TRA PAURA E SPERANZA
di Geoff Andrews
da www.adistaonline.it
LE ELEZIONI ITALIANE SUL FILO DEL RASOIO LASCIANO IRRISOLTI IL FUTURO POLITICO DEL PAESE E L’EREDITÀ DI BERLUSCONI.
GEOFF ANDREWS, POLITOLOGO E GIORNALISTA INGLESE, È L’AUTORE DI QUESTO ARTICOLO PUBBLICATO L’11/04/06 SUL SITO INTERNET WWW.OPENDEMOCRACY.NET. TITOLO ORIGINALE: “ITALY BETWEEN FEAR AND HOPE”
Lunedì 10 Aprile alle 3 del pomeriggio sono arrivato a Piazza Santi Apostoli – dove c’è la sede romana della coalizione di centrosinistra – per i primi exit poll. Alle 3 di notte ero ancora lì, a sentire Romano Prodi che aveva appena dichiarato per la prima volta vittoria di fronte ai suoi sostenitori e alla stampa internazionale.
Tutto finito? No. In queste dodici ore è cominciato ad andare in scena una specie di dramma che rivela molto dell’Italia contemporanea, e che può continuare ad avere ripercussioni anche nei mesi a venire. Sia gli exit poll che i numerosi sondaggi non ufficiali svolti durante la due giorni elettorale per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato attribuivano al centrosinistra un vantaggio dai 3 ai 7 punti percentuali. Questo dato era molto simile a quello fornito nei sondaggi di opinione nel periodo tra l’apertura della campagna elettorale e il termine ultimo in cui la legge consente di diffondere queste informazioni, ossia due settimane prima del voto.
Prima degli exit poll, i leader del centrosinistra e i commentatori erano stati cauti e misurati. Le mie richieste di pareri e prese di posizione venivano educatamente rifiutate con un “aspetti fino ai primi exit poll”. La “scaramanzia” (la particolare forma italiana di superstizione) era ovunque – sono stato persino cacciato dagli uffici del giornale “Il manifesto”, dove avevo trascorso la cupa notte elettorale del 2001, col pretesto che la mia presenza poteva indirizzare a destra il voto degli indecisi.
Tutto questo è stato spazzato via dai primi exit poll che indicavano un chiaro margine di vantaggio per il centrosinistra. Piazza del Popolo, a due passi dal quartier generale dell’Unione, era stata designata come il luogo ufficiale per i festeggiamenti, attività in cui gli italiani eccellono su chiunque altro. Al quartier generale gli attivisti guardavano un maxi schermo sui cui scorrevano le immagini dei fiduciosi leader del centrosinistra e dei tristissimi leader della destra. “Buffone!”, “Buffone!” gridava la folla rispondendo alle parole sprezzanti di Maurizio Gasparri, ex-ministro post-fascista delle telecomunicazioni. “A casa!”, strillavano all’indirizzo di Roberto Calderoli, leader xenofobo della Lega Nord che si era dimesso dal governo nel febbraio del 2006 dopo aver indossato una maglietta con le vignette danesi anti-islamiche.
Qualcuno brandiva un pezzo di mortadella, il tipico salume bolognese da cui è stato ricavato l’affettuoso soprannome di Prodi. La folla ondeggiava e ballava seguendo il ritmo della musica. Il sito ufficiale dell’Ulivo (il partito di Prodi all’in-terno dell’Unione) aveva alla fine rotto gli indugi esponendo orgogliosamente lo slogan: “Romano Prodi presidente”.
Poi sono cominciati ad arrivare i dati reali. L’atmosfera è cambiata drammaticamente. Si stava profilando un margine risicatissimo. I risultati di un complicato meccanismo elettorale imposto da Berlusconi con una legge nell’ottobre del 2005 mostravano un testa a testa delle coalizioni sia alla Camera che al Senato. Il voto degli italiani all’estero diventava determinante.
Una corsa sulle montagne russe
Man mano che passavano le ore e cambiava l’umore, diveniva chiaro un elemento persino più importante del risultato delle elezioni in senso strettamente numerico. Ciò che stava accadendo la notte tra il 10 e l’11 aprile era l’apoteosi della strategia di Silvio Berlusconi – particolarmente esplicita verso la fine della campagna elettorale – di istillare paura nelle teste degli elettori. Gli attacchi del primo ministro verso i “magistrati comunisti”, i volgari insulti ai suoi avversari e a coloro che li avrebbero votati, e le affermazioni sulla necessità che gli ispettori delle Nazioni Unite intervenissero per evitare brogli elettorali, riflettevano il fatto che Berlusconi – man mano che si indeboliva il suo potere – cercava di fare appello al “fattore paura”.
La strategia berlusconiana della paura può essere compresa solo se si rigetta l’idea (molto radicata in alcuni commentatori politici) che lui sia poco più che un clown, un personaggio folcloristico che ha ridato colore alla politica italiana. La realtà è molto più seria. Silvio Berlusconi, persino nella sconfitta, costituisce una minaccia per la democrazia italiana.
