Le esistenze che si perdono nel "mare asciutto" della Libia
di Francesco Spagnolo
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008
Per l'Italia, la Libia è generalmente intesa come l'altra sponda di uno stesso mare, il "casello d'ingresso" di un flusso immigratorio costante e incontrollabile, che ha nelle nostre coste il punto di arrivo. Nelle parole di monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, la Libia torna invece ad essere descritta con una luce diversa. Forse perché il vescovo in quella terra c'è pure nato...
Monsignor Martinelli descrive una Libia che è molto di più di quello che normalmente si conosce. A partire dal suo ruolo di importante partner commerciale per l'Italia, tramite la presenza della compagnia petrolifera Eni. Ma apre uno squarcio anche sui fenomeni di oggi: immigrazione incontrollata da altri paesi e droga tra i giovani, problemi simili a quelli che deve affrontare un paese sviluppato.
La Chiesa cattolica libica, anche tramite la sua Caritas, è impegnata in questi due ambiti con altrettanti progetti. Lavora sul problema della tossicodipendenza tra i giovani, in crescita negli ultimi armi per via di una certa agiatezza delle ultime generazioni, che spesso sconfina nella noia. L’obiettivo, in questo caso, è far prendere coscienza alla società libica di questa realtà, per poterla prevenire.
L’altro progetto riguarda la questione dell'accoglienza dei tanti immigrati che, provenienti dall'Africa subsahariana, passano le frontiere libiche. Frontiere, a dire il vero, invisibili, ben marcate solo sulle carte geografiche, ma che nella realtà del deserto del Sahara hanno la definitezza che possono avere le dune di sabbia. Un "mare asciutto", in cui non si sa bene quanti congolesi, eritrei o nigeriani sono morti, nel tentativo di arrivare nelle città o sulle coste libiche, per cercare un lavoro o una sistemazione, oppure (ma non necessariamente) per proseguire il viaggio verso l'Europa.
Statistiche precise purtroppo non esistono, anche a causa dell' atteggiamento del governo libico, che su questo argomento tende a essere elusivo. Si sa comunque che in Libia molti immigrati (principalmente pakistani e filippini) arrivano come regolari per lavorare. Altri invece rimangono clandestini, più o meno tollerati dalle autorità locali, che chiudono un occhio se la presenza rimane discreta e non pone problemi di ordine pubblico.
Convertirsi a un amore
È con questi, soprattutto, che la Chiesa cattolica lavora, insieme agli operatori di altre confessioni religiose, soprattutto delle chiese protestanti, nell'offrire accoglienza e uno sbocco regolare. Si opera innanzitutto cercando di insegnare un lavoro ai clandestini, che in alcuni casi tendono o a stabilirsi in tibia o a tornare nei paesi d'origine, se le condizioni lo permettono. «L’immigrazione è una preoccupazione che sta nel mio cuore e desidero che anche la Chiesa Italiana sia attenta a questa realtà, per la quale comunque fa già tanto - dichiara monsignore Martinelli -. Mi auguro che dall'Italia si guardi alla Libia in positivo, perché quello che già c'è di buono possa crescere, attraverso le cooperazioni economiche, ma anche tramite piccoli segni di amicizia e solidarietà».
Ma tutto questo come si intreccia con il tema del dialogo tra le religioni, che in un paese arabo e musulmano come la tibia è all' ordine del giorno? Monsignor Martinelli spiega di una presenza cristiana, e cattolica in particolare, assolutamente minoritaria nel paese nordafricano, il quale tuttavia è anche esente da forme religiose integraIiste. Anzi, a livello di istituzioni pubbliche e spirituali il dialogo con le piccole chiese cristiane è cercato e incentivato, soprattutto per quanto riguarda un certo confronto dottrinale e la collaborazione concreta su alcuni problemi comuni. «Guardo con una certa positività - conclude il vescovo - il popolo libico. Nello spiegare la mia presenza in quel territorio a maggioranza musulmana, richiamo sempre l'immagine dell'incontro di San Francesco con il sultano. Vorrei sempre vivere questa dimensione di apertura, di amicizia, di convivialità con il mondo arabo, perché più che il convertirci a una fede, conta il convertirci tutti a un amore. Ecco, dovremmo essere capaci di aiutare anche la Libia a crescere in questa testimonianza dell'amore».