I Dossier

Domenica, 24 Ottobre 2004 15:51

Quale cultura di speranza oggi?

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Relazione di Carlo Molari

I tempi sono tristi: è tempo di speranze!

Il compito affidatomi è di presentare la prospettiva teologica cristiana sulla speranza. Non intendo fare una panoramica della cultura della speranza nelle chiese cristiane, ma vorrei chiarire come un credente viva la propria speranza e come ne possa dare testimonianza, secondo l'invito della prima lettera di Pietro: "Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1Pt 3,14). Rendere ragione non è però possibile se non si vive in modo personale il rapporto con Dio e il riferimento a Cristo in modo che costituisca ragione di speranza. Questa si chiama speranza teologale ed è stata una delle prime caratteristiche della esperienza cristiana. La speranza teologale non è un semplice desiderio buono portato avanti con costanza.

Ha dinamiche specifiche che dovremo precisare attentamente, perché ci sono molte ambiguità su questo tema. La riflessione, per essere sufficiente da un punto di vista cristiano, deve indicare le ragioni della speranza che derivano dall'esercizio della fede in Dio e il valore che per essa ha il riferimento a Cristo. Nel fare questo devo tenere presente le difficoltà a esercitare la speranza. Esse sono costituite dalla diverse forme di male, che aumenta sempre più nella storia umana.

Il riferimento al libro dell'Apocalisse in questo senso è molto significativo. L'Apocalisse di Giovanni, infatti, è uno scritto di speranza rivolto ai cristiani che subivano persecuzioni. Tutte le lettere inviate alle sette chiese (Ap. 2-3) iniziano sottolineando il bene che le caratterizza. I limiti e le insufficienze sono elencate per indicare le forze del bene che possono sconfiggere il male in modo definitivo. Il vincitore riceverà "una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all'infuori di chi la riceve" (Ap 2,17); sarà vestito di bianco e il suo nome non sarà cancellato "dal libro della vita" (Ap 3,5). È il nome dei figli di Dio. Questa formula potrebbe riassumere la speranza quale è vissuta dai cristiani.

1. Significato della fede in Dio

I cambiamenti dell'immagine di Dio e quindi i momenti di crisi fanno parte essenziale di ogni cammino di fede sia a livello personale che storico. L'evoluzione umana, infatti, implica tappe successive e si realizza con progressive trasformazioni delle concezioni di vita e delle visioni del mondo. I due livelli, personale ed epocale, si intrecciano nello sviluppo concreto di ogni persona che cresce all'interno di una comunità di vita. La fede in Dio, infatti, matura come sviluppo di quell'atteggiamento di fiducia che la vita stessa esige per essere accolta e per giungere al compimento. La fede suppone quindi fin dall'inizio la testimonianza di adulti e l'intreccio delle relazioni attraverso le quali la vita fluisce.

In base alla continuità e alla efficacia di questa testimonianza, le necessarie mutazioni dell'immagine di Dio possono avvenire o in modo armonico e quasi spontaneo, o, come spesso accade, in modo sofferto e traumatico. Il cambiamento e assolutamente necessario perché l'immagine di Dio non è Dio. L'immagine di Dio che caratterizza una cultura o una particolare età della persona, è provvisoria e funzionale al cammino di fede. Essa non coincide mai con la realtà, ma contiene sempre elementi proiettivi. Alcuni filosofi, sottolineando questo fatto, lo hanno radicalizzato, ma e innegabile che ogni immagine che ci formiamo di Dio è proiettiva; contiene cioè una componente che nasce dalle esigenze, dai modelli culturali, dalla modalità di interpretare il mondo e la vita, propri di ciascuna persona e di ciascuna epoca. Per questo i grandi mistici hanno insistito sulla necessità di distaccarsi dalle immagini di Dio per trovare Dio e vivere rapporti autentici con Lui. Meister Eckhart, un mistico domenicano del XIV secolo, quando predicava alle monache domenicane della Germania di cui egli era responsabile, diceva: "Se volete trovare Dio abbandonate il vostro Dio". Dio lo si trova oltre ogni nostra immagine: "Quando l'anima giunge nell'Uno e vi penetra con un totale rigetto di se stessa, trova Dio come nulla" (1). Tutti i mistici continuamente ripetono che Dio può essere incontrato solo nel silenzio totale, cioè nell'abbandono di tutte le parole, di tutte le immagini, perché ogni immagine, ogni parola umana, è mediazione, ossia s'interpone tra la Realtà e la nostra mente.

Se le cose stanno in questo modo, dobbiamo interrogarci: cosa intendiamo per Dio se non possiamo riferirci a nessuna immagine? Cosa intendiamo parlando del bisogno di Dio? Ci riferiamo necessariamente al bisogno di credere in Lui. Ma che cosa significa credere in Dio? Vi sono due componenti fondamentali della fede in Dio.

