Conferme, ma anche qualche (grossa) sorpresa
LE DONNE DELL’ISLAM E IL SOGNO DEL PROFETA
di Angela Lano
MC Ottobre-Novembre 2007
La situazione femminile nelle società arabe e islamiche non è facilmente analizzabile e decodificabile, ammesso che non si vogliano utilizzare i facili clichè a cui i media ci hanno abituato. Nei decenni passati, in molti paesi (Palestina, Iran, Algeria,ecc.), le donne avevano preso parte alle lotte popolari contro gli eserciti oppressori, abbandonando i ruoli tradizionali per ricoprirne di nuovi e dinamici. Tuttavia l’emergere di gruppi radicali dell’islam politico ha portato all’arretramento della loro posizione e alla perdita di diritti che sembravano ormai conquistati per sempre.
In Egitto, culla del primo femminismo arabo e islamico, da vent’anni a questa parte è in atto una islamizzazione molto forte della società, il cui primo segno visibile è l’abbigliamento femminile: la maggior parte delle donne è avvolta in veli neri che coprono anche il volto, lasciando intravedere solo gli occhi.
In generale, e a livello mondiale, la condizione femminile sta peggiorando anziché migliorare.
Per quanto riguarda il mondo musulmano,ciò non è attribuibile all’islam di per sé, quanto al sopravvivere,all’interno di queste società, di sedimenti,di strutture antiche di tipo tribale, maschiliste e patriarcali.
l profeta Muhammad, uomo illuminato e dalla spiccata sensibilità (da quanto emerge nel Corano, in molti hadith, detti e fatti, e nelle biografie), promosse infatti una sorta di «liberazione femminile» ante-litteram, la cui portata rivoluzionaria venne tuttavia soffocata dal tribalismo misogino ancora molto forte e,ad un certo momento, prevalente. Ma ne parleremo più avanti.
In numerosi paesi musulmani,dunque, sono ancora - o sarebbe meglio dire,di nuovo - molto forti le tendenze maschiliste. Nel 900, infatti, molte società avevano iniziato a «liberarsi» dal peso di tradizioni che consideravano le donne inferiori all’uomo, non dotate di autonomia, da tenere a bada sotto veli e con tutori che vigilavano sulla loro purezza.
Ora,questa tendenza maschilista è tornata alla ribalta. Numerosi eventi,dalla fine degli anni ‘60 in poi, hanno contribuito a far richiudere in se stesse le società islamiche: sconfitta nella «Guerra dei Sei giorni», con Israele; fine del bipolarismo Usa-Urss e creazione della «minaccia islamica»; guerre del Golfo; guerra in Afghanistan; questione palestinese mal risolta; neo-colonialismo e sfruttamento delle risorse energetiche da parte dell’occidente; 11 settembre 2001; «scontro di civiltà» e altro ancora, Il ritorno alla religione, vissuta in modo totalizzante, integralista, è una conseguenza, spesso, del sentirsi «minacciati» dall’esterno, deprivati di una propria identità.
E poiché, nel mondo islamico, la religione rappresenta una modalità identitaria molto forte, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi.
La separazione tra uomo e donna
La separazione dl ruoli e spazi è sempre stata ben presente nella tradizione islamica, ma nella seconda metà del ’900 la vita moderna delle città ha portato a una promiscuità maggiore,come in Marocco, per esempio. Tuttavia, in molte società, spesso arretrate economicamente, socialmente e culturalmente, tira un’aria da «periodo ottomano» (non possiamo, infatti, parlare di “Medioevo”, poiché per la civiltà arabo-islamica quel periodo coincide con il massimo splendore).
Ci sono regioni come la poverissima e soffocata (dagli israeliani e dagli embarghi occidentali) Striscia di Gaza, vera e propria prigione a cielo aperto,dove uomini e donne non possono entrare insieme negli internet cafè o dal parrucchiere, o dove il semplice conversare tra persone di sesso diverso, a migliaia di chilometri di distanza, e in una chat-line,crea scandalo.
