L’Africa che non arriva al miraggio d’oltremare
di Umberto Fabris
da Italia Caritas – dicembre 2007/gennaio 2008
Tamanrasset è una città di recente costruzione, dominata dal massiccio dell'Hoggar, che incombe su di essa con i suoi fiabeschi paesaggi lunari di deserto di pietra. Nel 1966 contava meno di tremila abitanti, oggi ne ha quasi centomila. È città commerciale e meta irresistibile per i turisti. È soprattutto un punto di incontro, nel sud dell'Algeria, delle piste che arrivano da Mali e Niger: qui si dà appuntamento l'Africa del Sahel, nell'attesa e nella speranza che si apra una porta verso il nord. Poco visibili, migliaia di camerunesi e malesi, congolesi e ivoriani, sopravvivono trovando rifugio nelle rocce vicino alla città algerina. Il deserto è attraversato e vinto, l'Europa sembra più vicina e a portata di mano.
Molti dei migranti sperano in un lavoro che permetta poi di proseguire il viaggio verso la frontiera marocchina seguendo l'asse sud-nord (cioè passando per Algeri, via In Salah e Ghardaia) o il meno frequentato sud-nord-ovest (attraverso Orano, passando per Adrar e Béchar). Poi, una volta in Marocco, non resta che attraversare lo stretto di Gibilterra.
Questi sventurati cominciano a esistere per i governi e l'opinione pubblica europei quando sbarcano sulle coste italiane o spagnole, o quando i loro "barconi della morte" spariscono nel mare; prima, però, uomini e donne e bambini affrontano autentici itinerari della disperazione, percorsi irti di ostacoli e di difficoltà inenarrabili, in cui il sogno si trasforma spesso in fallimento, in incubo, in tragedia.
Una trentina di nazionalità
Quando giungono in Algeria, hanno già percorso migliaia e migliaia di chilometri e attraversato fino a otto paesi diversi via terra, utilizzando vari mezzi di trasporto: barca o piroga, autobus, taxi, camion. Gli itinerari variano a seconda del paese di provenienza, ma tutte le strade, prima di entrare nel grande paese del Maghreb, convergono verso due città: Gao in Mali e Arlit in Niger. Da qui il passaggio verso Tamanrasset.
I viaggi durano da un minimo di quindici giorni a più anni, e non è solo la distanza a determinarne la durata: l'elemento decisivo è quello economico. Sono rari i casi di chi parte con i mezzi sufficienti per coprire la distanza in una sola volta, e quando si viaggia in famiglia le cose si complicano ancora di più. Il popolo dei migranti subsahariani convoglia in Algeria una trentina di nazionalità: i più numerosi sono nigerini, maliani, camerunesi, nigeriani. Ma quanti sono? Difficile dirlo: le stime ufficiali sono approssimative e di accesso pressoché impossibile, anche se il fenomeno è sempre più oggetto di studio. Secondo il Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli), ong che lavora in Algeria dal 1996 a un progetto in questo settore, sarebbero più di centomila all'anno le persone che arrivano nel Maghreb dai paesi a sud del Sahara. Il vecchio continente rimane l'eldorado, ma le frontiere europee sono sempre più invalicabili e tanti emigrati finiscono per scegliere di rimanere in Algeria, che non è più soltanto uno scalo (così come a est Libia e Tunisia e a ovest le Isole Canarie) in direzione Marocco e poi Spagna. Sono i giovani sotto i 30 anni che non rinunciano alla traversata del Mediterraneo, mentre le incognite e i rischi del viaggio dissuadono i più adulti, che spesso hanno con sé moglie e figli.
Nei confronti dei migranti, poco a poco si è operato un cambiamento di attitudine da parte delle autorità algerine, passate da una sorta di passività poco amica a una repressione poliziesca più o meno dura a seconda del periodo. Il cambiamento non è estraneo alle ferme sollecitazioni dell'Unione europea, che sembra decisa a fare dei paesi del Maghreb il terreno di repressione di ogni tentativo di passaggio dall'altra parte del Mediterraneo. Così il flusso migratorio risulta ulteriormente rallentato, a causa dei controlli più severi, e ciò spinge a cercare sempre nuove piste clandestine, meno esposte, ma più pericolose e costose. Anche rastrellamenti e rimpatri forzati sono sempre più frequenti: per i migranti che raggiungono Algeri, spesso dopo diversi mesi dal loro arrivo nel paese, è aumentato sensibilmente il rischio di essere rimandati al punto di partenza.
Il rallentamento del flusso migratorio, inoltre, lo rende più visibile e concorre a dare l'impressione di un aumento del numero dei migranti clandestini subsahariani in transito. Tale quadro può essere applicato, con qualche distinzione, anche agli altri paesi del Maghreb, che si sono poco a poco trasformati in paesi di immigrazione. Tutto ciò aggrava le difficoltà della popolazione migrante: sfruttamento dei pochi uomini che trovano un lavoro per sopravvivere; precario stato di salute fisico e molte volte psichico; ricorso a espedienti e illeciti per garantirsi la sopravvivenza (traffici e falsificazioni di documenti e biglietti, prostituzione, spaccio e consumo di droghe, ecc); gravi difficoltà di integrazione con la popolazione locale a causa di relazioni spesso conflittuali e atteggiamenti razzisti.
