ANTIPOLITICA, CRISI DI SISTEMA E RISCOPERTA DEL “BENE COMUNE”
di Giannino Piana
docente di teologia morale
La crisi che la politica attraversa oggi nel nostro Paese va facendosi ogni giorno più allarmante. L’assenteismo che si è manifestato, in termini assai consistenti, nel corso delle ultime elezioni amministrative è un sintomo inequivocabile dello stato di sfiducia dilagante. Il rischio è che tale sfiducia si tramuti in cinismo antipolitico e in qualunquismo, persino in un atteggiamento di netto rifiuto di tutto ciò che ha a che fare con lo Stato e con le sue articolazioni istituzionali. La crescente disaffezione (e diffidenza) che la gente comune nutre, e che è peraltro largamente confermata dalle indagini demoscopiche condotte in questi ultimi mesi, è dovuta a considerazioni di varia natura: si va dalla lievitazione costante dei costi della politica, all’assenza di trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica, fino allo scarso ricambio della classe dirigente. A queste motivazioni si aggiungono poi quelle derivanti dall’introduzione del bipolarismo che, se ha creato, da un lato, in molti serie difficoltà a riconoscersi nell’uno o nell’altro dei due schieramenti - l’area che ciascuno di essi ricopre è infatti eccessivamente estesa - non ha reso, dall’altro, agevole il compito di governare (e persino di fare compattamente opposizione), essendo quanto mai accentuata la disomogeneità delle forze che fanno capo a entrambe le coalizioni. Per questo vi è chi parla (e non a torto) di crisi strutturale (e non puramente congiunturale) e, più radicalmente, di vera e propria crisi di sistema.
La riprova di quanto tale crisi sia estesa (e del disagio che essa genera) è data dall’enorme successo conseguito dal recente volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dal titolo La casta (Rizzoli, 2007), nel quale la debolezza della politica (e i mali reali che la travagliano) è ricondotta alla persistenza di “caste” intoccabili, piccole e grandi, che si perpetuano da tempo al comando della “cosa pubblica” in successione dinastica, sbarrando la strada a chiunque altro si affacci e impedendo qualsiasi sforzo di rinnovamento. L’accusa riguarda, in primo luogo, i partiti che da luoghi di partecipazione e di coagulo del consenso, nonché di elaborazione dei grandi progetti per la vita della collettività, si sono trasformati in luoghi di mera gestione del potere e talora persino in comitati d’affari.
La scarsa partecipazione dal basso - il numero degli iscritti e delle sezioni si è drasticamente ridotto anche in partiti di grande tradizione popolare -, il prevalere di una classe dirigente fatta di poche persone, una vera e propria oligarchia di potere - a questo si allude quando si parla di “casta” (peraltro rafforzata dall’ultima legge elettorale, che ha sottratto ai cittadini la possibilità di scegliere per chi votare) - e la quasi totale assenza di dibattito interno hanno finito per ridurli a realtà autoreferenziali, in cui l’interesse di gruppo (o quello di una ristretta élite di persone) ha il sopravvento sull’interesse generale.
Tutto ciò in un momento come l’attuale in cui si assiste a una profonda divaricazione sociale, dovuta al processo di finanziarizzazione dell’economia; processo che - come giustamente osservava qualche tempo fa Lucia Annunziata su La Stampa - favorendo la cumulazione di ricchezze sempre più ampie da parte di pochi e comprimendo la classe media, ha accentuato la distanza tra una cerchia ristretta di “mandarini” e il resto del Paese. La classe politica, che si trova a far parte dell’area dei privilegiati e che è inoltre responsabile di aver favorito, attraverso la dilatazione dei posti di sottogoverno, il numero di coloro che godono di stipendi e pensioni d’oro, non può che perdere, anche per questo, la propria autorevolezza. Come è possibile infatti imporre “sacrifici” in nome del “bene comune”, quando così marcate sono le distanze tra chi naviga nel danaro e chi si è visto decurtato di molto il valore del proprio stipendio o di chi stenta ad arrivare a fine mese senza indebitarsi?
L’aspetto più preoccupante della crisi è pertanto il venir meno della cittadinanza comune come effetto di una percezione diffusa di ingiustizia che genera frustrazione. A essere coinvolta non è soltanto la politica ma, in senso più allargato, l’intero sistema sociale - dai sindacati alle unioni industriali fino alle diverse espressioni della società civile - provocando una preoccupante crisi di consenso. Le riforme di struttura - dalla revisione della legge elettorale alla riduzione del numero dei parlamentari, dal ridimensionamento degli stipendi e dei privilegi all’abolizione degli enti inutili - sono assolutamente necessarie e urgenti. Ma esse non saranno in grado da sole di operare un vero cambiamento, se non si accompagneranno alla rinascita di un forte rigore morale, che restituisca alla politica il carattere originario del servizio e ridia centralità all’obiettivo che essa deve perseguire, la ricerca del “bene comune”, cioè del bene di ciascuno e di tutti.