«Ni hao, ni hao!» Camminavamo da una decina di minuti in quella strada di Brazzaville, quando un gruppetto festoso di piccoli congolesi ha smesso di correre dietro a un pallone per salutarci. I bianchi, in Africa, sono abituati a sentirsi dire «Giorno, mista!», «Salve, toubab!» o «Monsieur, monsieur!». Ma quei bambini sorridenti, in fila sul ciglio della strada, hanno arricchito il repertorio, gridando «Ni hao, ni hao!» [buongiorno, in cinese], prima di rimettersi a giocare. Per loro, tutti gli stranieri sono cinesi.
Poche centinaia di metri più avanti, una società cinese stava costruendo la nuova sede della televisione congolese, un edificio di vetro e metallo che sembrava caduto dal cielo in quel quartiere popolare. E all'imbocco della strada, la stessa società stava realizzando una villa sontuosa destinata a un rappresentante del governo, forse un ringraziamento per l'appalto della sede televisiva. In città altre compagnie cinesi stavano ultimando il nuovo ministero degli esteri e della francofonia, e riparavano i fori provocati dai proiettili sugli edifici colpiti dalla guerra civile.
A 2.250 chilometri a nordest, nella periferia di Lagos, in Nigeria, la Newbisco era considerata senza speranze. Fondata da un inglese prima dell'indipendenza del 1960, questa fabbrica di biscotti secchi ha cambiato molte volte proprietario, ma nessuno è stato in grado di tenerla a galla in un paese in cui le esportazioni petrolifere e la corruzione soffocano qualsiasi altra attività economica. Nel 2000 il penultimo proprietario, un indiano, ha rivenduto la Newbisco, ormai prossima al fallimento, all'uomo d'affari cinese Chu. Quando siamo entrati nella fabbrica, una mattina dell'aprile 2007, nell'aria fluttuava l'odore di farina e di zucchero. I nastri trasportatori caricavano ogni ora più di tre tonnellate di biscotti, immediatamente imballati da decine di operai. «Copriamo appena l'1 per cento del fabbisogno del mercato nigeriano» ci ha detto Chu sorridendo. [...]
Viaggiavamo da due ore tra Khartum e Port Sudan, quando ci è tornato in mente un passo del libro di Robert Fisk. Nel 1993 il reporter britannico aveva incontrato Osama bin Laden, il quale, dopo aver fatto appello alla guerra santa contro gli americani in Arabia Saudita, si era rifugiato in Sudan, in un villaggio a sinistra di questa strada. Bin Laden aveva spiegato a Fisk che, per ringraziare i suoi ospiti sudanesi, avrebbe fatto costruire una nuova strada di ottocento chilometri fra la capitale e il grande porto. Nel 1996, però, il terrorista era stato costretto a fuggire ancora, stavolta in Afghanistan, dove aveva perseguito ben altri piani. Chi avrebbe portato a termine i lavori? I cinesi, che ora prevedono di affiancare all'autostrada una linea ferroviaria. Arrivate in modo massiccio nel paese a partire dalla metà degli anni novanta, le imprese cinesi vi hanno già investito 15 miliardi di dollari, in particolare nei pozzi petroliferi, che oggi coprono fino al 10 per cento delle importazioni cinesi. [...]
La presenza dei cinesi in Africa non è più una novità. Ma il fenomeno ora ha raggiunto proporzioni molto diverse. Sembra quasi che all'improvviso abbiano decuplicato gli sforzi, tanto da entrare nell'immaginario di un intero continente. In pochi anni, la presenza della Cina in Africa è passata da argomento marginale per specialisti di geopolitica a tema centrale nelle relazioni internazionali e nella vita quotidiana del continente. E tuttavia, ricercatori e giornalisti continuano a rimasticare le stesse cifre macroeconomiche: il commercio tra le due aree si è moltiplicato per cinquanta tra il 1980 e il 2005, è quintuplicato tra il 2000 e il 2006, passando da 10 a 55 miliardi, e dovrebbe raggiungere i 100 miliardi nel 2010. Ci sarebbero già novecento imprese cinesi sul suolo africano e, nel 2007, la Cina avrebbe preso il posto della Francia come secondo maggiore partner commerciale dell'Africa.
