Religioso Marista
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Vedere Dio
di Franco Gioannetti
Angelo Silesio in "Il pellegrino cherubico" scrive: "Tu dici che vedrai Dio e la luce: stolto, mai lo vedrai se non lo vedi già ora!".
Vedere Dio è accorgersi che c’è e comprendere che ognuno deve cercarlo dentro di sé.
La mistica, esperienza soprannaturale che si svolge nelle profondità dell’incontro uomo-Dio, è il tentativo di cogliere appunto l’esperienza che l’uomo ha fatto e fa di questa esperienza misteriosa ma anche luminosa.
La mistica è acquisire conoscenza di come i mistici sono stati capaci, perché aperti al divino, di vivere e di raccontare le meraviglie di Dio, di aprirsi all'intimità più profonda con il Dio che li ha creati.
Mistici ce ne sono stati, ce ne sono, ce ne saranno perché pensare misticamente è un bisogno insopprimibile della vita.
L’uomo è fatto ad immagine di Dio, perché allora non pensare che in ogni uomo vi sia capacità di provare qualcosa della presenza divina?
Questa immagine è tesa al raggiungimento della somiglianza con Lui.
Questa immagine, per noi cristiani, è un dono ricevuto con l’essere. La somiglianza si realizza sotto l’influsso dello Spirito Santo, in dipendenza dall’incarnazione redentrice.
La pace, gli slogan e il cuore nuovo
di Gerolamo Fazzini
Dinamismi comunitari inceppati
Il coraggio di confrontarsi
di Ennio Bianchi
La parresia, ossia la franchezza, l’apertura e la libertà di parlare, spesso è sopraffatta dalla paura di esporsi. In questo modo ne soffre il dialogo e si rinuncia a costruire insieme quella comunione che è fondamento dello stare insieme come Chiesa e come comunità.
«Se vuoi stare a galla, devi fare il morto» ci diceva in un serissimo corso di esercizi spirituali un dotto e arguto teologo e pastoralista. Il detto (oculatamente tenuto in grande considerazione in molti "palazzi") fotografa molte comunità ecclesiali e di vita consacrata, dove spesso esporsi troppo con le proprie convinzioni genera diffidenza, sospetti, emarginazioni e, per coloro che ci tengono, lo stop alla carriera.
Per questo la tradizione religiosa ha generato un'astuta e accorta prassi, piuttosto frequente nelle comunità cristiane: strategici silenzi, tattici mutismi, conniventi sorrisi, scaltri compromessi. Il tutto, magari, accompagnato da qualche mormorio, ma privato e circospetto e comunque sempre aperto - caso mai lo si venisse a sapere - a multiformi intendimenti e interpretazioni.
Atteggiamenti senz'altro avveduti per stare in linea con le indicazioni "superiori", ma contrari alla parresia biblica. Termine per molti alquanto ostico (e non solo linguisticamente), ma che tradotto connota le doti che dovrebbero essere in gran voga nelle Comunità di Cristo, considerato che nella parola di Dio esso significa franchezza, apertura, libertà di parlare, virtù che sono o dovrebbero essere una caratteristica della Chiesa di Cristo.
VIRTÙ DEL DISCEPOLO DI CRISTO
Un accenno soltanto alla parresia nell'AT, che pure ha pagine formidabili, rivelatrici della libertà e della sincerità che guidano il vero innamorato della verità di Dio. I profeti sono lì a dirci con quale forza e indipendenza di spinto occorre comunicare (in qualsiasi situazione esistenziale e sociale) la parola di Dio e le proprie convinzioni, senza tenere conto delle conseguenze personali, con l'atteggiamento etico dell'uomo libero, afferrato da Dio e che non teme di esporsi pubblicamente, sia nei palazzi del potere politico che nei palazzi del potere religioso. Nei salmi risuona più volte la voce “impertinente” del credente che sì rivolge a Dio per interrogarlo sul suo silenzio, sulla sua sordità alle preghiere, sul suo ritardo a fare giustizia.
Nel NT il termine (vi compare 31 volte) risplende in tutta la sua ricchezza e importanza. Il modello di parresia è Cristo stesso: l'intera sua predicazione è un parlare apertamente, senza sottintesi e fughe nel vago, delle esigenze del Regno, delle distorsioni portate dalle tradizioni alla genuinità e all’originalità della parola di Dio, delle ipocrisie di certi comportamenti, dell’insensibilità alla legge di Dio. Più volte deve intervenire con fermezza per chiarire ai suoi discepoli recalcitranti la natura della sua missione per richiamare senza mezzi termini la necessità della croce. Una vita, quella di Cristo, all'insegna della libertà interiore di proclamare le novità del Regno nella storia dell'uomo.
Ma i vangeli documentano anche il comportamento franco dei discepoli con Gesù, come quando essi - si fai portavoce Pietro - lo rimproverano apertamente per le sue parole che preannunciano la sua morte sulla croce. Ovviamente sbagliano, ma il fatto testimonia la circolazione di una libertà dialettica all'interno del gruppo, che non esita a contestare anche il venerato Maestro.
La Chiesa dei primi tempi respira o adotta - sia verso l'esterno che al suo interno - la parresia di Cristo, i discepoli annunciano con franchezza le opere di Dio, noncuranti delle persecuzioni, delle intimidazioni, consapevoli che non possono tacere le verità apprese. E resta proverbiale e paradigmatico lo scontro a viso aperto tra Paolo e i "conservatori" della religione e morale tradizionali e l'onestà e la schiettezza con le quali il problema è stato trattato e risolto. Inoltre le sue lettere lasciano chiaramente trasparire il dialogo, la schietta circolazione di idee, ma anche gli scontri e le diatribe, con i membri delle chiese da lui fondate. Un rapporto tra persone libere.
Franchezza, audacia, coraggio sono tutte espressioni della parresia e soltanto attraverso una sana manifestazione di queste virtù arrivano le novità di Cristo. Tacere, glissare vuol dire restare nel ricevuto, con la comodità e con il timore di chi non vuole essere libero, ma ubbidire passivamente, e di chi si rassegna a non essere portatore di qualcosa di nuovo.
L'ardire del discepolo di Cristo non è superbia, ma consapevolezza umile di essere figlio di Dio e quindi di avere il diritto di stare in piedi di fronte all'uomo e di avere il dovere di comunicare quanto - in coscienza - sì sente di dire per essere fedele a se stesso, in Dio.
Limitiamoci ad alcune brevi considerazioni a partire dal Vaticano II che - come noto - è stato un concilio essenzialmente ecclesiale e che ha messo in risalto l'uguaglianza sostanziale di tutti i battezzati, parlando di popolo di Dio.
