I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Un saggio teologico sulla penitenza nelle Chiese Ortodosse

La prassi orientale della confessione
di Mauro Pizzighini


 



Una celebrazione liturgica e comunitaria, il significato "terapeutico" e pedagogico e un forte cristocentrismo ne sono gli elementi tipici. Il confessore come "padre spirituale".


«L'attuale prassi delle chiese ortodosse si è andata progressivamente formando nel primo millennio del cristianesimo orientale di lingua greca per l'evoluzione della primitiva forma della penitenza, quella pubblica, e per lo sviluppo della vita monastica. La forma pubblica della penitenza prevedeva che coloro che avevano commesso peccati sottoposti a penitenza venissero associati all'ordine dei penitenti e sottoposti a un cammino di anni che conduceva gradualmente alla piena riammissione all'eucaristia: il penitente era inizialmente tenuto fuori dell'assemblea eucaristica, poi ammesso alla sola liturgia dei catecumeni, quindi gli era consentita la partecipazione stando prostrato e senza avvicinarsi alla comunione, infine era ammesso di nuovo  come gli altri fedeli - alla comunione». Con questa affermazione si apre il volume del teologo B. Petrà dal titolo La penitenza nelle chiese ortodosse. Aspetti storici e sacramentali, pubblicato recentemente dalle EDB.

Tre sono gli aspetti che caratterizzano il sacramento della penitenza nella chiesa ortodossa rispetto a quella latina. Anzitutto il carattere celebrativo e comunitario del sacramento: si tratta, in primo luogo, di un vero momento liturgico che raggiunge il singolo all'interno della comunità; predomina il significato "terapeutico" della prassi penitenziale; la struttura celebrativa è attenta a far emergere il forte cristocentrismo del sacramento. Considerando la prassi penitenziale delle chiese ortodosse e i rituali attuali, l'autore, profondo conoscitore del mondo orientale, sottolinea la struttura celebrativa che connota il sacramento della penitenza; anche se le letture bibliche sono oggi assenti, non mancano le preghiere, i tropari, i salmi e le invocazioni: tutto si svolge ordinariamente all'interno della chiesa. Le preghiere iniziali, il cui contenuto rispecchia la loro ecclesialità, presuppongono il carattere comunitario del sacramento, dal momento che si prevedono celebrate con l'assemblea.

La dimensione "terapeutica"

«In ogni caso la confessione e l'assoluzione sono ordinariamente individuali e nominative, giacché il ministro si rivolge al penitente col suo nome personale proprio», che corrisponde in modo peculiare alla logica sacramentale orientale. Pertanto ciò che maggiormente differenzia lo stile ortodosso da quello latino è l'insieme del dialogo tra sacerdote e penitente: nella struttura latina il rapporto è tra il sacerdote, che rappresenta il Signore, e il penitente "l'uno di fronte all'altro"; nella struttura ortodossa, invece, da una parte c'è il Signore e dall'altra c'è il sacerdote insieme al penitente, ambedue di fronte all'icona della croce di Cristo: «Sacerdote e penitente sono davanti a lui, ambedue peccatori, ambedue segnati dalla condizione umana». Il sacerdote appare nella struttura rituale nella posizione di "testimone e compagno di penitenza", come anche di «intercessore umile e potente a nome/a favore dei peccatore e insieme come colui che può con l'autorità del Signore attestare al peccatore stesso che i peccatori sono perdonati». In questo ruolo di mediazione, egli è tenuto al segreto confessionale.

In questa prospettiva si comprende come la caratteristica tipica del sacramento della penitenza nelle chiese ortodosse sia la dimensione "terapeutica". Già il fatto che in alcuni commentari liturgici bizantini la confessione e l'unzione degli infermi siano considerati aspetti complementari dell'"unico" mistero di guarigione, la dice lunga sul perché il sacramento della penitenza sia definito come il "ministero medicinale" per eccellenza, in quanto contiene sia il momento terapeutico che quello della prevenzione.

