Un rosario di premi. Di riconoscimenti internazionali. Con cui i vertici dell'Eni si baloccano. Ad esempio, a giugno l'amministratore delegato, Paolo Scaroni, ha vinto il Foreign Policy Association's Corporate Social Responsibility Award, premio assegnato dall'americana Foreign Policy Association alle aziende e alle persone che si sono maggiormente distinte per il contributo nello sviluppo sostenibile e nella responsabilità sociale d'impresa. Qualche settimana dopo, altri fuochi di artificio nei media di casa per l'inserimento, per il settimo anno consecutivo, di Snam Rete Gas, della galassia del cane a sei zampe, nell'indice FTSE4Good. Si tratta di una serie di indici che valutano i risultati delle società nel raggiungere standard di sviluppo economico sostenibile. Un premio simile era stato assegnato al colosso energetico italiano, all'inizio dell'anno, dal Dow Jones Sustainability Index, che aveva individuato nell'Eni il miglior performer nel settore oil&gas nel 2008. E così via.
Un'incetta di applausi e di pacche sulle spalle per il gruppo, che investe sempre più in Africa. A Jeune Afrique, Scaroni ha ricordato che la sua è la prima major petrolifera in Africa, con una quota di mercato di un milione di barili al giorno e con 20mila persone impiegate. Storico il rapporto con Egitto, Algeria e Libia. Ma l'a.d. dell'Eni affonda sempre più le sue trivelle nell’Africa subsahariana: dopo le presenze in Nigeria, Angola, Congo e Gabon, durante il suo viaggio nel continente di metà agosto, Scaroni ha stretto rapporti e chiuso affari con il presidente del Ghana, John Evans Atta-Mills (11 agosto), con il ministro del petrolio dell'Rd Congo, René Isekemanga Nkeka (12 agosto), e con il presidente dell'Uganda, Yoweri Museveni (13 agosto), con il quale ha parlato della costruzione di una raffineria e di un oleodotto di 1.300 km, che collegherebbe il paese al porto kenyano di Mombasa.
Dunque, nessuna ombra sulla presenza del cane a sei zampe in Africa? In realtà, basterebbero alcune scarne informazioni per non rientrare nel copione al quale molti mezzi di comunicazione hanno giurato fedeltà. Ad esempio, si potrebbe sfogliare il corposo rapporto presentato il 30 giugno scorso da Amnesty International sullo sfruttamento nel Delta del Niger. Oppure, documentarsi sull'intervento, in assemblea soci Eni 2009, dei rappresentanti della Fondazione culturale responsabilità etica. O sbirciare il contenuto delle carte del procedimento aperto dalla Procura di Milano su presunte tangenti pagate in Nigeria.
Eni è la prima multinazionale italiana a finire sotto la lente d'ingrandimento di un rapporto di Amnesty International. Nel suo Petrolio: inquinamento e povertà nel Delta del Niger, l'organizzazione umanitaria denuncia le violazioni dei diritti umani causate dalle trivelle della Shell (prevalentemente), ma anche dell'Eni, nel cuore petrolifero della Nigeria. «Le persone che vivono nel Delta del Niger sono costrette a bere, cucinare e lavarsi con acqua inquinata e a mangiare pesce contaminato dal petrolio e da altre tossine, se sono abbastanza fortunate da riuscire ancora a pescarlo. La terra che coltivano si sta distruggendo. Dopo le fuoriuscite di greggio, l’aria puzza di petrolio, gas e altri agenti inquinanti. La popolazione denuncia problemi di respirazione e lesioni cutanee. Nonostante tutto questo, né il governo né le aziende verificano l'impatto umano dell'inquinamento», ha affermato Audrey Gaughran, responsabile del settore Imprese e diritti umani di Amnesty. Che ha invitato le imprese estrattive dell'area a rispettare una serie di raccomandazioni. L'Eni si è subito affrettata a dichiarare che sta già avviando «una bonifica completa di tutti i siti inquinati dal petrolio, consultando le comunità colpite e informandole con regolarità sui risultati». Inoltre si starebbe impegnando per la «diffusione di notizie relative all'impatto delle attività petrolifere sui diritti umani e sull'ambiente». Amnesty ha preso atto. Ma ha ricordato che le azioni intraprese dall'Eni rispondono solo a due delle otto raccomandazioni suggerite dall'organizzazione. Il resto?
Il gas flaring - pratica illegale che consiste nel bruciare a cielo aperto gas naturale collegato all'estrazione del greggio - rimane un nodo irrisolto per l'Eni. Soprattutto in Nigeria. Lo ha ricordato in assemblea soci 2009 la Fondazione culturale responsabilità etica, legata a Banca Etica. Una pratica, quella del gas flaring, che continua, nonostante sia stata dichiarata illegale in Nigeria nel 1979. Non solo. Continuerebbero anche gli sversamenti e l'inquinamento ambientale. Nel 2008 l'organizzazione non governativa Environmental Rights Action ha denunciato almeno uno sversamento di petrolio da un impianto Agip nella regione del Delta, a Okoroba, che ha causato gravi impatti ambientali. E un'altra organizzazione non governativa, Progetto per il riconoscimento dei diritti socioeconomici, ha denunciato prima all'Onu poi alla Comunità economica degli stati dell'Africa Occidentale (Ecowas) sei multinazionali (tra cui l'Eni, appunto) per violazioni dei diritti umani, inquinamento causato dallo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi e gravi danni ambientali. Come risarcimento, i querelanti hanno chiesto una cifra pari a un miliardo di euro in favore delle popolazioni del Delta e la bonifica dei territori.
Ma ciò che fa ripiombare San Donato Milanese ai tempi bui che sembravano sepolti, è l'inchiesta aperta dalla Procura milanese (dopo quelle americana e francese) sul presunto coinvolgimento dell'Eni nel pagamento di tangenti a esponenti governativi e funzionari della Nigeria, per ottenere appalti. L'accusa è che per almeno un decennio, tra il 1995 e il 2004, sarebbero stati versati 182 milioni di dollari di tangenti per sei impianti a Bonny Island, per estrazione e trasporto di gas liquefatto. Al centro della vicenda c'è il consorzio Tskj, con sede legale nel paradiso fiscale dell'isola portoghese di Madeira, composto paritariamente, al 25%, dalla francese Technip, da Snamprogetti Olanda, filiale del gruppo Eni, dall'americana Kbr-Halliburton, e dal gruppo giapponese Jgc Corporation. Il nome Tskj riprende le iniziali dei quattro soci.
All'inizio di quest'anno la Kbr ha patteggiato 579 milioni di dollari, dichiarandosi colpevole di aver corrotto esponenti del governo (tra cui tre presidenti) nigeriani. Ora anche un superteste dell'ex Snamprogetti (oggi incorporata in Saipem) ha rivelato, in giugno, ai magistrati milanesi il coinvolgimento di almeno un paio di dirigenti italiani. L'ipotesi accusatoria è corruzione internazionale. Sarebbe stato violato non solo il codice penale, ma anche quello etico che l'azienda si era data nel 1993, dopo che i suoi vertici erano strati travolti dall'inchiesta "Mani pulite". A dimostrazione del fatto che, in fondo, petroleum non olet. Al di là dei premi e dei riconoscimenti.