della polemica suscitata nei 1975 dalla scoperta di un’iscrizione che evocava JHWH e "la sua Aserah". Il che non ha impedito la continua esistenza di templi consacrati ad una dea dominante nelle regioni vicine. L‘opera di Othmar Keel e di Christopher Uehlinger, profonda e rigorosa, è importante e, sotto molti aspetti, fondamentale. Il sottotitolo, Le fonti iconografiche della storia della religione di Israele, è più esplicito dello stesso titolo Dei, dee e figure divine. Per quanto riguarda le sintesi precedenti, i due autori rivendicano un aspetto troppo spesso trascurato: quello che consiste nel far parlare le immagini. "Molti biblisti, essi scrivono nelle conclusioni, si muovono nella Palestina antica come ciechi che abbiano a stento appreso l’idioma di questo universo. [...] Purtroppo, gli aniconici sono in genere meno consapevoli della loro ignoranza di quanto non lo siano gli analfabeti, perché, sulla base del loro carattere meno arbitrario e artificiale, le immagini rararnente provocano, corne invece fanno la scrittura e la lingua, un'impressione di totale estraneità". Agli specialisti di testi biblici Othmar Keel e Christopher Uehlinger propongono di aprire gli occhi.

          (1) O.Keel - C. Uelingher, Dieux, déesses et figures divines, Cerf, Parigi 2001.

          Se è vero che la violenza è presente in ciascuno di noi, per avere maggiori possibilità di reagire a quella che si manifesta nella società, occorre per prima cosa prendere coscienza di quella che ci si porta dentro.

          Anglicani.
          Incontro con l'arcivescovo di Canterbury
          "Non accade niente
           di interessante nella Chiesa
          se non per opera di Gesù"
          di Gianni Valente


          Quando non aveva ancora due anni, Rowan Williams prese la meningite e fu sul punto di morire. I dottori dissero che quel bambino fragile per sopravvivere avrebbe dovuto trascorrere per quanto possibile una vita tranquilla. Niente a che vedere col duro lavoro che gli è toccato in sorte, da quando nel 2002 è stato eletto centoquattresimo arcivescovo di Canterbury e primate di una Comunione anglicana attraversata come non mai da dissidi dottrinali e da presagi di declino. Eppure il 54enne gallese, che 30giorni ha intervistato durante il convegno su Thomas Merton organizzato dalla Comunità di Bose dall'8 al 10 ottobre, non ha l’aria della persona angosciata. Oggi che anche tanti ecclesiastici si agitano per riaffermare e difendere il peso e lo spazio dei valori religiosi nella società postmoderna, lui ha ben presente che camminare con Gesù "comporta il rischio di non avere da dire niente che il potere possa ascoltare, il rischio di diventare una nullità nello schema di qualcuno". E cita i primi cristiani, i quali sapevano bene che "appartenere al Dio di Gesù è altra cosa rispetto ad essere un cittadino, qualcuno con chiari diritti e uno status pubblicamente riconosciuti".

          Lei è diventato arcivescovo di Canterbury da quasi due anni, e sono stati anni turbolenti all'interno della Comunione anglicana. Sono noti i suoi studi sul cristianesimo del IV secolo e sulla crisi ariana. L'hanno aiutata a valutare la condizione presente del cristianesimo nel mondo?

          ROWAN WILLIAMS: Qualche volta forse abbiamo costruito un'immagine troppo abbellita delle epoche passate, come se tutto andasse bene nella vita della Chiesa. Invece se si studia la storia, ti accorgi che a volte per interi decenni la Chiesa era profondamente divisa. Ma questo non vuol dire che anche in quei periodi non ci fossero verità da scoprire. Lo studio del IV secolo che ho condotto per tanti anni mi ha aiutato a vedere che le persone possono rimanere sante pur in mezzo al vortice degli eventi in tempi tribolati. E che non puoi pensare di dedurre da che parte sta la verità contando le teste. Perché in quella crisi sant'Atanasio era rimasto quasi solo a custodire la vera fede davanti all'arianesimo. In alcune situazioni occorre aspettare con pazienza. Atanasio era molto vicino alla vita monastica dei suoi tempi. E questo per me è un indizio che coloro che affidano la propria vita alla vocazione monastica hanno spesso la vista più lunga.