Il populista Berlusconi è solito ignorare le convenzioni, le regole e le norme della vita politica. Le sue promesse dell’ultimo minuto di abolire le tasse su casa e rifiuti – promesse fatte senza alcuna possibilità di replica da parte della sinistra e nessuna indicazione sulle modalità di finanziamento dell’operazione – possono essere viste come l’appello disperato di un leader in declino. Questi stratagemmi – su cui in passato si è basata la sua strategia di costruzione del consenso – sembrano aver contribuito anche stavolta a catturare almeno una parte degli elettori.
Queste mosse elettorali illustrano anche la differenza tra la concezione “populista” e quella “democratica” del popolo. Il populista ha una ristretta e stereotipata visione del popolo come di un’entità relativamente omogenea, caratterizzata da valori (e pregiudizi) “ordinari” che sono in contrasto con quelli delle élite e dei settori ‘sovversivi’ della società, nel caso di Berlusconi i magistrati e la sinistra.
I populisti come Berlusconi non hanno tempo per il dissenso, il pluralismo e le divergenze d’opinione, che essi considerano delle minacce. Il suo estremo tentativo di far leva sulle paure dell’elettorato incarna esattamente questo tipo di modello.
L’approccio democratico si basa su una differente relazione con il popolo, una relazione mediata da forme di rappresentanza e partecipazione, dal ruolo della legge e da spazi aperti al pluralismo e al dissenso. Questo punto di vista, purtroppo, non è stato sostenuto dai partiti del centrosinistra italiano, che fino ad ora hanno permesso a Berlusconi di dettare l’agenda politica. Sembra quasi incredibile che – dopo cinque anni di un governo che ha devastato la vita pubblica italiana, demonizzato gli stessi magistrati che avevano fatto pulizia nell’ambiente politico degli anni ‘90, ed eliminato tutte le forme di dissenso dal già pessimo circuito radiotelevisivo – Berlusconi possa mettere in discussioni le credenziali democratiche della sinistra.
Quel che il centrosinistra dovrebbe fare, pur avendo dimostrato, con un risultato delle urne così risicato, di non esserne in grado, sarebbe di imparare dall’esempio della rete della società civile, che è fiorita in Italia negli ultimi cinque anni.
Un futuro oltre la paura
Mentre viaggiavo attraverso l’Italia in questi anni scrivendo del “fenomeno Berlusconi”, ho incontrato la paura in diverse forme. Al G8 di Genova nel luglio del 2001 la “punizione” inflitta dai carabinieri è stato un primo ammonimento dell’intolleranza del governo. A Napoli la camorra ha dato vita a nuove forme di violenza, mentre la Lega Nord si allontanava dalla vecchia battaglia sull’indipendentismo padano concentrandosi su parole d’ordine xenofobe che trovavano pericolosamente eco nell’opinione pubblica.
Tuttavia ho anche trovato esempi di speranza e di creatività, dai girotondi guidati dal regista Nanni Moretti ai gruppi di Libertà e Giustizia, alla straordinaria galassia delle organizzazioni pacifiste. Ricordo un fornaio di Bologna che chiuse le porte del suo locale per protestare contro lo scoppio della guerra in Iraq (alla quale era contrario più del 90% degli italiani) dicendo “non possiamo occuparci di brioches e biscotti in un giorno come questo”; e il caso di Scanzano Jonico, un piccolo paese di 6700 abitanti nell’entroterra della Basilicata, che ha sostenuto diverse settimane di sciopero per protestare contro la decisione del governo italiano di costruire in quel territorio un deposito di scorie nucleari. In questi cinque anni tutta questa variegata rete di gruppi della società civile ha mantenuto viva la speranza.
La campagna elettorale italiana si è configurata come una scelta molto netta in un Paese assolutamente diviso e polarizzato: la strategia della paura di Berlusconi contro un progetto di speranza incarnato nelle iniziative della società civile ma ancora privo di una sua espressione politica matura.
Il futuro dell’Italia rimane incerto. All’ora di pranzo dell’11 aprile, dopo che i rimanenti voti degli italiani all’estero gli avevano conferito un’e-sigua maggioranza anche al Senato, Romano Prodi ha dichiarato vittoria per la seconda volta di fronte a un gruppo di giornalisti nella sede dell’Ulivo. Alla fine di tutto, la legge elettorale voluta da Berlusconi sembra abbia favorito il centrosinistra. Ma il Cavaliere, che resta il leader del più grande partito italiano, si curerà poco dell’ironia dell’evento dal momento che sarà impegnato a combattere per conservare tutto il potere possibile.
A dire il vero, la questione centrale resta l’eredità di Silvio Berlusconi all’interno del precario sistema democratico italiano. Romano Prodi ha detto cose giuste sulla necessità di dare al Paese unità, coesione e la speranza di un nuovo inizio. Una maggioranza molto ristretta al Senato – in un sistema politico come quello italiano dove entrambe le camere del Parlamento hanno un eguale status – renderà questi progetti molto difficili da realizzare. Ma, in ogni caso, l’Italia troverà unità solo se saprà sostituire il leaderismo populista con un nuovo spirito democratico. L’arresto del boss della mafia Bernardo Provenzano il giorno dopo le elezioni, dopo quarantatre anni di latitanza, può offrire agli italiani ossessionati dalla scaramanzia (ma anche agli stranieri) un buon segnale per il futuro. Forse l’Italia, alla fine, può davvero trasformare la paura in speranza.