VIRTÙ DEL POPOLO DI DIO
Di qui è partita la riflessione teologica che ha evidenziato che la “comunione” è l'idea centrale e fondamentale dei documenti conciliari, con la logica conseguenza che, essendo la Chiesa comunione, deve esserci partecipazione e corresponsabilità per tutti i suoi membri. Condivisione totale che non può esistere senza la comunicazione aperta e il dialogo libero e sincero tra i suoi componenti.
Non fanno certo difetto i documenti del magistero che ribadiscono alcune verità dell'essere popolo di Dio. Le indicazioni sono allettanti - sulla carta - e attendono ancora, in molte comunità ecclesiali e particolarmente religiose, di essere prima conosciute e poi seguite. Ne richiamiamo il senso sintetico globale, ma rivelatore, cogliendolo da vari documenti:
- la comunicazione e il dialogo sono indispensabili per l'efficienza della vita della Chiesa;
- il dialogo e la comunione nella Chiesa richiedono particolare attenzione all'opinione pubblica dentro e fuori della comunità ecclesiale;
- se l'opinione pubblica venisse a mancare mancherebbe qualcosa alla natura della Chiesa;
- i cattolici debbono essere coscienti di avere quella libertà di parola e di espressione che si fonda sul senso della fede e della carità;
- il libero dialogo non nuoce certamente alla saldezza e unità della Chiesa, anzi favorisce la concordia di intenti e di opere;
- si deve riconoscere - tenendo presente che l'opinione pubblica e il dialogo sono essenziali per la Chiesa - che i fedeli hanno il diritto di ottenere quelle le informazioni indispensabili per affrontare la loro responsabilità nell'ambito della vita ecclesiale.
Le linee generali per una bella e diffusa parresia sono - sulla carta, ripetiamo - tracciate. Attendono ancora, in molti ambiti della vita ecclesiale di essere applicate.
Al riparo della parola di Dio e incoraggiata dal magistero della Chiesa, la parresia dovrebbe dilagare nelle comunità religiose, anche perché tutte ci tengono a fregiarsi della qualifica di "famiglia".
DELLA "FAMIGLIA" RELIGIOSA
Ora nelle famiglie - quelle autentiche - si parla, si dialoga, si discute, magari ci si scontra e ci si arrabbia, ma sempre con l'obiettivo - dichiarato e riconosciuto - di cercare il bene di tutti.
Le parole di Cristo: «Sia il vostro parlare sì, sì, no, no» vogliono pure significare qualcosa: intendono richiamare alla veracità e alla sincerità del dialogo, proclamare che la relazione autentica con Dio e con gli uomini può fondarsi soltanto su una parola e un atteggiamento trasparenti e schietti. La prudenza (niente affatto cristiana) di certi comportamenti rivela il desiderio di non avere fastidi che rovinino la tranquillità esistenziale conquistata dopo anni di presenze defilate nei cantucci della comunità, quando non manifesta il sostanziale vuoto (colpevole perché cercato nel tempo) di proposte da presentare.
Le parole astratte, sfuggenti, prudenti non coinvolgono più di tanto il nostro essere, ci lasciano, psicologicamente e di fatto, ai margini dei problemi e degli interessi reali della comunità: sono chiacchiere che non dicono il significato profondo di quello che sentiamo e viviamo personalmente e che sogniamo per la nostra vita di consacrati. In questo caso nascondiamo sempre qualcosa di noi stessi e quindi ci rifiutiamo di donarci, con le nostre ricchezze e povertà, alla comunità.
Il rinnovamento tanto auspicato della vita consacrata passa anche, e in gran parte, attraverso il coinvolgimento coraggioso e responsabile - anche questo è parresia - di tutti i religiosi nei problemi in discussione. Restare ai margini svela il poco o il nessun interesse reale alla famiglia nella quale si vive e non costruisce una realtà condivisa perché discussa, partecipata, comunicata. La parresia dichiara che i religiosi sono dei credenti nella nobiltà dei figli di Dio e nella libertà interiore che Gesù ha portato. E la sua accettazione da parte di chi è proposto alla comunità esprime il riconoscimento della dignità del discepolo di Cristo e la volontà di condivisione, di revisione, di corresponsabilità. In una parola che il dialogo è l’unica via per edificare una comunità dove non vi siano ostracismi, relegazioni, livelli e gradi più o meno percettibili, ma fratelli, uniti dalla stessa missione di edificare, il meno peggio possibile, la comunità di Cristo.
(da Testimoni, 7, 2004)
Centralità della prospettiva ecumenica
nei documenti del concilio
di Lorenzo Cappelletti
I libri della Bibbia
e gli "apocrifi"
di Gaetano Castello
Una qualunque edizione cattolica della Bibbia elenca settantatre libri, divisi nelle due grandi sezioni dell'Antico (quarantasei libri) e del Nuovo Testamento (ventisette libri). Anche la loro successione è costante. È tuttavia naturale, per la natura stessa della Bibbia, per il suo lungo processo di formazione durato oltre un millennio, che la sistemazione dei libri riconosciuti dalla Chiesa come "ispirati" sia avvenuta nel tempo. Può meravigliare sapere che il "canone", la lista completa dei libri biblici, fu fissato in maniera autorevole e definitiva solamente nel 1546, con i Decreta de Sacris Scripturis del Concilio di Trento. Prima di quel momento non mancava certamente il riferimento a liste ritenute ufficiali, ma la crisi determinata all'interno del mondo cristiano con la riforma protestante che rifiutò la canonicità di alcuni libri, impose con urgenza il problema di stabilire in maniera definitiva "semel pro semper", quali fossero i libri ritenuti "ispirati" dalla Chiesa.
Il canone della Scrittura
Con questo breve accenno al problema del canone biblico, risulta chiaro che anche per questo aspetto bisogna parlare della Bibbia in termini storici. È già accaduto quando si è accennato alla formazione della Bibbia ed alla sua natura divino-umana. E per questa sua caratteristica fondamentale che la Sacra Scrittura non può essere assimilata a una sorta di scritto preconfezionato da Dio e semplicemente consegnato nelle mani dell'uomo. La collaborazione tra Dio e l'uomo iniziò già prima che nascessero i testi sacri, quando chiamò Abramo, quando svelò a Giacobbe il destino suo e del suo popolo: continuò nell'impulso divino che mosse alcuni uomini a mettere per iscritto esperienze e parole che avrebbero continuato a rivelare nel tempo la volontà e la natura di Dio; proseguì nell'opera di discernimento a cui i credenti furono chiamati per accogliere le divine Scritture distinguendole da tanti scritti simili per forma ma non ispirati da Dio. Questo processo continua oggi con l'azione dello Spirito che accompagna la lettura e la comprensione delle sacre Scritture nella comunità dei credenti, e nel servizio di discernimento, affidato ai successori degli apostoli, sull'interpretazione autentica della Scrittura.
