Una voce di spicco dell’episcopato statunitense racconta le sfide e opportunità dell’incontro con i latinos
«I latinos? La loro influenza sul futuro della Chiesa degli Stati Uniti sarà enorme. E finirà per integrare tra loro sempre più le Chiese del Nord America e dell’America Latina». Non ha dubbi in proposito l’arcivescovo di Denver Charles J. Chaput, frate minore cappuccino e figura di primo piano dell’episcopato statunitense. Una voce non ispanica (le sue radici sono in una tribù dei nativi americani), ma ugualmente molto attenta alle potenzialità e alle sfide che questo nuovo volto della società pone a tutto il Paese.
Negli Stati Uniti oggi vivono circa 47 milioni di ispanici, in maggioranza cattolici. La loro presenza sta cambiando la Chiesa statunitense? In che modo?
In questo nuovo secolo che stiamo vivendo i latinos avranno un’influenza enorme sul cattolicesimo statunitense. Un’influenza simile a quella avuta dagli irlandesi nei secoli XIX e XX. La demografia è destino. I numeri dei cattolici latinoamericani modelleranno, ad ogni livello, la vita della Chiesa. Come questa influenza si tradurrà concretamente è più difficile dirlo, perché la cultura statunitense ha un genio particolare nell’assorbire e amalgamare i nuovi immigranti.
Gli immigrati ispanici sono profondamente legati alla religiosità popolare. Quale può essere l’effetto di questo tipo di devozione sulla Chiesa statunitense?
Penso che la fede dei latinos abbia radici profonde, naturali. Ed è una fede del cuore. Ha una robusta tradizione intellettuale, ma non è divenuta «cerebrale» e sterile come è accaduto alla Chiesa in certe parti d’Europa. La fede dei latinos ha una dimensione umana molto ricca. Pervade l’intera cultura dei latinoamericani e servirà come un antidoto salutare a certe tendenze secolarizzatrici della vita americana.
La forte identità culturale e religiosa della comunità ispanica finisce per essere un muro che la isola e la separa da altre comunità, come ad esempio quella afro-americana? Come si rapportano gli ispanici con le altre comunità degli Stati Uniti?
In America i nuovi immigrati hanno sempre trovato davanti a sé un muro da superare. Ma l’identità dell’America, diversamente da quella dell’Europa e di molte altre società, deriva dagli immigrati. È il grande paradosso di questa terra. Fin dall’inizio gli Stati Uniti hanno avuto bisogno e hanno accolto i nuovi immigrati; ma allo stesso tempo hanno provato risentimento e timore nei loro confronti. La paura per il nuovo arrivato fa parte della natura umana e gli americani non sono diversi dagli altri. Infatti occorrono sempre due o tre generazioni perché una comunità immigrata trovi il suo posto negli Stati Uniti. Alla fine, però, lo trova sempre, perché estrarre nuova vita dall’influsso di persone nuove, con nuove energie e nuovi sogni, fa parte della natura della società americana. Penso che il vero problema in America non sia il «muro» che separa i gruppi, ma piuttosto il potere della società americana di amalgamare tutte le differenze in un unico, generico stile di vita basato sul consumo personale come credo unificante.
Che cosa sta accadendo con gli immigrati ispanici di seconda generazione?
Imparano l’inglese e tendono ad avere un discreto successo, sia sul piano economico che sociale. Inoltre, sfortunatamente, spesso dimenticano le loro radici e annacquano la loro fede.
Le differenti nazionalità di provenienza degli immigrati ispanici costituiscono un problema per l’opera della Chiesa statunitense?
Uno degli errori più grandi del mainstream americano è quello di raggruppare i latinos in un unico gruppo. Invece esistono enormi differenze sul piano delle esperienze e della mentalità tra messicani, brasiliani, cileni, peruviani, cubani, colombiani... Come Chiesa, il nostro ministero pastorale ha bisogno di una maggiore sensibilità verso queste diverse realtà.
La presenza dei migranti sta facendo crescere il clero ispanico?
Certamente qui a Denver le vocazioni dei latinos oggi sono una delle nostre priorità. Il clero di origine latinoamericana è ancora troppo esiguo in proporzione al numero dei cattolici di origine latinoamericana che dipendono dalla nostra Chiesa. E questo è un problema serio.