Nella Palestina oppressa da un regime israeliano eguagliabile o peggiore dell’apartheid sudafricano,dalla fine degli anni ’80 in poi sono aumentati notevolmente i cosiddetti «delitti d’onore», un crimine-tragedia che colpisce sia donne ancora bambine sia anziane e che nasconde frustrazioni e squilibri maschili, bigottismo tribale, follia e tanto altro ancora. Un dramma sociale che associazioni per la difesa del diritti umani e organizzazioni femminili non si stancano di denunciare.
A tutto ciò si vanno ad aggiungere, in tanti altri Paesi, le violenze domestiche, l’imposizione di neqab, burqa e chador (diversi tipi di veli che coprono totalmente o parzialmente il corpo femminile).
Le nove mogli del Profeta
Attraverso i suoi tanti e bei libri (Donne del Profeta, Le Sultane dimenticate, La terrazza proibita, e molti altri ancora Fatima Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina di fama internazionale, ci racconta un «altro islam»,quello del profeta Muhammad.
Nelle sue opere,Fatima Mernissi cerca di fornire una nuova interpretazione delle leggi islamiche in un’ottica di «uguaglianza tra uomo e donna», andando alla scoperta del «messaggio profetico» dei testi sacri. Ella definisce Muhammad il primo «femminista arabo», evidenziando come, infine, furono proprio i valori tribali preislamici a prevalere, sino ai nostri giorni, cristallizzati dalla shari’a e dal fiqh che si svilupparono nei secoli successivi.
Muhammad nacque nell’Arabia tribale del 570 d.C. Fu uomo illuminato, profeta e capo politico dalle istanze rivoluzionarie. Cambiò, almeno in parte, le abitudini e i costumi sociali e culturali dei suoi contemporanei. Predicò la «sottomissione a Dio»: islam, infatti, significa proprio questo. Nel suo slancio innovatore cercò di modificare le usanze tribali radicate, che spesso infierivano sulle donne e su altre categorie sociali deboli: vedove,orfani,schiavi.
Diversamente dalle culture che lo precedettero o che lo affiancarono nell’area mediterranea, egli tenne in gran considerazione la condizione femminile e modificò radicalmente alcune regole inique su matrimonio, eredità, diritti, quotidianità.
Le sue mogli - ne ebbe nove - erano donne forti, belle, intelligenti, protagoniste nella formazione della nuova comunità islamica: Khadija, l’amata prima (e finché fu in vita, unica) moglie; Umm Salma, consapevole dell’importanza del ruolo femminile; Zaynab; Aisha, la sua prediletta e sposa-bambina, che grande peso ebbe nella storia dell’islam degli inizi - fu una delle cause che portarono alla guerra interna tra i successori del profeta e i seguaci di Ali (da cui nascerà il movimento sciita, ndr).
Anche la figlia Fatima,moglie del cugino Ali, ebbe con il padre un intenso rapporto affettivo.
La «rivoluzione culturale e sociale» di Muhammad si spinse fino a un certo punto. La Mernissi lo spiega chiaramente: egli non poté e non volle inimicarsi i seguaci, maschi, della nuova fede, enfatizzando e trasformando la condizione e il ruolo della donna araba. Aveva bisogno della fedeltà dei maschi per contrastare gli attacchi dei meccani (gli abitanti della Mecca che osteggiarono la predicazione di Maometto, ndr) e dei nemici dell’islam.
Non voleva dunque minare dalle fondamenta la società tribale basata sulla guerra, sul bottino, di cui le donne erano parte. Dare più importanza ad esse, liberarle completamente dalla schiavitù a cui erano soggette, voleva dire sconvolgere l’economia stessa delle tribù, l’impalcatura sociale e il concetto di guerra e razzia.
Dunque,non gli fu concesso, dalla dura realtà dell’ambiente in cui visse,di portare a termine, di realizzare appieno il suo grande sogno rivoluzionario di parità fra tutti gli individui, donne e uomini, liberi e schiavi.
Non riuscì, infatti,a estirpare il maschilismo e misoginia dalla testa dei maschi del suo tempo. Questo «conflitto» morale, interno, emerge dalle sure coraniche.