Il volume, dopo avere passato in rassegna i presupposti teologici legati in particolare alla concezione "orientale" del peccato, che ha come punto di riferimento la Scrittura e soprattutto il linguaggio dei Padri, entra in merito al sacramento della penitenza inteso come "cammino di guarigione". Se è importante chiarire che «l'inizio della salvezza sta nel pentimento» e che «Dio dona al peccatore la luce per vedere il proprio peccato», ugualmente fondamentale è ribadire che «l'ascolto della coscienza dev'essere fedele e attento, senza giochi interiori». Vi è un rapporto essenziale tra purezza di cuore e una visione più accurata del proprio peccato: rimane costante nella tradizione orientale la consapevolezza che «la conoscenza del proprio peccato è un particolare dono di Dio». Quando il cuore percepisce nella luce della grazia la realtà del proprio peccato, nascono la "contrizione" e il "dolore". Un segno particolare del dolore suscitato dalla nuova consapevolezza è dato dalle "lacrime", secondo Simeone il Nuovo Teologo.
Dalla serietà della contrizione nasce il cambiamento della vita, il volgere le spalle al male e l'orientarsi decisamente al bene. In questo sta essenzialmente la "conversione" che segna l'inizio di una vita nuova e che trova la sua forza nell'amore di Dio. Giovanni Crisostomo nel suo De paenitentia fa riferimento, quando si parla di conversione, all'immersione nelle "acque" dell'amore di Dio: il riferimento alla" piscina" (Simeone il Nuovo Teologo, Catechesi) ha un preciso senso battesimale e vuole indicare che la penitenza richiesta si configura come un "secondo battesimo".

Inoltre, «tutta l'economia della salvezza è per l'Oriente un grande processo terapeutico mediante il quale viene risanata la ferita introdotta dal peccato e l'uomo può finalmente attuare il senso della sua esistenza, diventare partecipe della vita divina in Cristo». Al centro di questo cammino di guarigione sta il "chinarsi" di Dio sull'uomo ferito: la parabola del buon samaritano è la rappresentazione stessa dell'economia della salvezza, in cui «il Signore è il vero buon samaritano dell'umanità ferita dal peccato» e anche «medico e soccorritore dell'uomo attaccato dai pensieri ladri e briganti e lasciato al suolo dolorante».

L'azione di Cristo, "buon samaritano" e unico "medico" dell'uomo, continua nel tempo attraverso la "locanda" che è la chiesa. con la sua azione sacramentale e con quella dei suoi ministri. Se i sacramenti sono i segni potenti attraverso i quali il Risorto opera con il suo Spirito la "guarigione" dell'uomo, il sacramento della penitenza in particolare costituisce «la via attraverso la quale il Signore rimette i peccati, sana le ferite dell'uomo colpito sulla strada di Gerico». La fede ortodossa ha la consapevolezza che la chiesa ha ricevuto e riceve continuamente dal Signore la potestà di guarire l'uomo dai suoi peccati; tale potestà è esercitata innanzitutto dai vescovi.

Il confessore: "padre spirituale"


In ogni caso il confessore, nella visione ortodossa, è visto prima di tutto come "padre spirituale": questa paternità spirituale deve recare i segni della paternità divina, fatta di amore e di tenerezza. Inoltre, questa paternità ha anche una forma che i teologi ortodossi definiscono "paternità di discernimento", che può essere ottenuta  «attraverso molta ascesi e preghiera, una coscienza senza macchia e una percezione interiore pura». Altre proprietà del confessore sono quelle di "giudice" e "maestro : a questo proposito è celebre il richiamo al confessore di S. Giovanni Crisostomo: «Correggi, ma non come un avversario e nemmeno come un nemico che chiede giustizia, ma come un medico che appresta farmaci».

