Mondo Oggi

Venerdì, 29 Giugno 2007 19:39

Colombia/Le miniere di smeraldi del Boyacà occidentale - LACRIME VERDI POLVERE BIANCA

Vota questo articolo
(6 Voti)
Colombia/Le miniere di smeraldi del Boyacà occidentaleLACRIME VERDI POLVERE BIANCA

di Viviana Peretti da Otanche - Colombia

Mondo e Missione/Aprile 2007

Racconta la leggenda che la principessa Tena pianse per l’abbandono di un cacique e le sue lacrime si congelarono nelle montagne sotto forma di verdi smeraldi, pietre preziose che quotidianamente «stregano» migliaia di persone nel mondo. In Colombia, la sfortunata principessa ha fatto la fortuna della gente del Boyacà occidentale, una delle più belle e fertili regioni di questo strano Paese sudamericano. Nonché delle più ricche di «gocce verdi».

Da Bogotà si arriva ad Otanche dopo sei ore di jeep, due su una «comoda» provinciale, il resto su una pista sterrata che si snoda tra colline di banani e caffé. Otanche è famosa per il complesso smeraldifero di Coscuez, che da sempre compete con Muzo, altro centro boyacense i cui smeraldi sono apprezzati d esportati in tutti i mercati del mondo. Secondo Jean Claude Michelou, direttore dell’Associazione internazionale delle gemme colorate, «le miniere di Muzo e Coscuez producono il 45 per cento degli smeraldi presenti sul mercato mondiale». Tuttavia, attualmente, il settore conosce una profonda crisi e le esportazioni sono inaspettatamente crollate. Tra le molteplici ragioni, la principale è rappresentata dal fatto che molti commercianti colombiani sono soliti iniettare delle resine all’interno delle pietre, alfine di correggerne gli errori e aumentarne così il valore. Ma con il tempo gli smeraldi ritoccati svelano l’inganno... C’è da dire però che il mercato nero continua ancora a foraggiare abbondantemente il settore.

Il complesso minerario circonda il villaggio di Otanche e sfama le dodicimila anime che ci vivono. Quasi tutta l’economia legale della regione, infatti, ruota intorno all’estrazione delle pietre, che vengono successivamente tagliate e commercializzate a Bogotà. In parallelo, però, fiorisce anche la coltivazione della coca. Secondo le Nazioni Unite, nella regione ci sono 359 ettari seminati con la planta maldita. Il governo ha promesso incentivi ai campesinos affinché piantino cacao, ma sinora si è trattato solo di promesse.

Tutta la zona è controllata dai patrones, concessionari delle miniere che sostituiscono lo Stato su tutti i fronti. Con i loro eserciti privati garantiscono la sicurezza e per riciclare i dollari del narcotraffico costruiscono case, scuole, chiese e ambulatori... Qualunque problema d’ordine pubblico si gestisce come se fosse un affare privato. Dal 1946 lo Stato colombiano si limita solo a concedere gli appalti per lo sfruttamento delle miniere, senza esercitare nessun tipo d’autorità nella regione. Nel villaggio esiste una stazione di polizia, ma in giro non si vede neppure l’ombra di un poliziotto. Si vocifera che siano barricati nel commissariato.

I politici colombiani arrivano da queste parti solo in periodo d’elezioni. Vengono a stringere mani e a dare pacche sulle spalle. Arrivano in cerca di voti o, meglio ancora, a comprare voti. «Sbarcano e organizzano pranzi pubblici, macellando vacche nella piazza principale, affinché le persone si ricordino di loro nelle urne», racconta David, giovane minatore nato ad Otanche. E aggiunge: «Arrivano su fuoristrada tappezzati di manifesti e carichi di sacchi di riso e zucchero». Promettono alla gente d’investire in infrastrutture e ai pezzi grossi locali di continuare a chiudere un occhio sui loro traffici illegali. Ma solo nel secondo caso mantengono le promesse. Così questi signorotti continuano a spadroneggiare nell’assoluta latitanza di uno Stato che continua a definirsi la più antica democrazia latinoamericana.

