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Giovedì, 23 Novembre 2006 19:27

SPERANZE “leggere”

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SPERANZE “leggere”di Gianni Ballarini
da Nigrizia/Settembre 2006

La sorpresa sta nel vedere il suo nome nell’elenco di chi vuole inserire il capitolo armi leggere nella 185 del 1990, la legge che disciplina il controllo sull’esportazione e importazione dei materiali di armamento. Proprio così: il generale Luigi Ramponi - ex presidente della commissione difesa del Senato e uomo di punta in Parlamento dell’ala militarista di Alleanza nazionale - ha dichiarato pubblicamente il suo appoggio alla proposta d’integrare l’attuale normativa con una regolamentazione delle operazioni legate alle armi leggere. E’ successo il 6 luglio scorso, in commissione difesa del Senato, dove, per la prima volta dopo 15 anni, si è discussa la 185. Relatrice, la diessina Silvana Pisa.

Ad ascoltare in aula la confessione di Ramponi, il sottosegretario alla difesa Lorenzo Forcieri, uomo di collegamento della Quercia con il mondo militare e già presidente dei parlamentari italiani nel gruppo Nato. In commissione, il sottosegretario ha confermato come l’esecutivo di centrosinistra «non abbia alcuna intenzione di stravolgere lo spirito della 185, che può tuttavia essere migliorata, attesi i profondi mutamenti che dal 1990 sono intervenuti in materia di commercio di armamenti». Frase buttata lì, che avrebbe potuto alimentare paure e interrogativi autunnali in chi teme ulteriori svuotamenti della normativa. L’esponente diessino fornisce a Nigrizia l’esegesi delle sue parole: «Non sono all’ordine del giorno di questo governo stravolgimenti peggiorativi della 185, in fatto di trasparenza. Si potrebbe intervenire solo per semplificare alcune norme. E penso che questa legge, se non viene vista ideologicamente come un totem intoccabile, possa essere migliorata, in particolare sul tema delle armi leggere, capitolo da introdurre nella normativa. Sarebbe un intervento assai utile e per nulla impossibile. Aziende del nostro paese esportano armi leggere, dopo aver vinto legittime gare internazionali. Perché non rendere questi passaggi assolutamente trasparenti? Se invece, come la storia recente ci ha insegnato, queste armi imboccano percorsi più oscuri e ce le ritroviamo “riciclate” in qualche paese in conflitto, è giusto un controllo rigoroso. Sono situazioni da regolarizzare».

Ma il sottosegretario sa che le sue parole camminano sul ghiaccio. «E’ una materia estremamente delicata e che irrita la sensibilità di molti. Ci vuole cautela nell’affrontarla».

E già in commissione difesa del Senato c’è stato chi ha alzato le antenne, come lo stesso presidente Sergio De Gregorio, espressione della maggioranza (senatore dell’Italia dei Valori), ma da sempre custode fedele degli interessi dei militari e delle aziende di settore. La cui lobby, sul tema, ha costruito le barricate. Sono altre le richieste che ha avanzato al governo Prodi: a) riportare le spese per la difesa sopra l’11% del Prodotto interno lordo (PiI); b) ristrutturare l’apparato militare, tagliando le spese che toccano organismi, sedi e personale, per potenziare la ricerca e lo sviluppo; c) continuare l’impegno nelle missioni militari all’estero; d) maggiore attenzione al processo di costruzione dell’Europa della difesa.

Ma è soprattutto sul primo punto che aziende e lobbysti non vogliono fare sconti. A sostegno della loro causa, portano il recente Rendiconto generale dello Stato, preparato dalla Corte dei Conti e dedicato all’esercizio finanziario 2005. I fondi destinati al ministero della difesa, già in diminuzione rispetto all’esercizio precedente, risultano essere stati decurtati anche in corso d’opera: lo stanziamento definitivo di 17.782 milioni è inferiore di 1.717 milioni rispetto a quello iniziale. E anche nei prossimi 3 anni la situazione, ascoltando le ragioni del clan “armiero”, non appare rosea. Nel Documento di programmazione economico-finanziaria (Dpef), discusso alle Camere, i tagli di bilancio per la difesa si aggirano attorno ai 412 milioni di euro.

