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Venerdì, 25 Gennaio 2008 18:53

TRADIZIONI RISPETTATE

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AFRICA I L’ONU APPROVA LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DEI POPOLI INDIGENI
TRADIZIONI RISPETTATE

di Luciano Ardesi
Nigrizia/Novembre 2007

Ci sono voluti oltre vent’anni di mobilitazione e quasi quindici di discussioni alle Nazioni Unite perché l’Assemblea generale adottasse finalmente, lo scorso 13 settembre, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni.

Più volte sul punto di essere approvato, il documento alla fine ha visto la luce solo perché, nel corso del tempo, gli stati hanno capito che, in fondo, la Dichiarazione non sarebbe stata altro che un pezzo di carta, moralmente importante, ma nulla di più. La risoluzione con la quale l’Assemblea generale l’ha approvata non è, infatti, giuridicamente vincolante. Nonostante questo limite, non sono mancati i voti contrari di quattro paesi, tutti del mondo ricco (Australia, Canada, Nuova Zelanda e Usa), e le astensioni (undici, tra cui tre paesi africani: Burundi, Kenya e Nigeria).

A spingere alla sua adozione sono state, in primo luogo, le organizzazioni indigene latino-americane; quelle africane sono intervenute molto più tardi. Del resto, dai governi africani sono venute alcune delle maggiori resistenze, proprio perché per molti di essi parlare di popoli indigeni significa evocare il fantasma del tribalismo e la particolarità etnica che ostacolerebbero la costruzione dello stato moderno e unitario. Per questi motivi, in Africa, l’emergere di una coscienza indigena è stata enormemente ritardata.

La Dichiarazione elenca un gran numero di “diritti”: un catalogo sterminato che solo interventi specifici, e resi coercitivi mediante leggi nazionali, potrà rendere effettivo. Un diritto emerge su tutti: quello dell’autodeterminazione (art. 3). È stato tra i più controversi, per timore che, analogamente al diritto di autodeterminazione per i popoli colonizzati, potesse significare il diritto alla secessione o la rimessa in discussione dell’unità nazionale. Nella Dichiarazione ha un significato più circoscritto di autogoverno all’interno dello stato cui il popolo indigeno appartiene. Ne consegue che è riconosciuto il diritto di decidere autonomamente il proprio statuto politico e il proprio sviluppo economico, sociale e culturale. I popoli indigeni hanno, pertanto, la possibilità di mantenere le proprie istituzioni tradizionali, così come di dotarsi di nuovi ordinamenti.

Tre principi appaiono particolarmente importanti. Il primo è quello della non discriminazione (art. 2). Infatti, il tratto comune a tutti i popoli indigeni del mondo sono le diverse forme di emarginazione di cui sono vittime. Il secondo principio è il diritto a non subire l’assimilazione forzata o la distruzione della propria cultura (art. 8). Oltre alle politiche volontaristiche degli stati, la minaccia più forte viene da quella particolare forma di assimilazione forzata costituita dai processi di globalizzazione, che obbligano anche i popoli indigeni ad assumere modelli di vita standardizzati. Per questi motivi, la Dichiarazione prevede non solo una generica protezione della cultura e delle tradizioni, ma, soprattutto, la possibilità di mantenere o creare sistemi educativi propri. Infine (terzo principio), è riconosciuto ai popoli indigeni il diritto a non essere deportati dal proprio territorio o a non essere reinseriti senza il loro consenso (art. 10). Quest’ultimo principio rinvia alla questione fondamentale dello sfruttamento delle risorse naturali nei territori indigeni. La Dichiarazione non contiene il diritto dei popoli indigeni a controllare le risorse naturali del proprio territorio. Fa unicamente obbligo agli stati di «consultarli» (art. 32), prima approvare qualunque progetto di sviluppo che abbia delle incidenze sulle loro terre. Nessuna proprietà è, quindi, riconosciuta ai popoli indigeni sulle risorse minerarie: si parla piuttosto di riparazioni per le conseguenze nefaste di questi piani di sviluppo.

Nonostante i limiti, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni è stata salutata in modo positivo dalle organizzazioni che li rappresentano, comprese quelle africane. Viene giudicata non un punto di arrivo ma di partenza, per far riconoscere quei diritti che faticosamente sono stati enunciati. Nessuno, all’interno di queste organizzazioni, s’illude che la seconda tappa sarà meno lunga e difficile della prima.

DIFFICILE DEFINIZIONE

Ma chi sono i popoli “indigeni” cui fa riferimento la Dichiarazione? Uno dei motivi che per anni hanno bloccato l’adozione del testo è stata proprio l’impossibilità di trovare una definizione che mettesse tutti d’accordo. Alla fine, ci si è arresi al fatto che nel diritto internazionale non ci sono definizioni di “minoranza” o di “popolo”, pur riconoscendo a queste entità alcuni diritti specifici.

La situazione africana è complicata dal fatto che quasi tutti i gruppi sociali possono dirsi indigeni, nel senso di essere originari del continente o di esservi installati da lungo tempo. La differenza culturale è un altro elemento importante, ma in Africa ciò vale per tutti i popoli indistintamente (si pensi, ad esempio, all’immensa varietà delle lingue). L’aspetto decisivo è oggi, piuttosto, la coscienza dei popoli di essere “autoctoni”. Finora, pochi popoli africani si sono definiti tali e si sono dati forme organizzate di rappresentanza. È probabile che proprio la Dichiarazione indurrà alcuni di essi a darsi una identità indigena e una organizzazione conseguente.

Anche in Africa, tuttavia, non si è attesa la Dichiarazione per far valere i diritti. I tuareg hanno tentato la via nazionale al riconoscimento dei propri diritti, soprattutto in Niger e in Mali, a partire dagli anni ‘90, anche attraverso la lotta armata. Finora gli accordi di pace non sembrano aver soddisfatto le loro rivendicazioni. Essi, comunque, come parte del popolo berbero (amazigh), hanno cercato di creare un’organizzazione internazionale che li rappresentasse tutti.

Significativa, nel dicembre scorso, è stata la vittoria ottenuta dai san del Botswana davanti all’Alta Corte del paese. Cacciati dalla riserva del Central Kalahari Game Riserve, essi hanno ottenuto il diritto al ritorno. Un anno più tardi, tuttavia, il governo di Gaborone ha rinnovato le misure di espulsione.

Sono ritornati alla ribalta gli ogoni, il popolo maggioritario nel Delta del Niger (Nigeria), di cui era originario Ken Saro Wiwa, lo scrittore-poeta impiccato nel 1995 per aver difeso il suo popolo. I recenti rapimenti di tecnici stranieri nella regione del Delta li hanno additati come “terroristi” (accusa che le organizzazioni ogoni respingono con forza). E proprio da loro vengono alcuni dei consensi più entusiasti alla Dichiarazione, consapevoli che essa potrà costituire un prezioso strumento di lotta, anche per la parte del documento dedicata alla salvaguardia dell’ambiente.

Letto 1665 volte Ultima modifica il Domenica, 09 Marzo 2008 01:40

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