La prima è la convinzione che esiste la vita in pienezza, che la verità è in forma completa, che c'è un bene sommo, e che le creature sono piccole espressioni di una realtà più grande. Se il bene pieno, la verità senza riserve esistono, già noi possiamo cercare, accogliere, crescere. La vita è fondata perché c'è un bene sommo che in noi può diventare amore, una verità senza limiti che in noi può diventare pensiero, idea. C'è una giustizia esigente senza limiti che può diventare progetto di fraternità, di uguaglianza e noi possiamo esserne coinvolti interamente. Questa convinzione che l'Essere è, non costituisce ancora la fede. In termini propri si chiama credenza.

La seconda componente della fede in Dio è l'atteggiamento di fiducia con cui, abbandonandoci senza riserve, accogliamo in noi l'azione del bene, della verità, della giustizia, della vita. Essa cerca di diventare in noi qualità nuova, perché noi cresciamo nella nostra identità di figli, cioè di creature. È un atteggiamento necessario per vivere, ed è proprio qui che si colloca il nostro bisogno di Dio.

Questo atteggiamento si ricollega all'abbandono fiducioso che la vita sollecita sin dall'inizio. Quando siamo venuti al mondo, tutti siamo stati sollecitati ad avere fiducia, siamo stati spinti da un amore che ci avvolgeva e che ci perveniva come stimolo reale infondendoci fiducia. Quando l'amore che ci avvolge non è sufficiente, la fiducia alimentata è inadeguata e sorgono numerose difficoltà: traumi, paure, rifiuto di vivere. Anche per questo si dice che la fede è dono, perché è un atteggiamento che non possiamo darci da soli, bensì è indotto dagli altri come la vita.

La fede in Dio è appunto l'atteggiamento iniziale di fiducia che progressivamente si sviluppa e allarga gli orizzonti. Nei primi momenti della vita i punti di riferimento sono i genitori, gli adulti che ci stanno accanto, le cose necessarie. Successivamente l'orizzonte vitale della persona si amplia sempre più finché un giorno essa perviene a vivere la fede in Dio, anche attraverso le pratiche religiose, che sono stimoli per camminare verso la fede, ma di per sé non sono sempre espressione di fede personale in Dio. Ci sono giovani che percorrono velocemente questo cammino di crescita, altri con più lentezza, perché il cammino che una persona compie dipende dalle esperienze che essa fa. Molte persone che frequentano la chiesa possono essere convinte che Dio esiste, ma la convinzione che Dio esiste, non è ancora l'esercizio della fede in Lui. Molti di quelli che frequentano la chiesa hanno fede nel lavoro, negli amici, nel denaro, ma non ancora in Dio. La loro esistenza cioè non è fondata sulla scoperta di Dio, bensì' su altre cose, positive, ma insufficienti. Per cui quando sopraggiungono momenti di crisi, per esempio il lavoro o la salute vengono meno o le ricchezze scarseggiano, queste persone subiscono crolli interiori e traumi profondi.

Si giunge a vivere l'esperienza di fede in Dio quando si scopre che non c e nessuna cosa, nessuna situazione, nessuna persona che risponda in modo adeguato alla tensione profonda che portiamo nel cuore e ci abbandoniamo con tale fiducia al bene che alimenta la nostra vita, alla verità che ci attraversa, all'amore che ci avvolge, da compiere gesti che non hanno altra ragione se non la scoperta di Dio, cioè l'abbandono fiducioso in un bene senza nome, in una verità senza figura, in una giustizia senza progetto; una giustizia cioè che contiene tutti i progetti che noi formuliamo, ma che è sempre al di là di essi. Questo significa avere fede in Dio: ritenere che nelle nostra storia sia in gioco una realtà più grande di noi, che, cioè, la verità in gioco, quando noi pensiamo, è più grande dei nostri pensieri, che il bene in gioco, quando noi amiamo, è molto di più dei gesti che noi compiamo e così via. Conseguentemente la fede implica l'atteggiamento di abbandono che consenta al bene di diventare amore e alla verità di diventare luce in noi.

Quando si incomincia a vivere in questo modo, allora si comincia a capire a quale gioia conduce, a quale pienezza di vita apre la fede. Fino a quel momento ci può essere una pratica religiosa o la ricerca di Dio o una fiducia suscitata da testimoni incontrati o dall'ambiente famigliare, ma non c e ancora una fede personale.

NOTA

(1) MEISTER ECKHART, Sermone Surrexit autem Saulus in Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985 p. 205, ora anche in ID., I Sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline Editoriale Libri, Milano 2002.

2. Significato del riferimento a Cristo quale testimone di Dio

Per analizzare le dinamiche del bisogno di Dio, dobbiamo inoltre tenere presente la legge dell'incarnazione, secondo cui la forza creatrice, che contiene tutte le perfezioni, anche quelle non ancora espresse, può essere accolta solo se viene ridotta alla lunghezza d'onda delle creature. Per dirla in altri termini: l'amore di Dio, cioè la forza della vita, non può far crescere nessun bambino se non diventa amore di padre e di madre, amore di adulti che offrono vita. Nessun genitore può mettere al mondo un figlio e abbandonarlo all'amore di Dio, perché il piccolo non può accogliere la forza della vita se il genitore non la riduce alla sua lunghezza d'onda. Quando l'adulto diventa capace di offrire vita, allora la vita di Dio si offre tramite la sua azione.