È in quest'ampio contesto, storico e di fede, che va affrontato anche il problema del canone, altrimenti incomprensibile. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, al n. 8, afferma perciò che "la stessa tradizione (che trae origine dagli apostoli) fa conoscere alla Chiesa il canone integrale dei libri sacri".
A determinare la canonicità, il riconoscimento cioè che quei libri sono frutto dell'azione ispiratrice dello Spirito Santo, non fu un unico e determinato elemento, ma l'uso e l'accoglienza di essi nelle comunità cristiane vagliato dal discernimento attento di chi nellaChiesa continuò la missione degli apostoli.
Il canone ebraico
La definizione del canone biblico fu dunque graduale. Già molto tempo prima di Gesù Cristo, nel mondo ebraico venivano venerati come scritti sacri i rotoli della Torah, i primi cinque libri della Bibbia definiti dai cristiani, con termine greco, Pentateuco. La loro origine divina non fu messa in dubbio nemmeno nelle travagliate vicende storiche che portarono a conflitti e separazioni all'interno stesso dell' ebraismo. Così, per es., i samaritani, pur divisi ed in lotta con i giudei, conservarono e venerarono sempre, fino ad oggi, la Torah come parola di Dio. Anche per gli scritti profetici, che per gli ebrei comprendono i "profeti anteriori" (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele e 1 e 2 Re) ed i "profeti posteriori" (Isaia, Geremia, Ezechiele, e i dodici profeti minori) vi sono testimonianze molto antiche circa il loro uso liturgico ed il riconoscimento della loro ispirazione.
Ne dà testimonianza, in particolare, il prologo del Siracide che parla, già alla sua epoca (II sec. a.C.), di Torah, Profeti e Scritti. Proprio la terza categoria fu quella più fluttuante. Comprendeva infatti libri di diverso genere, dai salmi ai libri sapienziali, a libri di tipo storico. Dall'altra parte vi sono testimonianze antiche circa l'uso di libri che poi non entreranno nel canone ebraico né in quello cristiano. Ciò non deve meravigliare. La definizione del canone avvenne, come si è detto, non per un principio unico prestabilito, ma per la graduale, comune presa di coscienza che alcuni di quei libri presentavano autenticamente la parola di Dio a differenza di altri che pure utili, consigliabili per la consultazione e per l'edificazione, non esprimevano autenticamente la parola di Dio.
Gesù e i suoi discepoli condivisero, all' inizio dell' era cristiana, quest'uso spontaneo delle scritture sacre dei giudei, il cui primo posto era senza dubbio assegnato alla Torah. La liturgia sinagogale, come riferiscono gli stessi Vangeli, sin da allora prevedeva la lettura di pagine dei profeti, come Gesù stesso ebbe modo di fare (cf Lc 4,16-19). Tuttavia ancora a quell'epoca non si può parlare di un "canone" ebraico, di qualcosa che corrisponda alla nostra idea di una lista ben fissata e definita di tutti i libri ispirati. Il bisogno di una definizione dovette farsi sentire soprattutto nel conflitto crescente tra sinagoga e Chiesa. Il fatto che i cristiani si ritenessero gli eredi legittimi delle scritture di Israele portò, tra le prime conseguenze, al rifiuto ebraico della traduzione greca della Bibbia detta dei Settanta (in sigla L XX). Il largo uso che i cristiani fecero delle scritture ebraiche nella loro versione greca, portò i giudei a sostituire quella traduzione, nata per i tanti giudei sparsi nell'area mediterranea e che comprendevano ormai solamente il greco, con nuove versioni greche comparse nel secondo secolo dopo Cristo (Aquila, Simmaco, Teodozione).
È dunque in questo contesto di tipo polemico, soprattutto a difesa della propria identità, che si andò a mano a mano precisando quali fossero i libri sacri per il mondo giudaico. Il processo di definizione fu sollecitato anche dal grande disastro determinato dai Romani che nel 70 d.C. ad opera di Tito distrussero il Tempio di Gerusalemme, deportarono molti giudei, annientando dal punto di vista organizzativo, politico, militare, religioso, quello che era sino ad allora il mondo giudaico. Dopo una simile catastrofe è indubbio che fosse avvertito con urgenza il problema di una ricostituzione, del recupero della propria identità nazionale e religiosa che dovette passare, tra l'altro, attraverso la distinzione da quel gruppo di giudei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia atteso e che utilizzavano gli scritti sacri dell'ebraismo.
Gli ebrei esclusero così alcuni libri di cui non si conosceva l'originale ebraico o che furono addirittura composti in greco. Si tratta dei cosiddetti deuterocanonici: Tobia, Giuditta, i due libri dei Maccabei, Baruk ed epistola di Geremia ( = Bar 6), Siracide, Sapienza, con le sezioni di Daniele ed Ester scritte in greco (Dn 13-14; Est 10,4-16,24). È per questo che la Bibbia ebraica presenta sette libri in meno rispetto all'AT dei cattolici. Al canone ebraico si uniformeranno più tardi i riformatori protestanti che definiranno "apocrifi" i libri deuterocanonici sopra elencati, escludendoli dalle loro Bibbie.
Come si diceva, la Chiesa primitiva condivise la comune fede ebraica nell'autorità dei libri ritenuti sacri. Vi sono testimonianze, anche presso alcuni antichi autori cristiani, circa l'uso di libri che non entreranno a far parte del canone biblico, né di quello ebraico né di quello cristiano; il caso più evidente è quello della lettera di Giuda che al v. 14 cita il libro di Enoch, uno scritto giudaico che non entrerà nel canone ebraico né in quello cristiano. Segno evidente che l'estensione del canone dell'AT andrà chiarendosi solo gradualmente.
Il canone del NT
Sempre in questa chiave storico-religiosa, va individuata l'origine del canone del Nuovo Testamento. Anche per le comunità cristiane delle origini abbiamo testimonianze di un uso antichissimo e costante di alcuni libri ritenuti universalmente come ispirati (è il caso dei Vangeli, delle lettere di Paolo), ed un uso diversificato di altri libri, ritenuti sacri ed utilizzati in alcune comunità e non in altre.
È il caso della lettera agli Ebrei, quella di Giacomo, la seconda lettera di Pietro, la seconda e la terza di Giovanni, quella di Giuda e l'Apocalisse.
Al contrario, vi furono testi utilizzati da alcune comunità che saranno abbandonati e non riconosciuti, alla fine, come testi ispirati. Anche per il NT non esistette un unico criterio per decidere della canonicità, benché l'origine apostolica (reale o apparente) e la conformità degli scritti alla fede apostolica dovettero essere elementi importanti nel discernimento.
