L’accenno alla «ribellione delle masse» è ineluttabile: parlare dell’università pubblica italiana significa parlare degli esiti della scolarizzazione di massa nell’epoca dell’industria culturale (che non è la cultura massmediatizzata bensì l’ideologia del consumo immateriale).
La ministra Maria Stella Gelmini ha le idee chiarissime: la conquista del Sessantotto è stata solo la liberalizzazione degli accessi al tempio del sapere in funzione di ammortizzatore sociale. In soldoni, per evitare che la disoccupazione giovanile creasse ulteriori guai in epoca di autunni caldi e derive brigatistiche, il fuori corso universitario è diventato il grande parcheggio pagato dalle famiglie italiane con il miraggio dell’ascesa sociale. Ma adesso che tutti i sindacalismi sono stati storicamente sconfitti dall’ideologia e dalla pratica della flessibilità e della deregulation, il padronato può finalmente scoprire le carte: siccome l’università pubblica non serve a formare le élite del paese, non serve a nulla. La ricerca scientifica seria - cioè votata al profitto - la faccia l’impresa universitaria capitalistica, il resto venga considerato hobby per fannulloni, ovvero spreco da derubricare.
Ai tempi di Althusser la sinistra considerava l’università un apparato ideologico di stato, alla pari del sistema radiotelevisivo pubblico; gli intellettuali erano il cane da guardia dell’ideologia borghese, proprio come il cinema era una fabbrica di sogni per proletari alienati. Oggi che la neotelevisione è il maestro unico per la pedagogia consumistica e il nuovo meccanismo per la circolazione delle élite [De Gaulle controllava la tv perché aveva il potere politico, Berlusconi ha il potere politico perché controlla la tv], l’università come cinghia di trasmissione della cultura dominante [la «distinzione» di Bourdieu] non ha più ragion d’essere. Dopo la delegittimazione della magistratura modello Mani Pulite, dopo la delegittimazione post-fordista del sindacato, eccoci alla resa dei conti con il soggetto-supposto-sapere: il lavoro intellettuale viene ingabbiato nella logica produttivistica della produzione industriale, taylorizzata in moduli, ragionierizzata in partita doppia con crediti e debiti formativi, customerizzata con indici di gradimento [proprio quando l’auditel conosce solo indici di ascolto].
Se l’ideologia è una menzogna mascherata di verità [è la formula di Slavoj Zizek: «Anche se ciò che sto dicendo è in effetti vero, i motivi per cui lo dico sono falsi»], tutti gli argomenti della ministra Gelmini sulle baronie universitarie, i clientelismi, i trucchi concorsuali e quant’altro sono pura ideologia.
Inutile che rettori, presidi di facoltà, direttori di dipartimento e presidenti di corso si affannino a modernizzare il dispositivo universitario, che una volta presupponeva l’input di diplomati e l’output di laureati: il vero problema non è erogare più o meno di centoventi ore di didattica - più i ricevimenti, i consigli, gli esami, le sedute e così via - riuscendo a ritagliarsi tempo libero per lo studio e la produzione delle fatidiche pubblicazioni [sul cui computo si basano i fondi di ricerca], il vero problema è che nell’Italia turbocapitalista servono poche eccellenze per soddisfare la formazione delle élite, mentre è ormai evidente l’inutilità degli alti studi per i forzati del precariato modello call center. Il problema è insomma sistemico: se l’istruzione pubblica viene letta come spesa e non come investimento, ogni elogio dell’auto-apprendimento va interpretato come profezia del suicidio della classe intellettuale attraverso la propria virtualizzazione informatica [mettete in rete il vostro sapere, poi toglietevi dai bip].
Nella sua copia di «La scienza come professione», la ministra Gelmini avrà sottolineato le parti in cui Max Weber attacca i cosiddetti socialisti della cattedra: chi negherà che esistono ancora i «piccoli profeti privilegiati» che trasformano il loro molo di metodologi del pensiero in quello di orientatori politici?
Il consiglio è che torni più indietro, alle pagine in cui il grande pensatore della modernità dice che l’idea scientifica non si fa raggiungere con la forza, ma soggiace alle stesse regole dell’ispirazione artistica, della «mania» platonica: «Le cose migliori vengono in mente a chi sta fumando un sigaro sul divano. La burocratizzazione del lavoro universitario è un’illusione aziendalistica: lo spreco di tempo e di energie, il perdersi in percorsi inutili, è consustanziale al concetto stesso di ricerca. E questo vale per i docenti-ricercatori ma anche per gli studenti, gli studi superiori non possono essere ridotti a puro passaggio cibernetico di informazioni, ma implicano inevitabilmente i pericoli socratici del transfert e del controtransfert, i dolori del parto intellettuale solo dopo la gestazione.
Per chi ha studiato Bataille, spreco non è una parolaccia, ma il senso stesso di ogni passione propriamente umana, compresa la passione della teoria: altrimenti gli universitari diventano, come gli ebrei del Schindler’s List di Steven Spielberg, «lavoratori non necessari». E chi non ha studiato Bataille, speriamo possa ancora farlo in qualche università pubblica italiana.