Noi non abbiamo la possibilità di cogliere azioni divine nella storia umana; possiamo percepire solo azioni di creature. Il bisogno di Dio, quindi, si esprime come bisogno dì creature, che però non trova risposte adeguate nelle creature stesse. Nella storia umana per noi esistono solo attività di creature. Qualcuno potrebbe obiettare: i miracoli non sono forse azioni di Dio nella storia umana? La risposta e: "No! I miracoli sono sempre gesti di creature, che vivono in modo tale il rapporto con Dio da esprimerne potenzialità, abitualmente inutilizzate e quindi invisibili". Il miracolo accade quando una creatura si apre all'azione creatrice cioè alla forza vitale, in modo da saperla esprimere in forme straordinarie. Ciascuno di noi vive la propria esistenza secondo gradualità che variano di giorno in giorno. Utilizziamo solo una parte delle potenzialità del nostro cervello o dei muscoli o dei polmoni. Spesso ci accontentiamo di vivere in economia, a tutti i livelli, anche nei rapporti con gli altri. Non viviamo sempre intensamente, anzi, forse non abbiamo ancora scoperto cosa significhi vivere pienamente. I miracoli accadono quindi quando una persona assume un atteggiamento di accoglienza della forza creatrice o entra in rapporto con l'azione della vita in modo da tradurla secondo gradualità e forme superiori a quelle quotidiane.

Alla luce di queste riflessioni credo sia possibile capire il valore dei testimoni di Dio e quindi l'importanza della presenza dei santi nella società. Testimoni di Dio sono quelle persone che esercitano l'abbandono fiducioso in Dio, che vivono in modo teologale, esercitando cioè la fede, la speranza e l'agape. Il testimone vive con riferimento continuo alla presenza di Dio nella sua esistenza e nella storia. Una persona diventa testimone di Dio quando si apre alla forza della vita a tal punto da far capire che la Vita è più grande delle nostra piccola esistenza. L'azione di Dio deve diventare creatura per esprimersi nella storia. Il santo è appunto colui che consente alla forza divina di diventare creatura. Allora è possibile dire: "C'è l'azione di Dio!". In realtà l'azione di Dio è sempre presente, perché la forza creatrice è sempre in azione, ma diventa visibile quando una creatura la esprime in modo più significativo e ricco. Pretendere di sperimentare azioni divine per credere in Dio ed esercitare la fede in Lui significa esigere l'impossibile, perché noi siamo in grado di cogliere solo azioni create, nella lunghezza d'onda delle nostre facoltà percettive. In questa sala, ad esempio, oltre alle mie parole sono presenti molti altri messaggi, musiche, che con una radio o un televisore possiamo rendere percettibili a tutti. In realtà, benché i messaggi siano già in questo teatro, noi senza una radio o un televisore non percepiamo nulla perché essi sono in una lunghezza d'onda diversa dalle nostre capacità percettive. In modo analogo la Parola creatrice ha una lunghezza d'onda trascendente la nostra capacità di ascolto, e ci perviene solo in modulazione creata. Sintonizzarsi con l'azione divina significa ridurla alla nostra lunghezza d'onda, e quindi alla nostra capacità percettiva.

Un testimone di Dio svolge appunto questa funzione e riduce la forza creatrice alla nostra capacità percettiva. Se i testimoni vengono a mancare, l'azione di Dio non emerge in modo adeguato nella storia e la forza della Vita rimane a livelli minimi. Ci sono ambiti o momenti nei quali l'azione di Dio è molto più efficace, non perché Dio si faccia presente in modo nuovo, bensì perché le creature lo accolgono e lo esprimono in modo più efficace e lo traducono in gesti significativi. Analogamente ci sono momenti o ambienti nei quali Dio è assente a livello umano. Gesù stesso, quando sulla croce ha gridato: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", che significa: "Perché sei assente, perché sei lontano?", traduceva in modo concreto questa legge; l'odio degli uomini che lo conduceva alla morte, la violenza gratuita che si esprimeva contro di lui, innocente, rendevano assente Dio. Solo gli atti di Gesù, il suo amore, la sua misericordia, il perdono offerto, l'abbandono fiducioso nel Padre, rendevano presente Dio su quella croce. Dio era appeso a quella croce appunto perché l'uomo Gesù, accogliendo l'azione del Padre, la rendeva concreta con l'amore, la misericordia, il perdono.

Per questo Gesù è stato considerato il Testimone fedele.

3. Ragione e modalità della speranza teologale

Con il termine speranza si indica il complesso delle attese nei confronti della vita e insieme i diversi atteggiamenti con cui ogni persona le alimenta e le esprime. Chiunque opera coltiva speranze, persegue ideali, intravede traguardi da raggiungere. Quando le attese appaiono illusorie o si esauriscono, anche le ragioni di vita vengono meno. Molti, che hanno tentato o hanno realizzato il suicidio, hanno indicato, come motivo del loro gesto, il fatto di essere rimasti senza speranze e quindi di non avere più motivi per vivere. Per questo l'analisi della speranza suppone un'antropologia, un'interpretazione, cioè, dell'esistenza umana e del suo senso.