A proposito del carattere terapeutico e pedagogico delle penitenze canoniche, nella tradizione orientale esse non costituiscono elementi costitutivi indispensabili della penitenza. in quanto esse sono totalmente incluse nella dimensione terapeutica del sacramento e subordinate ad esso. Il confessore pertanto impone le penitenze in ordine alla "guarigione spirituale" del penitente e «darà l'assoluzione prima o dopo l'assolvimento di esse secondo la valutazione che darà della condizione del peccatore». In ogni caso esse vanno amministrate con sapienza: questa amministrazione "sapiente" e "terapeutica" delle penitenze costituisce un caso particolare di applicazione dell'"economia ecclesiastica" orientale. Secondo la teologia orientale «l'"economia" è un'attitudine di "flessibilità pastorale", che si estende ai vari ambiti della vita ecclesiale ortodossa e che si configura come assunzione da parte della chiesa della pazienza di Dio"; essa è esercitata dai pastori e tende a coniugare costantemente l'elevatezza dell'ideale e l'attenzione alle concrete possibilità dell'uomo, perché l'ideale non diventi semplice e impietosa condanna dell'uomo e del suo limite».

Questioni particolari

La parte terza del testo è dedicata ad alcune questioni particolari, circa, ad esempio, la diversa gravità dei peccati. «La distinzione peccati gravi-peccati veniali è conosciuta nell'ortodossia e spesso accettata; i peccati gravi sono per lo più ricondotti ai cosiddetti vizi capitali».
Per quanto riguarda l'integrità della confessione, nell'ortodossia non si è sviluppata un'articolata dottrina in tal senso, tuttavia la si suppone e la prassi sacramentale ne è decisamente condizionata.

Seguendo poi il rituale penitenziale di tradizione bizantina. emerge che la celebrazione ha una connotazione fortemente comunitaria: «la parte iniziale del rituale, infatti, è costituita da preghiere della comunità e nella comunità, mentre la confessione e l'assoluzione sono ordinariamente individuali». Il rapporto personale  confessore-penitente.  ben espresso dall'uso del nome personale, si colloca nella struttura celebrativa, senza contraddire la dimensione comunitaria della celebrazione stessa.

È chiaro il fondamentale significato terapeutico della prassi penitenziale, che segna in modo decisivo il rapporto tra confessione e penitente. La malattia è costituita dal peccato e la vita "secondo la salute" è costituita dalla vita "virtuosa", animata dallo Spirito e dalla luce della risurrezione; la terapia coincide anche con il discernimento spirituale da parte del confessore, che deve dunque essere un uomo formato dallo Spirito.

In conclusione, «tutti questi elementi caratteristici della celebrazione ortodossa nella concreta realtà sono attuati imperfettamente come è di tutte le cose umane: essi sono però quel che il sacramento dovrebbe essere nell'autocoscienza della chiesa ortodossa e quel che nell'insieme della storia ortodossa, il sacramento è stato, generando un modo popolare di percezione, che non coincide del tutto con quello latino».


Petrà B., La penitenza nelle chiese ortodosse. Aspetti storici e sacramentali, EDB, Bologna 2005, pp. 143.(da Settimana, n. 14, 2005)

26 dicembre 2004, ore 00.58: uno tsunami, un'onda anomala prodotta da un fortissimo terremoto sottomarino verificatosi a largo delle coste indonesiane provoca morte e distruzione su una vasta area del sud-est asiatico. Si stimano oltre 300.000 morti ed 10.000 dispersi, numeri purtroppo destinati ad aumentare col passare del tempo.

1054-2004. Dove siamo oggi?
di Vladimir Zelinskij


Raramente si possono incontrare persone che pensano ancora che la rottura fra Roma e Costantinopoli fu un atto davvero giusto e salvifico per l'ortodossia; tranne qualche strambo, credo che non ci siano nel mondo cattolico ammiratori della scomunica dei greci. Se per il mondo protestante, la Riforma è una felice data di nascita, dunque una festa, per l'ortodossia e il cattolicesimo il loro scisma rimane un trauma - per alcuni, forse, un'operazione chirurgica inevitabile, ma dolorosa in ogni caso. Insomma non è un anniversario da festeggiare. Ma da ricordare di sicuro.