La formazione del canone dipese, insomma, dalla coscienza dell'ispirazione. Nella misura in cui ebraismo cristianesimo si andarono organizzando e uniformarono gli usi nelle diverse comunità, sorse il problema di elencare con precisione i libri da proporre alla comunità dei credenti come "parola di Dio". Testimonianze di questa esigenza risalgono a tempi molto antichi. È il caso della lista contenuta nel famoso "Frammento muratoriano", del II secolo d.C.; della lista di Origene (III sec.) o di quella di Eusebio (IV sec.). Tuttavia solo alla fine del IV sec., con le liste di Atanasio e di Agostino, e soprattutto con quelle dei Concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) si avrà la lista lunga valida nell'Occidente cristiano. Si tratta del canone che sarà poi ripreso dal Concilio di Firenze (1441).
Nessuno dei Concili citati aveva tuttavia affrontato il problema in maniera esplicitamente definitiva, quasi non avvertendone il bisogno, che invece si presentò come urgenza quando i riformatori esclusero dal canone i libri deuterocanonici. Essi designarono, tali libri con il nome di "apocrifi", riservato dai cattolici a quei testi che pur trattando di argomenti simili ai libri biblici, ed in forma simile, furono esclusi dal canone delle Scritture Sacre perché non riconosciuti come libri "ispirati".
Questi libri conservano naturalmente un interesse del tipo storico e culturale sempre meglio apprezzato, nella misura in cui si distingue anche per essi il genere letterario, le circostanze e le finalità per le quali vennero scritti. In relazione all’ AT è il caso di quella vasta produzione letteraria che si sviluppò nell’ambito della cosiddetta "apocalittica giudaica", tra il II sec. a.C. ed il I d.C.
Un caso particolarmente interessante per i cristiani è quello dei cosiddetti Vange li apocrifi da cui derivano addirittura notizie mantenute nell'ambito della tradizione cristiana (come per es., le notizie sull'infanzia e sui genitori di Maria, Gioachino è d Anna, dei quali si ha notizia nel Protoevangelo di Giacomo, del 200 d.C., ca.).
Sempre relativamente ai vangeli apocrifi non è difficile notare come si differenzino notevolmente dai Vangeli canonici. Mentre questi ultimi conservano una certa sobrietà nel raccontare le vicende di Gesù di Nazaret, finalizzata alla testimonianza di fede, vero scopodegli scritti evangelici (cf Gv 20,30-31), gli apocrifi abbondano di tratti descrittivi che hanno a che fare con la ricerca del prodigioso.
Ne sono testimonianza alcune storie di cui ritroviamo l'eco in racconti tramandati soprattutto ai bambini sull'infanzia di Gesù, o alcune rappresentazioni della passione di Gesù (per es. il Vangelo di Nicodemo) con evidenti tendenze pro-romane, in cui Pilato, rappresentante del vittorioso mondo di Roma, appare quasi come un eroe del cristianesimo, vinto dalla protervia giudaica. Altri scritti apocrifi, come il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo ecc., ebbero una più chiara origine di elaborazione gnosticheggiante del messaggio cristiano. Proprio l’uso di alcuni di questi scritti da parte di gruppi eterodossi fu uno degli elementi che ne determinarono l'esclusione dal canone.
Oggi nel mondo protestante le Bibbie presentano l'AT nella forma ridotta dei primi riformatori. Come nei primi tempi della Riforma, tuttavia, i sette libri deuterocanonici vengono spesso raccolti in appendice all'AT chiarendo che essi sono esclusi dal canone ebraico. Non si presentano invece differenze per quanto riguarda il canone del NT.
Proprio la questione del canone biblico, uno dei motivi originari della rottura tra cattolici e protestanti, si presenta oggi come un campo fecondo di riflessione e di la dialogo ecumenico.
(da Parole di vita)
Il fuoco sacro della pace
di Marcelo Barros
Parecchi moralisti provano ancor oggi delle difficoltà a vedere nel Cristo la condizione di possibilità di una morale per tutti. A fianco di autori reticenti o anche esitanti, ci sono quelli che dichiarano chiaramente che la messa in atto di una morale centrata sulla persona del Cristo sia di ostacolo alla concezione di una morale valevole per tutti.
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)
(Passi scelti)
LE SFERE CELESTI (SEPHIROTH)
(I - 246b)
"Simile ad una cerva veloce è Naftalì, che pronuncia discorsi eloquenti" (Gen. XLIX, 21); così è scritto: "il Tuo parlare è grazioso" (Cant. IV, 3).
In effetti è la voce che guida il discorso e non c e voce senza discorso. Quella voce è emessa da un luogo profondo in alto ed è inviata dinanzi al discorso, per guidarlo, perché non c'è voce senza discorso, né discorso senza voce, come un'espressione generale ed una particolare, che servendosi reciprocamente di spiegazione, vengono a determinare la regola. Questa voce esce da sud e va a guidare l'occidente, prendendo così possesso di due settori, secondo quanto è scritto: "Per Naftalì disse: Naftalì gode il favore ed è pieno della benedizione di Dio, possiede i territori a occidente ed a mezzogiorno"(Deut. XXXIII, 23). In alto è maschile, in basso è femminile. Infatti è scritto in Gen. XLIX, 21: "Naftalì è simile a una cerva veloce" al femminile, quindi è femminile in basso. Ma più avanti nello stesso verso è scritto: "egli che pronuncia discorsi eloquenti": "egli che pronuncia" è scritto al maschile, non "essa che pronuncia", quindi è maschile in alto.
Vieni e considera. Il pensiero abissale (machshabà) è il principio di tutto. Per il fatto che è pensiero, si trova all'interno, segreto e non palese. Spingendosi oltre il pensiero giunge laddove si trova il respiro (ruach); e quando giunge in quel luogo prende il nome di parola interna (binà) e pur non essendo segreta come il pensiero precedente, è in qualche misura segreta e non udibile. Il respiro (ruach) si diffonde e produce la voce percepibile formata di fuoco, acqua e respiro e sono anche nord, sud ed oriente. La voce comprende tutte le altre facoltà. La voce guida il discorso, che esprime la parola nella sua articolazione; infatti la voce è emessa dal luogo del respiro (ruach) e viene a guidare la parola, sicché le parole siano pronunciate giustamente.
Se tu poi porgerai mente alle sephiroth, vedrai che il pensiero abissale, la parola interna, la voce percepibile ed il discorso sono la stessa cosa. Tutto è uno. Il pensiero è il principio di tutto e non c e separazione, ma tutto è uno ed il legame è uno. Questo è il pensiero reale legato al "nulla" (ayn), che non ha separazione in eterno, come è scritto: "Il Signore è uno, ed il Suo nome è uno" (Zacc. XIV, 9).