La speranza è anche il vincolo che lega le persone fra loro nella stessa avventura e costituisce quindi la trama vitale dei gruppi sociali. La storia di un popolo ha un futuro solo se c'è speranza. Quando la speranza appare illusoria, il cammino della storia si blocca e procedere diventa impossibile. La ricchezza umana di una società può essere valutata dalle sue speranze.

La società attuale sembra essere carente in fatto di speranze; quando qualcuna ne emerge all'orizzonte, nascono movimenti molto ambigui, che spesso si esauriscono in poco tempo, non avendo spazi profondi nei quali attecchire. Gli attuali ambiti sociali della speranza sembrano inquinati, perché educano a desiderare le cose o a sognare situazioni future illusorie. Mancano spazi di esercizio autentico della speranza. La società dei consumi sviluppa dinamiche idolatriche perché presenta beni, situazioni, persone come ragioni adeguate e risposte sufficienti ai desideri vitali e agli istinti ad essi corrispondenti. Anche in altri secoli queste dinamiche idolatriche erano frequenti, ma non offrivano le medesime possibilità o le medesime verifiche.

Lo sviluppo attuale della scienza e della tecnica ha reso molto più facile, ma anche molto più precario, il soddisfacimento di tutti i desideri istintivi. Lo ha reso più facile per la vertiginosa facilità di produzione e la conseguente offerta sempre più larga di beni. Ma nello stesso tempo lo ha reso molto più precario, perché con l'accelerazione veloce dei processi storici ha favorito la saturazione dei desideri e ne ha mostrato le insufficienze. Ora, finché non scopriamo il termine reale di ogni speranza vitale, non siamo in grado di capire la nostra condizione di esseri creati e di godere pienamente la vita. La ragione della affannosa ricerca dell'uomo sta nel fatto che egli è realmente chiamato alla felicità, al benessere e al dominio sulle cose. Questa chiamata si traduce nelle tensioni istintive che spingono l'uomo alla ricerca della gioia in tutte le situazioni della sua esistenza.

Educare perciò alla speranza è forse oggi l'impegno più urgente di ogni comunità, interessata alla crescita armonica della persona e allo sviluppo della storia.

Chiamati a cose più grandi

Come la fede, anche la speranza è un atteggiamento vitale originario, indotto dall'amore di coloro che ci offrono vita. L'offerta non può realizzarsi in un solo istante, ma richiede una successione di eventi: la speranza è appunto l'attesa del futuro suscitata dalle offerte iniziali. La necessità della successione dipende sia dall'incapacità di accoglienza completa per carenza di spazi vitali, sia dall'impossibilità di un'offerta totale e istantanea da parte delle creature offerenti.

Qui risiede la differenza tra l'azione delle creature che comunicano vita e l'azione creatrice di Dio che fonda tutto il processo. Mentre l'azione delle creature deve necessariamente svolgersi nel tempo e quindi svilupparsi in tempi successivi, l'azione creatrice divina contiene già tutta la perfezione, ma essa non può essere accolta che a piccoli frammenti. La speranza quindi esercitata nei confronti delle creature gioca sul rischio della fedeltà delle creature che può venire meno, mentre la speranza nei confronti di Dio si fonda sulla certezza della sua presenza assoluta e definitiva. Ma questa non può essere che il traguardo di un lungo cammino.

La fede religiosa interpreta l'esperienza della delusione come la conseguenza di un dato fondamentale: l'uomo ha tensioni e aspettative più grandi delle cose che lo circondano e vive proiettato sempre oltre se stesso, perché la sua chiamata proviene da Dio e la sua tensione vitale deriva da una Parola creatrice che contiene ricchezze e perfezioni molto più grandi. L'azione creatrice di Dio soggiace ad ogni evento e ad ogni situazione storica anche se inquinati dal peccato o segnati dalla violenza; ma essa non può emergere nella storia se non attraverso creature e diventa efficace solo nella loro azione. Le attese degli uomini, quindi, devono rivolgersi necessariamente alle creature, ma non possono trovarvi la risposta alla tensione da esse suscitata ed espresse nelle varie modulazioni della speranza. La ragione, quindi, della insoddisfazione che spesso caratterizza la ricerca umana, sta in un errore di bersaglio e in una confusione di orizzonti. Le cose, le situazioni, le persone sono simboli di beni più grandi e definitivi che suscitano speranze assolute. Esse, perciò, non si esauriscono e non trovano piena soddisfazione nelle cose, che rimandano sempre oltre.