Se i cattolici credono che si può respirare con due polmoni, anche se uno è separato da secoli, tanti ortodossi non sospettano nemmeno che l’altro polmone esista. A volte, però, anche il dente tolto ci fa male e il polmone che non respira più fa soffrire. Non parlo dell'acuta nostalgia ecumenica - di cui davvero pochi sono trafitti nell'emisfero ortodosso - intendo piuttosto le nostre infermità interiori, di cui soffriamo senza accorgersi. Nel 1054 qualche legato che rappresentava la Sede di Roma (modesta e vacante in quel momento) ha rotto col patriarca della Grande Chiesa di Costantinopoli; nel mondo attuale esistono decine e decine di giurisdizioni ortodosse canoniche e non canoniche (negli Stati Uniti, in Europa, in Italia...) che sono, infatti, chiuse nei loro ghetti nazionali, nel loro star bene da sole, nella solennità della loro solitudine. I loro teologi, se svegliati la notte, vi spiegheranno in un batter di ciglia tutte le eresie del papismo, senza pensare per un attimo che possa esistere anche un'eresia dell'autosufficienza. Le forze che ci uniscono, aldilà dell’enorme e ricchissimo tesoro della fede comune, sono più che deboli. Sì, al Patriarca di Costantinopoli spetta ancora il primato d'onore, ma quell'onore ha significato piuttosto liturgico e simbolico.

Le Chiese ortodosse, però, possono facilmente accontentarsi di questo innocuo simbolismo. Il vero primato appartiene, infatti, alla Tradizione e una "T" maiuscola, forse, non basta per esprimere la pienezza del concetto. Tradizione è prima di tutto il cammino dello Spirito Santo fra gli uomini e tutte le impronte lasciate da Lui nella storia: i dogmi, i sacramenti, i riti, i canoni, le vite dei santi, ecc. Anche la Parola di Dio fa parte della Tradizione o almeno non può essere tagliata da essa, perché la Parola è inseparabile dalla sua percezione, dal nostro essere davanti a Dio che è anche il frutto dello Spirito. Tanti problemi delle altre Chiese che devono fare i conti con la modernità, in pratica, non esistono per gli ortodossi. A volte non sono neanche formulati. Per condannare l'aborto, l'eutanasia o il matrimonio omosessuale, la Chiesa d'Oriente non ha bisogno dell'intervento del Sommo Pontefice. Basta respirare da ortodosso.

Se la Tradizione nell'ortodossia fa sentire il peso del passato che è quasi sempre sacro e intoccabile, nel cattolicesimo la Tradizione si esprime in prevalenza tramite la bocca del papa. Il papa deve fare tutto ed essere dappertutto, su tutti gli schermi e in tutti i paesi, su tutte labbra, in tutti cuori… Giovanni Paolo II, un uomo dal carisma eccezionale, ha portato la sua grandezza come un destino, l’obbligo di superare ogni giorno le forze umane, perché la sua vocazione è stata quella di essere un'icona sempre vivente e rinnovata di tutto ciò che é la fede. Il papa, da Pietro, deve guidare la sua barca attraverso il mare in burrasca, senza di lui essa potrebbe perdere il corso giusto.

La nave ortodossa, invece, sembra stare all’ancora nel mare profondo e tranquillo; tutto può succedere nella storia, ma con la fede, niente; il suo deposito rimane trasparente, riempito di luce che proviene dal suo fondo apostolico, dal mondo che verrà. Sembra che l’ortodossia non si accorga della storia: essa si lascia facilmente possedere dall’esterno, ma il mondo che passa non entra mai nel Regno che è dentro di noi.