Queste sono cifre ufficiali, che non tengono conto degli investimenti di tutti i cinesi immigrati in Africa. D'altronde, quanti sono? Un seminario universitario organizzato alla fine del 2006 in Sudafrica, dove la comunità cinese è più numerosa, azzarda la cifra di 750 mila per tutto il continente, mentre i giornali africani a volte parlano di milioni. Sul versante cinese, la stima maggiore viene dal vicepresidente dell'Associazione per l'amicizia tra i popoli cinese e africano, Huang Zequan, che ha visitato trentatré dei cinquantatre paesi africani. In un'intervista del 2007 al Zhong guo mao yi bao [Giornale del commercio cinese], stima che 500 mila suoi connazionali vivano in Africa [contro 250 mila libanesi e meno di 10 mila francesi. Simili a un esercito di formiche, questi immigrati non hanno nome né volto, e restano silenziosi. […] L'ingresso della Cina sulla scena africana potrebbe rappresentare, per Pechino, l'occasione per raggiungere il rango di superpotenza mondiale, capace di miracoli sia nel proprio territorio che nelle zone più ingrate del pianeta. E per l'Africa, l'incontro con la Cina rappresenta forse l'opportunità di quella rinascita tanto attesa sin dalla decolonizzazione degli anni sessanta, l'occasione finalmente arrivata, il segnale che nulla sarà più come prima.
La storia, come la si racconta in Occidente, vuole che essi vivano da millenni un'avventura tragica, essenzialmente collettiva e confinata all'interno delle loro immense frontiere. Un giorno del dicembre 1978, mentre l'Impero di mezzo si riprendeva a stento dalle angosce della rivoluzione culturale, Deng Xiaoping lanciò loro uno slogan rivoluzionario: «Arricchitevi». Trent'anni dopo, questo è divenuto il credo di 1,3 miliardi di cinesi, e una parte di loro l'ha già messo in pratica. Per gli altri, soprattutto per chi lavora la terra, la vita è diventata impossibile. Da sempre, in Cina, i contadini cercano di abbandonare la campagna per cercare una vita migliore. Con 100 milioni di persone, la diaspora cinese, si dice, è la più numerosa al mondo, e la più ricca. È costituita, soprattutto nell'Asia sud-orientale, da migrazioni precedenti alla nascita di Cristo, ma si sviluppò considerevolmente alla fine del XIX secolo, quando gli europei, dopo essere penetrati a forza nei porti cinesi, rimpiazzarono la tratta dei neri con quella dei coolie, i lavoratori cinesi. L’abolizione della schiavitù rese necessario l'impiego di 2-8 milioni di cinesi per i grandi cantieri di quell'epoca: le miniere australiane, il canale di Panama e le ferrovie del Congo belga, del Mozambico, della Transiberiana e delle CentraI Pacific Railways negli Stati Uniti. Nel 1870, a San Francisco si contavano già cinquantamila cinesi. Queste migrazioni continuarono durante il periodo comunista, dirette soprattutto verso i paesi sviluppati dell'Europa e del Nordamerica, dove si conterebbero ormai 10 milioni di immigrati. Ancora nel 2000, Pechino tentava di frenare il movimento migratorio, per non intaccare l'immagine del regime; oggi invece lo incoraggia, in particolare nel caso di quanti, più audaci, vogliano tentare la fortuna in Africa. Per i dirigenti cinesi, e ancor più per il presidente, a volte soprannominato Hu Jintao l'Africano, l'emigrazione è divenuta parte della soluzione al problema demografico, economico e ambientale. "Abbiamo seicento fiumi in Cina, di cui quattrocento 'morti' a causa dell'inquinamento" affermava, in forma anonima, uno scienziato intervistato da Le Figaro, "Non ne usciremo, a meno di inviare 300 milioni di persone in Africa!" [...]
E si completa così una delle ultime tappe della globalizzazione e l'incontro tra due delle culture più distanti al mondo. In Africa, il loro nuovo Far West i cinesi scoprono i grandi spazi, l'esotismo, il rifiuto, il razzismo, l'avventura individuale, o addirittura spirituale. Si rendono conto che il mondo è più complesso di quanto sostenga Il quotidiano del popolo. Questi emigranti diventano tanto dei predatori quanto eroi della propria storia, conquistadores e samaritani. Hanno, ovviamente, la tendenza a restare fra loro e a mangiare come a casa propria, non si sforzano di imparare le lingue autoctone, e nemmeno il francese o l'inglese, e mostrano spesso un moto di disgusto all'idea di uniformarsi ai costumi locali, o addirittura di sposare un'africana! A forza di barricarsi dietro le loro grandi muraglie per millenni, i cinesi sembrano aver perduto la voglia di adattarsi alle altre civiltà o di coabitare con esse. Ma nessuno di loro torna indenne dall'Africa: i loro viaggi, le loro scoperte scuotono la Cina dalla sua inerzia tanto quanto ha fatto, negli anni ottanta, la conversione al capitalismo. Queste persone faranno nascere nuove idee, nuove ambizioni.