PAESE DA RICOSTRUIRE - RD Congo
di François Misser
Nigrizia aprile 2008
Una delle difficoltà è fotografare esattamente la situazione. La Banca centrale dell’Rd Congo ha stimato per il 2008 una crescita del Pii del 6,5%. Ma cosa significa questo dato? Nel corso di un convegno, organizzato a Bruxelles dal Centro belga di riferimento per le specializzazioni in Africa centrale (Cre-Ac), il professore Eric Tollens, dell’Università cattolica di Lovanio, ha sottolineato come non esistano statistiche affidabili. Per dimostrare ciò, ha preso in esame il caso dell’agricoltura, un settore trascurato dal governo: il bilancio statale destina ad esso solo l’1,8% del totale e, secondo quanto afferma lo stesso titolare del dicastero, Nzanga Mobutu, il denaro serve solo per pagare i Funzionari del ministero. Ma è un settore abbandonato anche dai paesi donatori, che assegnano non più del 10% dei loro aiuti al Congo a quel comparto. Fino a poco tempo fa, nessuno di loro era interessato a finanziare una banca dati affidabile sulle produzioni agricole. La motivazione: «Non si mangia con le statistiche».
Il risultato è che le stime sono distanti dalla realtà e le conclusioni che si tirano possono rivelarsi false. Tollens ritiene che la situazione sia migliore di quella che esce dalle statistiche ufficiali congolesi o da quelle dei finanziatori, secondo cui il 72% della popolazione vive con una razione giornaliera di 1.610 calorie a persona. «Non è realistico: con tale assunzione calorica nessuno sarebbe in grado di lavorare», commenta il professore belga. Tollens, partendo dagli 1,8 milioni di tonnellate di manioca commercializzate in quattro città, arriva a stimare per l’intero paese una cifra pari a 21 milioni di tonnellate, di molto superiore ai dati ufficiali. E spiega: l’RD Congo, settima potenza agricola mondiale in termini di potenzialità, potrebbe facilmente nutrire due miliardi di persone l’anno. Infine aggiunge: le produzioni attuali di olio di palma o di caffé non rappresentano che una parte di quanto erano prima dell’indipendenza. Il ministero britannico per lo sviluppo internazionale (Dfid), in un rapporto intitolato Il commercio per la pace, ha messo in evidenza divari considerevoli tra le esportazioni registrate dalle dogane congolesi e quelle reali: nel 2005, l’export reale di rame rappresentava circa il doppio dell’ammontare dichiarato alle dogane (117.315 tonnellate); l’anno successivo, la cifra ufficiale per l’oro era di 609 kg, contro le 10 tonnellate reali; nel caso della cassiterite (minerale di stagno), lo scarto è di uno a dieci in favore delle esportazioni reali nel 2006 (16.870 tonnellate); lo stesso fenomeno si registra anche per le esportazioni del legno; meno confusa è la situazione per quanto riguarda i diamanti, grazie al meccanismo di controllo messo in piedi dal Processo di Kimberley.
Le potenzialità, dunque, ci sono. Il problema è sfruttarle. Per fare ciò, il presidente della Federazione delle imprese del Congo (Fec), Albert Yuma, avanza diverse proposte. Secondo lui, bisogna assolutamente dare la priorità all’agricoltura. Avvisa: «Se non saremo in grado di raggiungere la sicurezza. alimentare, non potremo calmare le tensioni sociali». Poi aggiunge: «Non ci sarà il decollo del settore minerario, se le compagnie non avranno accesso a elettricità a buon mercato e disponibile». Yuma pensa che il megaprogetto per la riabilitazione della diga di Inga, sul fiume Congo (saranno necessari 20 miliardi di dollari!), non deve rappresentare la sola priorità del ministero dell’energia.
È necessario, inoltre, garantire la sicurezza giuridica dei contratti, in particolare dei patti minerari “leonini” (quelli che avvantaggiano una sola parte, firmati durante le due guerre del 1996-97 e 1998-2003), oggi in corso di revisione. Il viceministro delle miniere, Victor Kasongo, aveva rivelato che nessuno dei contratti in corso di revisione era ritenuto vitale dal governo. Il ministro della pianificazione, Olivier Kamitatu, invece, desideroso di tranquillizzare gli investitori irrequieti, ha precisato: «Non ne pretendiamo una revisione brutale. Valuteremo caso per caso, contratto per contratto, Il Congo non è uno stato pirata che non mantiene i suoi impegni. Vogliamo che gli investitori continuino a lavorare, ma con un obbligo preciso: la trasparenza. Chiediamo di sapere esattamente quanto queste aziende contribuiscono al bilancio dello stato. Non c’interessa urtare la sensibilità del mondo degli affari. Ci preme solo ristabilire certi equilibri». Per Alberi Yuma, la ricostruzione comincia, innanzitutto, dalla rifondazione dello stato. La Fec esige che sia garantita, prima di tutto, la sicurezza giuridica e giudiziaria: «Esigiamo un’amministrazione imparziale, non una realtà che tormenta le imprese dal mattino alla sera». Deve essere garantita la sicurezza fisica dell’investimento. A questo scopo, Yuma chiede la rapida creazione di tribunali commerciali, la stesura di un codice di condotta per i funzionari e l’appoggio della comunità internazionale per programmi di buon governo e corsi di formazione per gli amministratori. Yuma si lamenta pure della mancata applicazione del codice forestale e di quello del lavoro. E, infine, parla di un altro flagello: un «settore informale mafioso», che lavora mano nella mano con una «amministrazione decrepita».
Yuma e molti partecipanti al convegno del Cre-Ac hanno applaudito all’idea d’investire massicciamente nelle infrastrutture. A questo proposito, il responsabile degli industriali ha giudicato positivamente i contratti (per un totale di oltre 8 miliardi di dollari) firmati di recente dai cinesi. Perché, se si realizzano le infrastrutture, l’insieme del settore privato ne dovrebbe beneficiare, comprese le società minerarie che stanno affrontando gravi problemi per mancanza di strade e ferrovie. Tuttavia, Yuma ricorda che, nel memorandum consegnato al governo, le imprese affiliate alla Fec hanno espresso la volontà di venire coinvolte nei lavori di subappalto, nei trasferimenti di tecnologie e nelle attività generate da questi contratti.
Bisogna, infine, sciogliere il nodo della dipendenza dell’Rd Congo dall’aiuto straniero. Se il bilancio del 2008 prevede di essere coperto per un terzo da questo tipo di finanziamento, non va dimenticato che nel 2007 i finanziatori non hanno onorato tutti i loro impegni. Il perché va trovato nel fatto che il paese è in una fase di transizione tra l’aiuto umanitario e quello allo sviluppo, e ciò rende più difficile la ricerca di finanziamenti esterni. L’attendismo dei finanziatori allarma il settore privato: teme che la frustrazione dei cittadini, che tardano a raccogliere i benefici della pace e della democrazia, sfoci in atti di disperazione, come i saccheggi del 1991 e del 1993, che infersero un durissimo colpo all’economia nazionale.