Dunque, dove siamo 950 anni dopo la rottura? Non siamo più felici di essere "la Chiesa", l'una contro l'altra; è già una grande vittoria dell’ecumenismo. Ma il vero problema fra noi è che ci muoviamo in tempi diversi. L'ortodossia vive nel suo passato, ma anche di più nel futuro escatologico (il suo presente storico lascia sempre a desiderare), il cattolicesimo lavora proprio con la storia attuale. Se per la prima i Padri della Chiesa sono molto più importanti di tutti i patriarchi viventi, per il secondo il papa in carica manda inevitabilmente in ombra tutti i suoi predecessori. Forse, la strada verso l’unità passa anche attraverso lo scambio dei tempi, dei modi di servizio?

Una volta trovata la strada verso quello scambio, troveremo - chi sa? - anche le soluzioni per gli altri punti nevralgici della discordia.

Quello che segue vuol essere un breve elenco di donne musulmane (arabe e non arabe) che si distinguono per il loro impegno personale o per responsabilità di governo nella difesa e promozione della condizione femminile.

Martedì, 28 Giugno 2005 22:25

Maria di Magdala (Carla Ricci)

Maria di Magdala
di Carla Ricci

 

Maria invece stava all'esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l'hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbuni!", che significa: Maestro! Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto. (Giovanni 20,11-18)

"Maria chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni" (Lc 8,2) è la prima donna del gruppo delle discepole itineranti con Gesù ad essere nominata nel Vangelo di Luca. Sempre prima la ritroviamo nella lista dei sinottici quando viene descritta la crocifissione e si nomina la presenza del gruppo delle donne, fedeli seguaci del Nazareno fin dalla predicazione sulle strade della Galilea, mentre assiste alla passione (Mc 15,40; Mt 27,56; Lc 23,49-55; 24,10).

Nel racconto giovanneo la troviamo menzionata sotto la croce con la "madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa" (Gv 19,25). Se nelle altre liste ha il privilegio di essere la prima, qui ha quello di essere associata al gruppo delle parenti strette. Già dalla lettura di questi primi testi biblici emergono elementi che indicano un primato di Maria di Magdala nel gruppo. Essa è il solo nome ad essere comune a tutte le liste: le altre donne ricordate cambiano, lei sola è presente in tutte le fonti. Che questi dati suppongano anche un rapporto particolare e privilegiato con Gesù è confermato dal seguito delle narrazioni evangeliche.

Discepola prediletta

Secondo i sinottici, dopo aver assistito alla sepoltura (Mc 15,47; Mt 27,62; Lc 23,55-56), il gruppo delle discepole si raccoglie attorno a Maria Maddalena e all'alba si reca al sepolcro (Lc 24,1-10; Mt 28,1; Mc 16,1-2); Giovanni invece narra di Maria di Magdala sola che va alla tomba "di buon mattino, quand'era ancora buio" (Gv 20,1).

L'intensa partecipazione della discepola prediletta al dramma della morte è ben espressa dall'ampia narrazione che segue. Molte delle annotazioni rimandano alla profondità del rapporto che Gesù aveva realizzato con lei. Ella non può attendere la luce del giorno e va al sepolcro quando è ancora notte, trovatolo vuoto corre da Simon Pietro e da Giovanni per condividere con loro quanto sta accadendo. La scomparsa del corpo del Signore la sconvolge e non può contenere in se le emozioni che la pervadono. Ritorna coi discepoli alla tomba, ma quelli, dopo aver constatato che è vuota, tornano a casa. Maria Maddalena, invece, non può allontanarsi dal posto che aveva accolto il corpo dell' Amato. Non va con loro per consolarsi insieme della perdita, ma resta vicina all'ultimo luogo dove è giaciuto il corpo di Gesù, non può allontanarsi e si abbandona al dolore e al pianto. Non sono lacrime momentanee, ma un pianto intenso e continuo tanto che sia gli angeli prima, sia Gesù poi, le chiedono il perché delle sue lacrime. La gravità della perdita, che dice la profondità del legame nei confronti del Maestro, spinge tutto il suo essere a cercare.