D'altra parte, l'azione divina emerge nella storia attraverso creature e diventa efficace solo nella loro attività. Quando noi operiamo nella storia, permettiamo a Dio di esprimere il Bene che egli è, di rendere efficace il suo amore. Per questa presenza dell'azione divina, chi ha raggiunto un sufficiente grado di maturità è capace di accogliere vita in tutte le circostanze. Nessuno può più impedirgli di sperare, cioè di attendere un dono di vita, di aprirsi al futuro e quindi di crescere come figlio di Dio. La sua speranza non può mai venire delusa, perché ha scoperto la fonte inesauribile della vita. La speranza teologale è appunto l'attesa della venuta di Dio, cioè della sua offerta vitale che si realizza in ogni evento. Ogni situazione può essere vissuta in modo da accoglierne uno stimolo o un frammento di vita. Chi non impara ad attendere il dono di Dio non sa neppure riconoscerlo ne accoglierlo. Non sempre quando si crede di avere fede in Dio si esercita in realtà la speranza teologale: è possibile, infatti, illudersi o sbagliare bersaglio. Siccome, anche quando attendiamo Dio, dobbiamo sempre incontrare creature, le illusioni si ripetono con frequenza e ne conseguono facili delusioni.

L'esercizio della speranza teologale, quindi, non avviene fuori della creazione e contro le speranze umane, ma alloro interno, nel seno profondo della storia. D'altra parte, imparare a sperare non e un esercizio individuale, anche se suppone il coinvolgimento personale. La speranza ha una essenziale dimensione comunitaria, che è la fonte originaria e l'ambito di sviluppo di ogni speranza. La comunità ecclesiale come la società civile inducono speranze perché comunicano ideali.

La speranza cristiana

La speranza che ci è offerta attraverso la fede in Cristo non e un'aggiunta alla realtà umana, ma è l'apparire della sua fondazione. Non è un semplice diritto ad acquisire doni eterni, ma è già la loro introduzione nella nostra storia. La fede in Cristo offre un modo concreto di esercitare la speranza in Dio, come ragione di vita per ogni uomo. Chi crede in Gesù come incarnazione della Parola eterna sa che per incontrare Dio non è necessario aspettare che la storia finisca, né augurarsi che le creature scompaiano. Infatti è solo incontrando le creature e vivendo gli eventi della storia che possiamo aprirci al dono di Dio. C'è un modo, quindi, di attendere le creature che consente di incontrare Dio e di accoglierne il dono salvifico. La salvezza, scoperta attraverso Gesù, è il raggiungimento da parte dell'uomo dell'identità di figlio di Dio, attraverso l'accoglienza progressiva dei suoi doni. La salvezza o e offerta già nella storia, o non sarà mai, perché solo nella storia l'uomo può raggiungere la sua statura di figlio. La speranza perciò e una virtù che si svolge nella storia, anche se il suo oggetto conduce l'uomo a trascenderla e a guardare oltre.

Imparare la speranza non è facile, perché tutti, venendo al mondo, per necessità cominciamo a ricercare cose e persone con attese assolute e spesso ci trasciniamo le abitudini degli inizi anche nella maturità. Nella prima fase dell'esistenza le attese precarie e inadeguate non sono evitabili, per questo ogni fanciullo ha bisogno delle presenza di adulti che suppliscano alle sue carenze. Crescere significa imparare a gestire le proprie attese per essere in grado di vivere in modo autentico. La soluzione non sta tanto nella eliminazione dei desideri, come alcuni suggeriscono, né in una fuga verso mondi eterei coltivando solo attese trascendenti, come altri immaginano, ma sta nell'apprendimento della speranza all'interno della storia e della esperienza personale.

Questo è il modo specifico di vivere la speranza in prospettiva cristiana. Imparare a sperare significa sviluppare le proprie attese nella storia e non fuggire dalle sue durezze. Occorre individuare perciò gli oggetti adeguati delle nostre attese.

Vorrei precisare cosa significhi speranza teologale, cioè quali caratteristiche abbia la speranza quando si muove all'interno dell'orizzonte della fede in Dio e nell'abbandono fiducioso a Lui. Intendiamo individuare quali connessioni esistono tra la speranza teologale e le attese quotidiane: quando un bambino attende il ritorno dei suoi, quando un giovane progetta il proprio futuro, quando un adulto inizia un'impresa. Queste attese hanno un rapporto con la speranza teologale, non c'è identità ma neppure separazione. La speranza teologale si esercita in rapporto alle stesse situazioni, ma ha movenze e dinamiche diverse, perché ha come riferimento il Bene riflesso nei molti beni, la Verità rilucente in ogni parola esatta, la Vita, alimento di ogni esistenza.

Occorre capire quale connessione esista tra le speranze quotidiane e la speranza teologale, per evitare che questa venga intesa come l'attesa di eventi fuori dalla storia o dopo la morte, come se essa riguardasse la grazia soprannaturale, la vita eterna, il paradiso. Anche la speranza teologale ha rapporto con il cibo che dobbiamo mangiare, con la casa che dobbiamo abitare, con il lavoro che dobbiamo svolgere. La distinzione perciò tra la speranza quotidiana e la speranza teologale non riguarda l'oggetto materiale, come si esprimevano gli scolastici, ma l'oggetto formale, cioè l'attitudine con cui si vive la speranza di ogni giorno. La speranza teologale, infatti, è una modalità particolare con cui si vivono le attese storiche e le speranze quotidiane. E attendere Dio che viene in ogni istante della nostra esistenza. Dio viene con i doni che ci fanno crescere nella nostra identità filiale. Il cammino per imparare a sperare è lungo: non dobbiamo preoccuparci se ancora non abbiamo incominciato ad esercitare la speranza teologale. Ma è necessario sapere che nel nostro tempo diventa sempre più urgente imparare a sperare. La cultura infatti ha spostato l'asse dell'interesse dal presente al futuro.