La presenza degli ispanici riduce le distanze tra Nord e Sud? Aumentano le forme di collaborazione tra le Chiese dell’America del Nord e dell’America Latina?
Giovanni Paolo II è stato profetico quando - in occasione del Sinodo continentale del 1997 - ha parlato di «America» invece che di «Americhe». L’America è un solo continente con economie e culture sempre più interdipendenti. Dal momento che negli Stati Uniti la popolazione latina continuerà a crescere, penso che nasceranno forme di collaborazione sempre più strette tra le Chiese del Nord America e dell’America Latina.
Molti immigrati ispanici sono poveri, senza documenti e senza assicurazione sanitaria. La loro situazione potrebbe peggiorare ulteriormente con l’annunciata crisi economica. Come si pone la Chiesa di fronte all’emergenza sociale ispanica negli Usa?
Negli Stati Uniti la Chiesa deve obbedire alla legislazione americana in materia di immigrazione e, allo stesso tempo, lavorare per riformarla. Oltre a fornire molto aiuto in termini spirituali e di assistenza d’emergenza agli immigranti indocumentados, la Chiesa ha il dovere di lavorare nel campo dell’educazione e della politica per rendere le nostre politiche sull’immigrazione più coerenti e più giuste.
Pensa che il voto ispanico sarà decisivo nelle prossime elezioni presidenziali? Come pensa che voterà la maggioranza degli ispanici?
Se gli ispanici voteranno in blocco, i loro numeri li renderanno molto influenti. I latinos tendono a votare per i Democratici, anche se molti hanno votato per i Repubblicani nel 2004. Ma questa è una tornata elettorale molto complessa e non vorrei avventurarmi a predire un risultato.
Qual è la posizione della Chiesa sulla riforma migratoria? C’è unità tra i cattolici o ci sono opinioni divergenti?
Molti americani - e quindi anche molti cattolici americani - si sentono lacerati tra il bisogno legittimo della sicurezza nazionale e della salvaguardia dei confini, e l’ugualmente legittimo bisogno di una riforma migratoria inclusiva. La Chiesa degli Stati Uniti non può permettersi di stare da una parte sola o di essere naive. Da un lato i cittadini americani hanno il diritto di insistere sul rispetto della legge, sul controllo dei confini, sulla protezione della pubblica sicurezza, e hanno il diritto di assicurare la solidità delle loro istituzioni pubbliche. D’altra parte, però, non possiamo pretendere di fare tutto questo sfruttando quegli stessi lavoratori indocumentados di cui abbiamo bisogno per far correre la nostra economia.
Qual è la chiave per risolvere questa lacerazione?
Le persone hanno il diritto di emigrare e lavorare per sostenere le proprie famiglie. Questo è un principio fondamentale del pensiero cristiano. Attualmente abbiamo un sistema che implicitamente incoraggia l’immigrazione illegale, perché prospera su questo fenomeno. Poi però punisce i lavoratori senza documenti quando questi vengono catturati. Non solo non ha senso. È un dilemma che ha dei costi umani reali. Qui in Colorado abbiamo migliaia di famiglie senza documenti, in cui i genitori lavorano duro, pagano le tasse e vivono in pace coi loro vicini. Ma sono «illegali», mentre i loro figli nati negli Stati Uniti sono cittadini americani. Che cosa ci guadagneremmo col rompere queste famiglie con una deportazione? Se vogliamo servire il bene comune, dobbiamo farlo in modo che non solo salvaguardi la nostra sicurezza nazionale, ma rispetti anche la dignità degli individui e delle famiglie colpite.
Secondo i sondaggi, l’America Latina conta poco per gli Stati Uniti. La popolazione non la ritiene una regione importante, l’agenda politica la relega in secondo piano, i media ne parlano poco… Non è una contraddizione data la vicinanza, l’importanza strategica e l’intensa presenza di ispanici sul territorio?