Il Risorto si lascia trovare, si lascia raggiungere, si lascia riconoscere e si manifesta a lei pronunciandone il nome: "Maria!" cui viene risposto prontamente: "Maestro mio!". Il lasciarsi i riconoscere dal Cristo nel dire il nome di Maria raccoglie una indicazione suggestiva della comunicazione esistente; nel sentirsi chiamata la donna trova insieme la voce che conosce, la voce dell'altro, e qui poi dell'Altro, e trova se stessa, la percezione, la consapevolezza del proprio essere profondo. La relazione, questo contemporaneo duplice incontro dell'altro e di se, in cui sono presenti alterità e identità, questa unità che comprende dualità, poteva essere tale compiutamente solo nella manifestazione del Risorto a una donna, in armonia con la creazione di Dio di un essere umano, l'adam dai due volti: l'uomo e la donna.

"Io ho qualcosa da dire ma nessuno a cui dirlo!"

È un antico ágraphon che sottolinea la sofferenza di Maria Maddalena come determinante per il rivelarsi del Risorto.

"lo (...) non sono apparso a te
finché non ho visto le tue lacrime e il tuo dolore (...) per me.
Getta via la tua tristezza
e compi questo servizio,
sii il mio messaggero per gli orf[ani] [sm]arriti.
Affrettati a gioire e va' dagli undici.
Li troverai riuniti sulla riva del Giordano.
Il traditore li ha pèrsuasi ad essere pescatori
come prima
e a gettare le loro reti,
con le quali conquistarono uomini alla vita.
Di’ loro: Su, andiamo, vostro fratello vi chiama.
Se disdegnano la mia fraternità,
di’ loro:
È il vostro maestro.
Se trascurano la mia autorità di maestro,
di’ loro: È il vostro Signore.
Usa ogni arte ed intelligenza
finché tu non abbia condotto il gregge al pastore.
Se vedrai che si sono turbati per te
prendi Simon Pietro con te;
digli: Ricorda cosa ho detto tra te e me.
Ricordati che cosa ho detto, tra te e me,
sul Monte degli Olivi;
lo ho qualcosa da dire,
ma non ho nessuno a cui dirlo!".

L'invio di Maria Maddalena ad annunciare la risurrezione è confermato dal seguito del racconto di Giovanni. "Gesù le disse: "... va' dai miei fratelli e di' loro: lo salgo al Padre mio e al Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". Maria di Magdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto" (Gv 20,17-18). Forse l'ágraphon sopra riportato apre uno squarcio di maggior luce su quanto altro il Risorto "le aveva detto" e anche in quel testo, come in Giovanni, la risposta di Maria è descritta come pronta, totale e intensa. "Rabbi, mio maestro, io servirò il tuo comandamento nella gioia del mio cuore intero. Non darò riposo al mio cuore, non darò sonno ai miei occhi. Non darò riposo ai miei piedi finché non abbia portato il gregge all'ovile". È di grande rilevanza che in un tempo nel quale la testimonianza delle donne, e quindi la loro parola, non aveva valore giuridico, il Cristo affidi il messaggio di risurrezione a Maria di Magdala, facendo di lei la prima mediatrice della Parola, del Logos incarnato, rendendola apostola degli apostoli.

La "durezza di cuore" degli apostoli

È significativo rilevare come nell'antico testo copto venga attribuita a Gesù la sollecitazione a Maria di Magdala di ricordare a Pietro parole che già lei gli aveva rivolto: "lo ho qualcosa da dire ma non ho nessuno a cui dirlo!". Nessuno; cioè capace di riconoscere e accogliere il valore delle parole di una donna, nessuno capace di questo ascolto profondo al di là delle limitazioni culturali e giuridiche del tempo.

Ampia testimonianza riportano i Vangeli canonici della difficoltà degli apostoli a prestar fede a quanto riferito dalle discepole: "Alcune donne, delle nostre... son venute adirci..." (Lc 22,22): "Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse" (Lc 24,11).