A questo punto, dovrei introdurre altri aspetti collegati, ma è tempo di passare la parola ai partecipanti per domande e interventi. Tuttavia è probabile che emergano proprio dal dibattito.

Risposte dopo il dibattito

1. La speranza di fronte alla morte

La speranza umana ha come ultima misura e criterio la morte. Il suo valore, infatti, e le sue dinamiche in ultima istanza si misurano con la morte. Il cambiamento di orizzonte culturale avvenuto nel nostro secolo ha modificato profondamente anche il senso della morte. Mentre nella visione statica il criterio fondamentale del bene e del male era costituito dalla forma iniziale, nella prospettiva dinamica ed evolutiva è la fine ad acquistare un valore prioritario. Se veramente siamo in processo, il criterio della vita è il traguardo al quale è diretta, che è appunto la morte. Essa non è un incidente nella vita umana, ma è il fine ultimo di ogni processo vitale: noi siamo in questa fase di esistenza per diventare capaci di uscirne. La morte è il risvolto interno del compimento e quindi il criterio per giudicare tutte le nostre scelte. Noi non conosciamo, né potremo mai sapere le sorprese che la vita ci riserverà nel futuro finché non vi perverremo, ma già fin d'ora possiamo intravedere le esigenze che la vita porrà, quando giungeremo alla morte.

Come il feto resta nell'utero materno finché diventa capace di uscirne in modo vitale, analogamente noi siamo in una situazione destinata ad un compimento. La nascita per il feto è la fine di una fase preparatoria e quindi ne costituisce anche il fine. Perciò tutto quello che accade nello stato fetale deve essere valutato in rapporto con la nascita che lo attende. Ciò che la favorisce è bene per il nascituro, ciò che, invece, la impedisce o la rende difficile è male. La conclusione del processo può costituire anche il suo fallimento. Analogamente ciò che nell'attuale esistenza ci insegna a morire è bene, ciò che invece lo rende difficile o lo impedisce è male. Anche il fallimento del processo deve essere tenuto in conto per comprendere le dinamiche della speranza. Esso comprende anche l'assoluta ignoranza dello stato definitivo, a cui corrisponde anche la possibile sua inesistenza. Se la speranza ha il suo criterio ultimo nella morte, tutti gli atti di speranza e tutti i loro oggetti vengono misurati dalla morte. Quelli che hanno valore di fronte alla morte sono significativi per la vita, mentre quelli che non valgono di fronte alla morte, nonostante le apparenze non valgono neppure per lo svolgersi dell'esistenza.

Importante quindi è conoscere i criteri della morte, che cosa cioè la morte esigerà per essere vissuta in modo adeguato. Detto molto in breve, essa chiederà a tutti:

  • di avere consolidato la propria identità al punto da saper abitare il proprio nome senza ricorrere ad altri riferimenti;
  • di avere acquisito un distacco tale dalle cose da saper partire senza portare nulla con sé;
  • di avere imparato nel vivere i rapporti a interiorizzare le persone così da saper partire senza condurci nessuno per mano;
  • di avere imparato nel vivere i rapporti ad esercitare l'oblatività in modo da saper donare tutto senza rimpianti;
  • di avere imparato a fidarsi della vita così da saperla perdere per ritrovarla definitivamente.

 

 2. La presenza del male non sconfigge la speranza ma la rafforza

Fino ad ora il problema del male, sia fisico che morale, ha posto gravi difficoltà alla speranza di coloro che professano la fede in un Dio creatore misericordioso e provvidente. La domanda, che ha avuto formulazioni letterarie famose, può essere espressa in modo molto semplice: se all'origine del mondo vi è un creatore buono, che ha fatto le cose per bene, come mai esistono imperfezioni e insufficienze nelle dinamiche della creazione e l'esistenza umana è percorsa da un capo all'altro da sofferenze e dolori?

Per comprendere il cambiamento avvenuto nella considerazione del male, occorre ricordare il passaggio culturale da una concezione statica della realtà ad una dinamica ed evolutiva. La concezione statica della realtà ha caratterizzato la cultura umana fino al nostro secolo. Essa consiste nel pensare che le cose siano già fissate fin dall'inizio nella loro identità, già stabilite nella loro perfezione. Sia in greco che in latino il termine natura deriva da nascere, perché le cose erano considerate fissate nella loro realtà sin dalle origini. A questa visione era collegata anche l'idea di una perfezione completa originale. Tutte le culture umane che conosciamo, anche quelle scomparse, conservano l'idea di un'origine perfetta delle cose e di un periodo di armonia straordinaria (i greci la chiamavano l'era dell'oro).

Questa concezione ha inciso anche la nostra tradizione nell'interpretazione della Genesi biblica: la Genesi non dice che inizialmente tutto era perfetto, dice che tutto era bello e buono. Di fronte al nulla tutto ha un grande valore. Ma non dice che tutto era già nella perfezione.