(I - 74 a)
Disse Rabbi Shim'on bar Yochai: Come sono care le parole della Torà! Beato chi si occupa di esse e sa procedere per la via della verità! "E la casa nel suo essere costruita..." (1Re VI, 7). Quando fu intenzione del Santo, che benedetto egli sia, di conferire gloria alla propria gloria, nel suo pensiero sorse la volontà di diffondersi. Il pensiero quindi si diffuse dal luogo dove era pensiero abissale, segreto, non rivelato, fino a stabilirsi nella sede della gola, il luogo che fluisce sempre nel segreto dello spirito vivente. Allora, quando il pensiero si diffonde e si stabilisce in questo luogo, prende il nome di Dio vivente, così come è scritto: "egli è il Dio vivente" (Gen. X, 10). Volendo ancora diffondersi e manifestarsi, da lui scaturiscono il fuoco, il respiro e l'acqua e ne esce inoltre Giacobbe, uomo integro, cioè la voce che è emessa ed è percepibile. Di qui, il pensiero, che era nascosto, segreto, si fa chiaramente percepibile. Si diffonde ulteriormente il pensiero per manifestarsi di più e così la voce percepibile batte alle labbra. Allora ne fluisce il discorso che tutto perfeziona e tutto rende manifesto. Ciò vuol dire che tutte le sephiroth sono il pensiero segreto, che ne è all'interno, e tutto è uno. Dato che quella diffusione del pensiero è giunta a realizzarsi come discorso articolato, grazie alla voce percepibile, per questo è scritto: "la casa nel suo essere costruita" (1Re VI, 7). Non è infatti scritto: "quando fu costruita", ma "nel suo essere costruita". Di volta in volta.
(Zohar chadash - 43b - Tiqquné Zohar)
L'anima (neshamà) si trova nella sephirà dell'intelligenza (binà) e su di essa aleggia il pensiero che non ha fine. La sfera dell'intelligenza non ha immagine, né figura, né somiglianza, perché costituisce il mondo futuro. E questo non ha né corpo, né immagine, come hanno insegnato i dottori della Mishnà: il mondo futuro non ha né corpo, né corporeità (Talmud: Berakhot 17a). L'anima si veste nel trono, che è l'uomo, e nei suoi quattro angoli. A proposito della sfera dell'intelligenza è detto: "Dato che non avete visto alcuna immagine" (Deut. IV, 15), ed ancora: "Mai occhio vide un Dio all'infuori di te" (Is. LXIV, 3). Grazie al pensiero divino i profeti si figuravano tutte le immagini e le raffigurazioni al di sotto di quella, mentre al di sopra di quella non raggiungevano alcuna immagine. Se già in esse non potevano afferrare alcuna raffigurazione e neppure una pallida sfumatura, tanto più al di sopra di quella.
(II - 164b - 165a)
Rabbi Chiyà iniziò a dire: "Tu ti ammanti di luce, come se fosse un drappo, stendi i cieli come una cortina" (Sal. CIV, 2). La spiegazione di questo verso è la seguente: quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, si ammantò della luce primitiva e con essa creò il cielo. Considera dunque. La luce e l'oscurità non stavano insieme, ma la luce era a destra e l'oscurità a sinistra. Cosa fece il Santo, che benedetto egli sia? Mescolò insieme questi due elementi e creò il cielo. Cos'è dunque il cielo? E il fuoco e l'acqua, mescolati insieme, sicché la pace sia stabilita tra loro. Quando furono insieme, Dio li distese come una cortina, formando con essi la lettera WAW, che è chiamata quindi "cortina". Il verso di Es. XXVI, 1 parla di "cortina", perché da quella lettera si diffuse la luce che formò le cortine, così come è scritto: "Farai il Tabernacolo composto di dieci cortine" (Es. XXVI, 1). Inoltre vennero distesi sette firmamenti, nascosti nel nascondiglio eccelso, come hanno spiegato, ed un firmamento al di sopra di essi. Questo firmamento non e raffigurabile, non è collocato in un luogo manifesto, né si può immaginare con il pensiero. E nascosto ed illumina tutti gli altri, guidando i loro tragitti; ognuno secondo quanto gli è proprio. Non c'è chi sappia o veda oltre questo firmamento e l'uomo deve chiudere la bocca alla parola ed astenersi dall'indagare con il pensiero. Chi provi ad indagare procede a ritroso, perché non c'è chi possa sapere.
Le dieci cortine sono i dieci firmamenti. Questi costituiscono le cortine del Tabernacolo che sono dieci e si lasciano conoscere dai sapienti . Chi li conosce medita sulla grande sapienza e sui misteri del mondo e risale nella meditazione oltre quello stadio raggiungibile da parte di ognuno. Non può tuttavia arrivare a quei due firmamenti che si trovano a destra ed a sinistra della presenza divina (Shekhinà) e con essa sono celati.
(I - 35a)
Rabbi Abbà disse: Perché è scritto: "l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male" (Gen. II, 9)? Sappiamo già che l'albero della vita ha cinquecento anni e che tutte le acque della creazione si dipartono da sotto di esso. L'albero della vita si trova proprio in mezzo al giardino e raccoglie tutte le acque della creazione, che poi si dividono da sotto di esso. Infatti il fiume, che di là scorre e scaturisce, benefica tutto il giardino entrandovi. Indi le acque si dividono, prendendo diverse direzioni. Il giardino raccoglie tutte le acque, che successivamente ne escono, dividendosi in basso in diversi rivoli secondo quanto è detto: "essi dissetano tutti gli animali della campagna" (Sal. CIV, 11). Le acque escono dal mondo superiore ed abbeverano le alte montagne del puro balsamo; così come, successivamente, quando giungono all'albero della vita, si dividono da sotto di esso verso ogni direzione secondo il proprio corso.
"E l'albero della conoscenza del bene e del male", perché è chiamato così? Invero questo albero non si trova in mezzo al giardino. E poi "la conoscenza del bene e del male" cosa significa? Dato che esso assorbe l'acqua da due parti e le sa distinguere, come chi sugge il dolce e l'amaro, essendo immerso in esse, viene chiamato albero della conoscenza del bene e del male. Tutte le piante del giardino si appoggiano ad esso e vi si abbarbicano anche altre piante, superiori, che vengono chiamate "cedri del Libano", secondo quanto è scritto: "Si saziano gli alberi del Signore, i cedri del Libano che egli ha piantato" (SaI. CIV, 16). Chi sono i cedri del Libano? Sono i sei giorni superiori, i sei giorni della creazione.