Otanche è il feudo di Vìctor Carranza, conosciuto a livello internazionale come lo «zar degli smeraldi», e accusato dalla giustizia colombiana di paramilitarismo e sequestro estorsivo nella Costa Atlantica e negli Llanos, le immense pianure orientali al confine col Venezuela. Secondo l’accusa, tra il 1984 e il 1989, Carranza ha formato e finanziato gruppi paramilitari nelle regioni di Muzo e Coscuez. L’idea di don Vìctor, come lo chiamano i suoi uomini, era impedire all’estinto cartello della droga di Medellìn d’impadronirsi dei migliori giacimenti smeraldiferi del Paese. Pablo Escobar, infatti, aveva messo gli occhi sull’affare degli smeraldi per poter riciclare i dollari che provenivano dalla vendita della cocaina. Lo «zar» ha vinto la battaglia e nel 1990 è stato incluso nell’esclusiva lista di miliardari che pubblica la rivista Forbes, con una fortuna stimata in mille milioni di dollari.

Dal 1998 Carranza ha affrontato tre processi, dai quali è sempre uscito vittorioso. L’ultimo gli è costato tre anni di carcere ma, dopo un’estenuante battaglia giudiziaria, è stato assolto ancora una volta. Oggi vive nella zona e, oltre a frequentare le miniere di sua proprietà per scegliere le pietre migliori da vendere all’estero, si dedica alla promozione turistica della regione, organizzando, tra le altre cose, un concorso di bellezza che assegna l’altisonante titolo di Miss Esmeraldas. Ennesimo inno all’ipocrisia e alla frivolezza in un territorio dove il 72 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Triste primato uguagliato solo dalla regione più povera della Colombia: il Chocò, sulla costa pacifica.

Quando Carranza è alle prese con tribunali e centri penitenziari, a farne le veci è il suo luogotenente, don Darìo, un quarantenne molto disponibile che somiglia sfacciatamente a Pablo Escobar: stessa stazza, stesso sorriso assassino, stessi baffetti insignificanti e undici figli sparsi nella regione, oltre a una fedina penale che farebbe impallidire anche il killer più sanguinario. Ha in gestione alcune miniere e, in più, secondo molti, controlla la produzione ed esportazione della polvere bianca.

I «mammasantissima» e le loro guardie del corpo, detti pàjaros (picciotti), vanno in giro con tanto di pistola e due caricatori alla cintola. Nella zona tutti hanno il ferro (la rivoltella) e lo usano al calar delle tenebre. La colonna sonora di Otanche, infatti, non è la salsa come nel resto del Paese, bensì il rumore di spari e raffiche di mitra che profanano la pace notturna. Così può capitare di alzarsi all’alba e incontrare la proprietaria dell’albergo che toglie le macchie di sangue dalla soglia di casa. Lo fa come se spolverasse, con una naturalezza che lascia senza parole. Gli spari, però, non sono una prerogativa solo notturna. Spesso, infatti, jeep e Bmw blindati attraversano le polverose strade del villaggio, smuovendo l’afa pomeridiana con colpi in aria per celebrare l’arrivo a destinazione di un carico di cocaina. Se non fosse così verdeggiante e non mancassero stivali e speroni, potrebbe sembrare il Far West, con omaccioni cinti da cinturoni portati con falsa disinvoltura su pantaloncini da mercatino delle pulci e ciabatte da mare. Su tutti spicca per eleganza «EI Divino», un giovane che da anni gestisce diverse miniere e sfoggia i suoi gioielli anche in piscina. infatti, non è raro vederlo a bordo vasca, con addosso la fondina impermeabile, dove ripone la sua Browning con impugnatura di madreperla e due immancabili caricatori. Pare che abbia fatto fortuna come minatore. E uno dei pochi a poter raccontare il mistero e la magia d’iniziare come umile picconatore per poi trovarsi a gestire miniere e mercato della droga. La stessa parabola di Vìctor Carranza: inizi da minatore di Guateque, piccolo villaggio boyacense, per arrivare ad essere lo «zar degli smeraldi».