          Anche dei primi vescovi in terra britannica lei ha esaltato la virtù della pazienza...

          WILLIAMS: Il vescovo Restitutus nel 314 aveva preso parte al Concilio di Arles. Negli ultimi anni doveva essere fiducioso nel futuro della sua Chiesa, perché le cose parevano andare bene. La persecuzione era finita, l'imperatore era amico. Se fosse vissuto cento anni dopo, avrebbe visto la fine di quella iniziale civilizzazione cristiana, quando i pirati barbari travolsero tutto. Quando arrivò Mellitus, inviato da Gregorio Magno, non sembra che ci fossero più tracce di presenza cristiana. Dovette rimanere parecchio tempo in Francia, in attesa di tempi migliori, che permettessero di ricominciare. Per questo ho detto che i vescovi di Londra hanno sempre dovuto essere tenaci e pazienti...

          Il nostro appare come un tempo di prova per il cristianesimo. Eppure sembra un tempo religioso e spirituale. Come spiega questo paradosso?

          WILLIAMS. Uno dei tratti salienti della nostra cultura è che siamo individualisti e con un'attitudine consumistica nei confronti delle cose. Anche nella religione non si cerca quello che è vero, che è reale, ma ciò che mi offre benessere, che si può usare per sentirsi a posto. Un sentimento spirituale che tranquillizzi il resto della propria vita. Non un annuncio che irrompa nella vita come una novità, cambiando le cose. In vaste parti dell'Occidente, poi, le persone hanno il rigetto verso l'appartenenza a organizzazioni collettive. Se la Chiesa ha una crisi della propria membershtp, i partiti politici stanno anche peggio...



          Il cristianesimo appare come un passato che non riguarda la vita, o addirittura come un peso. Le Chiese reagiscono cercando di riaffermare il proprio peso nella società. E moltiplicano gli interventi pubblici. Su ogni argomento.

          WILLIAMS. Quando ascolto domande come questa, mi sento subito imputato. Dall'arcivescovo tutti si aspettano che parli in pubblico su tante cose. È una cosa che adesso mi tocca fare, e non è facile. Quando mi capita di incontrare dei giovani, si vede bene che quello che può attirarli alla fede non sono certo i pronunciamenti dei capi della Chiesa. Quando ero vescovo in Galles mi davo molto da fare per i giovani della diocesi, e per molti anni abbiamo avuto un eccellente ministero pastorale rivolto a loro, che consisteva principalmente nell'intrattenerli e farli divertire. Poi è arrivato un nuovo cappellano, ha organizzato subito un ritiro di preghiera con i giovani della diocesi per la Settimana santa. E in quell'occasione un ragazzo che era venuto da agnostico alla fine ha chiesto di essere battezzato. Da quel semplice fatto ho intuito che vedere gli occhi di altri che guardano al Signore è la sola cosa che fa prendere sul serio la Chiesa. Se la Chiesa qualche volta ha cose utili da dire sulla cultura e la politica beh, si può fare, e va bene. Ma la storia non finisce lì...

          Cosa è la Chiesa per lei?

          WILIIAMS: Ho scritto di recente sulla cristianità degli inizi, e ciò che secondo me descrive la Chiesa nei primi secoli è che è una comunità che vive seguendo un altro Re. A pensarci bene, nei tempi moderni diamo molto peso alle convinzioni teoriche delle persone, a quello che hanno nella loro testa, ma non pensiamo mai all'appartenenza reale a Cristo, dentro una comunità. La Chiesa non esiste per decisione mia o di un qualsiasi numero di persone, ma per l'azione di Dio. Noi, le nostre opinioni, le nostre prospettive, non dettiamo legge su ciò che la Chiesa è al presente. L'esperienza di tale assenza di controllo è in sé stessa salutare. Mentre a volte le Chiese sembrano agitate per questo, per l'incontrollabilità, di Gesù Cristo, per il fatto che Lui non è prigioniero dei nostri pensieri. Adesso c'è bisogno di questo riconoscimento, più che in altri momenti. Il riconoscere che siamo nella Chiesa come degli invitati, perché siamo stati chiamati. Altrimenti la Chiesa sarebbe soltanto una Litigiosa società umana.