Ci sono degli psicologi che hanno dato un'interpretazione suggestiva a questo fenomeno. Dicono che i miti sulle origini perfette sono sorti per l'esperienza che ciascuno di noi fa all'inizio della propria vita. Tutti noi veniamo al mondo sperimentando una realtà ordinata in cui tutti i nostri problemi sono risolti dagli altri (se, per esempio, durante l'esperienza fetale la nostra vita non si fosse risolta adeguatamente, noi non saremmo nati e non potremmo parlarne). Di questo abbiamo memoria vitale non intellettiva. I miti sono sorti come espressione di questa memoria, per cui il racconto delle origini della storia umana è in realtà espressione di questa nostra esperienza. Noi siamo sorti in un ambiente ordinato e armonico, in un giardino dove tutto veniva risolto in modo positivo; per questo sono sorti i miti delle origini, ma non narrano la storia dell'umanità. In realtà alle origini non c’è un’umanità perfetta; un'umanità perfetta esiste solo al traguardo. Il racconto della Genesi è una profezia, non il racconto di un'esperienza già vissuta dall'umanità, è l'indicazione di un traguardo a cui dobbiamo pervenire.

In ogni caso la visione statica oggi è insostenibile perché, principalmente ad opera della scienza (come le scoperte sulla radioattività, sull'evoluzione biologica, sulla relatività, sulla cosmologia, sulla meccanica quantistica), la nostra cultura sta adottando una prospettiva dinamica ed evolutiva.

Se si assume integralmente il paradigma evolutivo e d'altra parte si ha una idea corretta dell'azione di Dio, il problema del male si presenta in modo completamente nuovo.

Se infatti si concepisce l'origine e l'evoluzione del cosmo come un faticoso e progressivo emergere dal nulla o dal vuoto, comprendiamo che il creato non può accogliere in modo completo l'offerta divina se non attraverso tappe successive e gradi incompleti. Si potrebbe dire con una metafora che il nulla e il vuoto non hanno il substrato sufficiente per accogliere il dono nella sua complessità e pienezza. L'imperfezione, perciò, appare come una necessità dello sviluppo e il male si presenta come lo scotto pagato dalle cose al nulla per giungere alla loro perfezione (1). In prospettiva dinamica, quindi, si potrebbe definire il male del mondo come la necessaria espressione dell'incapacità di accogliere in un solo istante e compiutamente il dono di essere e la conseguente necessità di passare attraverso stadi di incompiutezza e di imperfezione. Di fatto questi passaggi esigono sconvolgimenti delle cose create, scomparsa di viventi e dolori di animali. Si può esprimere questa condizione come lo sforzo delle cose per giungere al proprio compimento o, per dirla con Teilhard de Chardin, "l'angosciante sforzo verso la luce e la coscienza" (2). Occorre evitare però la tentazione di dire tutto questo dalla parte di Dio e parlare quindi della fatica di Dio, o della sua sofferenza nella storia degli uomini. Sono metafore e nulla più.

D'altra parte, occorre anche affermare la possibilità di stabilire i limiti dell'azione di Dio, non perché si conosca la portata della sua azione creatrice, ma perché si intravede la resistenza del nulla al divenire della creazione. Se una maestra volesse comunicare ai suoi alunni di prima elementare tutto ciò che è necessario per sostenere l'esame, potrebbe farlo in un solo giorno, ma gli alunni non potrebbero capire e interiorizzare nulla di quanto viene loro detto. Non tanto perché la maestra non espone bene i dati da apprendere, ma perché gli alunni non hanno capacità di accogliere le offerte che vengono loro fatte. Analogamente, per dirla ancora con Teilhard de Chardin: "Non è affitto per impotenza ma per la stessa struttura del Nulla, sul quale si dispiega, che Dio per creare non può procedere che in una sola maniera: ordinare, unificare poco a poco, sotto la sua influenza attrattrice, utilizzando il gioco probabile dei grandi numeri, una immensa moltitudine di fattori". La contropartita di questa difficoltà o resistenza del nulla di fronte a Dio sono appunto "le disarmonie o le decomposizioni fisiche nel mondo previvente, la sofferenza presso i viventi, e il peccato nell'ordine della libertà" (3).

Oggi il problema del male è quindi completamente capovolto: non ha più senso interrogarsi sulla sua origine, perché il male nella prospettiva evolutiva è il dato primitivo, è il limite delle origini. Il limite sta nel fatto che noi non abbiamo gli spazi per accogliere la forza creatrice in tutta la sua pienezza; per farlo abbiamo bisogno di lunghissimo tempo. Anche l'evoluzione è avvenuta in tempi lunghissimi: la formazione del carbonio ha richiesto almeno dieci miliardi di anni, altri cinque miliardi di anni sono stati necessari affinché si venissero a creare le condizioni idonee alla vita e allo sviluppo e solo molto dopo si è pervenuti a quella complessità che è l'uomo. Noi abbiamo necessariamente bisogno del tempo perché non possiamo accogliere tutto in un istante; di conseguenza il male, il limite, l'imperfezione, l'inadeguatezza ci accompagna continuamente e quindi anche la forza creatrice può esprimersi solo attraverso forme limitate, inadeguate e caotiche.

