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Mercoledì, 30 Aprile 2008 11:30

La crisi dei crediti ipotecari americani a rischio continua

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Dissipatosi lo stupore di
questa estate, si è potuto pensare che la crisi dei mutui ad
alto rischio sarebbe stata passeggera, che si sarebbe limitata a
rivelare le perdite di banche irresponsabili, e che si sarebbe potuto
passare ad altro. Non è stato così. Quando la
situazione sembrava raddrizzata alla fine di ottobre 2007, i tassi
interbancari hanno in seguito ricominciato ad esser tesi, rivelando
che la fiducia non era ancora ripristinata. Durante tutto il mese di
dicembre, le banche centrali hanno dovuto immettere massicciamente
nuova liquidità.

Di fronte alla
persistenza della crisi, la questione è comunque la seguente:
le banche centrali hanno la possibilità di regolare il
problema?

Il riferirsi alla crisi
del 1929, in nome della quale i loro interventi sono condotti, è
appropriato?

Non si dovrebbe,
piuttosto, paragonare la situazione attuale alla crisi giapponese
degli anni ’90? Il crack della bolla immobiliare aveva allora
sclerotizzato quel sistema bancario durante pù di dieci anni,
trascinando la crescita giapponese, prima sfavillante, su un cammino
di lunga agonia. Per cogliere il senso di questo paragone,
abitualmente si distinguono due tipi di crisi finanziarie: da un lato
le crisi di solvibilità e dall’altro le crisi di liquidità.

Le crisi di solvibilità
sono le più semplici da capire: un debitore fallisce perché
l’investimento finanziario che ha fatto rende meno del previsto.
Per esempio: il rendimento dell’Eurotunnel ha raggiunto livelli
molto inferiori a quelli sperati; i creditori e gli azionisti hanno
perduto le somme impegnate.

Le crisi di liquidità
sono di un altro genere. Succedono quando per una ragione o per
l’altra, i creditori vogliono, tutti, vendere i loro attivi nello
stesso tempo, provocando essi stessi la svalutazione dei loro
profitti. Cattive notizie, anche se non accertate, un comportamento
imitativo da pecoroni (se gli altri vendono, voglio vendere anch’io)
possono fare degenerare un progetto inizialmente sano sino ad
arrivare al fiasco, obbligando a liquidare in perdita, mentre non
c’era ragione di giungere a quel punto. Quando la crisi scoppia,
non si può sapere se si tratta di una crisi risolvibile per un
ritorno alla fiducia o se, invece, essa minaccerà a lungo i
bilanci bancari. Questa distinzione è tuttavia essenziale per
comprendere la portata delle politiche messe in atto. Il principale
strumento a disposizione delle banche centrali è infatti il
rifinanziamento temporaneo degli istituti di credito.

E’ evidente che questi
prestiti non trasformeranno un bilancio in stato di degrado, in un
bilancio sano.

La crisi dei mutui ad
alto rischio nasce dalle conseguenze di questa ambiguità. In
pieno agosto, brutalmente i fondi ipotecari sono divenuti
irrealizzabili, poiché nessuno sapeva che valore dare a
portafogli contabilizzati partendo da formule matematiche che nessuno
poteva più capire. Progressivamente tuttavia si è visto
chiaramente che le perdite erano reali, capaci di pesare a lungo sui
bilanci bancari.

La caratteristica
singolare dei mutui ad alto rischio, viene dal fatto che le banche
hanno esitato in un primo tempo a riconoscere queste perdite. I loro
“attivi tossici” come li chiama Nouriel Rubini, professore alla
New York University, erano stati infatti sommersi nei conti fuori
bilancio, il che ha permesso loro di sfuggire alle regole prudenziali
abituali. Le banche hanno dovuto scegliere tra due strategie:
rigettare questi “attivi tossici” o reintegrarli nei loro conti.
Nel primo caso perdevano ogni credibilità davanti ai loro
clienti, che sarebbero stati molto sorpresi nell’apprendere che le
sicav non impegnavano la responsabilità delle banche che le
hanno vendute. Nel secondo minavano il loro bilancio. Non senza aver
esitato a lungo, le banche hannofinalmente scelto la seconda
strategia riconoscendo le loro perdite.

Unico mezzo di
risollevare le banche: tagliare i tassi di interesse

Si comincia ad avere
un’idea dell’importanza delle perdite delle banche. Si pensa, in
generale, che esse si situino intorno ai 300/400 miliardi di dollari.
Le banche accumulando queste perdite a un ritmo di circa 30 miliardi
per trimestre non dovrebbero poter uscire dal tunnel rapidamente. Chi
potrebbe accelerare il ritmo della ripresa?

I fondi asiatici e
petroliferi hanno manifestato un certo interesse. La Cina e Abu Dhabi
hanno acquistato parti di Morgan Stanley e di Citigroup. Singapore si
interessa di Merril Lynch. Ma per il momento le cifre annunciate non
sono sufficienti.

Ciò rinvia al
ruolo delle banche centrali. Esse dispongono di una sola possibilità
per ricapitalizzare, senza dirlo, le banche commerciali: tagliare i
tassi d’interesse. Infatti più i tassi d’interesse sono
bassi, più il valore di un attivo è importante. Se voi
possedete un appartamento che paga un affitto fisso, il suo valore di
mercato tanto sarà più grande quanto più bassi
sono i tassi d’interesse. E’ questa la ragione per cui la Borsa
sale quando i tassi d’interesse sono bassi , il che permette di
ricapitalizzare queste banche e di rivalorizzare i loro premi.

Ben Bernanke, il
presidente della Federal Reserve, sembra pronto – come il suo
predecessore alan Greenspan aveva fatto in ogni crisi – ad
abbassare i tassi americani. La Banca Centrale Europea si limita
afornire tutta la liquidità necessaria, senza tagliare i
propri tassi. Situazione attuale, ma che sorprende sempre: la BCE si
preoccupa dell’inflazione più della FED, mentre il rischio è
più grave oltre Atlantico che nella zona EURO. Il dollaro
debole infatti rilancia la crescita e l’inflazione negli USA mentra
fa esattamente il contrario in Europa.

La questione diviene
allora d’ordine macroeconomico: la crisi dei tassi d’interesse ad
alto rischio (subprimes) si propagherà all’insieme
dell’economia? Le opinioni sono divergenti.

L’Organizzazione di
cooperazione e di sviluppo (OCSE che riunisce i paesi più
ricchi) non mostra segni d’inquietudine. Il suo ultimo rapporto
segnala che i conti delle imprese sono buoni e si limita a prevedere
un rallentamento generale nella zona, con una crescita media
leggermente al di sotto del 2%, Stati Uniti compresi. Tuttavia sono
numerosi coloro che si preoccupano del rischio di una recessione
americana, dovuta alla caduta di valore dei beni immobili o ad un
crollo del credito, secondo il modello giapponese.

Il rischio maggiore per
il 2008 è che un’inflazione più forte del previsto
negli Stati Uniti spinga la FED a rinunciare all’atteso taglio dei
tassi d’interesse. Il dollaro riprenderebbe quota, evitando
l’Apocalisse che alcuni gli predicono, ma questa notizia sarebbe
infausta per le banche! La Borsa, che ha già annunciato
anticipatamente una diminuzione dei tassi d’interesse, ne
soffrirebbe anche lei.

Crollo del dollaro o
crack della Borsa?

Avremmo preferito
cominciare il 2008 sotto migliori auspici.

Daniel Cohen

Le Monde

Letto 1864 volte Ultima modifica il Mercoledì, 25 Novembre 2009 09:25

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