Tuttavia,qualche miglioramento, rispetto ai tempi della jahiliyah ,com’è chiamata l’epoca preislamica, ci fu: alla donna fu garantito il controllo e l’amministrazione dei propri beni al di fuori dell’autorità paterna o maritale. Certamente un fatto rivoluzionario.
Le basi del femminismo arabo-islamico
La lotta di liberazione della donna prese l’avvio ai primi del Novecento, in concomitanza con i nazionalismi arabi: certi intellettuali pensavano che la condizione di sudditanza rispetto all’uomo,in cui essa era da secoli e secoli costretta a vivere,fosse una sorta di effetto della «decadenza araba e della sua sottomissione alle potenze straniere».
Un uomo, un egiziano, nel 1899 pose le basi del femminismo arabo-islamico:era Qasim Amin, autore di due libri che divennero celebri: Tahrir al-Marah (La liberazione della donna), e Al-Marah al-Jadidah (La donna nuova). Nel primo invitava le donne a togliersi il velo e prendere parte alla vita attiva; nel secondo sottolineava che la liberazione femminile da lui incoraggiata era fondata sul rispetto dell’islam e non sull’imitazione delle mode occidentali.
Amin diede il via a una discussione ancora pienamente in corso: l’uso del velo non è un obbligo esplicito, ma è frutto dell’imposizione sociale.
Velo sì, velo no: una questione annosa
In concomitanza con la nascita del primo femminismo europeo, anche in Egitto le donne iniziarono a rivendicare libertà di espressione e movimento.
Un gesto clamoroso, nel 1923, diede l’avvio ai movimenti di emancipazione femminile:due intellettuali borghesi, Huda ash-Sharawi e Siza Nabaraawi, si tolsero il velo mentre scendevano dal treno al Cairo, di ritorno da un congresso femminile svoltosi a Roma.
Esse rappresentavano l’alta borghesia occidentalizzata e un po’snob. La loro azione estrema (vennero picchiate dalla polizia egiziana) convinse molte altre a rivendicare diritti negati per secoli.
In un’ottica diversa si poneva invece la connazionale Malak Hifni Nasif (1886-1918), nota come Baithat al-Badiya (Colei che cerca nel deserto), una delle prime femministe arabe: l’emancipazione doveva giungere da una scelta delle donne arabe e musulmane stesse, e non dall’imitazione di modelli occidentali o dal suggerimento dei maschi «femministi».
Ella sosteneva infatti che dovevano essere le donne a decidere se, quando e come «liberarsi».
«La maggior parte di noi donne continua ad essere oppressa dall’ingiustizia dell’uomo, che col suo dispotismo decide quel che dobbiamo fare e non fare, per cui oggi non possiamo avere neppure un’opinione su noi stesse. (...) Se ci ordina di portare il velo, noi obbediamo. Se ci chiede di toglierlo, facciamo altrettanto».
Anche per lei, l’islam non dava regole sull’uso o meno dello hijab: «portare il velo non significa essere più pudiche rispetto a quelle che non lo indossano. Il vero pudore non sta in questo».
Islamiste: «No, aI femminismo occidentale»
La ricerca «La donna nel Mediterraneo», condotta alcuni anni fa dall’università Federico Il di Napoli, spiega: «Le islamiste riconoscono l’uomo come “tutore”della donna e restano molto legate alla realtà della loro condizione che accettano come predestinazione. (...) Le donne che vogliono tornare all’islam originario sono ottimiste perché pensano di avere un ampio margine di movimento nella società e nel campo del diritto, proprio come Khadija e Aisha (due mogli di Muhammad).Quindi respingono il femminismo di stampo occidentale perché lo ritengono uno strumento del colonialismo e non condividono il tipo di libertà offerta alle donne.
Il frutto del femminismo occidentale è, secondo loro, quello di trasformare la donna in un oggetto sessuale e in uno strumento pubblicitario di capitalismo patriarcale. Esso è stato incapace di ritagliare un posto appropriato per il matrimonio e la maternità e non è riuscito a modificare il mercato del lavoro in risposta ai bisogni delle donne. In questo modo il femminismo occidentale ha trasformato le donne in cittadine permanenti di seconda classe, non riuscendo a portarle alla pari degli uomini.