(I - 186a)
Rabbi Yehudà iniziò a dire: "Il Signore tuonò in cielo e l'Eccelso fece sentire la sua voce per mezzo di grandine e carboni infuocati" (Sal. XVIII, 14). Considera dunque. Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, stabili sette colonne sulle quali esso poggiasse. Queste colonne poi, a loro volta, poggiano su una sola colonna, secondo quanto hanno spiegato in base al verso: "la sapienza ha edificato la sua casa, ne ha intagliato le sette colonne" (Prov. IX, 1): e queste poggiano su un'unica base, che è chiamata: "il giusto è un pilastro eterno" (Prov. X, 25). Il mondo è stato creato da questo luogo, che ne costituisce la perfezione ed il fondamento, ed, essendo un punto del mondo, è il centro di tutto. E quale è questo luogo? È Sion, secondo quanto è scritto: "Salmo di Asaf, Dio, il Signore Iddio parla e convoca tutta la terra da dove spunta il sole fin dove tramonta" (Sal. L, 1); dunque da quale luogo? da Sion, secondo quanto è scritto: "Da Sion, il luogo della bellezza più perfetta, è apparso Dio" (Sal. L, 2); da quel luogo che costituisce la perfezione della fede perfetta. Sion è la forza ed il centro di tutto il mondo. Da questo luogo il mondo si perfeziona e si realizza, e dal suo interno trae alimento.
(III - 74a)
Rabbi Chiyà iniziò a dire: "Come il melo tra gli alberi del bosco così è il mio amico tra i giovani"(Cant. II, 3). Questo verso lo interpretino i discepoli. Come è cara la comunità di Israele al Santo, che benedetto egli sia, che la loda con tale espressione. In questo caso c'è da approfondire i motivi per cui egli la loda con l'appellativo di "melo" e non con quello indicante un'altra cosa, differente per colore, per odore o per sapore. Come il melo è di guarigione per tutto, così il Santo, che benedetto egli sia, è di guarigione per tutto. Come il melo si trova tra i colori, così il Santo, che benedetto egli sia, si trova tra i colori superiori. Come il melo ha un profumo più sottile di tutti gli altri alberi, così del Santo, che benedetto egli sia, è scritto: "Il suo profumo è come quello del Libano" (Is. XIV, 7). Come il melo è dolce di sapore, così del Santo, che benedetto egli sia, è scritto: "Il suo parlato è dolcissimo" (Cant. V, 16). Ed il Santo, che benedetto egli sia, ha inoltre paragonato la comunità di Israele ad una rosa , secondo quanto è scritto: "Come rosa tra le spine, così è la mia amica tra le fanciulle" (Cant. II, 2). Rabbi Yehudà disse: Quando i giusti del mondo sono numerosi, la comunità di Israele emana un buon profumo ed è benedetta dal Santo re, mentre la sua faccia si illumina. Quando invece sono numerosi i malvagi del mondo. è come se la comunità di Israele non emettesse buoni profumi e provasse invece l'amaro sapore del male. In quel caso è scritto: "Egli gettò giù dal cielo a terra la gloria di Israele" (Eccl. II, 1), e la sua faccia si oscurò.
(II - 146a - 146b)
È scritto: "Che egli mi baci con i baci della sua bocca" (Cant. I, 2). Perché mai re Salomone, ha voluto introdurre espressioni di amore tra il mondo superiore e quello inferiore, ed ha usato, iniziando la lode all'amore tra di loro, il termine: "Che egli mi baci"? Invero si è già spiegato, e così è in realtà, che non esiste amore tra due spiriti che aderiscono l'uno all'altro, se non nel bacio. Ed il bacio si dà con la bocca, che è la sorgente dello spirito ed il luogo da cui esso esce. Quando si baciano l'uno con l'altro, gli spiriti aderiscono questi a quelli e divengono una sola cosa. Allora l'amore è uno. Nel Siphrà de-Rab Hamnunà, un saggio vegliardo diceva a proposito di questo verso: Il bacio d'amore si diffonde ai quattro venti e i quattro venti si uniscono insieme e si trovano nel mistero della divinità. Poi si innalzano, emergendo in quattro lettere, che sono quelle da cui dipende il santo nome ed inoltre i mondi superiori e quelli inferiori, ed infine la lode che è nel Cantico dei Cantici. E quali sono queste lettere? AHBH (amore). Esse costituiscono il carro eccelso e sono l'unione, l'adesione e la perfezione di tutto. Queste lettere sono i quattro venti e costituiscono gli spiriti dell'amore e della gioia, cui aderiscono tutte le membra del corpo, senza avere affatto mestizia. I quattro spiriti sono nel bacio, ed ognuno di essi è compreso nell'altro. Quando poi uno spirito è compreso nell'altro e l'altro nel primo, divengono infine due spiriti che poi si uniscono. Allora i quattro spiriti sono uniti insieme in una perfetta adesione; scaturiscono l'uno dall'altro e sono compresi l'uno nell'altro. Quando essi si diffondono, vengono a formare di quattro spiriti un unico frutto, cioè un solo spirito che è formato dai quattro spiriti. Questo si innalza, aprendosi un varco attraverso i firmamenti, finché, risalendo, si colloca presso un palazzo che è chiamato palazzo dell'amore. Da questo luogo dipende ogni amore ed anche quello stesso spirito è chiamato così: amore. E quando lo spirito risale, sollecita quel palazzo ad aderire all'alto.
La morte accolta
di Xavier Léon-Dufour S.J.
E' semplice, anche per chi crede nell'aldilà, accogliere la morte? Sono numerosi quelli che non esitano a proclamarlo (ancora recentemente alla televisione ho sentito dichiarare: " Quando c'è la fede, si guarda la morte in faccia, senza paura"). Permettetemi di dubitare di una tale sicurezza, non solo perché viene da persone lontane dall'avvenimento, ma anche perché contraddice i dati del vangelo e perché tende a fare della morte un problema da risolvere, quando invece essa è un mistero davanti al quale dobbiamo umilmente prostrarci.
Si tratta forse semplicemente di "accettare" la morte come ci si rassegna di fronte ad una fatalità? In tal caso dovrei collocarla tra le realtà della condizione umana nella quale mi trovo: razza, situazione sociale, sesso. Ma questa assimilazione della morte alle realtà precedenti è illusoria, perché solo la morte è universale, riguarda tutti gli uomini, anche se si cerca dl eluderla. E' una legge assoluta alla quale tuffi gli uomini sono soggetti. E' sufficiente rassegnarsi, stoicamente, senza sognare un "altrove" che potrebbe deludere?
La mia esposizione verrà sviluppata in tre punti:
I) La morte, disgregazione del mio corpo.
2) La morte, separazione da quelli che amo.
3) La morte secondo la fede cristiana.