          E i litigi di certo non mancano.

          WILLIAMS: Il fatto è che la Chiesa non è la comunità di persone che vanno d'accordo con noi e condividono le stesse idee. Sono persone che non scegliamo noi. Che magari non ci piacciono. Ma che sono scelte e cambiate da Gesù stesso. Non accade niente di interessante nella Chiesa se non per opera di Lui, che può redimere i nostri disastri umani. Che ha promesso di rimanere coi suoi ogni giorno, fino alla fine del mondo. E ha detto di guardare e chiedere aiuto ai piccoli, ai poveri, ai bambini.

          Mi ha colpito la frase di un suo discorso, in cui lei ha detto che "l'ortodossia fluisce, sgorga dalla gratitudine, e non il contrario". Cosa intendeva dire?

          WILLIAMS: Il pensiero dei primi cristiani, anche a livello teologico dottrinale, sorse dal fatto che loro vedevano di essere condotti da Gesù in una nuova vita. Le prime parole del cristianesimo sono state quelle usate per rendere gloria a Dio. La dottrina teologica è sorta riflettendo su questo. Se manca questa iniziale gratitudine e riconoscenza per il semplice fatto di Gesù, non si risolvono certo i nostri problemi solo insistendo sulla disciplina.

          D'altra parte, circolano anche teologie per cui l'incarnazione di Cristo garantirebbe a priori la salvezza a tutto il genere umano e a tutto il mondo, in maniera meccanica. Concorda con queste tesi?

          WILLIAMS: Il disaccordo che provo nei confronti di alcune correnti della teologia americana della creazione è sul fatto che tutto è già deciso, non lasciano spazio neanche alla possibilità che l'uomo possa dire no. Non conosco il cuore degli altri ma conosco il mio, e so che sono capace di creare disastri. Il mio professore all'Università mi ripeteva sempre che nessuna teologia può stare in piedi senza tenere in conto la possibilità del fallimento.

          È noto che lei si appassiona alle vite dei santi. Quali santi le sono più cari?

          WILLIAMS: Amo soprattutto santa Teresa e san Giovanni della Croce. Ho sempre avuto una predilezione per la spiritualità carmelitana. Ho letto Teresa a quindici anni. Non l'ho capita, ma sentivo che mi piaceva. Poi ho letto anche Edith Stein. Riguardo alle Chiese d'Oriente, mi sono affezionato a san Serafino di Sarov. Lo scorso anno in Russia ho potuto visitare la sua tomba.


          Lei cita spesso anche sant'Agostino.

          WILLIAMS: Agostino ha creato la disciplina dell'autoanalisi, dell'autocomprensione, mostrando come siamo modellati dalla nostra memoria. Oggi, nell'era postmoderna, siamo indotti a passare da sensazione a sensazione, bruciamo esperienza dopo esperienza, e non c è più storia. Mentre lui ci fa vedere che è la storia che fa la persona. Anche nel rapporto con la realtà civile, Agostino ci ha insegnato che dobbiamo cercare il bene della città in cui viviamo, del luogo in cui siamo, lavorando per la giustizia, senza identificare mai il successo di tale società con il regno di Dio. Coinvolgimento, e allo stesso tempo distacco. Come ho detto prima, noi siamo di un altro Re. Insomma, a volte dico che Agostino può anche essere considerato il fondatore della psicoanalisi e della politica moderna...

          É nota anche la sua passione per la liturgia.

          WILLIAMS: La liturgia ci ricorda sempre che andiamo verso il giudizio. Che le nostre vite sono poste dentro un nuovo contesto, dove noi entriamo come ospiti. Una liturgia che fosse solo la proiezione delle mie idee sarebbe qualcosa di effimero. Della liturgia che si celebra alla Comunità di Bose, ad esempio, mi piace che non è frettolosa, si prende il tempo che serve, è piena di riferimenti biblici, ed è semplice.