(...) L’islam ai suoi inizi ha fornito alle donne dei modelli esemplari e ha indicato un cammino che può essere dignitosamente seguito ad ogni stadio: Fatima, in quanto figlia del profeta Mohammad e moglie di Ali, rappresenta un modello idealizzato e idolatrato dagli sciiti; Khadija è onorata da tutti i musulmani per la sua intraprendenza e per l’essere stata una moglie che ha sempre sostenuto il marito; Aisha per il suo intelletto e per la sua leadership politica.
Pertanto, le fondamentaliste islamiche non hanno bisogno degli esempi occidentali, perché hanno un proprio percorso di liberazione che vogliono seguire».
Il Corano e l’«hijab»
LA «DISCESA» DEL VELO
Secondo Fatima Mernissi, lo hijab, letteralmente «cortina», «disceso» per «porre una barriera non tra un uomo e una donna, ma tra due uomini».
La sociologa marocchina, nel suo libro Donne del Profeta (1997), sostiene che è impossibile comprendere un versetto del Corano «senza conoscere la storia e le cause che hanno portato alla sua rivelazione».
Ella dunque esamina il contesto storico e i fattori che hanno portato, nell’anno 5 dell’egira (627 d.C.), alla rivelazione del versetto 53 della sura XXXIII del Corano: «O voi che credete. Non entrate negli appartamenti del Profeta a meno che non siate stati autorizzati in occasione di un invito a pranzo. E in questo caso, entrate solo quando il pasto è pronto per essere servito. Se dunque siete stati invitati (a pranzare), entrate, ma ritiratevi non appena avete finito di mangiare, senza abbandonarvi a conversazioni familiari. Una simile negligenza dispiace (yu’di) al Profeta che ha ritegno a dirvelo. Dio, però, non ha ritegno a dire la verità. Quando andate a domandare qualcosa (alle spose del Profeta) fatelo dietro un hijab. Ciò è puro per i vostri cuori e per i loro».
Questo versetto, spiega la Mernissi facendo riferimento all’interpretazione di Tabari (un commentatore di letteratura religiosa morto nel 922),è «disceso» il giorno in cui Muhammad aveva preso una nuova moglie, la cugina Zaynab. Egli, dunque, desiderava appartarsi con lei. Tuttavia, un gruppetto di invitati piuttosto fastidiosi non si decideva a lasciare la sua dimora. «Il velo - scrive la sociologa - sarebbe una risposta di Dio a una comunità dagli usi grossolani che, con la sua indelicatezza, feriva un Profeta così cortese da apparire timido».
Nell’articolo «La donna musulmana tra l’emancipazione del Corano e la limitazione degli studiosi islamici», pubblicato sul quotidiano Al-Ahram il 5 giugno 2002, Gamal al-Banna, intellettuale islamico ricorda che hijab, nel senso cranico, «non vuoi dire niqab (il velo che copre anche il viso) o il velo per i capelli, ma una porta o una tenda che copre e nasconde chi è all’interno rispetto a chi si trova all’esterno, e impone a colui che entra di chiedere il permesso prima di farlo». Va ricordato, infatti, che agli inizi del periodo islamico, la maggioranza della popolazione viveva in tende e non in case.
Dal racconto di ‘Omar lbn al-Khattab (compagno dell’inviato di Dio), spiega al-Banna, «i devoti entravano dal Profeta senza chiedere il permesso, anche quando egli si trovava con le sue spose».
Ai-Banna aggiunge anche che a Medina «si era diffusa la pratica del ta’arrud sulle donne di ogni classe sociale. Questa pratica consisteva nell’appostarsi sul cammino di una donna per incitarla a fornicare. Per questo motivo alcuni uomini, fra cui ’Omar Bin Al-Khattab, capo militare senza pari e compagno dell’inviato di Dio, fecero pressione sul Profeta al fine di ordinare alle donne di indossare lo hijab per essere distinte dalle schiave, ed essere così protette dai ta’arrud».
In sostanza, secondo i due studiosi sopracitati, il Corano ordinerebbe soltanto di coprire con un velo il décolleté e di evitare abbigliamenti volgari o provocanti.