1. La morte, disgregazione del mio corpo
La morte mi appare prima di tutto come la disgregazione del mio corpo. B' questa la nostra esperienza, evidente. Per comprendere tale constatazione non serve ricorrere alla definizione dell'uomo come un composto di anima e di corpo dalla quale dedurre che il corpo, assimilato alla materia che noi conosciamo, imputridisce nella terra. Tale definizione infatti potrebbe essere contestata e io preferisco ascoltare il bambino.
M'ispiro per questo punto da una conferenza tenuta anni fa dal dottor Donnars all'Università Popolare di Parigi davanti ad un pubblico per il quale la fede non sembrava essere la principale preoccupazione.
Il bambino fa l'esperienza di un certo numero di tabù: il tabù del sesso, il tabù del denaro ed infine il tabù della morte. Quest'ultimo si manifesta in molti modi, per esempio nell'interesse che suscitano gli escrementi umani in quanto sono la rappresentazione sensibile della presenza nel bambino del rigettato, del disintegrato, della morte. Il tabù della morte si manifesta ancora negli incubi notturni che spaventano il bambino nel sonno; egli si vede alle prese con bestie terribili che vogliono dilaniarlo. Se allora il bambino delira fino ad avere la febbre, se urla di paura è essenzialmente perché si sente incapace di difendersi da solo contro tali attacchi: ha paura di essere fatto a pezzi, dilaniato, distrutto. Perché? Perché di fatto egli non ha ancora una vera personalità, un "io" che lo faccia esistere di fronte agli altri. Così pure quando si rivolge alla mamma con un "tu" è perché si sente chiamare così, Il suo io non è per lui che un tu. L'esperienza del bambino ci mette veramente di fronte a quello che è la morte, vista come disgregazione subita del proprio corpo.
Il bambino, accedendo all'io, finisce ceno per controllare il suo corpo7 per rendersene padrone. Ed è proprio qui che inizia per l'adulto la difficoltà di fronte alla morte. Se il bambino "muore" di paura di fronte all'immaginario, l'adulto invece si crede capace di superare questi incubi grazie all'autonomia che pensa di aver acquisito diventando padrone del suo corpo. L'adulto cercherà quindi di difendere questo corpo che è lui stesso di fronte agli attacchi esterni. Qual è la conseguenza per quanto riguarda 10 sguardo sulla morte? La morte appare come l'obbligo ineluttabile di abbandonare un giorno il proprio corpo, di lasciarlo, di disfarsene, sradicamento doloroso che devo affrontare. Ma è questa l'unica comprensione che posso avere del corpo e della morte?
Con quale diritto infatti assimilo il mio corpo ad una cosa che possiedo personalmente? Il corpo non è piuttosto lo stesso universo che mi include, senza dubbio, ma che è anche messo a mia disposizione perché possa esprimermi ed entrare in relazione, in comunicazione con gli altri uomini e con tutto il creato? Allora il corpo, senza posa collegato con l'universo in divenire, mi appare essenzialmente soggetto al cambiamento: non è forse vero che si rinnova ogni giorno ( più di 50 milioni di cellule, si dice) e nella sua totalità ogni 7 anni ( da i a 7 il bambino, da 7 a 13 l'età di grazia, dai 13 ai 20 l'età così detta ingrata, l'età adulta dopo i 21 e la famosa modificazione dei 7 x 7 anni, cioè i 49 anni)? Perché allora non abituarmi a considerare il mio corpo come il luogo stesso della mia trasformazione, come se attraverso il mio corpo io tendessi ad uno sviluppo di cui ignoro il termine? La morte non potrebbe essere allora concepita come l'estrema trasformazione del corpo? Ci si trova allora di fronte ad un mondo misterioso o almeno ancora sconosciuto, ma non potrebbe essere questo il parto dell'essere definitivo?
Questo morire viene, è vero, dopo una lenta e progressiva degenerazione. E' questa la nostra esperienza. Ma tale esperienza non ne nasconde forse un'altra, quella di un Io che attraverso, tale trasformazione, mantiene la memoria e il sentimento evidente di una identità? E se così stanno le cose, se noi non siamo semplicemente degli "esseri" fatti una volta per sempre, definitivamente, ma delle promesse di essere, la morte non sarebbe più una semplice decomposizione, ma potrebbe essere una realizzazione. Imparare a guardare bene il proprio corpo, significa imparare a vivere bene, significa imparare a morire. In questo caso, non si deve forse impedire che con azioni talvolta generose, ma spesso intaccate da una sottile illusione filantropica, vale a dire l'eutanasia, mi rubino il "mio morire" che non è una fatalità, ma che deve diventare un atto personale positivo? Se entro pienamente nel mio morire, portando a termine così la mia corsa di uomo libero, allora si può dire che la morte è "accolta".
2. La morte, separazione da quelli che amo.
Ma si può dire la stessa cosa se si considera l'altro aspetto, talvolta sconosciuto e tuttavia caratteristico, vale a dire la morte come separazione da quelli che amo? La morte infatti non riguarda solo il corpo, ma colpisce il cuore. Anche in questo caso il comportamento dell'uomo durante la sua vita determinerà il suo atteggiamento al momento del "morire". Guardiamo di nuovo il bambino. Inizia col considerare gli altri e prima di tutto la sua mamma come sua proprietà, come cosa sua. Facendo così non la considera veramente come un "tu", ma come un "me", come un prolungamento, un complemento il cui scopo è di migliorare la sua esistenza. Questa fase è normale: il bambino infatti acquisisce un po' alla volta la sua personalità appoggiandosi sugli adulti, il suo "io" non può strutturarsi senza questa unione con gli altri. Ma l'atteggiamento deve evolvere per non fissarsi in un egotismo senza sbocchi.
Sono purtroppo numerosi quelli che perpetuano questa dinamica infantile e portano sugli altri uno sguardo captativo e interessato partendo da un io che si è fatto il centro del mondo. E' normale, in tali condizioni, di vedere nella morte la perdita irreparabile di quanti sono stati considerati come dei supponi per la propria realizzazione.
Per fortuna tale atteggiamento si può trasformare e di fatto si trasforma con l'acquisizione della maturità. Non è vero che l'amore consiste nel far esistere l'altro e non nell'accaparrarselo? Un po' alla volta l'adulto deve abituarsi a uscire da sé perché l'altro esista di più, deve vivere in "estasi". L'egotismo che mi caratterizza deve in un certo senso morire e sbocciare in un amore autentico. Se cosi stanno le cose, il "morire" potrebbe diventare un'ultima tappa nella trasformazione del mio rapporto con gli altri.