Il desiderio di rientrare
Tra coloro che si occupano dei migranti, ci sono anche la chiesa protestante e la chiesa cattolica (in essa la Caritas) algerine, che hanno dato vita all'associazione ecumenica Rencontre et Developpement ("Incontro e sviluppo"), presieduta da un Padre bianco olandese, Jan Heuft, con presidenti onorari monsignor Henri Teissier, arcivescovo di Algeri, e il reverendo Hugh Johnson, pastore delle Chiese protestanti d'Algeria. L’obiettivo dell'associazione è aiutare i molti clandestini che arrivano con mille bisogni, talvolta in condizioni fisiche o con situazioni familiari compromesse, che richiedono interventi tempestivi. Un giovane padre bianco italiano, Paolo Maccario, per conto dell'associazione ha realizzato nel 2003 un rapporto-inchiesta sulle migrazioni clandestine subsahariane attraverso l'Algeria. Si è trattato di una prima base di studio di un fenomeno la cui evoluzione va verso l'aggravamento. “All'origine - vi si legge - ci sono fattori di ordine economico, legati alla povertà, e di ordine politico, legati ai conflitti armati interetnici, alle persecuzioni etniche e religiose. (..) Il sistema dei visti per accedere in Europa e la creazione dello spazio Schengen hanno contribuito allo sviluppo di organizzazioni migratorie clandestine, soprattutto in Algeria e Marocco. Esse rappresentano ormai, per i candidati all' emigrazione, la sola possibilità di realizzare il loro progetto”.
A Tamanrasset molti migranti incrociano i Piccoli Fratelli di Gesù, minuscola presenza cristiana stabile, composta da una comunità di religiose e una manciata di laici, che vegliano sui luoghi dove visse e morì Charles de Foucauld. Martine, Piccola Sorella del Sacro Cuore, racconta di incontri quotidiani, in un clima che sembra di permanente emergenza: «Continuiamo a incontrare persone che arrivano dal sud: alcuni prendono coscienza di essere stati truffati da reti di "passatori" nei loro paesi di origine, arrivano da noi perché non sanno più come andare avanti. Soprattutto, continuiamo a incrociare quelli che sono rispediti indietro. Magari dopo essere stati in prigione per anni in Marocco o in Algeria, o essere stati abbandonati al confine con il Mali, alla frontiera di Tinzaouaten, che ha reputazione di inferno: alcuni, che non sanno dove andare e non hanno i soldi per tornare a Tamanrasset, disperati saltano sui camion, a volte a prezzo della vita. Quelli che hanno i soldi viaggiano in 25 in media su una jeep, sfidando le piste clandestine e gli imbrogli dell'autista. A volte cadono dalle macchine e devono farsi a piedi fino a trenta chilometri, prima di arrivare qui.. .».
A Tamanrasset, l'incubo dei migranti continua. Le condizioni di vita sono di estrema insicurezza. La prima, grande paura è farsi prendere dalla polizia: così ci si rende sempre più invisibili. «Basta che nei rifugi sul limitare del deserto uno di loro gridi nella notte, per paura di un animale - prosegue Sorella Martine -, che tutti fuggono allarmati, credendo che arrivi la polizia, e molti si feriscono sulle pietre. A piccoli gruppi alcuni vengono a pregare con noi, se la messa è celebrata in pieno giorno, ma la sera non rischiano. Oppure li vediamo vicino a un muretto, dove si radunano sperando che qualcuno li ingaggi per un nuovo lavoro, ma di colpo si sparpagliano, quando passa la macchina della polizia.. .». Da affrontare, poi, c'è una realtà quotidiana ai limiti della sopravvivenza. Per mesi, talvolta per anni: «Una volta in pieno inverno, nel corso di un'uscita nel deserto, ho scoperto una dozzina di senegalesi. Ero sconvolta: uomini persi come su un'isola, che da un anno si trovavano in quel posto, senza potere né proseguire né tornare indietro. Qualche tempo dopo la polizia è passata a distruggere e a bruciare il loro accampamento di miseria».
Di fronte a tante immani difficoltà, alcuni migranti manifestano il desiderio di rientrare in patria. Rencontre e Développement favorisce questi ritorni (176 nel 2006). Tamanrasset è l'ultima tappa in terra d'Algeria. Nel dicembre 2006 l'associazione vi ha organizzato un incontro, invitando diversi gruppi che operano a favore dei migranti. È stata un' occasione di dialogo, in vista di una migliore collaborazione, con realtà associative e missionarie operanti anche nei paesi di provenienza dei migranti. Così Rencontre et Développement ha cominciato a progettare l'erogazione di piccoli finanziamenti, a cui possono accedere i rimpatriati in Congo, Ciad, Togo e Camerun, per realizzare microprogetti di sviluppo. La strada che conduceva verso il miraggio Europa può concludersi dove era partita. E non è detto, dopo tanto soffrire, che sia una sconfitta.