Penso che questo atteggiamento sia stato sciocco e poco lungimirante. Finora, però, la storia e il costume hanno legato l’America all’Europa e reso possibile il nostro campanilismo. Adesso viviamo in un mondo molto diverso rispetto a quello di cinquant’anni fa. Gli Stati Uniti sono ancora la principale potenza mondiale, ma abbiamo a che fare con realtà globali molto diverse, che nessuna nazione può affrontare da sola. I cambiamenti demografici, economici e tecnologici ci porteranno sempre più verso l’America Latina. Ormai è un processo inevitabile.
di Alessandro Armato
Mondo e Missione / Maggio 2008
L’arcivescovo figlio dei nativi
Per metà di origine franco-canadese e per metà nativo-americano del popolo potawatomi, Charles J. Chaput nasce a Concordia, Kansas, nel 1944. La nonna materna è l’ultima della famiglia a vivere in una riserva indiana e lui stesso diviene membro della tribù in giovane età. Forse seguendo la via tracciata da due zie che - prima di lui - avevano scelto la vita monastica, nel 1965 entra nell’ordine dei frati cappuccini e nel 1970 viene ordinato sacerdote. Subito dopo frequenta un master in Teologia presso l’Università di San Francisco e nel 1983, dopo essere stato alla guida della parrocchia della Holy Cross a Thornton, in Colorado, diviene direttore generale e ministro provinciale dei cappuccini per il Centro America. Nel 1988 arriva l’ordinazione a vescovo di Rapid City (Sud Dakota) e nel 1997 Giovanni Paolo II lo nomina arcivescovo di Denver, carica che ricopre attualmente. Chaput è noto per pronunciarsi, con saggezza e coraggio, anche su tematiche controverse. Come, appunto, quella dell’immigrazione ispanica.
(a.a.)
«Per noi credere è una marcia in più»
Il testo che segue è stato raccolto nel corso di una conversazione con monsignor Jaime Soto a margine della Quinta assemblea dei vescovi latinoamericani ad Aparecida in Brasile, alla quale prese parte anche una delegazione di pastori provenienti dall’America del Nord. Classe 1955, di origini messicane, Soto è vescovo di Orange dal 2000; dall’autunno scorso è stato nominato vescovo coadiutore di Sacramento.
La maggioranza degli immigrati negli Usa dal Messico proviene dalle regioni rurali; è gente spesso senza un’educazione formale, ma molto lavoratrice e con grande fede.
Un sociologo californiano, David Haze Bautista, che ha analizzato le caratteristiche demografiche del popolo latinoamericano in California, sottolinea tre tendenze. La prima è che la popolazione latina lavora in percentuale in numero maggiore rispetto agli altri gruppi etnici (anglosassoni, asiatici e afroamericani). La seconda: i latinos si mantengono uniti come famiglia. Un terzo fatto è che i figli delle donne «ispaniche» nascono in genere sani e di buon peso, a differenza di quanto avviene tra i poveri di altri gruppi. Perché questi tre fattori nonostante la povertà e il trauma dell’immigrazione? Haze sostiene che c’entri, in qualche modo, la fede cristiana. L’idea che domani Dio ha in serbo qualcosa di positivo per tutti dà un orientamento ottimista e forza per lavorare duro.
I latinos portano inoltre un nuovo fervore religioso, un insieme di valori che non indeboliscono la cultura americana, ma, al contrario, la rafforzano, contrastando la secolarizzazione che la dissolve. Se si parla con i parroci che lavorano con la comunità ispanica, dicono che i latinos portano una fede molto viva, sono persone che sentono che Dio ha a che vedere con le loro vite. Nella comunità «latina» c’è grande fervore anche in virtù della religiosità popolare: Maria, i santi... Certo, talvolta si registra anche una tendenza al fatalismo o alla magia. Ma si è visto che la religiosità popolare arricchisce molto la fede cattolica negli Stati Uniti, che da sola è un po’ formale, perché manca di pratiche che mantengono quotidianamente un ritmo spirituale. I messicani, invece, hanno il santino della vergine di Guadalupe, la candela in camera, tengono il quadro del Sacro Cuore nella sala da pranzo… Tutti questi strumenti mantengono la coscienza della vicinanza di Dio. Alcuni affermano che nella Chiesa degli Stati Uniti sia in corso uno scontro. Più che di uno scontro siamo in presenza di due stili differenti. Io lavoro in una parrocchia trilingue, con anglosassoni, ispanici e vietnamiti; abbiamo tre sacerdoti che parlano le tre lingue, ma essi debbono lavorare insieme per non creare tre parrocchie parallele. Dobbiamo spronare i fedeli a una migliore comunione. Il consiglio parrocchiale e amministrativo, la celebrazione delle grandi feste (come il Natale), devono includere tutti. È una bella sfida.
Jaime Soto
vescovo di Orange
(testo raccolto da Gerolamo Fazzini)