          In tutta sincerità, come giudica il primato petrino?

          WILLIAMS: Mi è chiaro che fin dall'inizio c'è stato uno speciale carisma, un servizio speciale esercitato dal vescovo di Roma per tutta la Chiesa. Ma dal momento in cui questo è diventato qualcosa di legale e rigidamente definito dal punto di vista teologico, come risulta nelle definizioni del Concilio Vaticano I, mi riesce difficile non avere riserve. Ad esempio, riguardo all'infallibilità come carisma spirituale individuale. Come scriveva il teologo anglicano Austin Farrer, l'infallibilità non dovrebbe essere considerata come una "licenza di stampare fatti". Da quando questo Papa nell'enciclica Ut unum sint ha invitato a discutere di questo tema, tutti noi, anglicani, cattolici e altri, abbiamo una buona occasione per valutare criticamente ciascuno la propria storia. Noi anglicani sperimentiamo come può essere difficile vivere in una Chiesa senza un centro chiaro di autorità. Io non voglio essere un papa. Ma ho presente il problema. So quanto è importante nelle Chiese avere una vera responsabilità l'uno verso l'altro. Nella Chiesa d'Occidente questa esigenza di un'autorità centrale storicamente si è focalizzata nel papato...

          Ma si tratta solo di una costruzione storica? Il ruolo della Chiesa di Roma non sorge dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo?

          WILLIAMS: Quando io e mia moglie siamo venuti a Roma, scendendo alla tomba di Pietro siamo rimasti veramente commossi. La testimonianza apostolica di Pietro, riportata in tutto il Vangelo, si compie lì, nel suo martirio. E quando si parla di ministero petrino, si parla di questo, io penso che sia questo. Hans Urs von Balthasar, un teologo a cui sono affezionato, scrisse sul ministero petrino al tempo di Paolo VI, quando Paolo VI era criticato e attaccato da tutte le parti. E lui scrisse: ecco, adesso io vedo bene cosa è realmente il ministero petrino.

          Nelle convulsioni del presente, in Occidente aumentano gli allarmi nei confronti dell'islam, che starebbe portando un sistematico attacco alla civiltà occidentale e alle sue radici cristiane. Come giudica queste interpretazioni dell'attuale momento storico?

          WILLIAMS: Uno degli impegni che mi sono assunto come arcivescovo è stato quello di continuare il dialogo islamo-cristiano ad alto livello iniziato già dal mio predecessore. Alcune settimane fa sono andato in Egitto, e all'Università islamica di Al-Azhar ho parlato sulla dottrina della Trinità. In quel Paese, ad esempio, c'è una stretta collaborazione tra le nostre comunità e le comunità islamiche. Io non vedo come prospettiva obbligata quella dello scontro di civiltà. La civilizzazione cristiana deve qualcosa al mondo islamico, cosi come la civiltà islamica deve molto alla cristianità. Ebrei, cristiani e musulmani hanno una lunga storia comune. Più riconosciamo questa storia di convivenza, meglio è per il futuro. Non è neanche vero che tutto il Medio Oriente è islamico. Le antiche Chiese d'Oriente sono lì dai tempi della predicazione apostolica. Prima della guerra in Iraq ho fatto interventi pubblici e ho anche parlato privatamente con membri del nostro governo per segnalare il pericolo che sarebbe venuto, a causa della guerra, ai cristiani del Medio Oriente, che finiranno per pagare il risentimento crescente verso il mondo occidentale.

          A pagare nel vortice di violenza che avvolge il mondo sono spesso i bambini. Lei ne ha parlato spesso...

          WILLIAMS: Ritengo che uno dei peggiori nuovi mali degli ultimi due decenni, propriamente satanico, è l'attacco ai bambini. Quelli di Beslan, quelli iracheni o egiziani. Quelli palestinesi e quelli israeliani. O gli innocenti bambini soldato in Africa. È una connessione difficile da fare, ma anche la scelta dell'aborto la prendiamo così alla leggera... Non c'è più speranza e fiducia nel futuro dei bambini, e in queste vicende ciò si vede come in uno specchio.

          (da 30giorni, n. 10, anno XXII - 2004)

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