Il problema fondamentale quindi non è quello dell'origine del male, ma di come uscirne. Per la fede la figura dominante di Dio non è quella del Creatore bensì del Salvatore, di Colui che, con fatica, vincendo le resistenze del nulla, del vuoto, del peccato conduce la realtà alla sua pienezza (se non si verificano involuzioni, resistenze, rifiuti). Il dono della vita è troppo grande per essere accolto in un solo istante. L'uomo può farlo suo solo progressivamente, a frammenti, attraverso eventi storici successivi. Ciò non significa che la storia, procedendo, conduca l'uomo automaticamente alla piena conoscenza e alla sua pienezza. Nessun passato infatti, può contenere i principi sufficienti per il futuro dell'uomo. Ogni giorno l'offerta creatrice di Dio è necessaria ed essa può essere accolta in modo sempre più perfetto. Anche la stessa capacità di accoglienza è dono, frutto cioè della azione creatrice e gratuita di Dio, che sollecita libertà. L'azione dell'uomo non è solamente una risposta alle richieste della storia, ma anche epifania della perfezione di Dio, emergenza della sua azione creante, espressione del suo amore. La storia, in questa prospettiva costituisce il luogo dell'offerta continua di cui l'uomo ha bisogno per diventare se stesso, lo spazio di una perenne incarnazione.

NOTE

(1) "Il Male d'altra parte in tutte le sue forme... cessa teoricamente d'essere uno scandalo, dal momento in cui, poiché l'evoluzione diventa una Genesi, l'immensa sofferenza del mondo appare come il risvolto inevitabile, o meglio ancora come la condizione, o ancora più esattamente come il prezzo di un immenso successo": TEILHARD DE CHARDIN P., Comment je vois, §30, in Les directions de l'avenir, in Oeuvres 11, Seuil, Paris 1973, p. 212. Cfr. anche Un seuil mental sous non pas. Du cosmos à la cosmogénèse, 15 marzo 1951, in L'activation de l'energie, Oeuvres 7, Seuil, Paris 1963, pp. 267-268: L'origine du mal, che conclude: "Il male, effetto secondario, sotto-prodotto inevitabile, del cammino di un Universo in evoluzione!", p. 268.
(2) TEILHARD DE CHARDIN P., Lettera del 6agosto1915 a Margherita Teilhard Chambon, in Genèse d’une pensée. Lettres 1914-1919, Grasset, Paris 1961, p. 76.
(3) TEILHARD DE CHARDIN P , Comment je vois, §30, in Les direction de l'avenir, in Oeuvres 11, Seuil, Paris 1975, p. 212.

Conclusione: se i tempi sono tristi, è tempo di speranze

Per concludere, vorrei richiamare l'assoluta necessità di un'esperienza di fede per cogliere il senso del bisogno di Dio, altrimenti esso resta un'esigenza insoddisfatta, ma non vissuta; proclamata e letterariamente influente, ma non scoperta all'interno della propria vita, mentre solo nella risposta trovata si può cogliere il senso pieno della domanda. Quando, giungendo alla soglia preliminare della nostra interiorità, scopriamo la fonte di vita che ci riveste, "il più" che può diventare la nostra esistenza, la verità che può irrompere, ciò non è dovuto al fatto che noi siamo buoni o perfetti, ma al fatto che la vita contiene ricchezze molto più grandi di quelle che noi abbiamo espresso. Anche l'umanità è in processo; pensate di qui a qualche migliaia d'anni, se l'umanità non si distrugge o non distrugge la vita sulla terra, quali caratteristiche inedite noi potremo avere! Quali saranno dunque le caratteristiche dell'umanità futura? Dipenderanno dalle scelte che noi compiamo, dalla fedeltà che noi esercitiamo.

Per questo siamo sollecitati a prendere coscienza della nostra responsabilità: noi possiamo distruggere la vita o consentirle di esprimersi attraverso forme nuove e migliori. Dalle nostre scelte dipende non solo il nostro futuro personale ma quello dell'umanità intera.

Le qualità nuove che l'umanità potrà avere dipendono dalla fedeltà con cui noi oggi accogliamo la forza della vita o la rifiutiamo, sviluppiamo le potenzialità che contiene o le disperdiamo.

Il problema di Dio diventa quindi l'impegno della nostra fedeltà alla vita affinché nulla del suo dono vada perduto nella nostra piccola esistenza, ma tutto porti frutto: per noi e per quelli che verranno dopo di noi. Solo così saremo strumenti della presenza di Dio, ambiti cioè della sua epifania: questo non solo renderà significative e plausibili tutte le nostre speranze, ma renderà, possibile il futuro dell'umanità intera.

(da Vita monastica, n. 225, ottobre-dicembre 2003, pag. 81-98)

 

 

Letto 2713 volte Ultima modifica il Martedì, 20 Settembre 2011 19:21
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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