La maggior parte di coloro che scendono anche duemila metri sotto terra per dodici lunghe ore, alle prese con dinamite e temperature superiori ai quaranta gradi, sono i poveri, i tanti disperati figli del pueblo colombiano. Ciascuno sopporta, abbassa la testa e tira avanti come può nella speranza d’arrivare un giorno a incontrare la pietra che cambierà la propria sorte e quella della propria famiglia. Una famiglia spesso lontana, dalla quale si ritorna più spesso malati che vincitori. O che a volte vive nelle tante piccole baraccopoli che circondano le miniere, catapecchie sospese in aria sui pendii delle montagne. E così i figli finiscono col fare il lavoro dei padri, accarezzando il sogno che prima o poi arrivi la suerte, la fortuna, mentre le mogli si danno da fare, setacciando il materiale portato in superficie, nella speranza di recuperare qualche briciola verde, qualche morrallita, come vengono chiamate le lacrime di poco valore. Anche se può sembrare assurdo, per molti essere minatore è un privilegio e bisogna lottare per diventarlo. «Qui è molto difficile entrare e ci si riesce solo con la raccomandazione di un patròn, senza la quale è impossibile anche solo avvicinarsi a una miniera», spiega Agustìn Mendoza, mentre confessa che il suo incubo ricorrente è di perdere il lavoro.

A Otanche l’attività di scavo non s’interrompe mai e la montagna non sa cosa sia il riposo, così come non lo sanno i tanti minatori e guaqueros che s’alternano durante l’intera giornata, con turni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, in condizioni di lavoro estreme, con calore e umidità folli, respirando continuamente polvere. Quella maledetta polvere che s’attacca ai polmoni e li fa invecchiare rapidamente, quando non provoca la morte per tumore o silicosi.

Rolando è uno dei tanti sopravvissuti a questo destino di sofferenza e morte. Ha 28 anni e non appena maggiorenne ha deciso di lasciare la sua città natale, Chiquinquirà, a quattro ore dalle miniere, per tentare la sorte e magari rientrare da vincitore. E’ quasi scappato di casa inseguendo il sogno delle miniere e della ricchezza facile e veloce. Una volta a Otanche, però, si è scontrato con le dure condizioni di lavoro nelle miniere, con turni che sembravano non finire mai, con la stanchezza fisica e mentale e con l’assenza di prospettive. «Ho provato la fame e la disperazione di non poter mangiare nient’altro che pane e acqua zuccherata perché spesso, dopo dodici ore di lavoro, non avevo neppure tremila pesos (circa un euro - ndr) per un pasto», dice senza nostalgia. Si è scontrato anche con l’avidità degli appaltatori dei tunnel, ai quali vanno tutte le pietre estratte, se non si fa in tempo ad ingoiarle prima. Finché un giorno un’infezione gli ha provocato piaghe immonde che non si rimarginavano mai e per curarsi ha dovuto - provvidenzialmente - lasciare la vita da minatore... Oggi è avvocato: «Devo la vita alla malattia e ai miei che mi hanno riaccolto senza troppe domande», riconosce Rolando con un nodo in gola.

Secondo monsignor Luis Felipe Sànchez, vescovo di Chiquinquirà, «i contadini preferiscono lavorare anni nelle miniere, convinti che prima o poi diventeranno ricchi, invece di coltivare la terra fertile. E se si dedicano all’agricoltura in genere coltivano coca, perché i e tradizionali prodotti locali - arance e banane - permettono guadagni irrisori, mentre la coca rende molto di più». Negli anni Ottanta, l’apparente tranquillità della regione si è rotta. Mentre le miniere producevano a pieno ritmo, qualcosa che oggi è soltanto un ricordo, è scoppiato uno scontro tra faide senza precedenti, conosciuto come Guerra verde, che ha lasciato sul terreno 3.500 vittime. Le ritorsioni sono arrivate sino al mercato bogotano degli smeraldi, dove si sparava come sul set di un film western. La guerra è finita nel 1990 con un accordo di pace promosso dalla Chiesa e firmato da Carranza e altri leader degli smeraldi.

Una minaccia oggi è rappresentata dai guerriglieri delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), che da diversi anni cercano d’infiltrarsi nella regione per mettere le mani sul mercato delle pietre e sul più redditizio traffico della droga.

E’ come essere sempre in attesa che la polveriera sulla quale ci si trova seduti esploda.

Letto 3973 volte Ultima modifica il Mercoledì, 26 Settembre 2007 18:53

Search