I DIFFICILI SENTIERI DELLA LIBERTÀ
di Attilio Giordano
L’Ancora aprile 2007
Il rapimento e la liberazione del collega Daniele Mastrogiacomo è stato l’ultimo episodio che invita a riflettere su queste nuove guerre al terrorismo, ma pure sullo spaesamento dei giornalisti, sempre più stretti tra il dovere di raccontare quello che accade e il nuovo ruolo di merce di scambio.
Comprensibilmente, in seguito all’ennesimo rapimento - che in tutti noi evoca orrore e terrori - si riapre una questione apparentemente estranea: è giusto stare in Afghanistan con i nostri soldati? È giusto stare nelle altre venti e più missioni militari nel mondo? Nel confuso e ideologico dibattito in corso si dimenticano un paio di cose che chi ha visto l’Afghanistan dal vero sa benissimo.
La prima: l’Italia è a Kabul e a Herat con una missione che le Nazioni Unite hanno affidato alla Nato. L’Italia può uscirne solo teoricamente. O meglio: può uscirne praticamente, ma mettendo a repentaglio non i suoi rapporti con l’America, ma con le Nazioni Unite. Secondo: anche ammettendo - ed io lo credo - che i bombardamenti americani in Afghanistan siano stati dettati da ragioni diverse da quelle dichiarate, non si può scordare che a Kabul, fino al novembre 2001, c’era un regime molto vicino al terrorismo che fece crollare il World Trade Center e colpì altri obiettivi negli Stati Uniti.
Se Saddam Hussein non c’entrava affatto, ed è pacifico, non lo stesso si può dire dei Taliban che ospitavano Bin Laden. E comunque: se oggi le forze dell’Onu abbandonassero l’Afghanistan non verrebbero meno a un’arrogante invasione.
Semplicemente, lascerebbero quel Paese in mano a bande criminali e selvagge che ne farebbero un campo di battaglia.
La posizione bellicosa americana - e di parte della politica italiana - è assurda quanto quella strenuamente pacifista che ci vorrebbe fuori dalle regole dell’Onu e cinici rispetto alla sorte dei poveri afgani.
L’aspetto più fastidioso - magari mentre un collega rischia la vita - è proprio questo dell’approccio di parte della nostra politica: così indifferente e faziosa, così ignorante della realtà, aggrappata a strumenti ideologici vecchi e irritanti. Si può discutere di queste cose avendo mente solo a un governo da mettere in difficoltà o a elettori da accontentare nei loro sentimenti più irrazionali?
In Afghanistan la libertà non è l’addio degli occidentali. Perché prima, durante decenni di storia, lasciati liberi, gli afgani, quelli tra loro che hanno armi e fanatismo da vendere, gestivano una Società enormemente ingiusta, priva di pietà, dove si uccidevano le donne con poco più rispetto di quanto non se ne usasse per gli animali, dove l’istruzione equivaleva al peccato, dove i poveri erano miseri e i contadini miserrimi schiavi dei signori della guerra e del loro oppio. Non c’era molto di buono in quella società guastata già dai tempi dell’invasione sovietica, quando gli americani finanziavano i “gloriosi taliban” contro il nemico comunista.
In questo pantano, in un certo senso, l’errore americano (e tanti morti che ha determinato) è stato entrare in un meccanismo senza uscita: si possono - adesso - lasciare le cose come le si è trovate? Si può abbandonare tutto all’ingiustizia dopo aver sprecato fiumi di parole sulla democrazia importata? Il Grande Gioco dei grandi strateghi è andato a picchiare in qualcosa di ostile e sconosciuto, in nessun modo gestibile. Una trappola. Dentro, c’è finito anche un giornalista onesto che ha fatto il suo lavoro a dispetto di tante difficoltà, con il rischio della vita, ma pure di diventare un’arma impropria.
E due disgraziati afgani, con i quali ho passato un mese anch’io, interprete e autista, che avevo ereditato proprio da Daniele Mastrogiacomo.