Tuttavia sussiste una grossa difficoltà che mi impedisce di aderire pienamente a questa proposta. Abbiamo detto prima che l'uomo può adattarsi alla morte concepita come piena realizzazione del corpo. Ma è la stessa cosa per quanto riguarda la morte separazione da quanti amo? E' ceno che, aprendosi sempre di più al mistero dell'amore autentico l'uomo impara poco a poco a dimenticarsi fino all'estasi verso l'altro e progredisce cosi verso la chiamata ad una comunione universale. Io mi chiedo se la pressante domanda di presenza al momento del morire non sia l'espressione di un'esperienza straordinaria di Assoluto che getta in una solitudine paurosa perché l'incontro con l'Assoluto presuppone in un primo tempo la radicale separazione da tutti gli esseri. Da qui il gesto unico da parte di chi accompagna il morente: tenergli la mano
Ma rimane un constatazione terribile e dolorosa: la mia scomparsa non aiuterà l'altro a realizzarsi e meno ancora se il mio amore rispettava il suo essere. Devo confessare che sul piano della psicologia, la morte separazione dagli altri rimane un enigma, Tale enigma, la fede può situarlo a condizione che si esprima in un linguaggio valido.
3. La morte, secondo la fede cristiana.
La fede infatti può essere capita male, o almeno espressa male. Così, per esempio, quando si parla di un aldilà consolante o della richiesta di un sacerdote e di "qualche confessione" liberatrice.
Penso tuttavia che la fede cristiana permetta di capire che cos'è l'incontro dell'uomo con Dio, in che consista per lui la morte. Per far questo bisogna inquadrare il mistero di Dio e il mistero dell'uomo. Dio non è "accanto" a me, e più intimo di me che me stesso, è Colui che è nel cuore del tempo, il solo che fonda la fedeltà dell'amore. Quando amo, è Dio che ama in me; e siccome Dio è padrone della morte, egli mi invita immediatamente a credere che l'amore autentico è più forte della morte.
E l'uomo, è una promessa di realizzazione nel "corpo di Cristo". E qui si trova la risposta all'enigma davanti al quale è posto il moribondo. L'ultima trasformazione, l'ultima nascita nella quale consiste il morire conduce a vivere nel "corpo di Cristo". Cosa vuol dire? Siamo in tal modo ricondotti al mistero, quello del corpo. Se è vero che il corpo non si riduce a un po' di materia, ma se esso è il mezzo materiale e non materiale con il quale ci esprimiamo, ne consegue che l'universo di cui l'attuale corpo fisico non è che una piccola pane, è il corpo per eccellenza, e precisamente è questo corpo che Gesù ha acquisito mediante la risurrezione per la pienezza d'amore manifestata durante la sua vita terrena. Egli ha inaugurato una umanità nuova nella quali gli individui non si distinguono più per la particolarità del loro corpo di quaggiù (quale?), ma ormai a partire da ciò che li caratterizza, cioè dalla loro personalità e questa viene costruita dall'amore ricevuto e dall'amore donato durante l'esistenza sulla terra.
Quanto ho detto non deve dare l'impressione che per me la morte è un problema risolto. Certamente no, perché essa rimane un mistero che prende senso solamente grazie a Gesù il cui atteggiamento di fronte alla morte ci è stato descritto dai vangeli.
Su questo punto, mi permetto di rinviarvi a una mia conferenza pubblicata nel Bollettino della Società di Thanatologia, n. 44, 979, particolarmente alle pp. 47-48, oppure al mio libro "Di fronte alla morte, Gesù e Paolo, ElleDiCi.
Come un prisma diffrange i colori, così i racconti evangelici decompongono l'atteggiamento di Gesù di fronte alla morte che ha per lui due volti. Il "Dio mio, Dio, mio, perché mi hai abbandonato?" di Marco esprime una accoglienza dolorosa: perché essere in balia della morte quando la vita dovrebbe continuare senza questa dolorosa rottura? Perché Dio non Io mantiene in vita, magari a prezzo di qualche violenza? Ma Gesù, pur dicendo la sua situazione, proclama fino alla fine la volontà di essere unito al "suo Dio", e questo è l'essenziale.
L'altro viso della morte è presentato da Luca: "Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito". Nel suo profondo Gesù accoglie la morte con fiducia perché essa è l'incontro con il Padre. E questo atteggiamento presuppone il rifiuto istintivo della decomposizione brutale.
Infine, secondo Giovanni, Gesù proclama che "Tutto è compiuto". Arrivato al termine della sua esistenza, ha compiuto ciò che il Padre attendeva da lui. La morte è il compimento dell'esistenza nella misura in cui è situata in Dio.
Conclusione
Per terminare, vorrei ritornare sul titolo della conferenza. Accogliere la morte, non vuol dire soltanto accettare con rassegnazione l'avvenimento mediante il quale cesso di vivere sulla terra. La morte non è solo la fine della vita terrestre, essa è la nascita alla vita piena in un corpo nel quale mi esprimerò perfettamente.
Tale conclusione è accettabile al di fiori della fede cristiana? Vorrei invitarvi a distinguere due livelli di comprensione.
Per chi ammette che Dio è amore e che l'amore è più forte della morte, la morte può essere accolta come la nascita a Dio, cioè all'eterno o ancora alla vita piena e definitiva.
Per chi ammette la solidarietà degli uomini tra di loro, la vita "dopo" la morte può sembrare come l'incontro perfetto tra gli uomini e specialmente tra coloro che si sono amati sulla terra. I cristiani precisano questa intelligenza della situazione "dopo" la morte evocando quello che essi chiamano il "corpo di Cristo". Un corpo unico ci deve riunire nel quale ciascuno potrà esprimersi perfettamente ed essere trasparente agli altri. Allora la morte può essere definita come l'accesso alla comunione degli esseri. E queste due dimensioni della morte ricoprono infatti la medesima realtà cioè che in Dio tutti gli uomini sono in comunione perfetta.
Un'ultima osservazione. Se la morte non può essere ridotta all'avvenimento che segna la fine dell'esistenza sulla terra, vuol dire che essa svolge un ruolo nella vita. Precisando che l'uomo dovrebbe un po' alla volta iniziarsi alla trasformazione costante del suo corpo e alla comunione sempre più profonda con gli uomini, abbiamo messo in luce che la "morte" è nel cuore della vita. Dal momento della nascita fino alla fine l'uomo è in movimento in rapporto al suo corpo e in rapporto alle sue relazioni con gli altri. L'amore e la morte sono all'opera sempre, sono le manifestazioni che gli psicologi chiamano "pulsioni di morte", "pulsioni di vita". Spetta a noi fare in modo che sia la pulsione di vita ad avere la meglio. Allora, attraverso la sofferenza e la morte, è la vita che, misteriosamente, si traccia il suo cammino.
(Conferenza tenuta presso la Facoltà Teologica Valdese - Roma, 7 maggio 2005)