Nella finale del Vangelo di Marco si racconta proprio di Maria di Magdala che andò ad annunziare ai suoi seguaci la risurrezione. "Ma essi, udito che (Gesù) era vivo ed era stato visto da lei non v-ollero credere" (Mc 16,11) e Gesù poi apparendo infine agli Undici, "li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore" (Mc 16,14).

Forse questa "incredulità e durezza di cuore", evidenziata dalle parole del Risorto, si è protratta nello sviluppo della comunità cristiana ed è divenuta nella storia dell'esegesi biblica un travisamento dell'identità di Maria di Magdala che, invece di emergere per la predilezione di discepola fedele e amata, è stata confusa con la peccatrice di cui il Vangelo di Luca racconta il pentimento e il perdono da parte di Gesù. È stata resa una prostituta e dopo secoli di omelie, raffigurazioni artistiche, letterature le più varie, il suo nome, o meglio il suo soprannome, Maddalena riferito alla città di provenienza, ha assunto il significato di donna traviata e penitente.

Quale distanza dalla scelta di Gesù che proprio del nome Maria fa la chiave di apertura per la rivelazione e il riconoscimento dell'essere risorto, dell'essere Alterità incarnata. Logos relazionante in se il divino e l'umano, Luogo di incontro di finito ed infinito, di morte e vita inesauribile.

Il travisamento esegetico di cui è stata vittima Maria di Magdala ha avuto tanto larga eco perché ha trovato fertile terreno in una millenaria concezione della donna limitata e schiacciata all'interno di una sovrapposizione della sua realtà con quella di una sessualità intesa per lo più negativamente.

La sordità e la "durezza di cuore", la incapacità di aprire la propria mente e il proprio animo le realtà più interiori ed autentiche del femminile, contrassegnano purtroppo ambiti di culture e tempi ben più ampi del discepolato di Gesù.

Restituire a Maria di Magdala la sua identità e riscoprire il significato profondo rapporto che Gesù aveva con lei porterà nuova luce nella ricerca della pienezza della verità.


Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse

Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse.

Occorre smettere di costruire torri e torrioni inseguendo il vano sogno di una artificiosa umanità unitaria. Il pluralismo è alla radice delle cose; nessuna verità, ideologia o religione può avanzare una pretesa totale sull'Uomo, e le lingue sono state giustamente confuse.

Lunedì, 27 Giugno 2005 21:06

Dialogo impossibile? (Giuseppe Scattolin)

Dialogo impossibile?
di Giuseppe Scattolin




Voi parlate tanto di dialogo con i musulmani ma finora io non ho visto nessun risultato concreto. Loro, intanto, tirano dritto per la loro strada, senza cercare di capire nè la nostra cultura né la nostra religione, e senza interessarsi tanto dei diritti degli altri. Io stesso ho sperimentato più volte che, aprendo con loro il dialogo nel campo della religione, non ho trovato che rifiuto, anzi ironia. Avete mai cercato di parlare con i musulmani di Gesù, dell'incarnazione, della Trinità, ecc...? Diranno che noi siamo fuoristrada. Condendo, magari, il tutto con tante battute ironiche, se non sarcastiche, su misteri che per noi sono fondamentali. Come si può, quindi fare dialogo con chi... non lo vuol fare?
(Giulio Casale - Venezia)


Fare dialogo - soprattutto dialogo interreligioso - non è facile. Forse, è la cosa più difficile, poiché tocca le nostre convinzioni più intime, e a nessuno piace essere messo in questione a questo livello. È molto più facile fare dialogo o scambiarsi idee in campi più neutri, quali lo sport, la moda, vari argomenti culturali, ecc... Lì nessuno si compromette davvero.