AFFARI MILITARI

Un pianto militare che dura da anni. E che mal si concilia con la classifica che il Sipri, l’istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma, pubblica sulle spese militari. Anche nel 2005, l’Italia ha mantenuto la settima posizione, con 25,1 miliardi di dollari. Lo stesso ministro della difesa, Arturo Parisi, non disarma. Appena letto dei tagli, è partita una sua controffensiva. E ha annunciato che il governo ha previsto, per il 2006, uno stanziamento di 400 milioni di euro per la difesa. Senza trascurare le nuove risorse per la missione in Libano.

E pure le aziende di settore galleggiano nell’oro. La Finmeccanica controlla quasi per intero il mercato italiano. Nella lista delle 100 aziende top della difesa stilate da Defense News nel 2005, il colosso presieduto da Pier Francesco Guarguaglini è in quarta posizione in Europa, con ricavi pari a 7.670 milioni di dollari. Nel 2005 Finmeccanica ha registrato un incremento del 45% degli ordini del gruppo (da 10,5 a 15,4 miliardi di euro) e un più 25% di valore della produzione, portata a 11,4 miliardi di euro.

Una holding che spesso opera borderline. Sul confine. Con i vincoli posti dalla 185 che, talvolta, si scansano per lasciarla passare. Degli esempi? L’articolo 1 della legge del 1990 vieta il trasferimento di armi a paesi coinvolti in conflitti e responsabili di violazioni di convenzioni internazionali sui diritti umani. Una norma successiva nega il commercio “militare” con i paesi che risultano beneficiari di aiuti per la cooperazione.

In realtà, il 12 luglio scorso Alenia Aermacchi, società Finmeccanica, ha firmato un contratto con il ministero della difesa nigeriano per la manutenzione e l’aggiornamento di 12 velicoli MB-339. Valore dell’appalto: 84 milioni di dollari. Eppure, la Nigeria ha non solo problemi di gravi violazioni dei diritti, ma anche una situazione conflittuale nel Delta del Niger. E l’Italia, alla fine del 2005, ha cancellato ad Abuja quasi 900 milioni di euro di debito.

E’ passata quasi sotto silenzio, inoltre, l’intesa raggiunta a gennaio da Finmeccanica con la Libia. Il gruppo di Guarguaglini, Augusta Westland (sempre legata al colosso italiano) e la Libyan Company for Aviation Industry hanno sottoscritto un accordo per costituire una joint venture, denominata Liatec (Libyan Italian Advanced Tecnology Company), con sede a Tripoli, e che ha come compito quello di rimettere in efficienza le flotte di elicotteri e aerei libici. L’Augusta Westland, in concomitanza con l’annuncio della firma, ha ottenuto dalla Libia la commessa per 10 elicotteri A 109E Power, per un contratto il cui valore s’aggira sugli 80 milioni di euro.

Ma l’affare è ben più ampio di quanto possa apparire. E ha riflessi assai rilevanti per il business Finmeccanica in Africa. Infatti, la neo società beneficerà di diritti commerciali per la vendita di elicotteri, assemblati localmente, in un certo numero di paesi del continente. La Liatec, poi, sarà in grado di rifornire molti paesi dell’area di sistemi elettronici e terrestri, oltre all’assistenza tecnica, la manutenzione e le parti di ricambio. Segno che il gruppo italiano punta diritto anche sul mercato africano.

Il controllo in Italia

In Italia non esiste un quadro giuridico univoco e coerente in materia di armi leggere e di piccolo calibro (cfr. Le armi dei Bel Paese, di Elisa Lagrasta, per Ediesse Archivio Disarmo, 2005). La legislazione si articola in due settori: armi da guerra e armi comuni da sparo. Il primo è disciplinato dalla legge 185 del 1990; il secondo, dalla 110 del 1975. Le armi che non rientrano nell’elenco posto sotto osservazione dalla 185 sono le cosiddette armi civili, ossia pistole, revolver, carabine e fucili concepiti per la caccia, lo sport o la difesa personale, e le munizioni comuni da sparo. La 110 indica il ministero dell’interno come responsabile del rilascio delle autorizzazioni per le esportazioni di queste armi.

Letto 1599 volte Ultima modifica il Giovedì, 01 Marzo 2007 23:58

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