Questo, a mio parere, è molto farisaico, perché, così facendo, uno cerca di nascondere sé stesso sotto la patina delle "buone convenienze sociali". Se uno, però, è convinto che una vera convivenza fra i popoli non può essere fondata su simili superficialità, ma occorre rompere questi muri di incomunicabilità, pena il trovarsi di fronte a degli scontri di civiltà e di religioni dai risvolti troppo volte tragici, anzi molto tragici (qui non occorre giocare molto di fantasia per rendersene conto; basta ascoltare le notizie che ci arrivano da molte parti del nostro villaggio globalizzato), e se è consapevole che bisogna cambiare le mentalità di tutti, facendole passare da un'attitudine di ostilità verso l"'altro" a una di accettazione (anzi, di vera e sincera cooperazione con l'"altro"), allora farà ogni sforzo per creare relazioni "dialogiche" vere, per aprire mentalità ancora chiuse in un'autodifesa che può diventare facilmente aggressione contro l"'altro", il "diverso", ecc... Così, e soltanto così, uno può dire di operare veramente per la pace nel nostro mondo.

Ogni altra opera, nobile e bella quanto si vuole, ma che non porta a questa "nuova mentalità dialogica", resterà, in fondo, assai precaria e sarà presto messa in discussione, travolta anche dai demoni dei vari tribalismi culturali e religiosi ancora dilaganti in molti settori del nostro villaggio umano. In una parola: il dialogo non lo si trova bell'e fatto, occorre creano. Del dialogo dobbiamo dire ciò che Voltaire diceva di Dio: «Se non esistesse, bisognerebbe crearlo». Il problema, quindi, non è se fare dialogo o no (questo dovrebbe essere ormai scontato), ma come farlo.

Il signor Casale si meraviglia nel constatare che il dialogo teologico - quello, cioè, che si svolge a livello di verità teologiche - sia difficile, se non addirittura impossibile. E ha ragione! Va, comunque, anche detto che nessuno, con una benché minima esperienza in fatto di dialogo, partirebbe proprio da questo livello, che esige una preparazione e un'apertura particolari (frutto esse stesse di dialogo).

Da dove partire, quindi? Dalle questioni esistenziali, quelle cioè che toccano da vicino ogni essere umano: i diritti dell'essere umano, la dignità della persona in quanto tale, il problema (o mistero) del dolore, il senso della vita...

Gesù stesso ce ne ha dato l'esempio. Non ha cominciato la sua missione annunciando dogmi astratti di fede, ma predicando il Regno di Dio. Ha parlato innanzitutto della vera giustizia, della volontà di Dio, del comandamento fondamentale della legge, dell'amore e della misericordia di Dio... Questo è l'inizio del vangelo. A questo livello è possibile trovare un vasto terreno per uno scambio e un dialogo tra le varie religioni. Solo in un secondo momento Gesù ha introdotto i suoi nel mistero della sua persona.

La catechesi della chiesa segue fondamentalmente la stessa linea. Il documento conciliare Nostra Aetate (1965), infatti, apre il discorso sul dialogo interreligioso, mettendo in primo piano le domande esistenziali fondamentali che toccano l'umana esistenza e a cui le varie religioni intendono dare una risposta. Solo quando uno s’è messo, in seguito alla conversione radicale richiesta dal vangelo, sulla strada della giustizia del Regno, della ricerca della volontà di Dio, del suo amore e della sua misericordia, gli si potrà parlare dei misteri più profondi della fede.

È necessario tenere presente quanto diceva San Paolo ai Corinzi: «La vostra fede non è fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (I Cor 2,5). E ancora: «Nessuno può dire "Gesù è Signore", Se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (ib. 12,3). L'annuncio va fatto, non nell'arroganza della sapienza umana, ma nell'umiltà della nostra nullità umana. Poiché annunciamo non il frutto della nostra intelligenza, ma il dono assolutamente gratuito di Dio, che sorpassa ogni capacità umana. La nostra opera - e, quindi, anche il dialogo – è solo una preparazione al dono che Dio fa di sé stesso in modo del tutto libero.

(da Nigrizia, febbraio 2005)

Il dogma dell'Immacolata Concezione non trova molto spazio nella circolazione delle idee ecumeniche del nostro paese. Occorrerà perciò tenere presente le interpretazioni maturate prima del Concilio Vaticano II...

Search